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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

febbraio 2018

La colpa e il debito

 

Proviamo a ragionare partendo dai dati esistenti. L’articolo 81 della Costituzione, prima della riforma, diceva:

«Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

Sono poche righe, e sono scritte in lingua italiana. Il nuovo testo, approvato dalle Camere nell’aprile del 2012, recita:

«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale».

Questo testo non è scritto in italiano, ma in una lingua straniera, nemica. È la lingua di un trattato internazionale firmato da uno Stato (il nostro) che ha perduto una guerra; un testo ricattatorio firmato sub vi ac metu, sotto la pressione della violenza e della paura. Là c’è la lingua libera degli uomini liberi; qui c’è la lingua specialistica che ci è stata imposta. Perché? Che cosa è successo?

L’articolo 81 della Costituzione non recepisce il fiscal compact: costituzionalizza una serie di principi che stanno alla base della costruzione economica dell’Europa dopo il 1992, da Maastricht in poi, con l’obiettivo di uniformare le filosofie sociali, politiche ed economiche degli Stati che fanno parte dell’euro, perché queste filosofie e i loro esiti applicativi non divergano troppo. La divergenza si misura attraverso lo spread; se essa è eccessiva, l’euro potrebbe spaccarsi, tranne che non si arrivi prima con i «carri armati» – cosa che è stata fatta in Grecia e che è stata possibile per le dimensioni relativamente piccole dell’economia di quel Paese; con l’Italia non si può fare, data l’entità del nostro sistema economico-produttivo -. Quindi, la preoccupazione degli Stati europei che fanno parte dell’euro (ricordiamo sempre che parliamo di Stati) a che questa moneta comune non collassi ha portato a vari accordi per uniformare le logiche con cui sono costruiti i bilanci statali. Questo avveniva nel 2011, l’anno dello spread; della cacciata di Berlusconi; della intronizzazione di Monti; e della revisione dell’articolo 81, che viene portata a compimento nei primi mesi del 2012, poco prima che gli accordi intergovernativi a livello europeo che hanno dato origine all’articolo 81 fossero formalizzati nel cosiddetto fiscal compact. Detto in altre parole, il nuovo testo dell’articolo 81 non recepisce direttamente il fiscal compact, ma la filosofia sociale, politica ed economica di fondo che sta dietro tanto alla costruzione dell’euro in quanto tale, quanto agli accordi del 2011, quanto al trattato che viene definito fiscal compact del 2012. Oggi la questione è se costituzionalizzare anche il fiscal compact, modificando ulteriormente l’articolo 81, aggravandolo – prima ipotesi -; oppure – seconda ipotesi – non lo si costituzionalizza, ma lo si inserisce all’interno dei trattati costitutivi dell’Unione europea, poiché formalmente non ne fa parte (come dire: c’è l’Unione europea, e poi, a lato, è stato fatto un trattato chiamato fiscal compact); infine – terza ipotesi – non ci si pensa nemmeno.

Ma anche se non è costituzionalizzato, il fiscal compact è un trattato a cui l’Italia ha aderito. Vediamo che cosa dice. Formalmente è il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria approvato il 2 marzo 2012 da 25 degli allora 27 Stati membri dell’Unione europea, e non sottoscritto da Regno Unito e Repubblica ceca. Come la riforma del 2011 (quella che ha generato l’articolo 81 e che, sostanzialmente, rende automatiche delle sanzioni per chi viola i parametri fondamentali di Maastricht, il 3% di deficit annuo e il 60% di debito sul PIL), anche questo trattato internazionale è stato fortemente voluto dalla Germania. Esso perfeziona e aggrava i trattati del 2011, prevedendo l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio, che noi abbiamo già messo in Costituzione – e si badi bene che dal punto di vista della dottrina economica questa è solo una tesi fra le altre – riservandoci però di inserire, con deliberata scaltrezza, nel testo approvato non il concetto di «pareggio» ma quello di «equilibrio» di bilancio – il che naturalmente provoca l’orticaria dei super-ortodossi -. Poi, oltre all’obbligo del pareggio di bilancio, il fiscal compact impone che il deficit pubblico strutturale non superi lo 0,5% del PIL annuale (cioè, se proprio lo Stato deve spendere più di quello che guadagna la differenza può essere al massimo lo 0,5%). La disciplina di bilancio alla quale in Italia si è voluto dare valore costituzionale nasce dall’idea che il debito pubblico (cioè lo stock consolidato di deficit annuali dall’inizio dell’umanità a oggi che ci portiamo dietro) derivi dalla nostra – italiana, cattolica, mediterranea, meridionale – abitudine di fare come le cicale e non come le formiche. Per questa nostra «colpa» dobbiamo pertanto ridurre – sulla base di cifre scelte in maniera assai discrezionale dalle élites politico-economico-finanziarie dominanti in Europa – ogni anno un ventesimo del debito che eccede il 60% del PIL. Che – con un debito pubblico che ormai sfiora i 2.300 miliardi di euro – significa dover smaltire ogni anno una cifra esorbitante. Inoltre, mentre il trattato di Maastricht aveva stabilito che effettivamente si poteva fare ogni anno un deficit del 3%; adesso, invece, si può fare al massimo lo 0,5 % di deficit e si può avere un debito al massimo del 60% del PIL. Arrivati a questo punto è chiaro che il prezzo della costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio è la distruzione della società. In alternativa, il PIL del nostro Paese dovrebbe registrare una crescita tanto forte da abbattere i rapporti. Se noi, ad esempio, facessimo un PIL di 10.000 miliardi l’anno, come gli Stati Uniti, è chiaro che avere 1300 miliardi di debito sarebbe niente, un ottavo del PIL. Ma, poiché il nostro PIL viaggia sui 1800 miliardi l’anno, non ce la faremo mai. Il fiscal compact prevede, poi, delle correzioni automatiche, ovvero dei meccanismi automatici di correzione simili al cut off negli Stati Uniti. E, infine, il trattato del fiscal compact prevede l’obbligo di tenere almeno due vertici l’anno per tenerci sotto controllo.

La riforma dell’art. 81 è stata votata da un’amplissima maggioranza politica (con poche eccezioni) nella XVI legislatura. Nella XVII non ci siamo più andati attorno, ma io ricordo bene quanti, a sinistra, rivendicavano con orgoglio «Abbiamo fatto bene. Andava fatto». Vediamo se, almeno adesso, qualcuno arriverà a collegare lo sviscerato amore che oggi i cittadini portano allo Stato, alla democrazia e all’Europa alle conseguenze di quella decisione; a cogliere l’esistenza di un rapporto di causa-effetto, anche indiretto, fra questo trattato di pace, e il fatto che abbiamo la destra che arriva da tutte le parti, metà degli italiani che non va a votare e metà della metà che vota per partiti antisistema. È chiaro: davanti al fallimento della destra economica, che distrugge le società occidentali, interviene la destra politica, per il buon motivo che la sinistra pare non interessata a giocare. O, se proprio deve giocare, gioca con la destra economica. Questa è la realtà.

Ma intanto in questa campagna elettorale, che pareva orientata alla tematizzazione forte del rapporto Italia-Europa – che vuol dire Italia-Maastricht, Italia-euro, Italia-fiscal compact, e anche Italia-articolo 81 -, di fatto, si sta parlando di tutt’altro. E del tutto illusoriamente, perché – stando alle richieste della Commissione europea all’Italia, e da questa non ancora ottemperate, di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare che il bilancio 2018 sia in linea con il patto di stabilità – ci si attende, per marzo-aprile, una manovra correttiva che ci costerà quattro o cinque miliardi. Infatti, nonostante la riduzione concessaci dello sforzo strutturale richiesto, dallo 0,6% allo 0,3% del rapporto deficit/PIL, la correzione del deficit strutturale italiano, in legge di bilancio, risulterebbe nel 2018 pari solamente allo 0,1%. È molto probabile, quindi, che subito dopo le elezioni la Commissione torni alla carica con la richiesta di misure correttive. A questo va aggiunta la nuova legge di bilancio da approvare in autunno 2018, che sconta l’esigenza di non far scattare i meccanismi automatici di aggravamento dell’imposizione indiretta (cioè bisogna trovare altri 15 miliardi).

A questo punto, la domanda è: perché è successo tutto ciò? La risposta è che la realtà di oggi è il frutto avvelenato della globalizzazione in Occidente, maturato in Europa con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, voluta da Stati Uniti e Unione Sovietica, ma temuta dalla maggior parte degli Stati europei. Come sanno bene inglesi e francesi, una volta riunificata la Germania è un problema: perché è un Paese grande e molto civilizzato; perché è (o meglio era) un Paese stabile; perché è un Paese che si è dotato di una filosofia sociale, economica e politica che si chiama ordoliberalismo, conosciuta anche – in linguaggio politico – come «economia sociale di mercato», e – in linguaggio storico-accademico – come Scuola di Friburgo. A livello giornalistico si diceva, giustamente, che la Germania rappresentava un modello di capitalismo diverso dal resto del mondo: il cosiddetto «capitalismo renano». Si deve capire che in Europa non c’è il neoliberismo: c’è l’ordoliberismo, che è stata la risposta europea al neoliberismo, ovvero allo scatenamento della globalizzazione (prima di tutto finanziaria, ma anche fondata sulla delocalizzazione produttiva); alla immissione sul mercato mondiale del lavoro di trecento milioni almeno di cinesi, che lavoravano a un decimo del nostro costo del lavoro. La riunificazione tedesca allarmò le cancellerie di mezza Europa. Storicamente, infatti, la Germania non è mai stata un Paese del tutto occidentale, tranne, per forza di cose, dopo la Seconda guerra mondiale la Repubblica Federale Tedesca. È un Paese in bilico, proiettato molto a Est, che guarda con interesse alla Russia. Dopo la riunificazione delle due Germanie, qualcuno in Europa – e cioè inglesi e francesi, che ancora ricordano la storia -, temendo il ritorno della «solita» politica tedesca, oggi magari non in chiave di potenza aggressiva ma di semi-neutralismo, una politica potenzialmente lesiva degli interessi degli altri Stati del continente, ha pensato di tenere la Germania legata all’Europa tramite la moneta comune. Una possibilità sempre osteggiata dai tedeschi in nome della «sacralità» del marco, il frutto dell’ordoliberalismo, e infine da loro accettata solo perché la «nuova» moneta – l’euro – è stata congegnata per essere in tutto e per tutto – nei presupposti ideologici, nella tenuta dei conti, nel modello di società che viene previsto, nella stabilità politica come bene supremo – identica al marco. Per cui, quasi tutta Europa, Italia compresa, ha deciso di adottare il marco/euro. Una scelta costosa, ma non per tutti. Per i tedeschi, che l’hanno inventato, non lo è. Dopo il 1929, quando hanno visto i disastri del capitalismo selvaggio e anarchico, e dopo il 1933, quando hanno visto il nazismo, i tedeschi hanno capito che il cattivo capitalismo produce cattive crisi: il nazismo è una delle cattive possibili uscite dalla crisi del capitalismo. Cattive uscite dalla crisi del capitalismo, oltre al nazismo, sono, ça va sans dire, il socialismo, e «il piano». Insomma, l’ordoliberalismo nasce avendo come nemici il paleoliberismo, la pianificazione e il socialismo/comunismo.

In che cosa si differenzia dal neoliberismo? Il neoliberismo, che è neomarginalismo, è una filosofia politica, sociale ed economica a base essenzialmente individualistica (fondata su quel liberismo che Marx definiva «libera volpe in libero pollaio»): i soggetti che abitano la società sono delle macchine individualistiche calcolanti la massimizzazione dell’interesse e dell’utilità. La società è fatta di atomi in grado di calcolare gli effetti benefici o negativi delle interazioni che liberamente ciascuno di essi pone in essere con ciascun altro di essi. I soggetti sono tutti razionali, tutti informati, tutti miranti alla massimizzazione del proprio utile. Non c’è possibilità che le interazioni sfocino nell’anarchia; un ordine – un equilibrio – si forma sempre: è fatto di chi vince su chi perde, e non esiste ordine migliore. Ogni tentativo di governare politicamente le interazioni sociali produce, infatti, effetti peggiori che non lasciare essere le interazioni sociali. Questo è nella sua essenza il neoliberismo, nella formulazione di Hayek. Gli ordoliberisti hanno, come i neoliberisti, la più alta venerazione del mercato, e credono fermamente che dire mercato e dire società sia la stessa cosa. Ma, al contrario dei neoliberisti, non ammettono che la società sia fatta di individui, ma ritengono – in linea con la tradizione organicistica tedesca – che essa sia fatta di corpi (i corpi sociali, i corpi storici, i corpi economici). Una concezione che, però, non cade nel corporativismo, ma si proclama fieramente pluralista – di pluralismo economico, s’intende, non politico. In politica gli ordoliberisti credono nello Stato – . L’ordoliberalismo accetta l’equazione «mercato uguale società»; nega l’esistenza del conflitto di classe, che fornisce una lettura sbagliata della società; e afferma che il capitalismo funziona solo quando è rispettata la sua legge fondamentale: la concorrenza. Ma, poiché la concorrenza è fra imprenditori che hanno la tendenza a costituire cartelli o monopoli, per gli ordoliberisti è necessaria l’esistenza dello Stato allo scopo di impedire che il movimento del capitalismo si blocchi. Dunque, non uno Stato che interviene, che pianifica, che regola i prezzi; ma uno Stato che sanziona chi ferma la macchina capitalistica, la quale va pensata non come una contrattazione permanente fra individui, ma come un equilibrio dinamico di corpi. Politica economica mai; politica industriale mai. È il mercato che decide, le forze imprenditoriali e sindacali che decidono.

È dogma del neoliberismo e anche dell’ordoliberalismo quella che Schmitt chiama Unterscheidung, la distinzione fra economia e politica (in un testo del 1932 molto lodato dagli ordoliberisti). Naturalmente, questa distinzione è già un atto politico. Schmitt per primo sapeva che l’economia è in realtà piena di politica. E quindi la distinzione fra economia e politica è un atto politico, e lo Stato che non interviene in economia sta facendo politica. Quello che gli ordoliberisti vogliono è questo tipo di intervento/non intervento, e non l’intervento pianificatorio dell’esecutivo.

Conoscere l’ordoliberismo – le sue origini, finalità, implicazioni politico-ideologiche – è per noi oggi indispensabile, perché con esso ritorna lo Stato e, insieme, ricompare finalmente l’idea che la società è complessa. Esso afferma, infatti, che esiste una lettura (marxista) della società che vede in quella complessità l’esistenza di una contraddizione; una visione per gli ordoliberisti sbagliata, che deve essere eliminata. Come deve essere eliminata quella visione che afferma che al mondo esistono solo gli individui. Insomma, l’ordoliberismo è un sistema economico, politico, sociale, che taglia le ali estreme con due obiettivi che sembrano contradditori, e non lo sono: stabilità e dinamismo. Stabilità politica: eliminazione degli estremisti, poiché chi dà un’interpretazione conflittuale della società è un nemico della società. E dinamismo: l’economia deve girare, non si deve bloccare. Niente, nemmeno la libertà, deve bloccare il movimento della macchina capitalistica. Quindi, no alla libertà di sciopero; no al conflitto; no all’idea di costruire un’economia trainata dalla domanda interna e dalle relative rivendicazioni sindacali. L’economia tedesca, infatti, non è trainata dalla domanda interna ma dalle esportazioni; anzi, lo slogan è: “moderazione salariale”. I sindacati sono cooptati nei consigli delle grandi imprese – la Mitbestimmung -. In Germania ci potrebbero essere salari del doppio rispetto a quelli di adesso, ma se ci fossero salari doppi ci sarebbe l’altro nemico terribile: l’inflazione. La crescita dei prezzi messa in moto da salari più alti porterebbe all’aumento dell’inflazione. Insomma, i tedeschi detestano gli estremisti, l’instabilità politica e l’inflazione, perché le hanno conosciute. Sono, o meglio erano – quando erano davvero tedeschi -, estremisti per natura: quella che si chiamava deutsche Tiefe (la profondità tedesca), la capacità di andare alla radice, vuol dire essere estremisti. L’instabilità politica l’hanno inventata loro, praticamente, con la repubblica di Weimar. L’inflazione l’hanno conosciuta fino al 1923, non ha generato il nazismo (che nacque dalla disoccupazione di massa) ma ha trasmesso un’idea di disordine, di imprevedibilità dell’esistenza, che dopo due guerre mondiali perdute non vogliono più conoscere. Pertanto, dalla fine della Seconda guerra mondiale la politica tedesca è stata orientata al perseguimento della crescita economica, fondata sulle esportazioni e sulla stabilità garantita dal marco e dalla pace sociale. L’ordoliberalismo è nato, fra il 1932 e il 1940, grazie a intellettuali come Eucken, Röpke, Böhm, Müller-Armack, alcuni dei quali lavoravano nel ministero dell’economia nazista, pur non essendo nazisti ma semplicemente dei burocrati – del resto, l’economia nazista prima della guerra era un’economia all’ingrosso keynesiana, e durante la guerra era semplicemente un’economia di rapina (cioè rubavano tutto, compreso l’oro delle banche centrali) -. Poi, nel dopoguerra a impiantarlo nella realtà fu Erhard, il ministro dell’Economia nel governo di Adenauer.

Quando siamo entrati nell’euro abbiamo abbracciato questo universo, e ci siamo impegnati a pensare e a vivere come tedeschi avendo una storia e un sistema economico completamente diversi. A questo servono «le riforme»: a entrare pienamente nel mondo ordoliberale e a eliminare tutto ciò che blocca il dinamismo del capitalismo, come le letture estremistiche della società, che però in Italia sono scomparse da almeno quarant’anni, e come – e qui sta il punto – i diritti, quel paletto che stabilisce che cosa si può o non si può fare. Soffocare i diritti, quindi, non in nome del neoliberismo, ma dell’ordoliberismo, cioè di una severa disciplina di bilancio posta in essere da uno Stato occhiuto guardiano dei conti pubblici e nemico di chiunque si collochi all’interno della macchina capitalistica per bloccarne il funzionamento. Rinunciare alla spesa pubblica in deficit, alla politica economica, al traino della domanda interna. Rinunciare alla centralità del lavoro, pur costituzionalmente sancita, in nome della centralità del mercato (neoliberismo) e dei conti pubblici (ordoliberalismo).

Quando Gentiloni dice «siamo quelli che hanno avuto il tasso di esportazioni più alto di tutta l’Europa» sta affermando che un pezzo del sistema economico italiano è in grado di rispondere alle esigenze neomercantilistiche dell’ordoliberalismo: i soldi stanno fuori, e li si deve prendere secondo il principio beggar-thy-neighbour (impoverisci il tuo vicino) – ogni Mercedes venduta in Italia, ad esempio, sono soldi italiani che vanno in Germania -. Incidentalmente, tutto ciò smentisce le affermazioni che bollano le politiche di Trump come protezionistiche, e quelle di Angela Merkel come liberoscambiste. In verità, Germania e Cina hanno surplus enormi della rispettiva bilancia commerciale, perché in entrambi i Paesi impera l’idea che bisogna tenere basso il livello salariale all’interno, produrre bene, e vendere a caro prezzo all’esterno. E oggi gli Stati Uniti non paiono più disposti ad accettare un sistema di scambi che genera i surplus commerciali di Germania e Cina, a cui chiedono di aumentare la domanda interna e di non scaricare tutta la propria potenza economica sull’esportazione.

Queste sono oggi le questioni radicali in campo. Bisogna dire che i tedeschi, per rispondere efficacemente al dilagare della globalizzazione, hanno molto modificato il proprio ordoliberalismo, con le riforme Schröder-Hartz del 2003-2005, che hanno rimesso in moto l’economia tedesca (inventando, ad esempio, i mini-jobs, cioè lavori sottopagati). Con l’implementazione del Piano Hartz è stato di fatto introdotto nell’ordoliberalismo un sistema di ulteriore mortificazione del lavoro che ha un po’ scosso le fondamenta politiche del consenso, tanto che adesso per tenere in piedi il sistema i tre partiti che normalmente si facevano concorrenza – la bavarese Unione Cristiano-Sociale (CSU), l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) – sono costretti a governare insieme. Tutto questo è un problema: i tedeschi – che hanno visto funzionare l’ordoliberismo quando questo era immerso nel mare keynesiano del secondo dopoguerra – adesso che tutto il mondo è diventato neoliberista, cioè cattivo e affamato, hanno dovuto introdurre degli elementi destabilizzanti nel proprio sistema; il che produce gravi problemi. Perché, è bene ricordarlo, non c’è niente di peggio che una Germania instabile.

Due sono i modi per venire fuori da ciò: uscirne, ma non si riesce a calcolare i costi, politici oltre che economici; oppure pregare che il PIL cresca sempre (non all’1,5%, ma al 3,5% tutti gli anni), e che questo aumento del PIL non sia tutto a vantaggio dell’1% più ricco della popolazione. Mettendo insieme tutti questi se e ma, abbiamo i problemi politici del nostro Paese dei quali nessuno parla, o se ne parla poco perché non si sa come venirne fuori. E gli italiani, compresi i politici, preferiscono pensare al taglio delle tasse, o agli 80 euro (che sono una misura più neoliberista che ordoliberista, perché Renzi è così), o agli opposti estremismi, o agli scontrini: non c’è al momento una mezza idea su come venirne fuori. Sono tutte idee occasionali (come, ad esempio, sforare i parametri, disobbedire ai diktat, e poi vedere che cosa succede).

C’è un tasso di incertezza sulle questioni radicali che fa male, soprattutto perché il nostro futuro non appartiene a noi. Che politicamente vuol dire che, aderendo ai trattati istitutivi dell’Unione europea ed entrando nell’euro, abbiamo perso un importantissimo pezzo di sovranità, e il nostro futuro è appeso oggi alle reazioni che ai nostri comportamenti avranno i nostri partner. Confrontarsi col mondo è sempre stato necessario: ma oggi abbiamo rinunciato, come Stato, a molti gradi di libertà. Abbiamo abbracciato una visione ideologica nella quale il debito è colpa, Schuld: se lo fai, devi sapere che c’è qualcuno al quale devi chiedere permesso e che questo qualcuno te lo può anche negare. Di solito te lo concedono, ma è una limitazione grave. Anche perché i mercati hanno metodi di punizione severissimi: lo spread (va anche detto che in realtà credevamo che gli obblighi assunti si potessero aggirare: e infatti nella XVII legislatura abbiamo votato, a maggioranza assoluta, tutti gli anni la deroga all’equilibrio di bilancio, che lo stesso art. 81 prevede, come eccezione).

La Corte costituzionale tedesca ha affermato la supremazia della Costituzione tedesca sopra ogni altra fonte normativa. In Italia si accetta invece la demonizzazione del «sovranismo». Di fatto, la parola «sovranismo» non esiste: ci sono coloro i quali difendono il primato della Costituzione, che è stato l’atto sovrano per eccellenza; e coloro i quali dicono, invece, che la Costituzione è stata superata dalla globalizzazione. Una decisione va presa.

La cosa che dobbiamo sottolineare è che la decisione non è mai stata posta come tale davanti alla pubblica opinione, e non è mai stata discussa in Parlamento in modo esplicito, con qualcuno che spiegava tutte le conseguenze. La post-democrazia è questa: che il grosso della decisione è stata presa all’infuori dei canali istituzionali della democrazia, ma anche di quelli extraistituzionali fondamentali: la libera stampa, la pubblica opinione. Una delle tappe iniziali è stata fatta con una lettera: il cosiddetto «divorzio» fra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia è stato fatto con una lettera di Andreatta a Ciampi nel 1981. Poi, dopo si dice che il debito pubblico è raddoppiato negli anni Ottanta, perché tutti i politici compravano il consenso degli italiani con leggi di spesa. È vero, però il «divorzio» fra Tesoro e Banca d’Italia è stato fatto sulla base del principio fondamentale di tutti i liberismi di questo mondo – neo, vetero, paleo, ordo -: l’economia in generale, e l’economia monetaria in particolare, non devono avere il minimo rapporto con la politica; sono regni autonomi, santissimi, intoccabili. L’economia agli economisti o ai capitalisti; mai ai politici, che sono delinquenti, clientelari, pasticcioni. Quei pochi borghesi italiani che pensano hanno sempre teorizzato la necessità del «vincolo esterno», perché questo Paese non è capace di agire in termini europei, in termini moderni. Le plebi meridionali e i sindacalisti settentrionali congiurano contro la modernità. I comunisti e i democristiani sono uguali, pensano soltanto a pigliarsi i voti con le clientele, spendendo i soldi. Ci vuole il «vincolo esterno». E il «vincolo esterno» è l’euro; una panacea, per i suoi difensori; un male minore per quasi tutti: una piccola (?) riduzione dei diritti oggi, per evitare una tragedia domani. Un sacrificio che è un investimento per il futuro dei nostri figli, poiché noi abbiamo molto peccato.

E intanto, a furia di sacrifici, la società si trasforma in una giungla, e la democrazia si perde nella sfiducia generale, nel rancore, nella infelicità. E la politica non sa più che fare, e tira a campare. Finché non la riprendiamo nelle nostre mani.

 

 

Il testo deriva dall’intervento, rielaborato e corretto, tenuto da Carlo Galli il 3 febbraio 2018 a Ravenna, in occasione dell’incontro La colpa del debito. Articolo 81 della Costituzione e Europa, organizzato da CGIL Ravenna; Libertà e Giustizia. Circolo di Ravenna; Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, Bagnacavallo, Faenza; Coordinamento per la Democrazia Costituzionale della provincia di Ravenna.

 

 

 

 

La democrazia sostanziale di Giuseppe Dossetti

Sostanziale, integrale, effettiva, reale: la democrazia secondo Dossetti non può essere solo formale, né solo politica, né solo economica e sociale; deve anzi superare la moderna divisione (con altro lessico, l’alienazione) fra questi ambiti per essere umana, genuina, morale. Deve essere cioè una autentica rivoluzione, non un prolungamento del liberali­smo che diviene di massa. Da qui alcuni giudizi parzialmente critici di Dossetti sulla Costituzione italiana – alla cui redazione egli ha pure autore­volmente contribuito – che a questa rivoluzione si orienta senza portarla fino in fondo (benché alla Carta vada riconosciuto il grande merito di essere, in linea di principio, radicalmente innovativa).

Questa è la tesi politica complessiva di questi scritti, culminanti nella relazione del 1951 su Fun­zioni e ordinamento dello Stato moderno. Una tesi che va decifrata e contestualizzata, e misurata sulle discussioni attuali intorno alla democrazia.

Sono innanzitutto evidenti gli influssi tanto di Maritain quanto di Gemelli, elaborati in modalità originali. Dall’umanesimo integrale del primo, Dossetti riprende la critica al liberalismo come ci­fra dell’intera età moderna, caratterizzata dall’idea che la libertà – in pratica coincidente con la libertà di pensiero e con il diritto di proprietà – sia una qualità autonoma del soggetto, in sé chiusa, del quale costituisce l’origine e il fine; e dall’idea che attorno ad essa debba ruotare lo Stato moderno, il quale a sua volta è “agnostico” sui fini e si affida a una presunta capacità umana di produrre l’utilità collettiva attraverso il perseguimento dell’utilità privata, mescolando così una sorta di ottimismo antropologico (la libertà moderna come produttri­ce di bene) a un pessimismo sulle strutture sociali e politiche (ritenute oppressive quando non rese meramente neutrali). La modernità è nichilistica, per Dossetti: nega la natura delle cose, e le pensa tutte interamente plasmabili dall’uomo e tutte traducibili in merci; azzera i diritti storici concreti, le mediazioni sociopolitiche reali, e immagina una società priva di fini che non siano individuali; fa dello Stato una macchina che consente ai privati di creare autonome istituzioni giuridiche impersonali e di fatto incontrollabili (le grandi corporations), mentre si ferma davanti ai diritti economici dei possidenti, gli unici che siano valorizzati come assoluti e intoccabili. Da questo punto di vista, il marxismo non è, per lui, una «calunnia» contro la borghesia.

Una variante di questa posizione epocale è data dalla prospettiva, politicamente ma non qua­litativamente opposta, che vede la libertà radunarsi tutta nello Stato, il quale da mezzo diviene così fine a se stesso e unico protagonista della storia, in con­trapposizione all’individuo. Lo Stato moderno è o troppo o troppo poco.

Si tratta di temi diffusi nel pensiero cattolico, in parte risalenti a Lamennais, declinati da Dossetti in chiave democratica, con un’attenzione alla rappresentanza politica non solo dell’ideologia, dell’opinione e degli interessi individuali, ma an­che (in una seconda Camera) dell’articolazione concreta della società nei suoi corpi intermedi (tema, questo, di derivazione, tra l’altro, gemelliana, ma lontano, per quanto riguarda Dossetti, da declinazioni corporative).

Allo Stato moderno Dossetti contrappone uno Stato né totale né corporato, ma «nuovo», che abbia come perno teorico la capacità intensamen­te politica di orientare, o «finalizzare» la libertà, ovvero di attuare la reformatio della società senza pretendere di crearla ma certo caricandosi del dovere di plasmarla, fino a farla diventare il cuore della vita associata: uno Stato, insomma, in grado, con la propria carica politica, di «assoggettare» l’economia, ovvero di rendere effettuale, con il potere politico, il controllo sociale su di essa, e di andare perfino al di là dell’interventismo statale contingente per giungere, attraverso la lotta contro le grandi concentrazioni di potere economico, fino alla dimensione del «piano». Uno Stato, quindi, non pensato attraverso lo statalismo giuridico formale, e che anzi da una parte è strumento, e pertanto realtà storica né prima né ultima – tale realtà è semmai, nella dimensione terrena, la per­sona ovvero il bonum humanum simpliciter –, ma che dall’altra si carica di una politicità che è anche socialità e moralità (non eticità nel senso gentiliano, certamente): la moralità della politica consiste nel combattere il male individualistico, l’egoismo, la cecità.

La prospettiva di Dossetti non è Stato-centri­ca. Semmai, sta nel rapporto con la trascendenza. L’ Assoluto, infatti, non è assente dalla riflessione di Dossetti ma non certo in modo tale da generare un fondamentalismo, sì piuttosto come una fonte d’ispirazione e di tensione o, se si vuole, come una fonte d’energia per un agire politico umano e con­creto, per quella “democrazia sostanziale” che è il volto storico del cristianesimo. L’apertura alla tra­scendenza è l’origine della possibilità che la libertà si apra all’altro, non si chiuda nell’egoismo. L’obiettivo politico di andare oltre la democrazia for­male borghese – una democrazia solo politica che lascia intatte le disuguaglianze e i centri del potere economico nella società, così che permane sempre la distanza fra istituzioni politiche democratiche e realtà sociale oligarchica – può essere posto, secondo Dossetti, soltanto attraverso una radicale reinterpretazione umanistica e cristiana della mo­dernità, del suo pensiero, dei suoi istituti giuridici, della sua alienazione strutturale. Una prospettiva che è certamente ispirata dalla dimensione religiosa ma non è per nulla ascrivibile a una teologia po­litica, neppure secolarizzata e democratica, perché ha la propria forza nella duplice consapevolezza dell’incompiutezza della dimensione terrena e del­la reciproca piena indipendenza di Stato e Chiesa, come recita appunto la Costituzione anche per impulso di Dossetti. Il rigore radicale di Dossetti è religiosamente generato: ma dalla religione la poli­tica trae la propria nobiltà e la propria doverosità, non certo soluzioni dogmatiche ai problemi della città dell’Uomo, soluzioni e problemi che vanno invece ricercate e individuati con lo strumento del sapere scientifico più avanzato.

Queste campiture intellettuali vanno contestualizzate storicamente. C’è in Dossetti – vicino, negli ultimissimi anni Quaranta e nei primissimi Cinquanta, a Felice Balbo – la percezione di una crisi agonica della civiltà occidentale, che si mani­festa, per lui, nelle trasformazioni dell’individuo, della società e dello Stato; una catastrofe che smen­tisce i presupposti e le finalità del liberalismo: con una panoramica di impressionante precisione e di lungimirante proiezione Dossetti vede infatti la scarsa efficienza del governo parlamentare, la sua incapacità di orientare responsabilmente la società, la debolezza dei partiti (tutti, con l’eccezione del Partito comunista, poco più che gruppi d’interesse), il dilagare della tecnica e della fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi politici, l’ingigantirsi della dimensione internazionale (nell’età in cui il mondo è diviso in due blocchi) come quella veramente centrale nella politica, l’affannarsi della politica domestica a inseguire (nella forma dell’assecondamento ben più che del governo) i fenomeni economici con un’attività normativa che trasforma la legge (che dovrebbe essere gene­rale e permanente) in una serie di provvedimenti instabili e contingenti, e infine l’inadeguatezza di un’amministrazione ancora tutta gerarchica (napoleonica, si potrebbe dire) davanti ai compiti nuovi. Insomma, la deriva della modernità razio­nalistica e liberale, e delle istituzioni statuali che ne sono nate.

Una crisi irreversibile, per Dossetti, appunto catastrofica, a cui il marxismo non è una risposta perché tutto interno all’immanentismo moderno, per quanto sappia cogliere alcune contraddizioni del liberalismo; e perché lontano dal metodo della libertà politica, eversivo nei contesti liberaldemocratici e totalitario nelle sue realizzazioni; incapace insomma di pensare veramente un ordine positivo e umano, oltre quello nichilistico e contraddittorio della modernità. Dossetti, quindi, combatte il mar­xismo, contesta la sua mitologia, ma a differenza dei conservatori non lo teme: semmai lo sfida in umanesimo, in radicalismo, in empito innovatore. Una crisi della modernità alla quale non è stata risposta adeguata il fascismo (anzi, troviamo in queste pagine un’esplicita tematizzazione della necessità di una formale conventio ad excludendum antifascista) ma neppure l’interclassismo o altre prospettive riformiste, subalterne al primato moderno dell’individuo e dell’economia, e alle sue contraddizioni (è presente una polemica anche contro Röpke, uno dei padri dell’ordoliberalismo). Fa eccezione il laburismo inglese, la cui vittoria elettorale nel 1945 Dossetti saluta con grande entusiasmo proprio perché vi vede non l’afferma-zione di un blando riformismo ma un evento che lungi dall’aggiungervi un capitolo mette, per lui, la parola fine al libro della modernità, lo chiude e ne apre uno nuovo. Una prospettiva un po’ forzata, evidentemente, ma indicativa di ciò che Dossetti chiedeva alla politica.

L’azione politica adeguata al superamento della crisi è stata la partecipazione di Dossetti alla Resistenza, alla Costituente, alla vicenda della Democrazia Cristiana. Un’azione politica incon­tentabile, accanita, impegnata e impegnativa, ma per nulla utopistica – chi conosce l’attività politica di Dossetti nelle due circostanze in cui è stato vi­ce-segretario della DC (documentate da ultimo in L’invenzione del partito, a c. di R. Villa), sa bene quanto duramente politica, concretamente pratica, e anche polemica, essa fosse. Un’azione che si è appuntata sulla costruzione dei prerequisiti della «democrazia sostanziale», ovvero in primo luogo a impiantare una Costituzione che non fosse un elenco di diritti statici ma che ne prevedesse ap­punto la finalizzazione a un umanesimo integrale, alla democrazia intesa come «massima espansio­ne della persona umana secondo i meriti». Una Costituzione progettuale, quindi, orientata dalle «norme di scopo» dei Princìpi fondamentali, per la cui formulazione Dossetti non ha avuto certo problemi a dialogare costruttivamente con Togliatti. Una Costituzione che prevede uno Stato forte, che tuttavia riconosca il pluralismo sia ideologico sia delle istituzioni sociali e politiche intermedie.

La sua parziale insoddisfazione, che serpeggia nella relazione del 1951, che gli fa considerare la Carta il «meno peggio» e non un compiuto «bene», deriva dalla circostanza che la spinta propulsiva di quella finalizzazione gli è parsa ben presto affievo­lita e che la concreta struttura dello Stato, dei suoi poteri, dei suoi organi, è rimasta più tradizionale di quanto egli avrebbe voluto, e di quanto reputava necessario a voltare pagina. Dossetti non temeva di ipotizzare un esecutivo ben più robusto di quello disegnato dai costituenti, e ben più lontano dai contrappesi del regime parlamentare, poiché era forte la sua idea di politica, il suo costruttivismo cristiano; come non temeva che lo Stato fornisse ai diritti individuali e collettivi garanzie fortemente gerarchizzate: erano proprio queste concretezze a fornire la possibilità che il popolo entrasse davvero, esistenzialmente, all’interno delle forme giuridiche democratiche, ne divenisse soggetto e non ne fosse oggetto. La politica italiana si stava sviluppando, a suo giudizio, in un contesto di involuzione com­plessiva e di affermazione dei vecchi poteri, molto abili a inserirsi nel mondo cambiato per perseguire con nuovi mezzi i propri vecchi fini di dominio. Era mancata insomma, dopo il grande sforzo reso­si necessario per superare con successo l’impianto formale liberale della Costituzione, la capacità, per lo Stato che voleva uscire dal proprio agnosticismo, di dotarsi non solo di nuovi fini personalistici ma anche di nuovi strumenti, di istituzioni nuove. Insomma, la lezione di Dossetti è stata imparata a metà: i cattolici hanno saputo apprendere a «non aver paura dello Stato», e a utilizzarlo ai propri fini – essenzialmente, a praticare la politica come freno della «inclinazione al male delle cose uma­ne», e promuovere il bene inteso come fioritura integrale della persona – ma non hanno saputo inventare le modalità istituzionali per appaesare il nuovo Stato in un mondo nuovo, per celebrare fino in fondo quell’alleanza fra cristianesimo e popolo che avrebbe dovuto sostituirsi alla vecchia alleanza fra Trono e Altare.

Sappiamo che fra il ‘51 e il ‘52 matura in Dossetti l’idea dell’insufficienza di una politica di “sinistra cristiana” – un’insufficienza generata dai ritardi della politica ancora ferma a un’età superata, quella del parlamentarismo, ma anche dalla divisione del mondo che spacca la politica italiana, e dalle chiusure della Chiesa; e sappiamo ancora che tale idea di insufficienza non spegne tuttavia la politicità intrinseca del suo pensiero, almeno fino all’esperienza bolognese del ‘56-’58, e al più tardo impegno sul Vietnam. E sappiamo infine che quando sul finire della vita Dossetti, che ne aveva criticato le debolezze, vide la Co­stituzione minacciata da tentativi di riforma che volevano segnare il trionfo, anche formale, della nuova realtà neoliberista nel frattempo sostituitasi a quella keynesiana, egli – che nella nuova passività promossa dal capitalismo sfrenato vedeva i rischi di un riaffacciarsi in forme nuove del vecchio fa­scismo – difese strenuamente la Carta che almeno incorporava, sia pure fornendo ad essi strumenti non adeguati, i princìpi fondamentali che orienta­vano lo Stato verso la “democrazia sostanziale”, e non facevano della repubblica la semplice custode degli assetti di potere delineati dalle libertà econo­miche. La democrazia sostanziale doveva rimanere quanto meno un progetto possibile, un orizzonte e un orientamento, e non essere cancellata dall’orizzonte, formale e progettuale, della politica italiana.

La preoccupazione di “ispessire” la demo­crazia, di disegnarla come una forma politica non semplicemente contrattuale o procedurale ma anzi di dare spazio, in essa, alla esistenza concreta di cittadini legati non solo dal contratto utilitaristico o dall’idea di giustizia, di pensarla quindi come la cornice del flourishing delle singole persone nei loro contesti culturali, è largamente diffusa anche nella filosofia politica contemporanea, che tuttavia resta in buona parte interna a un paradigma libe­rale allargato ad accogliere “valori”, e che quindi si differenzia, prevalentemente, dal pensiero politico di Dossetti, segnato da una verticalità e al tempo stesso da una concretezza sociologica che la filoso­fia politica contemporanea difficilmente persegue. Inoltre, i nostri tempi per molti versi – definitiva scomparsa dei partiti, personalizzazione integrale della lotta politica, crollo del comunismo reale, emergere delle questioni del multiculturalismo, in­cremento del peso della dimensione sovranazionale sulle politiche domestiche, parallelo rafforzarsi delle competenze securitarie degli esecutivi, crollo dell’idea di progresso, incremento delle disugua­glianze sociali, progressiva marginalizzazione del lavoro – sono lontani da quelli in cui nacquero le riflessioni e le posizioni qui raccolte. Ma per altri versi presentano sconcertanti analogie: la crisi del parlamentarismo, il tramonto della centralità politica della forma-legge a favore del decreto o del provvedimento, e in generale la rinuncia della politica a governare il presente secondo categorie e fini esterni alle logiche economiche, e a istituire al­ternative: una rinuncia che si è rovesciata ai nostri giorni nell’ideologia dell’assecondamento politico del capitalismo come unica forma possibile e pen­sabile della società, e che ha come obiettivo una pseudo-democrazia apolitica, risolta nelle proce­dure tecniche di valorizzazione e nella rimozione degli ostacoli al pieno funzionamento del capitale nella sua presunta neutralità. Con il risultato che la libertà è finalizzata non al fiorire della persona nell’uguaglianza, secondo i meriti di ciascuno, ma al profitto di pochi.

Certo, nel pensiero di Dossetti echeggia una stagione di quasi-onnipotenza della politica, una stagione in cui la politica credeva ancora in se stessa come principale potenza trasformatrice; una stagione che sembra ormai trascorsa. Nondimeno, la sua lezione è di impressionante attualità. Vi sono, indubbiamente, in primo luogo, una precisione concettuale, un rigore categoriale, una sostenutez­za dell’argomentare, che hanno una trattenuta ma potentissima capacità espressiva e che emanano una limpidezza morale che incute vero rispetto. Senza che assuma movenze fanatiche, in Dossetti la politica diventa un dovere, e proprio per questo egli può ricercarne il potere: per capacità analiti­ca, per realismo e senso pratico, per ispirazione spirituale, Dossetti va ben oltre l’indignazione, attitudine un po’ facile e a volte paradossalmente disimpegnata.

Ma, ancora più concretamente, alcuni degli obiettivi che egli si pone sono condivisibili da chi affronta in modo critico le questioni politiche dell’oggi: ridare alla politica la capacità di essere un’interrogazione sui fini della società e non solo un assemblaggio di disuguaglianze coperte dall’uguaglianza formale di diritti più o meno ca­suali; perseguire quindi una non estremistica ma radicale politicizzazione della società, nel senso che la politica (lo Stato) sappia dirigere la società individuando e sollecitando in essa, con metodo democratico, ragioni e forme, diritti e poteri; im­maginare infine una democrazia che non si limiti a essere metodo – infatti, quando la democrazia vuol essere soltanto tale, lo stesso metodo (la legalità) non viene rispettato e si rovescia in informità, in eccezione permanente – ma voglia invece essere energia politica di confronto e di competizione, e costituire la forma giuridica di sostanze storiche e di concretezze sociologiche.

La consapevolezza che la politica è potere di governo carico di responsabilità e di finalità, che senza politica non c’è democrazia umanistica ma solo l’ordine non umano della tecnica e la pro­spettiva inumana della sopraffazione universale, è il senso più radicale della posizione politica democratica di Dossetti. La quale è stata una possibilità che, per quanto non certo inerte, non è divenuta pienamente realtà, a suo tempo, benché abbia fecondato parte della riflessione e dell’azione della sinistra cristiana nell’Italia del dopoguerra. Una possibilità che – in dialogo con la laicità più pensosa e meno ideologica, con il pensiero critico più responsabile e meno “alla moda” – dovrebbe ancora essere coltivata perché si inneschi quel grande ripensamento della democrazia di cui il nostro Paese mostra di avere oggi un così grande bisogno. Un ripensamento che tragga origine dalle potenzialità che, anche per opera di Dossetti, sono implicite nella Costituzione, e che, anziché “supe­rarle”, le renda finalmente realtà.

 

Prefazione a G. Dossetti, Democrazia sostanziale, a cura di Andrea Michieli, Marzabotto, Zikkaron, 2017.

Bologna e la svolta centrista del Pd

Non è strano che Casini ed Errani si confrontino alle elezioni a Bologna. Gli eredi di due tradizioni così caratterizzate, come il centrismo forlaniano e la sinistra amministrativa emiliana, stanno bene in due formazioni politiche differenti, come differenti sono le loro idee sul rapporto fra pubblico e privato, sull’organizzazione dei servizi sociali, sui temi del lavoro. Un po’ strano, semmai, è che il primo, Casini, sia candidato nelle liste del Pd, partito di centrosinistra, e l’altro, Errani, ne sia uscito e si presenti per Leu, formazione senz’altro di sinistra, ancorché “di governo”. Generando così, in alcune aree della “rossa” Bologna, un notevole sconcerto, perché alcuni (o molti) che in modo pressoché automatico avrebbero votato Errani – ex presidente della Regione, stimato per capacità personale – si sentono ora chiedere di votare per Casini, stimabile anch’egli ma giustamente alieno dal presentarsi come un esponente della sinistra.

Casini invita a un fronte comune anti-populista; un “voto utile”, insomma, uno “scudo” contro M5S e Lega; un voto che si confronti con i problemi del momento – la sfida degli estremismi –. Errani sostiene invece che sono appunto i problemi del momento a esigere che il voto utile sia quello dato a Leu: sono state le politiche del Pd, infatti, a generare quella crisi sociale dentro la quale si formano le minacce alla democrazia; sono quelle politiche che vanno cambiate, in una logica di discontinuità che ponga rimedio ai danni del passato.

In realtà, la “strana” candidatura di Casini per il Pd a Bologna è il segno, non strano, di una trasformazione centrista di quel partito, cioè di una strategia, seguita alla “non vittoria” di Bersani nel 2013, di apertura del Pd al centro per catturare i voti dell’area moderata che aveva scelto Berlusconi, giudicato ormai declinante dal giovane segretario Pd. Il maggiore successo di questa linea fu il 40% del “partito della nazione” alle elezioni europee del 2014 (un capitale di consensi ormai dimezzato), e il costo maggiore fu la fuoriuscita dal Pd di una parte notevole del gruppo dirigente ex-comunista, che ha seguito, per cercare di recuperarlo, l’elettorato di sinistra deluso dal Pd di Renzi.

La candidatura di Casini a Bologna, ma più in generale la composizione delle liste elettorali del Pd, è il segno che Renzi insiste nella sua strategia centrista: non più perseguendo il sogno maggioritario, ma un’alleanza, per “stato di necessità”, con FI. Le stesse “grandi intese” su cui si è retta la XVII legislatura, con i governi Letta, Renzi, Gentiloni (la defezione di Berlusconi, nell’autunno del 2013, fu compensata dalla permanenza di Alfano). Ora, in campagna elettorale, Renzi e Berlusconi smentiscono di volere praticare accordi di larghe intese, per non regalare voti ai nemici degli “inciuci”. Ma è evidente che se i numeri le renderanno necessarie e possibili le larghe intese si faranno: lo scenario “spagnolo” delle elezioni ripetute a breve termine sarebbe troppo destabilizzante per il Paese, e d’altra parte i neo-eletti resisteranno certamente a un’ipotesi di scioglimento anticipato. Per di più, la continuità delle politiche di risanamento economico e di prudenza fiscale è raccomandata con tanta insistenza dalle istituzioni europee da far comprendere fin d’ora quanto forte sarà la pressione perché, se non ci sarà un vincitore netto, non cambi lo schema attuale: governo di convergenza al centro del centrosinistra e del centrodestra, depurato dagli estremisti.

Una soluzione rassicurante per chi è interno all’establishment, certamente, che tuttavia si espone al rischio di non rappresentare le aree disagiate della società, se la crescita economica si fermerà o sarà incapace di porre rimedio alle ferite sociali e psicologiche che la Grande Crisi ha inferto al tessuto del nostro Paese. Una soluzione difensiva, di cui la candidatura di Casini è l’espressione certo non indegna ma del tutto esplicita.

 

L’articolo è stato pubblicato in «la Repubblica Bologna», l’11 febbraio 2018

“Socialismo liberale”. Tre significati di un libro importante

Fiumi di inchiostro sono stati scritti, giustamente, su Carlo e Nello Rosselli, sul loro assassinio, sul loro contributo al pensiero e alla pratica politica. Da appassionato non specialista desidero proporre in questa sede alcune riflessioni, non di circostanza, sul significato che la loro vicenda può rivestire per noi, oggi. E, data la mia professione prevalente, quella di storico delle dottrine politiche, prenderò spunto dal libro di Carlo, Socialismo liberale.

Il suo primo significato è morale ed emotivo. Ovvero, è un libro emozionante, commovente. Questa vera icona della democrazia, pubblicato in Francia nel 1930, è stato scritto fra il 1928 e il 1929 al confino a Lipari, dove l’autore si trovava per aver fatto fuggire dall’Italia, nel 1926, Filippo Turati, con l’aiuto, tra gli altri, di Olivetti, Pertini e Parri. E poco prima di fuggire egli stesso dal nostro Paese, divenuto un’unica grande prigione per gli spiriti liberi. Sullo sfondo, tre morti: Matteotti, Amendola, Gobetti. Siamo, evidentemente, nella leggenda dell’Italia democratica, nel novecentesco mazzinianesimo più intrepido, in piena continuità ideale con quello ottocentesco. Nasce qui il legame diretto fra Resistenza e Risorgimento.

E siamo così al primo grande insegnamento. La politica è attività pratica di libertà, affermazione di indipendenza e di intransigenza, capacità di resistenza all’oppressione e al conformismo. È slancio e rischio. La potenza dell’organizzazione, le ragioni della compattezza e dell’obbedienza, il rifiuto dei narcisismi individualistici, sono, certamente, condizioni importanti della lotta politica, enfatizzate soprattutto nella storia del partito comunista. Ma il coraggio morale individuale, la libertà di pensiero e di azione, non possono non essere alla radice dell’impegno civile e politico, in ogni tempo. Il saper dire di No, a proprio rischio, deve venire prima del saper dire di Si.

Il secondo significato è storico-intellettuale. Socialismo liberale indica come programma politico: «il socialismo deve farsi liberale e il liberalismo sostanziarsi di lotta proletaria». Con questa frase, scritta in un momento in cui in Italia e in Europa la linea politica egemonica non era né socialista né liberale, nonostante ci fosse spazio ancora per i Fronti popolari in Spagna e in Francia, scritta cioè quando le borghesie non erano più liberali, e i socialismi erano sulla difensiva, rispetto ai fascismi e anche rispetto ai comunismi di obbedienza moscovita, Carlo dissociava il liberalismo dai borghesi – salvo gli elogi per gli imprenditori e i grandi capitani d’industria, una piccola frazione della borghesia – e ne faceva una energia metapolitica, uno spirito di libertà e di umana liberazione, un metodo di rinuncia alla violenza in nome della ragione, di affermazione dell’autodeterminazione contro la coercizione, che intestava ormai non più ai borghesi, asserragliati nella ridotta di uno Stato capitalistico difeso dai fascisti contro i proletari, ma alle forze attive e rivoluzionarie, ai poveri e agli oppressi: ai soggetti che avevano animato il socialismo. A questo erede del liberalismo, del quale doveva essere degno, Carlo chiedeva molto: la rinuncia al catastrofismo di Marx e alla sua filosofia deterministica della storia – così il marxismo era allora prevalentemente interpretato -, il superamento sia dei residui utopistici, mitici e messianici presenti nell’ideologia sia delle riserve sulla democrazia liberale che avevano dato una patina di legittimità al fascismo; chiedeva poi che il socialismo si ponesse come obiettivo non la socializzazione ma la democratizzazione delle fabbriche, non l’accentramento ma l’autogestione, e rinunciasse anche al cinico realismo che crede di essere machiavellico, di saper calcolare i rapporti di potere, ma è invece solo la passiva adorazione dei fatti compiuti (dagli altri).

In questa ricerca dell’azione, nello spirito del liberalismo e nella pratica del socialismo, in questo affermare la libertà come emancipazione attiva delle masse e come svolgimento libero della personalità, in questo fare del socialismo, in quanto aderente al metodo liberale, lo sviluppo logico della libertà moderna, Carlo dimostra la propria fede nelle potenzialità della modernità, nel pieno dispiegamento in positivo delle sue risorse, che la coinvolge tutta: la Riforma, l’illuminismo, la scienza, lo sviluppo economico, la rivoluzione francese, e, ma solo in parte, quella russa. Una fede che tuttavia non è superstizioso automatismo, né progressismo positivistico: egli declina la sua idea di libertà, in ciò seguendo Gobetti, non come scetticismo ma come relativismo, cioè come un ideale che necessita, per realizzarsi, del libero arbitrio umano. Da lettore di Sorel – oltre che di Croce dal quale assume con ogni evidenza l’idea metapolitica di liberalismo -, egli sa che il socialismo liberale, erede dello spirito critico moderno, non dogmatico né fideistico, «sarà, ma potrebbe anche non essere». E lo affida quindi alla volontà, all’impegno, e non alla necessità dello sviluppo storico. In inconsapevole e autonomo parallelismo con Gramsci, quindi, anche Carlo, pur nell’avversa fortuna, non rinuncia alla politica, alla prassi, all’azione. Per quanto meno strutturato teoreticamente del grande filosofo marxista, per quanto portato a supplire con la generosità alle difficoltà di coniugare liberalismo e socialismo come dottrine, Carlo tratteggia nel suo libro un progetto ambizioso ma non utopico, un incontro fra culture politiche diverse che avverrà quindici anni dopo, quando democratici, socialisti e comunisti sapranno dialogare e collaborare nello scrivere insieme ai cattolici, dopo una guerra di liberazione combattuta fianco a fianco, la Costituzione della repubblica. Nella quale molte delle suggestioni di Socialismo liberale troveranno solenne e duratura affermazione, a testimonianza del carattere profetico, nobilmente inattuale ma per nulla velleitario, del libro, in cui non sono state disegnate chimere ma delineate possibilità che sono divenute principi fondamentali della Costituzione – si pensi all’articolo tre, che affida allo Stato sociale democratico la realizzazione di un programma emancipativo di massa, i cui contenuti non sono certo lontani dal socialismo liberale di Carlo -. Insomma, il senso del libro non sta solo in un’esortazione morale al coraggio, ma anche in un’analisi ben centrata delle forze in campo, delle questioni aperte. Che Carlo individua, giustamente, nel problema di portare le masse all’interno delle istituzioni e della società, in superamento del liberalismo ottocentesco e del socialismo marxista, e in opposizione rispetto al fascismo, che stava organizzando il popolo per vie illiberali e antidemocratiche.

Il terzo significato, infine, è squisitamente politico e d’attualità. Sia chiaro: enormi sono le differenze fattuali tra la situazione del tempo in cui il libro fu scritto e quella che sperimentiamo oggi. Fascismo e comunismo, socialismo e liberalismo (nell’accezione rosselliana), da tempo non esistono più. Soggettività borghesi e masse proletarie, nemmeno (ricchi e poveri, invece, sì). Oggi il problema politico non è certo moderare l’estremismo socialista e sconfiggere il fascismo, ma semmai fronteggiare quel nuovo determinismo, quella nuova filosofia della storia, che è la narrazione neoliberista, che inneggia alla presunta necessità del «There is no alternative», e riuscire a misurarsi con le potenze economiche, politiche e culturali che hanno scardinato il socialismo liberale, la liberaldemocrazia ovvero la socialdemocrazia, e che mettono a rischio la democrazia stessa.

È qui che Socialismo liberale torna d’attualità. Nell’insegnare la ribellione contro il conformismo, la resistenza contro lo «spirito del tempo» se questo è illiberale o inumano, nel ribadire inflessibilmente l’origine democratica e la destinazione umanistica del potere, nel porre come obiettivo della politica la pienezza civile, morale, economica e sociale di tutti, e non le compatibilità del mercato. La libertà, la giustizia, l’uguaglianza, quindi, non come vuoti slogan, refrain da imbonitori, merce abusata sul mercato della comunicazione pubblica, ma brucianti ideali per i quali vale la pena vivere. Anche se oggi, almeno finora, non è più necessario morire.

Un’attualità tuttavia non declamatoria, ma sostanziata d’esperienza reale, di passione e di concretezza; un’attualità di metodo, di ispirazione, che sconta una discontinuità di contenuti, di circostanze, di contesti: la decifrazione e l’individuazione di problemi e di strategie politiche sono ovviamente a carico nostro, nostra responsabilità e nostro dovere. Oggi, insomma, l’obiettivo è certamente resistere, non cedere allo scoramento, affermare che la democrazia non è accontentarsi delle briciole del pranzo dei potenti (secondo l’ideologia neoliberista del trickle down) ma la libertà materiale e morale di tutti e di ciascuno. E cercare di capire come il capitalismo possa nuovamente convivere con la democrazia, o se invece la possibilità di questa convivenza, un tempo perseguita dalla politica, sia ormai fuori dal novero delle realistiche eventualità. E trarre le conseguenze.

Nella politica come dovere appassionato e come impegno pratico di liberazione individuale e collettiva, quindi, vedo oggi il significato più vero e più vitale di quella concretezza priva di cinismo, di quel coraggio civile, di quello slancio verso l’affermazione della dignità dei cittadini, di quell’immaginazione ardita e realistica, che vibrano in Socialismo liberale e che hanno trovato in Carlo Rosselli un testimone e – etimologicamente e drammaticamente – un martire.

 

Intervento tenuto il 17 ottobre 2017 a Roma, presso la Biblioteca del Senato della Repubblica «Giovanni Spadolini», in occasione del convegno «L’attualità dei Rosselli», organizzato dalla Fondazione Circolo Rosselli. Il testo è stato pubblicato in «Quaderni del Circolo Rosselli», 2/2018, pp. 55-58.

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