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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

giugno 2019

Interventi su Machiavelli

Non ci resta che Machiavelli

Che sia stato il consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Nicolò, era il diavolo), oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo della politica moderna come un magma ribollente di energie e di sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a uscire solo alla metà del XVII secolo. La via dell’ordine sarà allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo. E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla filosofia costruttiva dell’illuminismo, quella progressiva e rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti, i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra economia, psicologia di massa, politica.

È questo ordine liberale del mondo a essere oggi  in crisi, con le sue certezze, le sue ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non nella fase della loro crisi.

Sta qui il vero significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la politica moderna si è presentata in tutta la sua  potenza, prima che prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi vacillano. Nelle recenti interpretazioni di Machiavelli – a titolo esemplificativo, quelle di Ciliberto, Asor Rosa, Ginzberg, Marchesi –, è evidente l’interesse a confrontarsi con un pensiero che si genera dalla crisi, che non la inserisce in una rassicurante narrazione. L’interesse, cioè, non a misurare lo Stato e il suo funzionamento a regime, ma di fondare un ordine ex novo; non a maneggiare norme e regole, ma di fronteggiare l’eccezione, di constatare come la libertà umana, l’umana capacità di dare forma ordinata al mondo (la “virtù”), sia insidiata e smentita dalla contingenza, dal caos imprevedibile degli avvenimenti (la “fortuna”); come il “riscontro” fra ragione e realtà – il successo dell’agire umano – non sia garantito da alcun algoritmo, né da alcuna provvidenza, da alcuna tattica (sia questa l’ “impeto” o al contrario il “rispetto”).

Ciò che è al centro degli studi machiavelliani, oggi, al di là del loro valore storiografico, è il recupero dell’insegnamento più radicale di Machiavelli: che la politica è l’espressione più alta e più tragica dell’instabilità del reale, e che se ne devono fronteggiare animosamente e accortamente gli aspetti inquietanti, le dinamiche sfuggenti, con un pensiero non astratto, non precostituito, non semplificatorio: non una teoria generale da applicare alla realtà, ma un pensiero nervoso, acuto, in chiaroscuro, aperto al confronto continuo con le pieghe e le insidie del reale. Davanti all’evidenza che il reale non è né razionale né interamente razionalizzabile, Machiavelli è il pensatore non della  forma ma della metamorfosi; non della netta separazione fra ordine e disordine, fra “lupo” (l’uomo in natura) e “cittadino” (l’uomo dentro lo Stato), ma della loro commistione. Per lui, ogni circostanza politica reale si presenta spaccata in due, come un dilemma che va minuziosamente analizzato per coglierne le contrapposte potenzialità; per lui, ogni regola esiste solo nel momento in cui è attraversata da eccezioni; e la ragione,  la valutazione delle forze in campo e dei loro rapporti, il calcolo lungimirante delle conseguenze, coesiste con la consapevolezza che le situazioni possono essere forzate da un’azione spiazzante, “pazza”, nella disperata speranza di controllare, almeno per un po’, il corso della fortuna.

Machiavelli pensa la irrazionalità della politica, la sua drammatica contraddittorietà, ma senza essere un irrazionalista; pensa il destino delle umane costruzioni di “ruinare”, ma senza rassegnarsi alla sconfitta e all’inerzia; pensa non per teorie, ma dall’interno delle situazioni di crisi, per capirle e per risolverle. Non è un filosofo politico, ma un politico filosofo, un uomo d’azione che riflette sull’azione e che  modifica la propria riflessione dentro le contingenze in cui si imbatte.

Eppure non è un opportunista: ha combattuto per un’idea repubblicana contro il potere mediceo, e sempre ha avuto in mente la salvezza dello Stato, di quello fiorentino e di quello italiano che non si è formato, come sarebbe stato necessario, con la conseguente rovina del nostro Paese. E non è neppure un decisionista nel senso di Carl Schmitt – che infatti non lo ebbe tra i suoi autori preferiti –: il decisionismo è il rovescio irrazionale del razionalismo della macchina statale moderna, mentre in Machiavelli vibra sempre la concretezza umana della politica.

Enigmatico come la politica in cui è immerso, a questa ha dedicato la vita, nello sforzo di pensarla fino in fondo e di darle un ordine: uno sforzo che egli sapeva destinato a non avere successo e che tuttavia era l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere. Umanista – la sua scrittura audace e immaginosa è uno dei più alti godimenti che offra la lingua italiana – non fu un “letterato” che si rifugia nelle frivolezze e nelle fiabe: fu umanista perché esperto delle cose umane, quindi pessimista ed energico al contempo. Concreto, intelligente, appassionato, scettico, potente e ironico, il suo ingegno è analogo per certi versi a quello di Leonardo, impaziente e minuzioso, geniale e artigianale al contempo.

Non è quindi necessario che di  Machiavelli si faccia un totem; che si ripeta, in forme nuove, la sua storica lezione – che l’Italia ha bisogno di un capo e di un popolo che si sostengano a vicenda per rifondare uno Stato corrotto e snervato dalla religione cristiana –; non sta nell’invocarlo  a ogni crisi della nostra Italia il significato più profondo del ritorno di Machiavelli. Quel significato sta piuttosto nell’esigenza, che attraverso di lui si manifesta, di ripensare radicalmente  la politica, di prenderla sul serio, di non lasciarne il senso al diritto, all’economia, alla morale. L’esigenza – che anch’egli provò, ma che è da calibrare sulle crisi dei nostri giorni, che non coincidono con quella che egli conobbe – di  farsi coinvolgere nella politica, come in un destino che si riaffaccia perentorio ed elusivo, non più trattenuto da schemi e istituzioni ormai scricchiolanti. Ritorna la politica, insomma, e quindi ritorna Machiavelli, come possibile alternativa agli esiti di quella modernità che egli ha grandiosamente aperto.

Pubblicato in «Corriere della Sera – La Lettura», 9 giugno 2019

Élite e popolo. Il confronto che dura da secoli

Machiavelli pensa la politica a partire dall’esperienza concreta, e dall’esigenza, del resto ovvia, che l’agire politico sia efficace. Quindi la politica deve obbedire alle esigenze interne alla «cosa stessa», alla logica del successo, della sopravvivenza e dell’accrescimento della potenza, e non può affidarsi a precetti morali astratti, a priori. Machiavelli pensa in una fase storica in cui da tempo il rapporto fra religione e politica non è più vitale – di lì a poco quel rapporto diventerà mortale, sarà la causa delle guerre civili di religione in Europa, che nondimeno egli non fece in tempo a vedere –. Una fase storica in cui la politica si carica di intensità, di autonomia, di rischiosità (quel rischio che egli definisce «fortuna»).

C’è tuttavia in lui, oltre al realismo di chi cerca di conoscere e padroneggiare ciò che «è» – ossia i concreti rapporti di potere, i conflitti, le occasioni per difendersi e per offendere –, anche una sorta di realismo del «dover essere»: l’agire politico non può esporsi al disprezzo e all’odio di chi nella politica è comunque coinvolto, cioè del popolo. Una sorta di «consenso», di condivisione di ideali e di interessi, fra élites e popolo, è sempre richiesto; perché l’agire politico sia vitale e condiviso deve essere concreto, adattarsi alle circostanze, essere iscrivibile in un senso comune, produrre egemonia. La politica non è solo tecnica del potere; o meglio, il potere non è solo tecnica: è accortezza e forza (volpe e leone), è agire efficace condiviso, è prassi comune. Il principe non è un profeta disarmato che crede che gli Stati si governino con i Paternostri, ma non è neppure un tiranno avido e crudele: anzi dà le armi al popolo; la repubblica, poi, vive del conflitto (non totale, ma neppure del tutto neutralizzato) fra le parti sociali per la conquista del potere.

Insomma, il pensiero di Machiavelli non consiste in un manuale di consigli (malvagi) ai potenti, come pure fu interpretato per secoli: sarebbe una sorta di moralismo rovesciato, un’astrazione di segno diverso. Consiste piuttosto nella scoperta della forza e della rischiosità della politica, della sua necessità (non ne possiamo fare a meno) e della sua aleatorietà (è un territorio sempre insidioso, non sorretto da alcuna configurazione etica trascendente, né da alcun ordine razionale). È, questa, una scoperta paragonabile a quella, più o meno coeva, dell’America, di un nuovo mondo.

Tutto ciò è assai lontano non solo dal modo tradizionale di pensare la politica come parte di un’etica religiosamente fondata, ma anche dalla modalità con cui il pensiero moderno mainstream pensa la politica: cioè come contrapposizione fra individuo privato, dotato di diritti morali ed economici, da una parte, e potere pubblico dall’altra. Questa modalità ha avuto una valenza critica verso il potere assoluto, ma più spesso è ormai solo lo strumento della delegittimazione radicale fra avversari. Al contrario, il pensiero di Machiavelli non è individualistico, né moralistico, e neppure economicistico: non si fonda, insomma, su diritti dei singoli, delle persone, da rispettare, da implementare e da difendere rispetto allo Stato. E non prevede neppure la costruzione dello Stato attraverso un contratto razionale che coinvolga tutti i cittadini in vista di un bene comune – la pace, in cui i singoli possano perseguire i propri fini, soprattutto economici, sotto la protezione della legge –. La proprietà, la legalità, il singolo, hanno certamente un posto nel suo pensiero: non li si può violare con leggerezza, li si deve rispettare quando si può, ma la politica non si riduce alla loro affermazione e alla loro difesa: è molto di più. È energia, è determinazione – decisa, e tuttavia sempre incerta – di un destino collettivo; è partecipazione libera alla vita collettiva, ai suoi conflitti di potere, alle sue aspre necessità, alle sue glorie mondane.

Sta qui l’intrinseca moralità della politica. La politica è morale non perché debba rispettare alcuni principi ad essa esterni o superiori, ma perché è principio di se stessa, dovere a se stessa. Non perché si inchina alla trascendenza ma perché prende sul serio l’immanenza. Non perché nasce dai diritti e dalla volontà dei singoli, ma perché l’uomo raggiunge la propria pienezza solo se vive la politica, se vive civicamente; altrimenti è un uomo «privato», diminuito. Oggi diremmo «alienato». Il privato è un uomo dimezzato sia che conduca una vita sociale pensando solo al denaro e alla ricchezza; sia che voglia condurre la vita seguendo la morale religiosa, astratta, perché ciò può avvenire solo se si ritira in convento. Lo schema che contrappone i diritti individuali al potere politico, o la morale alla politica, non fa parte del pensiero di Machiavelli, che si costruisce piuttosto intorno allo schema inerzia-energia, privato-civile.

La grandissima nuova attenzione a Machiavelli, che oggi si constata, significa che si sente un nuovo bisogno di politica. Di una politica che, certo, ripristini il rispetto per l’uomo e per i suoi diritti (che per noi, a differenza che per Machiavelli, sono primari, e che sono spesso violati benché tutto il mondo occidentale li ponga a proprio fondamento), e che li ripristini proprio attraverso la critica della riduzione della politica ad ancella dell’economia, o della morale; attraverso, cioè, la ripresa di una politica attiva, energica, partecipata, non individualistica, economicistica o moralistica. Di una politica, quindi, che non sia solo «richiesta» di diritti, ma che sappia essere «conquista» di una più piena umanità. Insomma, oggi una decente democrazia si conquista grazie alla politica, più che con il ricorso alla morale – fin troppo utilizzata, da tutti, come mezzo di lotta politica –, e certo ben più che con il dominio sfrenato dell’attività economica privata. Cioè grazie alla lotta, alla partecipazione, alla serietà spregiudicata ma non arbitraria, che Machiavelli individua come essenza della politica. A differenza di quanto credeva don Ferrante, il Segretario fiorentino non è «mariuolo, ma profondo»; piuttosto, è «realista, ma umano». Per questo oggi il suo lascito non è più  oggetto di critica scandalizzata, e anzi entra a far  parte di ogni pensiero veramente critico.

Pubblicato nella rivista «formiche», n. 147, maggio 2019, pp.36-37

 

 

 

 

 

Pensiero forte in tempi minacciosi

 

Per chi appartiene alla mia generazione ha l’effetto di una madeleine reincontrare Marcuse filosofo politico. Questi testi inediti o poco conosciuti risvegliano nella memoria le antiche emozioni intellettuali, le antiche ingenuità e gli antichi ambivalenti ideali. Per parafrasare quanto fu detto di Heidegger da Löwith, nel leggere Marcuse era incerto se ci si dovesse dedicare a tempo pieno allo studio della Fenomenologia dello Spirito o insorgere contro il dominio filisteo e repressivo del ‘sistema’. O forse entrambe le cose, poiché in fondo si trattava, nella testa dei giovani che siamo stati – e dello stesso Marcuse –,  della medesima cosa.

La potenza della filosofia classica tedesca, che qui risuona, sta proprio in questa confusione (o fusione) fra vita e sapere, fra politica e gesto conoscitivo, fra analisi e passione intellettuale, fra rigore scientifico ed emozione. È difficile che chi non ne ha fatto esperienza – o chi a ciò sia sordo – possa comprendere e consentire alla potenza del pensiero; come è difficile che ancora oggi parte della gioventù vi si possa sottrarre, anche se oggi il veicolo dell’innamoramento filosofico-politico può non essere Marcuse ma qualche altro pensatore più di moda.

Ma la lettura di Marcuse non attinge l’unico risultato di farci ripensare con rimpianto a un’età di giovanili entusiasmi – che hanno dovuto essere disciplinati per altre vie, e messi alla prova di altre strutture di pensiero –; c’è, in queste pagine, persistente, una sfida, connaturata alla forma della sua espressione filosofica. Una sfida che è ancora e sempre la nostra sfida: decifrare la politica attraverso la filosofia, e così intervenire in quella, per criticare le sue strutture reali e i suoi saperi specialistici – le scienze economiche e sociali in primo luogo – con quello «spirito di contraddizione reso sistema» che è il sapere filosofico. Una contraddizione che non vuol essere ignoranza ma superiore sapienza; e che consiste nello storicizzare i saperi della politica (in entrambi i sensi del genitivo), nell’attraversarli per mobilitarli, nel mostrarne la riconducibilità a un  orizzonte epocale determinato e quindi all’esigenza del suo superamento. La sfida, l’obiettivo, è proprio quanto Marcuse indica espressamente in queste pagine, ovvero la mediazione critica radicale, e al tempo stesso concreta, del pensiero ‘scientifico’ che si presenta come mediazione immediata, oggettiva e che risulta un sapere strumentale interno a un orizzonte non sottoponibile a critica.

È evidente che questo obiettivo, ora come allora, implica che la critica debba misurarsi con lo sviluppo della filosofia nel XX secolo, e, ancor prima, nella modernità; compito che Marcuse svolge, nel suo tempo (che fu il tempo della generazione precedente la nostra, e anche della nostra) fronteggiando gli sviluppi a lui contemporanei della filosofia tedesca, ma anche confrontandosi con la “scoperta dell’America” che sperimentò nel viaggio coatto, e senza ritorno, “da sponda a sponda”; e, politicamente, cercando di decifrare il fascismo, lo stalinismo, e il neocapitalismo. Armato, in ciò, del più raffinato pensiero dialettico disponibile al tempo –  un pensiero marxista fecondato da Hegel, Lukács, Heidegger  e Freud – che egli utilizza in una personale lotta contro il “positivismo”, per molti versi analoga al disvelamento della “dialettica dell’illuminismo” operato dai suoi compagni Horkheimer e Adorno.

Su questa lotta conviene soffermarsi un po’, dato che per “positivismo” Marcuse intende il positivizzarsi del pensiero razionalistico moderno e anche di quello dialettico (nel Diamat sovietico), ovvero il chiudersi e il rovesciarsi delle istanze di emancipazione che erano alla base della modernità borghese (in quello che definisce “giusnaturalismo”); una dinamica di positivizzazione che implica la negazione della pulsione originaria del Moderno verso un mondo nuovo, e che si ribalta nell’affermazione che quello del dominio capitalistico (e del comunismo sovietico) è l’unico mondo possibile – il fascismo è una variante estrema di questo processo –; in nessun punto o passaggio di questa trasformazione il  positivismo, sottomettendosi all’autorità del dato e oggettivando anche la libertà, consente alcuna reale resistenza o critica allo Stato amministrativo e la sua razionale imposizione di  sicurezza.

Oggettività del dominio e passività del sapere, quindi; e la soluzione di Marcuse passa per la dialettica, a iniziare da Hegel (senza fermarvisi), cioè per la promessa di un pensiero che in sé è già azione e non solo conoscenza, che è storico e non naturalistico, e che vuole portare la sostanza, l’oggetto, a piena soggettività, attraverso la potente molla della autocoscienza e della coscienza infelice. La dialettica dell’ente storico (il giovanile apprendistato filosofico presso Heidegger lascia più di una traccia) non liquida il divenire come apparenza, e non parcellizza né segmenta il movimento reale all’interno di rigidi apparati di pensiero e di specialismi: anzi, sa tenere insieme la determinatezza più radicale con l’idea del Tutto, del sistema che spiega la parte (in un’ottica marxista, evidentemente il proletariato) e vi si rivela. Naturalmente, quella di Marcuse vuol essere non una dialettica apologetica, che sarebbe l’immagine speculare del dominio, ma una dialettica negativa, che vuole liberare e mobilitare la negatività del presente passivizzante e reificante, e lasciar emergere la potenza dell’antagonismo, della negazione attiva e soggettiva.

L’esperienza storica di Marcuse – fascismo, comunismo, capitalismo – è dominata dalla questione se l’antagonismo possa realmente dispiegarsi, se esista un possibile superamento del dominio, se il dover essere implicito nel pensiero dialettico –  cioè che le cose corrispondano al loro concetto, dato che la dialettica abolisce l’oggettività imposta –, abbia ancora un significato. La risposta di Marcuse è stata diversa nelle diverse fasi della sua vita, ma si è progressivamente indirizzata verso la consapevolezza che la negazione dialettica non ha più spazio – sociale, politico, intellettuale – per svilupparsi all’interno del “sistema”, che anzi viene essa stessa da questo negata in un regime di universale omologante illibertà. Dalla «disperazione del concetto dialettico» procede lo spostarsi di Marcuse verso la ricerca di una apertura di questa nuova «gabbia d’acciaio» – il Grande Rifiuto, che dovrebbe provenire da studenti e da altri soggetti marginali – e al tempo stesso il continuo vietarsi la soluzione decisionistica o irrazionalistica nietzschiana o heideggeriana, che ha visto nella sua giovinezza formarsi nel contesto filosofico tedesco ormai esausto e privo di spinte progressive.

C’è una grandezza anche etica in questo mettere alla prova, fino all’estremo, il dispositivo dialettico del pensiero che ha di mira la libertà soggettiva anche nel momento della eclisse del soggetto, della universale omologazione (o del rifiuto), di ogni differenza. Ma se non si vuole del tutto storicizzare Marcuse come sintomo della crisi finale, aporetica, della filosofia classica tedesca, si deve porre la questione del suo significato politico oggi, rispetto agli sviluppi intervenuti in più di mezzo secolo nelle società occidentali.

Sviluppi che confermano alcune delle sue diagnosi, anticipatrici del diffondersi mondiale del capitalismo nella cosiddetta globalizzazione e nella colonizzazione dell’immaginario universale; ma che presentano alcune varianti di non piccola importanza. In primo luogo, infatti, l’immagine che ha Marcuse del capitalismo è inclusiva, com’è ovvio nel secondo dopoguerra in presenza della forma keynesiana dell’economia di mercato e della sua strategia “consumistica”: lo sforzo di Marcuse è semmai di portare alla luce l’esclusione implicita in quella inclusione, il rovescio dell’omologazione, cioè la reificazione. Oggi, invece, nella fase non più del tardo-capitalismo egemonico ma del neo-liberismo in crisi strutturale, non si potrebbe più parlare di «una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà»: la stessa post-democrazia sta cedendo il passo davanti alla democrazia securitaria, alla democrazia autoritaria, alla democrazia etnica. Il capitalismo neo-liberista non sa produrre più neppure il proprio ordine, quell’ordine che Marcuse vedeva all’opera nelle menti e nelle relazioni economiche e politiche,  e ha abbracciato la strategia del caos, facendo del disordine – della deflazione, dell’austerità, dei tagli alla spesa pubblica, della disuguaglianza interna e internazionale, dell’esclusione, della violenza sistematica, della guerra contro nemici che continuamente produce – la propria risorsa estrema.

E l’omologazione intellettuale e psicologica non è più acquietamento né narcotizzante benessere: il più iconico dei potenti nella nuova configurazione del potere mondiale non ha forse lasciato il messaggio stay hungry, stay foolish? Non docili e soddisfatti, ma folli e insaziabili devono essere gli abitanti del nuovo mondo. Naturalmente, questa individuazione ipervitalistica è solo una finzione, una galvanizzante rappresentazione, mentre le leve del potere economico e politico restano nelle mani di grigi e anonimi finanzieri e tecnocrati, i nuovi raptores mundi. Ma resta il fatto che la forma universale della narrazione capitalistica è oggi (secondo il ciclo economico) ora patetica ed eccitante, ora identitaria e militante – nel senso che mobilita alla guerra interna e esterna –; che la presa sulle menti è ancora più salda perché il biopotere perfezionato attinge a  piene mani dall’arsenale dell’eccezione piuttosto che da quello della norma, e in particolare oggi dalla paura piuttosto che dall’empatia. Eccitazione ed eccezione, quindi, più che neutralizzazione e normalizzazione, sono i parametri di funzionamento del “sistema”: parametri assai efficaci che – disegnando una silhouette di tempi dapprima euforici e ora  minacciosi, ma sempre rapaci –  mettono quasi del tutto fuori gioco, nel discorso pubblico e nelle scelte politiche, l’opzione della sinistra come emancipazione (ancora ben viva, come possibilità e come aspirazione, quando Marcuse scriveva, dagli anni Trenta agli anni Sessanta), e paiono lasciare alla protesta la sola chance della regressione reazionaria. Non c’è spazio, nella speculazione della new economy di quindici anni fa, e neppure nel caos, nella povertà e nella paura della guerra globale, per la dialettica liberatoria: dal basso pare provenire maggioritariamente la richiesta di una decisione ancora più decisa ed escludente di quella posta in essere dalle istituzioni. Di una democrazia della paura, o di una democrazia illiberale, o di una non-democrazia.

È poi dubbio che, mentre permane lo scacco della dialettica – della negazione determinata –,  vi siano possibilità di emancipazione implicite nelle dinamiche di individuazione che il potere mette all’opera, come se una sorta di mano invisibile trasformasse provvidenzialmente una grande rappresentazione in possibilità reale. O come se la frantumazione liberista della classe lavoratrice in una miriade di atomi isolati e impoveriti facesse di questi altrettanti nuovi centri di resistenza. Come, ancora, è dubbio che la ripresa delle prospettive della sinistra novecentesca possa essere qualcosa in più che una scommessa azzardata di portata locale e contingente.

La eccezione e la decisione sono quindi il nostro destino di chiusura e di anomalia, e la liberazione può restare soltanto un’opzione da coltivare nel regno delle idee, a futura memoria? Marcuse – insieme ad altre figure della filosofia novecentesca –, col suo pensiero forte che affronta di petto le grandi questioni dello Spirito e della Prassi, del Soggetto e della Storia, che rifiuta le filosofie ripiegate su di sé o impegnate a disimpegnarsi dai problemi aggirandoli o dissolvendoli linguisticamente perché disperano di risolverli,  è solo uno dei protagonisti di un grande tramonto, per sempre alle nostre spalle? Solo il sentimento, il ricordo, l’emozione, ci legano a lui, alla sua passione dialettica? Ma se così fosse, perché nel rileggerlo sentiamo che lì, in quell’accanita riflessione – ora radiosa ora circospetta, ma mai cinica né rassegnata –, pulsa ancora un’Idea che chiede di essere afferrata? Perché questo epigono della filosofia classica tedesca ancora ci inquieta e ci interroga almeno quanto noi interroghiamo lui?

Una risposta va tentata, perché la domanda è troppo importante. E la risposta che avanzo muove da alcuni versi di Crucifixion di Charles Bukowski: this is the price we now pay: we can’t go / back, we can’t go forward and we hang helpless, nailed to a / world / of our own / making (questo è il prezzo che paghiamo adesso: non possiamo tornare / indietro, non possiamo andare avanti e penzoliamo inermi, / crocifissi a un / mondo / che abbiamo costruito / noi). Ma questa grande capacità conoscitiva ed espressiva della poesia  è troppo vera per poter essere del tutto vera. Alla filosofia resta il compito di pensare oltre. E non c’è dubbio che in Marcuse forse è custodito, per  assolvere questo compito, un impulso ancora vitale, o meglio un’eredità che sentiamo di non avere ancora fatta nostra, e a cui non possiamo rinunciare, pena una sconfitta che ci costringerebbe a riconoscere la modernità (appunto, il mondo fatto da noi) come poco più di un ramo secco della storia: l’eredità del pensiero critico orientato alla libertà del soggetto e dell’umanità. La direzione indicata da Marcuse, insomma, è quella giusta. A noi la sfida di rimettere al lavoro sapere e immaginazione.

 In H. Marcuse, Filosofia e politica. Scritti e interventi. 5, a c. di R. Laudani, Roma, manifestolibri, 2019, pp. 391-396.

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