In premessa si deve sottolineare che la questione della Gestazione per Altri (GpA) vede coinvolti tre soggetti, i cui diritti si tratta di definire, garantire, e bilanciare: la gestante, il bambino, la coppia genitoriale. La GpA non viene giustificata insomma con argomenti storici (è una pratica antichissima, coperta o palese) né con il peso della semplice fattualità (si può perché è tecnicamente possibile), ma per via razionale. Si elencano quindi alcuni argomenti portati contro la GpA, e se ne discutono significato e limiti.
1. L’argomento della Natura è rivolto contro la GpA in sé. Si tratterebbe di una pratica che vulnera il diritto dell’essere umano a nascere dalla propria madre in modo naturale e spontaneo, senza intromissione di fattori tecnici (o giuridici, qual è la GpA) artificiali che svilirebbero la sacralità innata (il valore infinito, la dignità) della persona. È un argomento che, anche se può essere fatto proprio da una cultura laica, è analogo, elevato a potenza, a quello portato dalle gerarchie cattoliche contro la fecondazione assistita; si fonda sulla tesi che ciò che merita tutela (la persona umana) sia «naturale», cioè voluto da Dio e quindi sottratto all’agire umano. In realtà, non necessariamente l’uso di strumenti tecnici (o giuridici, come la GpA) implica una strumentalizzazione del nascituro, una violazione della sua dignità; è indimostrabile che una pratica tecnologica o giuridica nel concepimento possa implicare una violazione all’origine della dignità del nascituro. Tranne che della natura non si faccia un feticcio, i metodi naturali non preservano dalla strumentalizzazione più di quanto la tecnica escluda un’aperta volontà d’amore e di procreazione. Semmai, la GpA non vulnera un presunto ordine della natura, che nella modernità non può essere assunto in senso normativo, ma un’immagine archetipica dell’uomo e della donna: ovvero la maternità come simbolo dell’amore naturale spontaneo e della cura gratuita che deve essere assicurata a ogni essere umano nelle prime fasi della vita.
Qui si deve avanzare una obiezione: tale archetipo per essere normativo deve essere discorsivamente condiviso da tutti, uomini e donne, poiché coinvolge tutti; ovvero, in ambito legislativo non si può procedere per archetipi, cioè per immagini e per pulsioni, ma per argomentazioni razionali.
Da un punto di vista razionale quell’archetipo, dall’impatto emotivo indubbiamente forte, significa che la donna ha il diritto (non il dovere) alla libera e autonoma maternità. E al tempo stesso significa che essere accudito con cura è un diritto del bambino (che però non sempre trova realizzazione nella famiglia «naturale»).
Questi due diritti possono essere ricondotti all’assunto fondamentale della filosofia e della politica moderna, ovvero che l’individuo (maschio e femmina) è autonomo e pienamente proprietario di sé, del proprio corpo e della propria formazione in senso lato (principio senza il quale non si può parlare neppure di eutanasia né di aborto) – ovvero che deve poter diventare autonomo -. In linea di principio, nessun legame sociale «naturale», ovvero non liberamente scelto (nessuna autorità in vario modo trascendente), può precedere la libertà individuale di un individuo maggiorenne, fatta salva la legalità istituita da uno Stato democratico (cioè da uno Stato a cui il singolo possa aver dato il suo assenso). La «natura» in realtà sono i diritti naturali che devono diventare civili e politici, oppure è solo un passato che di per sé non è portatore di legittimità.
Questo principio di autonomia e di autodeterminazione vale in modo diretto per la gestante – le donne possono semplicemente rifiutarsi alla GpA, se ritengono che questa pratica le riduca a macchine riproduttive -, e per estensione può essere interpretato come il diritto alla genitorialità di ogni coppia liberamente formatasi (che nell’aver figli appunto si realizza come coppia); mentre per il bambino vale in modo potenziale e teleologico (il bambino ha il diritto di essere portato, con la cura adeguata, all’autonomia).
Si tratta di vedere se la GpA viola questi diritti. Premesso che la GpA è forse una facoltà individuale ma non certo un obbligo universale, pare che il diritto della donna all’autonomia vi possa essere rispettato (a certe condizioni, che si vedranno subito), che il diritto del bambino possa ugualmente essere assicurato (a certe condizioni, che si vedranno), e che il diritto alla genitorialità vi sia, ovviamente, tutelato e reso effettuale.
2. Vi è poi l’argomento della Reificazione. Se questo coincide con l’argomento della Natura, cioè dell’avversione alla pratica della GpA in quanto tecnica, se ne è già parlato. Se invece per reificazione si intende, in senso derivato dal marxismo, la mercificazione – ovvero la sussunzione formale e reale di opere e di facoltà umane all’interno di logiche economiche capitalistiche, col risultato che l’umana soggettività, quale si esprime nella produzione e anche nella riproduzione, esce da se stessa e diviene oggettività, ossia merce – allora si tratta di un argomento che investe piuttosto il contesto sociale in cui avviene la GpA. A questo proposito si deve osservare che lo stesso Gramsci – di cui si riporta in calce un brano relativo a un caso simile alla GpA, anche se non identico – contesta sdegnato la violenza dei ricchi sui poveri, delle privilegiate che vogliono sottrarsi alle fatiche della gestazione per caricarle sulle spalle dei subalterni.
Un argomento analogo, da un versante populistico, è quello di chi si oppone alla GpA in quanto pratica costosa, e quindi accessibile solo alle élites. È evidente che lo stesso si potrebbe dire di complesse e costose operazioni chirurgiche, che pure sono entrate fra le terapie della sanità pubblica (non si vuole qui sostenere che la GpA debba rientrare fra queste – perché, evidentemente, non è una pratica salvavita -, ma solo che il costo di una pratica non la può rendere di per sé vietata).
Mentre l’argomento del costo è in sé non conclusivo, l’argomento gramsciano della mercificazione come violenza diretta o indiretta è dirimente. Se la GpA è violenta – nel senso di una violenza individuale oppure sociale, di classe; ovvero se implica sopraffazione e dominio, se nasce cioè dalla radicale mancanza di libertà e di autonomia generata nella donna dal bisogno economico e dalla deprivazione sociale e culturale – allora è non ammissibile (come, in simili contesti, ogni altra pratica).
3. Ma non solo si deve avere riguardo alla violenza di cui può essere vittima la donna, e quindi si deve rigorosamente garantire che la GpA sia un atto di libertà e non di schiavitù. Esiste anche una potenziale violenza sul bambino. A questa si richiamano coloro che vogliono vietare la GpA praticata da coppie omosessuali, sostenendo che la presenza di due genitori dello stesso sesso nuoce allo sviluppo psicologico del fanciullo, il quale ha un diritto naturale non negoziabile a due genitori di sesso diverso per potere correttamente crescere.
Contro questo argomento della Violenza sul bambino si osserva in primo luogo che la GpA è prevalentemente praticata da coppie eterosessuali sterili. In ogni caso, è evidente che se vi fosse un parere in questo senso della comunità scientifica internazionale, che fosse autorevole, dimostrabile, ben fondato e condiviso, il divieto della GpA per le coppie omosessuali sarebbe all’ordine del giorno (e anche il divieto di adozione). Ma non ci sono evidenze che si vada verso questo parere, che sembra irragionevole e che non è mai stato avanzato se non in forme sporadiche, dubitative, precauzionali e forse strumentali, e che è stato confutato da autorevoli pronunciamenti scientifici. Il bambino può essere amato e cresciuto, com’è suo diritto, anche da una coppia omosessuale.
4. Vi è poi l’argomento politico dello Scambio proposto dal neoliberismo, in versione liberal, fra diritti sociali, negati o ridotti, e diritti civili ampliati. Lo scambio, insomma, fra società e individuo, fra uguaglianza e libertà. Uno scambio a cui la sinistra dovrebbe opporsi.
È infatti giusto opporvisi, ma non col rifiutare l’allargamento dei diritti civili in quanto espressione di una cultura presunta estranea alla sinistra, o addirittura di alienazione; semmai, si deve smascherare quel tentativo, denunciarne la parzialità, e lottare per ampliare i diritti individuali e per creare contraddizioni nel campo avversario tra le posizioni liberali e quelle reazionarie; e battersi, ovviamente, per una strutturale inversione dei rapporti di forza nella società, in modo tale che la prospettiva dei diritti sociali torni credibile e agibile. La sinistra non può essere la parte politica che perde sul fronte del welfare, mentre resta inerte o sospettosa su quello dei diritti individuali.
Insomma, la GpA rientra nel novero dell’estensione razionale dei diritti individuali moderni, a condizione che siano superati due ordini di fattori distorsivi: lo stato di bisogno (in senso lato) della gestante, e – nel caso di una GpA per una coppia omosessuale – la provata dannosità della omogenitorialità per il bambino. Una terza condizione di cui poco si parla, ma che va segnalata, è che la componente eugenetica – che alla GpA può essere associata – non sia rivolta a soddisfare esigenze diverse da quelle del bambino (ovvero, sì all’eliminazione di malattie ereditarie, no all’introduzione di fattori accessori graditi ai genitori), proprio perché il nascituro non deve nascere da un atto strumentale – si noti che la sua ammissibilità razionale (e presumibilmente costituzionale) implica solo che la GpA non può essere vietata in linea di principio: altra questione è quella della sua preferibilità rispetto all’adozione (che però per le coppie omosessuali resta proibita).
Ma poiché il principio della autonomia (con le due condizioni dell’assenza di violenza in senso lato sulla donna, e della salvaguardia del diritto del bambino al corretto sviluppo) guida tutto il ragionamento, pare indispensabile che la parola venga presa dalle donne, che devono essere le prime a giudicare non solo della correttezza dell’argomentazione sulla GpA ma anche della ragionevole praticabilità empirica della condizione della non violenza – cioè della libertà e dell’equità del contratto che la fonda – che direttamente le riguarda.
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Antonio Gramsci, Il nostro Marx: 1918-1919, in Scritti 1913-1926 (a cura di Sergio Caprioglio), Torino, Einaudi, 1984, pp. 734.
Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno.
da Sotto la Mole, 6 giugno 1918. Titolo originale: Merce.
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