Ricerca

Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

luglio 2017

Difficoltà e prospettive della sinistra

Il nuovo soggetto politico che si forma a sinistra del Pd è nella condizione di «stato nascente», ovvero è indeterminato e aperto a molte soluzioni. L’altra caratteristica dello stato nascente, ovvero la ricchezza esplosiva d’energia, è invece assente.

Quindi, l’indeterminatezza si trasforma in difficoltà, in incertezze. Come si è già visto in altri recenti tentativi di far nascere soggettività politiche a sinistra, anche in questo caso – con un imbarazzante effetto di deja vu – non si riesce a decifrare ciò che avviene (la «fase») né ciò che si deve fare (la strategia, prima ancora che la «linea»).

All’apparenza, o meglio a un primo livello, la difficoltà sembra consistere nel dualismo fra la linea «Pisapia» e la linea «Mdp». Dove il primo elemento implicherebbe la «novità» (per quanto mediaticamente costruita) e il «campo largo», cioè l’uscita, almeno tentata, dal perimetro della sinistra tradizionale (posto che lo si possa ancora definire); mentre il secondo rinvierebbe all’organizzazione efficace sul territorio, a figure dirigenziali più sperimentate (o più logorate) come Bersani e D’Alema, e a una connotazione più centrata sul «ceto politico». La strategia in entrambi i casi è indicata come la «ricostituzione del centrosinistra» (con o senza trattino, a seconda che si pensi ad alleanze post-elettorali col Pd, o invece a costituirsi come autonomi e alternativi ad esso – cioè come il «vero» centrosinistra, dato che il Pd ha tradito la sua mission originaria – ).

Questo dualismo, ormai esplicitato con chiarezza, si è spinto fino all’ipotesi di preventivo scioglimento di Mdp nel nuovo contenitore «Insieme», ipotesi rinviata a tempi più maturi, ma non respinta, perché è chiaro che non si potrà andare alle elezioni, né da nessuna altra parte, con una federazione di sigle priva di progetto. Ad esso si aggiunge la difficoltà di rapporto con Sinistra italiana e col movimento di Falcone e Montanari, che forse potrebbero prestarsi a essere l’ala sinistra dell’eventuale nuovo soggetto unitario di centrosinistra, ma non sarebbero disposti ad allearsi con il Pd. Da qui discende la difficoltà di decidere o di prevedere se alle elezioni vi sarà una lista a sinistra del Pd, oppure due.

Ma a monte di queste difficoltà di tattica politica stanno difficoltà strategiche. Difficoltà a misurare bene la crisi del neoliberismo, aggravata dalle pastoie dell’ordoliberismo, che è una crisi della società intera, di tenuta del legame sociale e della lealtà democratica. Una crisi che ha distrutto, nel nostro Paese, l’intera sfera pubblica, privando l’Italia di dibattito intellettuale (reputato inutile o ridotto a mera chiacchiera televisiva) e di innovativa azione politica (di fatto impossibile o velleitaria). Difficoltà, inoltre, a misurare la crisi del Pd, cioè della prospettiva del neoliberismo liberal, del partito borderless a vocazione maggioritaria; una crisi irreversibile a cui si offre la prospettiva riparatoria del centrosinistra rinnovato, o del ritorno all’Ulivo.

Da questa difficoltà di analisi discendono le difficoltà strategiche, ovvero l’incapacità di decidere se si vogliono i voti degli elettori del Pd dissenzienti dal renzismo ormai divenuto una ossessiva vicenda personale – mentre il Pd che subisce ogni giorno smottamenti di ceto politico e che sta risultando privo di appeal se non presso chi ha qualche bene al sole e teme di perderlo – oppure i voti di chi detesta radicalmente il Pd e il sistema di potere che esso malamente sorregge, come un sistema impoverente ed escludente (e più si sostiene che in realtà il Pil va bene, e le esportazioni pure, più si attizza la rabbia dei cittadini sui quali questo miglioramento meramente statistico non ricade – cioè la rabbia della stragrande maggioranza degli italiani –).

E di lì discendono anche le difficoltà a definire l’orizzonte dell’impegno del nuovo soggetto politico, e a decidere se questo sia determinato dalle prossime elezioni e dall’obbligo di essere presenti in parlamento, oppure se si abbia una prospettiva di più lungo respiro, quella di impiantare in Italia una sinistra che sia forza di ricostruzione del Paese e della società su basi larghe e nuove rispetto al lungo ciclo distruttivo apertosi negli anni Ottanta.

A quelle difficoltà è da ricondurre anche la disputa se la nuova sinistra debba essere identitaria o di governo, dove il primo termine, solitamente usato in senso spregiativo, designa una presunta purezza ideologica (ma quale?) refrattaria a contaminazioni e ad alleanze, il secondo una disposizione a conciliarsi col mondo così com’è, razionalizzandolo con «riforme» – ed è ovvio che la sinistra che nasce dovrà essere tanto identitaria, ovvero certa di sé anche culturalmente, quanto capace di governare il Tutto muovendo da una Parte in alleanza con altre –.

La sinistra non sa decidere fra questi dilemmi – che i politici in generale non amano mai –, ma non può neppure sperare di evitarli esercitando l’antica doppiezza, o la complexio oppositorum, strategie praticabili da grandi partiti di massa come il PCI o la DC, ma non da una piccola forza quale essa è destinata a essere, nell’immediato. E non sa decidere perché sono vere entrambe le ipotesi di base dell’analisi della società, che cioè i cittadini vogliono discontinuità (chi ha perduto, nella grande crisi) ma anche sicurezza (chi ha ancora qualcosa, per poco che sia). Perché è vero tanto che l’attuale sistema economico è insostenibile e impoverente, quanto che nessuno ha idee radicalmente alternative o la forza di realizzarle. Perché è vero che gli esponenti del vecchio ceto politico che oggi si propongono come portatori di discontinuità sono fra i responsabili delle sconfitte storiche della sinistra, ma è anche vero che il nuovo ceto politico stenta a trovare in sé idee, energie e motivazioni (a parte Renzi, la cui personale ambizione è davvero notevole).

Questa incapacità di decidere si è manifestata anche nei rapporti con il governo, rispetto al quale i gruppi parlamentari di sinistra (a parte SI) si sono alternativamente collocati tanto con la maggioranza quanto con l’opposizione. Al di là degli evidenti motivi di tattica politica, questa indecisione rispecchia tutte le difficoltà che si sono enumerate.

Eppure, la decisione serve appunto a risolvere le situazioni che non presentano in se stesse una chiara linea evolutiva. È una scommessa, non sconsiderata, sul futuro. Di questa decisione – da parte di un ceto politico credibile e convincente perché convinto – c’è bisogno perché in essa sta l’unica energia politica che in questo momento aurorale si può mettere in campo. Tutti a sinistra, insomma, devono dismettere l’attitudine epigonale, da «ultimi giorni» e collaborare a un «nuovo inizio». Detto in altri termini, solo da una decisione chiara può nascere un messaggio chiaro agli elettori, senza il quale non è probabile che la sinistra nascitura sia un neonato vitale.

E non è per nulla sufficiente che la decisione sia l’esito obbligato del sistema elettorale proporzionale al momento voluto da Renzi: se oggi questo obbliga la sinistra a presentarsi sola alle elezioni, e quindi ad accentuare le distanze dal Pd, che cosa succederebbe se un ripensamento (propiziato da Prodi) portasse Renzi a impegnarsi per un nuovo sistema maggioritario che premiasse le coalizioni? Forse si andrebbe a un’alleanza pre-elettorale col Pd, e si definirebbe questa alleanza il «nuovo centro-sinistra»? Come è evidente, a sostenere la nascita del nuovo soggetto politico devono esistere motivazioni politico-culturali più forti che non la legge elettorale, motivazioni che nascono da analisi autonome e radicali, e da progetti ambiziosi e di lungo periodo. Nonché dal riconoscimento del sostanziale fallimento storico del centrosinistra, almeno nella sua veste di partito unico (il Pd) appaesato in un contesto bipolare – un fallimento che è tutt’uno con la crisi dell’ordine economico neoliberale e dell’assetto dei poteri e delle istituzioni nel nostro Paese –.

Dare risposta ai problemi veri del Paese (lavoro, PA, scuola, università, gestione del territorio, criminalità organizzata, immigrazione, crollo dello spirito civico) in un contesto di debolezza economica e sotto i vincoli dell’euro, non è una questione di spot, di bonus, di narrazioni; è un’impresa titanica che implica la ripoliticizzazione della società, la riculturalizzazione della politica, la ricostruzione della sfera pubblica, in un contesto, per di più, oggettivamente favorevole alla destra. Se non si ha questa consapevolezza, si resta nella subalternità o nel velleitarismo. Se la si ha, si può mettere mano a un disegno di spessore storico, sapendo che la cultura politica non si inventa dall’oggi al domani, e che lo stesso si deve dire del radicamento sociale, dei leader, delle classi dirigenti.

Niente fretta, quindi, o meglio, festina lente, «affrettati lentamente». La sfida elettorale non è la più importante, benché sia incombente; il ragionamento deve estendersi molto oltre di essa, senza governismi né isolamenti aprioristici. Soprattutto, la guerra di movimento elettorale non potrà essere per ora altro che guerriglia; ben più importante è rifondare le basi di una guerra di posizione di lungo periodo. Per rifare l’Italia da sinistra, e per dare agli italiani una protezione che passi non attraverso le ricette escludenti della destra ma che si fondi sul recupero dei diritti e della speranza, a partire dalle condizioni materiali di vita, di studio e di lavoro.

È chiaro che questo soggetto – in sintesi, un quarto polo che farà alleanze quando sarà abbastanza robusto per non essere subalterno – dovrà darsi presto, ma non affrettatamente, strutture democratiche e organizzazioni trasparenti, e che dovrà quanto prima smarcarsi dal governo e dalle sue politiche. Ma soprattutto dovrà dare l’impressione di volere esistere, di volere radicarsi nella società, di voler durare, di volere affrontare problemi veri con ambizione vera.

Sessant’anni fa, nell’anno che chiuse la seconda legislatura repubblicana, la DC si preparò alle elezioni con un governo di transizione, quello di Adone Zoli (galantuomo antifascista) e andò alla prova elettorale, in pieno miracolo economico, con lo slogan «progresso senza avventure», perché gli italiani non si spaventassero dei tentativi di apertura a sinistra, che infatti rimasero frustrati anche nel corso della terza legislatura. Oggi, il partito che regge il maggior peso del governo, nel mezzo di una crisi politica, civile, economica e sociale senza fine, pare impegnato in una sorta di «avventura senza progresso», in un tentativo di rivincita personale del grande sconfitto del 4 dicembre. La sinistra, che non ha voluto attingere all’energia che in quella circostanza si manifestò (certo non era solo un’energia di sinistra) dovrà ora inventarsene una, a partire dalle condizioni materiali del Paese e da un disegno ideale che le sappia interpretare; e ha quindi il compito di prospettare agli italiani, tanto l’«avventura» quanto il «progresso», ovvero, con il linguaggio di oggi, tanto la discontinuità quanto le nuove certezze, coniugando in sé, meglio di quanto sappia fare la destra, immaginazione e realismo.

 

The Origins of Modern Sovereignty and Its Current Transformations

 

What are we talking about when we say «State»? We are talking about the modern configuration of the relationship between politics and capitalism, as well as between Europe and the rest of the world. This configuration has been long winning and built the essence of the European empire from the Seventeenth to the end of the Twentieth Century. As a matter of fact, the modern State entails a new form of the world, that arises from the valorization of the discovery of America, both in the imperial transatlantic form (Spain and England), and in the State form within Europe.

The State is traditionally defined through the coordinates of sovereignty, population and territory. Sovereignty itself is nowadays understandable not so much through the three forms of power defined by the constitutionalist tradition (that is legislative, executive and judiciary power), but rather as the contradictory combination of political, economic and cultural power. Political power includes legislative, executive, but also judiciary and military power. Economic power is mainly private, but has public effects, and it actually determines important elements of society and of international politics. Cultural power concerns legitimating narratives and cultures, that in many forms project an image of a certain way of life, both inside and outside in the world.

These powers are not synchronized, and actually they can significantly diverge in the global age. Nonetheless, I would like to suggest that they can still be ascribed ultimately to specific political unities – in a broad sense definable as «States» – which are «political spaces» in a strong sense and which do not vanish in a smooth globality, inhabited by an abstract multitude. Yet they are new political spaces: they are not enclosed and self-sufficient as the modern sovereign State has conceptually claimed to be. They are rather crisscrossed by lines of power, violence and movement that prevent their closure, that are not inserted into the Westphalian dimension, and that must be deciphered with a multi-scalar gaze, through intellectual tools that not necessary adere to the current de-constructionist mood .

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There are two possible perspectives on the origin of the State and of the transformations of politics. The first one collects the reasons of unity, of legal stability, of progress, whereas the second one is characterized by the emphasis on the conflictual dynamics entailed by the State.

The first perspective actually includes a set of diverse positions: rationalist philosophies, as well as the work of a sociologist like Max Weber, and of the Allgemeine Staatslehre jurists. This perspective starts from the legal-unitary hypothesis that the State is a closed space, that the population is composed by individuals entitled with rights, that sovereignty gains its legitimacy through the contract or through participation, and manifests itself as legal-rational representative power. The crucial aspect here is that the political form tends towards unity, which is considered as a historical value and a progress in relation to the internal heterogeneity of the Empires.

In this view, the State poses itself as the mobile frontier between sovereignty and the animal nature; its movement progressively restricts the natural space of «wolves», by taming and civilizing them within the fences of sovereignty (although the animal lingers just the same, obscurely uncanny, because also the sovereign has beastly traits, as Derrida argued[1]). The motor of the frontier of civilization is labor, which includes progressively lands and peoples within the State: «in the beginning all the world was America» ‒ John Locke said in his Second Treatise, 16, 49 – and in the end all the world will be civilized. The relationship between the West and the «rest» is harsh and initially unequal, but linear: labor and State are the civilization that expands itself throughout the world, in a basically universal way. According to this narrative, colonialism is nothing but a stage in the path of civilization.

In this perspective, the whole world can be «statualized» and there is no need of a pacifist stance for imagining a system of pacific coexistence among States (like the UN). Moreover, the whole Earth is open to capitalism. Of course, one needs to take a stand for market capitalism against command economy (for the reason that the latter does not work), but in principle economy is not in contrast with politics. In other words, from civil society (within) and from colonialism (without) do not arise insurmountable contradictions. According to Max Weber’s analysis, the State and the market stay side by side as two forms of Western rationalism, that can be exported all over the planet and are internally very articulated. As a matter of fact, this expansive model of politics and of economy ‒ the combination of the sovereign frontier and of the frontier of labor ‒ encompasses the two opposed characterization of the State, the social and the neoliberal one. In other words, it includes both the modern and the post-modern form of State.

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We can define the second perspective about the genesis and transformation of the State as «the line of the Two», and use Carl Schmitt as its exemplary representative (also the Marxian perspective, obviously, is based on the “Two”, but aims at the “One”). In the realm of interior politics, we owe to Schmitt the thesis that the Political ‒ namely, the constituent power ‒ is intrinsically dual and conflictual. In fact, the relationship between friend and enemy transcends the State and the institutions, and cannot be fully neutralized or legalized[2]. The origin of the sovereign political form is not the contract, but rather the conflict. As Derrida would have later stated, sovereignty is a coup de force[3]. The permanence of this unremovable origin implies that legitimacy (that is, the original conflict) does not fully coincide with legality (the universal form of the right). The unity of the State can always be challenged by the internal enemy. Consequently, the sovereign political order presents itself not only as legal or administrative rational inclusion, but rather as decision and exclusion. From this point of view, Schmitt radically differs from Weber.

Furthermore, especially in his book on The Nomos[4], Schmitt rebuilt international politics by means of an epochal-genealogical gaze, according to which the European statehood results from the balance between the smooth space of the Sea (corresponding to the English naval and technical power) and the striated space of the Land (corresponding to the politics centered on the European States).

This relationship between continental Europe and England, however, is not sufficient for the understanding of the State. It is also essential to consider the colonial appropriation of the extra-European territory: being conceived as res nullius, this is the space where the «limited war» between States that reciprocally recognize themselves does not exist, and where the indiscriminate violence towards the “savages” is in play. The unbalance between Europe and the rest of the World adds itself to the balance between Land and Sea. This combination forms the Nomos, that is the order, oriented by a concrete origin, of the jus publicum europaeum. This means that the Nomos entails anomy: frontiers, frictions, conflicts are its constitutive parts, and it implies internal hierarchy or ominous confrontation with the outside, but for sure not the autonomy of its parts[5].

For Schmitt, the modern State has indeed vanished together with eurocentrism. Nonetheless his anti-universalism endures also beyond the State, in his hypothesis of the Great Spaces. These are meant as subjects of a post-national and pluralistic Nomos of the Earth; in fact, Schmitt favorably quotes Mao and his slogan «Asia to the Asians»[6]. These Great Spaces, though, are to be understood as completely autonomous one from the other, autarkic and self-sufficient: the economy and the technique, with their universalistic tendencies, are «indirect powers» that politics (the «direct power») must always confront.

In sum, for Schmitt, differently than for Max Weber, there is no congruence between economy and politics: the first one is generally smooth and universal, whereas the second one is particular and conflictual. To conclude, Schmitt is the thinker of exception and exclusion, but he sees them only in politics, while Marx situates these contradictions essentially within the economy. This fact allows the use of Schmitt by Marxism in an anti-liberal sense, but not entirely homogeneous to Marxist thought.

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Neoliberalism is the fourth revolution of the Twentieth Century, after Communism, Fascism and Social Democracy. This revolution took place in the ‘80s and gave birth to dreams of global peace: the lex mercatoria and a complex world governance were supposed to substitute the States as regulatory principles of international law and the aggressive dualism of the two Empires that confronted themselves in the Cold War. In general, the State (both communist and democratic) was recognized as a problem, and was supposed to give way to the individualistic competitive power of the utilitarian subject, the only one compatible with the new face of capitalism[7]. The market was supposed to become the new Nomos of the Earth. The social State should be replaced by a minimal liberal non-sovereign State, a tool of the economy, whose rules it was supposed to promote and guarantee on a certain territory – thus playing a non-marginal but certainly instrumental role[8].

But the full overcoming of modern political conceptuality in the direction of a total unity of the world was never realized: differences, conflicts, walls and authoritarian hierarchies have multiplied. Under the pressure of the new forms of economy, the political and juridical unity of the States has changed direction towards the practice of inequality and exclusion; the State of social security is turning into the State of security tout court.

From the international perspective, there is first of all a high rate of interdependency, like the one that binds the US and China, where the second one in fact finances the deficit and debts of the first one. On the other hand, there is a high rate of military conflicts in the shape of threats of conventional wars, or of a multifarious set of asymmetrical or low-intensity wars, dispersed on different fronts, and of massive migrants’ and refugees’ movements: the whole world is crisscrossed by conflict lines and by nomadic and migratory insurgencies, by terrorism and by new frontiers that try to stem them and that build the new international political spaces, very complex and loaded with violence[9]. Globalization is also a continual global war.

All this does not mean the end of sovereignty tout court: on the contrary, it survives in a not at all residual way. Differences are established in the law itself: the birth of a «criminal law of the enemy», of the migrant, of the poor, of the Muslim, are telling of this trend. The force of the State manifests itself in the limitation of rights and of freedom that occurs primarily in a factual and administrative way. At the same time, legitimacy moves from the rational legality to alleged «ethnical» or cultural foundations of identities, or to the securitarian dimensions. Emergency has become the norm.

But at the same time sovereignty is quested for by citizens, as a political defense against the social effects of the new economy and of its crisis, particularly the destruction of the middle class and the working class: sovereignty is quested not only as a force exercised in a repressive sense, but rather as the fundamental factor of a new claim for security and justice, that is for stability – that is for statehood. What is asked is not only that society be compatible with the needs of the market, but also that the market be compatible with the needs of societies – something that might derive from the action of politics –. Behind what is labeled as anti-political «populism» by the mainstream media ‒ a kind of politics that originates from below, but is always accompanied by a very traditional demagogy from above ‒, there is the political need to overcome the capitalistic anomy.

In this scenario, the State is marked at the same time by less and by more politics, which means less democracy and more plebiscitarianism, less institutional complexity and more authoritarian simplification. In other words, the exacerbation of the novelty effects produces the return of archaic forms of exercise of politics. The contemporaneity is the un-pacified coexistence of different temporalities[10] and also of different spaces and conflicting lines, that prevent political forms to find any kind of closure. Given these contradictions, the States exist as political subjects, as wounded Leviathan, hybridized with Behemoth and turned into amphibian and ambiguous monsters – figures of order and of disorder at the same time –.

This situation contradicts, for contrasting reasons, both the models of conceptualization of State explained above: a world unity in the neoliberal sense does not exist, because the States, though transformed, continue to exhibit, inside and outside, political and military logics which are not immediately identifiable with the economy. Nevertheless, we are not even confronted with the scenario of autonomous Great Spaces portrayed by Schmitt, for two reasons: on the one hand, the emergency that today cuts through the political unities does not correspond to the exception, for it escapes the punctual morphogenetic decision; if anything, emergency has become the permanent way of being of politics. On the other hand, the big political areas of influence that are visible in the world are not at all autonomous or autarkic; rather, we stress it again, they are open both to powers external from territory, and to internal conflicting insurgencies. Even from Schmitt’s perspective, the present situation is anomic.

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The logics of politics have a crucial role in the processes of globalization on the international scene.

Three different strategies of political control of the economic dynamics (or three different attempts to control them) operated, aiming to maximize the power of the main global political actors. The United States have been swinging: after the victory over the Ussr, on the one hand, they pursued an indirect economic power. This was the aim of the treaties subscribed by Obama in order to create free-exchange zones dominated by the US. On the other hand, the United States improved their military presence all over the world. This overtly and directly unilateral logic was applied by Bush jr and Trump; the latter, moreover, threatens new economic wars, through protectionism and his ideological claim “America first“. Anyway, the cultural power of the US still resists as the strongest in the world. The constant aim of this swinging was the maximization of the power of the United States all over the world.

Even China, the other major actor of the global age, has an intense and univocal political character: the political leading force of the country, the Chinese Communist Party, is unitary; the market economy is instrumentally used in order to produce a more intense development than the one that the command economy would pursue. The foundation of this politics is the political choice of mixing capitalism and socialism under the Party hegemony (the so-called «Chinese Road to Socialism», or «Sinicization of Marxism»). Actually, the Chinese bourgeoisie is expropriated of its political ‒ rather than economical ‒ influence. It cannot express its wealth on the political level, since politics is monopolized by the CCP. Thus, the economic power is able to act on the political level only indirectly, that is through corruption. Lastly, the cultural power is provided, on the one hand, by an interpretation of Marxism as an “eternal truth” expressing the universal dream of the humankind (namely, socialism); on the other hand, by claiming a national road to communism through the recovery of the Chinese traditional culture, and of the Confucian belief in the supremacy of harmony over conflict, of duties over rights, of peace over war[11].

In short, according to the Chinese self-narrative socialism does not coincide with planned economy. Rather, it consists of an interior one-party State that pursues the universal aspiration of socialism in a peculiar, specific way: on the one hand, free commerce on a world scale; on the other, a strong regional politics against any external imperialism[12]. From this point of view, China consciously meets Carl Schmitt’s thought, both concerning the one-party system, and the issue of the «Great Spaces»[13]. At the same time, from the economic point of view, China is afraid of the commercial protectionist wars threatened by the new US presidency. A communist and liberal «Great Space», then, but also a «Great Space» with its own area of influence in Asia and Africa. All of this shows the complexity of the present times.

Concerning Russia, it structurally differs from China both from an economic and from a demographic point of view. However, Russia shares with China the authoritarian political management of globalization, with its Euro-Asiatic geopolitical doctrine, its orthodox political theology, its force projection towards Asia and the warm seas.

The German Ordoliberalism, or «social market-economy»[14], is the third way through which politics has tried to establish its primacy before and during the global age. This perspective is based on organicist assumptions about State and society and on the idea that the market should be politically defended by the State, which ought to eliminate all reasons for conflict, such as the excessive claims of trade unions, or the companies’ tendency to form cartels. The Ordoliberal hypothesis was realized in Germany after WW2, through two main policies: on the one hand, a steady and compact link between banks and companies, trade unions and entrepreneurs’ organizations, State and Länder, school and economy; on the other hand, the neo-mercantile orientation of economy towards export, rather than toward interior demand. This approach – that was modified in a neoliberal direction by Schröder’s reforms in 2003-2005 (the so-called Hartz plan) – lies at the foundation of the Euro, the common currency of the European Union, which defines itself as «a high competitive social market-economy». But in Europe, without the political initiative of a European political unity – also in federal form –, that is without a truly political union with a sovereign power over State budget and fiscal policies, Ordoliberalism turns out to be a set of obligations and duties almost impossible to be respected by the European States, with the partial exception of Germany and of some States involved in the German economy. As a matter of fact, the States have no capacity to transfer money from the rich to the poor areas of the system or to take decisions concerning economic and fiscal policies binding for the whole territory. Consequently, while it was a political and economic victory for Germany, the Euro is a political and economic problem for Europe. Because of the presence of nation-States characterized by different interior economic performances, the Euro became one of the causes of the European crumbling, and fostered anti-European sentiments in many societies[15].

Therefore, there is no such thing as a European strategic power: there is neither a unitary sovereignty inside, nor an exterior projection of power; neither the capacity of governing the migration flows coming from the Mediterranean and the East, nor the ability to intervene in order to grant peace in the Middle-East and in North Africa. As far as the economy is concerned, export is strong, but Europe is also weakened by the very instrument that was supposed to strengthen it, that is the Euro, so that the European GDP growth is always too slow. Lastly, also the production of a legitimating democratic and social narrative is weakened by the inadequate performance of the European system as a whole. Today, inside an international context marked by conflicts that Europe is not prepared to face, its former claim to be a «civil power» fails.

In more general terms, precisely the difficulties found in applying the three patterns of political management of globalization described above show that political power is necessary. Even though the powers of several political unities are radically challenged, these are the only way of inhabiting the global world and cannot be substituted neither by a capitalistic universalism, nor by its multitudinary reversal.

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Today, in the winter of globalization, when its free-trade functioning is at least partially interrupted and its constitutive contradictions are blowing up, the three types of power (political, economic and cultural power) more clearly converge towards strategies based on specific political centers of power. In a general sense, we can define these centers as «States» (or “great States”) since they maintain the internal unity of the three powers and the capacity of politically, economically and culturally projecting them outside in a true Wille zur Macht. Politics accompanies and promotes the economy; in some cases, it also corrects its unrestrained tendency (Trump’s position against outsourcing is an example); furthermore, politics and economy produce mainstream cultural patterns and legitimating narratives. Sure, these powers are not fully synchronized (online in the case of China we can see something like a consistent strategy): anyway the great States give a general orientation to those powers.

As I said, however, these centers of power are structurally and reciprocally open: they are crisscrossed by economic faults, lines of valorization, and nomadic migration movements that cut the borders and crumble societies, but also by emergencies and struggles. Furthermore, these specific centers of power are challenged by the universalistic power of terrorism, that does not care about borders and that pushes on a global scale both the inter-Islamic civil war and the reaction of part of the Islamic world to the Western will of power.

It is therefore true that the global age displays new features, that is pluralism and neo-imperialism, and that universalism is denied both by the new differentiating logics of geo-economy, and by the traditional reasons of geopolitics. In a words, it is true that the space is still determined, conflictual and decisive, and that the struggle for the occupation of the space involving the US, Russia and China revolves around a political will that overcomes also economy and the legitimating narrative. However, it is also true – and it must be repeated – that this spatiality is plunged into a sea of transversal economic relations and in an ocean of terroristic or asymmetric conflicts. These conflicts and those relations prevent these spaces from becoming «fortresses», challenge their borders, increase their internal authoritarianism and the recourse to legal and extra-legal emergency devices.

Consequently, neo-imperial sovereignties are continuously floored and displaced, and they are compelled to incorporate lines of force and violence that cannot be completely circumscribed and controlled: in sum, they have to accept the impossibility of determining and neutralizing their own contradictions. In other words, they face an endless crisis. However, it would be inappropriate to say that they are «in ruins». On the contrary, we are facing new complex conceptual and spatial geometries, rather than the complete absence of form. Of course, there are also sovereignties in ruins: there are the «Failed States» (and they are not a few) and there are States completely subjected to the sphere of influence of others (and they are many). This complex geometry is marked by the co-existence of different scales of power, forces and interests that tend to be universal, by local conflicts and struggles, potentially conflictual and actually interdependent great powers. In this context, which is an «intermediate situation» from both a political and a conceptual point of view, «great politics» is decisive and hence constitutes the Nomos of the Earth, the function that enables to decipher the global politics. However, this Nomos does not have a center, and is therefore incapable of ordering globalization. It is a paradoxical figure of disorientation, rather than of orientation.

In this game, in this multi-scalar space, in this articulated time, what’s left of Europe ‒ which is not able to be a «State», not even a federal one – and what about its national States? From the point of view of effectiveness, which is politically decisive, neither these States nor the neoliberal narrative are up to the global scenario. From the point of view of the three abovementioned forms of power, in different ways each European State expresses a hopelessly «small» power. Besides, the establishment of a unitary continental power would be impossible: not only because the US and Russia would oppose it, but also because it is not in the agenda of the European political élites, that have achieved their oligarchical objectives in the construction of the euro and that, from a political point of view, still base their extremely narrow legitimacy on the nation-State.

On the other side, notwithstanding its weakness, the remaining loyalty of the citizens is directed towards the State, whose sovereignty is seen as the last bulwark against the social destruction produced by neoliberalism. And we must remember that the State (as well as the Party) is the only modern structure that can be democratized.

So, the European nation-State is «a past that does not pass». Suspended between the «not anymore» and the «not yet», its weakness is still a political resource that should be overcome, but is nonetheless necessary when better resources are unavailable. The European State is not strategically relevant, but is the bridging structure at stake in the political and institutional struggle in Europe, both from a symbolic and from a tactical point of view. The Right-wing is well aware of this relevance of the State. In fact, it is trying to appropriate it, answering by this to the people’s demand of protection from the effects of globalization. The Right-wing populist policies emerged from below, but are now directed by demagogy from above and, in all cases, remain anti-democratic. Therefore, also the Left-wing should be aware of the relevance of the State. Also from the State, not only from multitudes or social movements (that arise from the contradictions of the present and that are not to be neutralized in a party nor in the State, and that must remain parallel to the institutional politics) the Left – armed of critical thought, that is of its own cultural power – should realistically restart in order to both enact anti-liberal economic policies and to think a Europe finally made of social and democratic States animated by a «will of justice». From these States, Europe should draw its internal political and ideal consistency, so as to present itself on the global scene as a recognizable power led by a coherently humanist culture, and by adequate economic and political powers. The Left should move towards Europe through the States of the peoples (not of the populists), rather than against them.

In conclusion, for a political thought and practice that aim to be both critical and realistic, the challenge consists of pursuing the strategic democratic and social power of a United Europe through the combination of social movements and of political States, in a new democratic re-appropriation of the States in order to overcome them in a strong federation. In facts, also critical theory should adhere to reality, if it wants to change it. Otherwise, reality avenges.

 

Lecture at The 2017 Summer School in Global Studies and Critical Theory, Bologna,  Archiginnasio – Sala dello Stabat Mater, July 3rd , 2017 

 

[1] J. Derrida, Séminaire : La bête et le souverain, vol. 1 (2001-2002), Paris, Galilée, 2008; Id., vol. 2 (2002-2003), Paris, Galilée, 2010.

[2] C. Galli, Janus’s Gaze. Essays on Carl Schmitt (2008), Durham and London, Duke University Press, 2015

[3] J. Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Paris, Galilée, 1984, pp. 22-23.

[4] C. Schmitt, The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus PublicumEuropaeum (1950), New York, Telos Press, 2003

[5] F. Luisetti – J. Pickles – W. Kaiser (eds.) The anomy of the Earth. Philosophy, Politics, and Authonomy in Europe and the Americas, Durham and London, Duke University Press, 2015

[6] C. Schmitt, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto d’intervento per potenze straniere. Un contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale (1941), in Id., Stato, Grande Spazio, Nomos, Milano, Adelphi, 2015, pp. 101-187; Id., Teoria del partigiano (1963), Milano, Adelphi, 2005, pp. 82-83

[7] M. J. Crozier – S. P. Huntington – J. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975

[8] S. Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton, Princeton University Press, 2006

[9] C. Galli, Political Spaces and Global War, Minneapolis, Minnesota University Press, 2010; S. Mezzadra and B. Neilson, Border as Method, or, the multiplication of Labor, Durham and London, Duke University Press, 2013

[10] See the essays collected in «FilosofiaPolitica», 2017, n. 1

[11] Zhang Youkui, Il sistema di valori alla base del socialismo e il superamento del nichilismo, in A. Catone (a c. di), La “Via cinese”, Bari, MarxVentuno Edizioni, 2016, pp. 91-111; Hong Xiaonan, La potenza dell’armonia e la via di sviluppo pacifico della Cina, ivi, pp. 197-210

[12] Xuan Chuanshu, Avere fiducia nei propri valori e avere fiducia nel proprio percorso: un’analisi approfondita dell’essenza della via cinese, ivi, pp. 113-127

[13] Sun Jingfeng, Ancora un’indagine sul significato mondiale della Via cinese, in La “Via cinese”, cit. pp. 171-188; see F. Sapio, Carl Schmitt in China, in “The China Story”, 7 ottobre 2015

[14] C. Galli, Democrazia senza popolo. Cronache dal Parlamento sulla crisi della politica italiana, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 83-113

[15] J. Stiglitz, The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe, New York – London, W. W. Norton & Company, 2016

Intervista sulla sinistra

Intervista con Francesco Nurra

 

 

Sembra che in Italia chi è interessato alla politica debba necessariamente affidarsi alla logica della leadership del cosiddetto «uomo solo al comando»? Quali sono secondo lei le cause politiche e storiche di questa scelta?

Bisogna sfatare la tesi che a sinistra non esista una tradizione di leadership forti e anche carismatiche. Da Gramsci a Togliatti a Berlinguer, solo per restare in Italia, abbiamo esempi dell’esatto contrario. Ciò a cui oggi assistiamo è in realtà il susseguirsi di tentativi di leadership prive degli altri fattori essenziali della politica: cioè prive di idee, di partiti organizzati, radicati e partecipati, e prive di ceti dirigenti sperimentati. Leadership solitarie, insomma, che si affidano a un rapporto immediato ed emotivo con una massa di cittadini disorganizzata e utilizzata soltanto nella fase del voto, e che non si confrontano con i gruppi dirigenti ma che si affidano alla collaborazione di un ristretto «seguito», ovvero a un «cerchio magico» di fedelissimi. Se ci chiediamo perché ciò avviene, non possiamo che rispondere che questa deriva leaderistica e personalistica è il più vistoso effetto della crisi dei partiti, innescata decenni fa nel nostro Paese tanto dalla mancanza di alternanza e dalla conseguente endemica corruzione quanto dall’affermarsi di mezzi di comunicazione (televisione e rete) che rendono la mediazione partitica obsoleta fornendo ai cittadini-spettatori l’illusione della democraticità e della partecipazione. Naturalmente noi sappiamo che appunto di illusioni si tratta, che quei nuovi mezzi di comunicazione sono di proprietà privata e che hanno come esito la manipolazione, la solitudine, la mancanza di confronto e di spirito critico; che assecondano e approfondiscono la scomparsa della dimensione pubblica; che la politica va fatta da persone in carne e ossa che si incontrano per ragionare e per deliberare, costituendo così la «pubblicità»; e che al potere economico, per sua natura oligarchico e non democratico, si può opporre solo un potere politico fatto di istituzioni democratiche e di partiti organizzati. E sappiamo anche che a questa prospettiva si oppongono i poteri che hanno contribuito, con i media da loro controllati, a screditare la politica istituita per consentire il mantenimento dello status quo in quanto presunto privo di alternative

Riguardo all’ultimo referendum costituzionale, lei ha affermato che si trattava unicamente di una formalizzazione delle pratiche già attuate in Parlamento; in altre parole, il ruolo del Parlamento è esautorato da prassi meramente incentrate sull’azione del governo a discapito di un Parlamento senza alcuna capacità di azione politica: si è insomma nel pieno di una oligarchia governativa. Le sembra che dopo il referendum del 4 dicembre sia cambiato qualcosa? Crede che chiunque vada al governo segua questa prassi ormai consolidata?

La crisi del Parlamento, l’istituzione centrale della moderna democrazia rappresentativa, precede addirittura la crisi dei partiti. Sono stati i partiti, nel secondo dopoguerra, a rivitalizzare il Parlamento che non aveva retto la sfida dell’ingresso delle masse in politica e che era stato completamente asservito dai regimi totalitari. E con la crisi dei partiti degli anni Ottanta anche il Parlamento ha conosciuto una nuova obsolescenza e una perdita di centralità politica a tutto vantaggio del governo. Si tratta di un trend comune all’Occidente, ma accentuatissimo in Italia, dove la critica al parlamentarismo è sempre stata forte, con l’eccezione parziale di una ventina d’anni nel secondo dopoguerra, in chiave tanto di qualunquismo plebeo quanto di efficientismo tecnocratico quanto di autoritarismo repubblicano-gaullista. E non a caso la nuova critica al Parlamento – implicita nelle riforme bocciate il 4 dicembre, che trasferivano anche formalmente tutto il potere al governo – riecheggia, per chi le conosca, queste tradizioni anti-parlamentari, a cui aggiunge nuova virulenza l’esasperazione dei cittadini per i presunti privilegi dei parlamentari. Una indignazione nel merito fuori posto, ma giustificata dal fatto che è a tutti evidente che il Parlamento non sta facendo ciò che dovrebbe: che non rivendica il ruolo (che gli spetta) di centro del sistema politico, e si lascia guidare dal governo (il quale è certamente di fiducia del Parlamento, ma a quest’ultimo, oggi, ha di fatto sottratto l’iniziativa legislativa) e da poteri extraparlamentari come come i «capi» di forze politiche (di partiti personali, in realtà) che dall’esterno del Parlamento pretendono di deciderne le sorti. Come si è visto nella recente vicenda della legge elettorale a cui solo il voto segreto ha potuto mettere un freno, pur senza che dal Parlamento sia partita una proposta alternativa al patto dei «quadrumviri». È chiaro che a un Parlamento così debole i cittadini non perdonando nulla, e che anzi ne mettono in discussione la legittimità.

Si parla spesso di un impoverimento della cultura dei parlamentari italiani. Lei ritiene che si possa parlare di un impoverimento culturale all’interno delle ultime legislature rispetto a quelle, ad esempio, della Prima repubblica? Come contrastare questa deriva?

L’impoverimento culturale dei parlamentari rispetto alla Prima repubblica è del tutto evidente: è sufficiente confrontare i discorsi parlamentari della Prima repubblica con quelli attuali. La povertà del linguaggio, le difficoltà argomentative, l’orizzonte storico e intellettuale ristretto, balzano agli occhi – sono pochissime le eccezioni –. Non solo tutta la società è più incolta – poiché la scuola trasmette forse nozioni ma certo non solide basi di pensiero critico –, ma si sono anche interrotti i tradizionali canali di formazione dell’alta cultura (quella che dovrebbe appartenere a un parlamentare, che non deve essere un professore ma che non può neppure essere uno studente fuoricorso o un chiacchierone da bar) e anche i canali di formazione dei ceti politici (scuole di partito, centri studi, cursus honorum giudiziosamente graduali). Il fatto è che l’attuale forma economica e l’attuale società non vogliono – e quindi non preparano – né ceti intellettuali critici e autorevoli né politici autonomi culturalmente: semmai, vogliono pochi «specialisti», tecnici affidabili che stiano al loro posto; e ne vogliono pochi, perché preferiscono avere a che fare con masse poco colte, immerse nel mondo virtuale e quindi prive di profondità storica, e facilmente aizzabili, con pochi slogan plebei, contro le élites (come dimenticare i «professoroni» di Renzi?).

Ritiene, Galli, che uno dei motivi di sconfitta dei partiti di sinistra risieda anche nel deficit organizzativo interno in merito alla politica di formazione stabile dei futuri quadri e dirigenti? Lo spostamento della formazione da funzione dell’organizzazione del partito a funzione culturale dello stesso può avere contribuito, oltre che a impoverire la qualità dei quadri, anche a rispostare sui ceti borghesi di sinistra piuttosto che sulle classi più umili l’orientamento dei partiti di sinistra?

La sinistra è stata sconfitta dalla Quarta rivoluzione del Novecento, il neoliberismo, perché dapprima non ha visto arrivare la nuova iniziativa capitalistica, la nuova forma sociale ed economica che avanzava, e perché non ha saputo valorizzare la posizione di forza raggiunta a metà degli anni Settanta (alla quale ha appunto reagito il capitale). E perché, in seguito, ha salutato come un evento positivo – non con realismo, quindi, ma con ingenuità unita a masochismo – il neoliberismo, la globalizzazione e lo pseudo-individualismo che l’ha accompagnata, e l’attacco al pensiero critico e al pensiero dialettico: e così ha accettato l’autorappresentazione ideologica del capitale nella sua nuova forma, illudendosi di correggerne le asprezze con la cosiddetta «terza via». In realtà, ha attivamente contribuito alla deregulation che, distruggendo l’equilibrio di Bretton Woods, ha minato il terreno che aveva reso possibile il «compromesso socialdemocratico», la maggiore conquista politica e sociale della sinistra in Occidente: la sinistra ha creduto che la globalizzazione capitalistica estendesse la platea del ceto medio creato dalle politiche keynesiane e non ha capito che l’obiettivo del neoliberismo era ed è distruggere il ceto medio, trasformandolo in una massa di indebitati insicuri (e lo stesso vale per gli strati superiori dei ceti operai). La sinistra ha assecondato l’individualizzazione della società, senza capire che per tale via passava una delle conquiste più importanti del neoliberismo: la scomparsa della dimensione pubblica. La sinistra ha fatto propria la critica neoliberista dei partiti e dei corpi intermedi, con un atteggiamento del tutto suicida. Insomma, la sinistra ha assecondato acriticamente lo spirito del tempo senza nemmeno capirlo, assumendo su di sé le compatibilità del capitale, elevando il mercato a regola e fondamento della società, e così ha perso il luogo, il modo, lo scopo della propria esistenza politica, non ha elaborato analisi sulle contraddizioni della nuova fase del capitalismo e anzi ha negato valore alle categorie intellettuali che potevano sostenere la critica al presente stato di cose. L’autodefinizione della sinistra, oggi, è ridotta a un timido riferimento a «valori» talmente generici da risultare politicamente inutili, e l’affermazione, peraltro sempre smentita nei fatti, che «sinistra è stare dalla parte degli ultimi» – tesi estranea alla tradizione della sinistra, che si è sempre posta il problema di capire i meccanismi strutturali che portano al formarsi di ceti che sono «deboli» pur essendo centrali nel sistema produttivo, e che si è sempre data la finalità di trasformarli in soggetti politici protagonisti della storia –.

Ritiene che le categorie gramsciane siano ancora valide per l’analisi della situazione attuale? Lei come spiegherebbe alcuni fenomeni odierni attraverso il pensiero di Gramsci? Se può, fornisca degli esempi.

Sono molte e assai variegate le categorie gramsciane. In generale, va ricordato che Gramsci pensava il suo tempo, ovvero la scelta del capitalismo di abbandonare il liberalismo e di darsi forme autoritarie – sotto la pressione di trasformazioni del regime di fabbrica (il fordismo), dell’avvento politico delle masse (il nazionalismo e il socialismo) e della grande crisi economica –. Davanti a queste grandi trasformazioni Gramsci ha capito che doveva competere con esse alla loro stessa altezza; che non doveva ritrarsi in una riserva indiana, politica e intellettuale; che doveva re-interpretare l’auto-interpretazione del capitalismo, ovvero doveva prendere sul serio il suo modo di produzione, la sua politica, la sua società , la sua storia, la sua cultura, per coglierne le contraddizioni determinate, e riscrivere così la storia da un punto di vista alternativo eppure concreto, non utopistico; che doveva anche riscrivere l’agenda della sinistra, puntando a fare uno Stato nuovo, democratico (a egemonia proletaria), e a uscire da ribellismi e mitologie rivoluzionarie. Pensiero e azione, volontà e progetto, storia e decisione, si uniscono in una prospettiva politica e filosofica originale, nata in una tragica sconfitta, dentro un carcere, eppure capace, già a meno di dieci anni dalla morte di Gramsci, di costituire una delle colonne portanti del primo Stato democratico della storia d’Italia. Gramsci pensava a una politica fortissima, capace di cambiare il mondo; non a rispettare le compatibilità del capitale (a conoscerle, sì). Fare paragoni con l’oggi è impietoso: Gramsci non si sarebbe sognato di pensare a un partito «leggero», a gruppi dirigenti improvvisati, alla sottovalutazione della cultura da parte dei dirigenti politici; non avrebbe mai abbracciato una interpretazione non conflittuale della società: pur nella sua prospettiva nazionalpopolare di ricostituzione di una società larga, pensava all’esigenza di un’egemonia che la orientasse, di una politica specifica che la guidasse. Pur non indulgendo alla critica della tecnica, non pensava che la politica dovesse cederle il passo. Tenere fermo tutto ciò in un’epoca diversa, la nostra, caratterizzata da un diverso impianto della produzione, nell’età non della meccanica e del fordismo ma dell’elettronica e del lavoro spezzettato, in una società non dei partiti ma degli individui (o presunti tali), nell’età della globalizzazione che ha cambiato il rapporto fra Stato ed economia, non è facile. E richiede imponenti supplementi d’analisi. Ma l’idea che la sinistra tragga senso dal proporsi come alternativa ai rapporti economici e politici attuali, sulla base di una soggettività collettiva impegnata in un’azione emancipativa, ovvero che la sinistra sia una ripoliticizzazione conflittuale della società e in prospettiva dello Stato, non può essere dismessa, pena l’adesione di fatto ai postulati del potere liberista (che cioè la società non esiste, che il mercato è il supremo regolatore delle nostre vite e che le sue compatibilità sono indiscutibili, che non c’è alternativa, che non c’è conflitto di classe, che la disuguaglianza è un bene, che la democrazia è un lusso tendenzialmente superfluo). Come si vede, se si accettano queste premesse la sinistra è da rifare.

Socialismo sono i lavoratori che si impadroniscono dei mezzi di produzione. Lo statalismo ha prodotto l’URSS. C’è un’alternativa?

Se la contraddizione centrale del capitalismo è l’appropriazione privata del plusvalore socialmente prodotto, e se quindi non si può dismettere la prospettiva di una «società regolata», diversa da quella giungla che è oggi la nostra società, ciò non implica che la soluzione sia l’economia di comando in stile sovietico, con quanto ne è conseguito sul piano politico. La politicizzazione della società, a partire dai rapporti economici, è il vero obiettivo, il che equivale a impedire all’economia di presentarsi come forza autonoma valida in ultima istanza per l’intera società, e di far valere incondizionatamente gli interessi privati che essa incorpora in sé. Si può rilanciare il conflitto sociale, che ha mille motivi di manifestarsi; si può allargare l’intervento economico dello Stato, per quanto riguarda sia gli investimenti sia la fiscalità volta alla redistribuzione (senza la quale la crescita del Pil, se c’è, non ha positivo rilievo sociale); lo Stato – che può essere democratizzato, sia pure a fatica, mentre il mercato in quanto tale non può esserlo – può orientare lo sviluppo in una direzione o in un’altra; ambiti significativi della società possono essere sottratti all’imperativo economico e indirizzati alla piena crescita umana (scuola, sanità, beni culturali e ambiente). Soprattutto si tratta di rivalutare la dimensione pubblica (statale o collettiva, ovvero attraverso partiti e movimenti) come orizzonte di sviluppo della civiltà, che è oggi immiserita nell’angustia di un individualismo patologico e ossessivo, che peraltro viene ogni giorno smentito dal prevalere di giganteschi poteri sulle persone reali. Un’impresa di liberazione dell’uomo dalle maglie del pensiero unico e dallo sfruttamento colonizzatorio di ogni spazio vitale, ossia un’impresa di esplicito riconoscimento e di realistico contrasto delle attuali forme di «reificazione attraverso la individualizzazione subalterna», con l’obiettivo finale che gli uomini e le donne vivano in una società di cui si riconoscano autori e protagonisti, e che non gravi su di essi come una oscura forza naturale: questa è la linea strategica della sinistra, oggi. Obiettivi umanistici, quindi, perseguiti con cultura critica, serietà organizzativa, tenacia strategica, conflittualità non occasionale. L’URSS, da parte sua, è parte di una storia di liberazione che si è presto impigliata nell’oppressione per cause storiche sia remote sia contingenti: col suo comunismo militarizzato è stata un mito, ma non è un destino. I tratti illiberali della sinistra sono in linea di principio accidentali, per quanto gravi e frequenti, e non derivano necessariamente dalla sua critica al liberalismo, che è una critica di superamento, non di negazione.

In quello che sembra un ritorno al protezionismo e a un’idea degli Stati-nazione e dei confini come perno dell’agire politico, quali proposte può avanzare la sinistra del XXI secolo all’interno di questo scenario? Esiste, secondo lei, uno spazio politico per la sinistra all’interno di questo contesto?

Sono un convinto statalista. Delle grandi costruzioni della modernità – oltre allo Stato, il mercato, il partito, la tecnoscienza – lo Stato è l’unica (insieme al partito, ma meglio di questo) che, con enorme fatica e non senza contraddizioni, può essere democratizzata. La sinistra è nata anche contro lo Stato, strumento di dominio e di oppressione dei ceti padronali; ma si è presto conciliata con lo Stato, che, una volta governato da partiti di sinistra, si è dimostrato una potente macchina di inclusione sociale degli strati deboli della popolazione e di produzione di maggiore uguaglianza sociale. Lo Stato non esaurisce la politica e non coincide con tutta la sfera pubblica; ma ne fa parte integrante, e la sua obsolescenza è molto più una interessata narrazione neoliberista che una verità assodata. Se è vero che il livello dell’azione politica è nelle periferie delle città, nei movimenti transnazionali e nelle istituzioni sovranazionali, è anche vero che se non può contare sul potere dello Stato, e anzi se lo ha contro, la sinistra non ha né presente né futuro. È solo grazie allo Stato, e al partito che ne controlla democraticamente i poteri (ma non quello giudiziario), che si può istituire un credibile argine al dilagare del potere economico e mediatico. Solo agendo sul potere politico-statale si può aprire una breccia nel conglomerato di politica, economia, narrazione, che è il blocco onni-inclusivo del potere contemporaneo. Ed è vero, infine, che anche la prospettiva politica più ardita (e improbabile) che possiamo intravedere, cioè gli Stati Uniti d’Europa, ha senso solo se esistono, appunto, gli Stati contraenti con la loro volontà politica. Ed è vero, per converso, che il globalismo di sinistra rischia di essere l’altra faccia del globalismo come è narrato dal capitale – che in realtà da parte sua, nonostante la propria proclamata autosufficienza, dello Stato si serve abbondantemente (e non potrebbe essere altrimenti) e sempre di più si servirà – naturalmente in una versione penale ed emergenziale da rifiutare in toto – proprio per il relativo raffreddarsi della globalizzazione e per l’emergere in essa di linee di conflitto politiche che vedono coinvolti sia Stati sia bande armate post o pre-statuali -.

Quali testi e autori consiglierebbe a chi volesse intraprendere lo studio della Storia delle dottrine politiche? Quali invece a chi voglia avvicinarsi a una politica di militanza? Se oggi lei fosse direttore di una scuola politica simile a Frattocchie, su quali autori indirizzerebbe l’attenzione dei suoi allievi?

Secondo una celebre affermazione di Engels, il movimento operaio è l’erede dell’illuminismo francese, dell’economia politica inglese, della filosofia classica tedesca. Cioè deve essere all’altezza dello sviluppo intellettuale più avanzato della modernità, per reinterpretarlo in chiave emancipatoria. Oggi, la sinistra – che essa coincida col movimento operaio o piuttosto con l’ansia di liberazione di strati più larghi e meno omogenei della società – ha il medesimo compito. E alla ricapitolazione critica della modernità deve aggiungere anche la prospettiva, tutta novecentesca, della sua decostruzione – ponendo la massima attenzione a non cadere nella trappola post-moderna, cioè nella perdita di ogni possibilità di prospettiva critica, e quindi stando più che attenta a evitare la subalterna accettazione acritica del presente -. Compito difficile, al limite dell’aporia, come del resto è ambiziosissimo l’obiettivo politico e intellettuale che la sinistra si deve porre. Detto questo, all’elenco di Engels non si può non aggiungere il marxismo occidentale, e il confronto critico con la linea nietzschiana e heideggeriana, come non possono essere trascurati i classici moderni della sociologia, della scienza politica, e della storiografia economica e politica. Si dirà che quanto ho detto implica corsi di studi equivalenti a un paio di lauree, in Filosofia e in Scienze politiche. Ed è vero. Ma è anche vero che docenti esperti e discenti motivati possono, con un percorso concentrato ripreso nel tempo, in quattro o cinque cicli, affrontare alcuni nodi strategici dello sviluppo intellettuale della modernità e delle prospettive della contemporaneità. E soprattutto è vero che la stessa istituzione di una seria scuola di partito (non dei surrogati mediatici che oggi sono proposti) significherebbe che è risultata vincente l’idea «rivoluzionaria» che la politica, oltre che un confronto ininterrotto con la contingenza, è anche la decifrazione del presente con strumenti intellettuali complessi – perché il presente è oscuro, ma non sottratto a priori alla fatica del concetto -. Questo approccio critico alla politica è appunto ciò che l’attuale sistema di potere vieta in ogni modo: poiché a questo divieto si è da tempo felicemente accodata anche la sinistra, prigioniera del tatticismo più pigro, del «presentismo» più cieco, del nuovismo più stucchevole, del plebeismo più ambiguo, invertire questo trend è il primo, indispensabile, passo emancipatorio. È anche attraverso questo metodo che si può dare forma al soggetto sociale e politico di sinistra, sottraendolo alla anomia intellettuale e al qualunquismo a cui oggi è facilmente indotto.

Se poniamo come dato di fatto il declino delle forme di partito tradizionale, quali sarebbero, secondo lei, le modalità di organizzazione più consone per la sinistra contemporanea?

Non esiste sinistra senza sfera pubblica; e non esiste sinistra che non si ponga in relazione forte con lo Stato. Non esiste sinistra che aderisca all’ideologia neoliberista della «società degli individui» e della «società liquida», che non veda le terribili e invincibili disuguaglianze che strutturano la società attuale in strati ancora più solidi delle vecchie classi; non esiste sinistra che aderisca all’ideologia della competizione e della valutazione, e della neutralità e inevitabilità del sistema capitalistico. Non esiste sinistra senza una reale, concreta, approfondita capacità di critica e senza una reale spinta ad affermare il proprio linguaggio e la propria lettura della realtà. Non esiste sinistra senza che sia dissipata la tesi che destra e sinistra non esistono più, sostituite dal cleavage sistema/antisistema, civiltà/barbarie. Non esiste, infine, sinistra senza che si acceda anche all’idea di partito organizzato che organizza parti di società, senza sospetti divieti preventivi, senza interessati anatemi, senza compiaciuti scetticismi. La crisi dei partiti è in parte reale e in parte, invece, indotta e narrata dal neoliberismo e dai media mainstream: la leadership solitaria che si rivolge mediaticamente a folle scomposte e occasionali non sarà mai di sinistra. Ciò non significa che i partiti esistenti non possano perire per inadeguatezza, e che nuove formazioni non possano prenderne il posto, come forse in qualche modo sta avvenendo in alcuni Paesi, fra i quali purtroppo non c’è ancora l’Italia. Detto questo, tutto quanto va nella direzione di ripoliticizzare la società è da salutare con favore: ed è necessario dialogare con tutti i soggetti che si formano nella società, al fine di mettere a frutto l’energia di tutti. Quindi partiti e movimenti, forme associative spontanee della società civile e sindacati, tutto è indispensabile per raggiungere l’obiettivo di spezzare solitudine e subalternità, e ricostituire la nervatura politica di una società non rassegnata.

L’intervista è in corso di pubblicazione in «http://www.sinistra21.it» 

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