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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

luglio 2020

Il politicamente corretto

 

Il linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi, raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia. Ciò che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.

Quel linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato, in libertà e con uguali diritti. Un linguaggio privo di passione e di violenza, capace di  sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza. Uno vale uno, insomma.

Ma questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione: il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante: l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di unilaterale violenza. La sua logica normale è quella eccezionale del giudizio universale: nihil inultum remanebit. Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e riparati. La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il quale si colloca il politicamente corretto.

Che è politico: è un atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via. È un universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito. È l’espressione di una parte che si fa Tutto, che pretende di giudicare ergendo se stessa a Legge. È un dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima altri.

Ma non sempre ne è consapevole. Il contenuto politico del politicamente corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale: l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta al tempo e allo spazio. La neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende all’acronia. Si pagano colpe che non erano tali quando furono commesse; i discendenti rispondono oltre la settima generazione. La purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.

Il politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo individualistico moderno: condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo livellatore che per colpire i  sospetti si fa tagliatore di teste. Condivide l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi – .

E quindi non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto: anzi, il Moderno vi esprime il proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza. Un Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i linguaggi, recano in sé come propria viva  sostanza, come propria drammatica concretezza. Perse o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi irrelate senza passato e senza futuro. Nel politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano un eterno presente.

Ciò che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli. La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità: non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il segno della politica, poiché ne fa parte. Si tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no, perché è troppo superiore o troppo inferiore.

Ma è lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente morale che si autoassegna. Così, se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill perché razzista; il suo spirito di dominio imperiale, venato di superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della  storia reale; mentre ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un nemico mortale, con cui non si poteva scendere  a patti.

E se nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio  ispanico (veramente distruttivo)? Oppure in quelle statue abbattute è da leggersi una confessione della colpa originaria di tutti gli europei per avere scoperto l’America, espropriando i nativi (al Nord, al Centro, al Sud)? E dopo l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista? La restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola di Manhattan? Oppure l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico liberista? E in quest’ultima ipotesi il politicamente corretto non corre forse il rischio di ridursi a un intimidatorio gioco di potere linguistico fra élites, e di far perdere di vista questioni strutturali che la sua fiaccola illuministica lascia in un cono d’ombra?

È quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice liberale. Ma  non con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale amorfa indifferenza; non si tratta di ri-legittimare ogni violenza e ogni discriminazione, né di utilizzare l’ingiustizia del passato per giustificare quelle del presente. Si tratta anzi di decifrare  queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica. Di riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia, ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del politicamente corretto e delle sue ritualità.

Il problema del nostro Paese è che viviamo in un’egemonia intellettuale neoliberista

Intervista con Annamaria Iantaffi

 

Presidente, il 2 giugno 2020, dati gli eventi degli ultimi mesi, è una ricorrenza unica nella storia della Repubblica. Lei come percepisce oggi il rapporto dei cittadini con le istituzioni Repubblicane?

Mi sembra che il rapporto abbia preso una doppia piega. È abbastanza tipico durante le emergenze che i cittadini guardino alle istituzioni, perché sentono il bisogno di essere garantiti. Sicuramente anche il tasso piuttosto alto di popolarità del Presidente del Consiglio dimostra che l’emergenza ha suscitato un forte bisogno di istituzioni. E questa non è una novità: in Italia buona parte dell’antipolitica e della critica delle istituzioni nasce in realtà dal bisogno delle istituzioni, dall’idea che le istituzioni siano inadeguate. D’altro canto c’è una discreta probabilità che nel momento in cui si attenuasse l’emergenza sanitaria e si presentassero le sue conseguenze economiche, il rapporto con le istituzioni tornerebbe ad essere conflittuale e che queste verrebbero sempre più interpretate come ostili.

Le chiedo di proiettarsi invece al prossimo autunno, quando si potrebbe presentare una seconda ondata pandemica a causa delle mutate condizioni climatiche. Secondo lei c’è il rischio di disordini sociali?

Molto dipenderà da come i bisogni economici di una discreta parte della popolazione siano o non siano stati soddisfatti. Se ci fossero gravi momenti di sofferenza economica, fino alla disperazione per certe categorie, e se intervenisse un secondo lockdown, francamente la situazione sarebbe davvero critica. C’è da augurarsi che nessuna delle due ipotesi si avveri, cioè che non sia automatico l’avvento di una seconda ondata della pandemia e che le situazioni di sofferenza dell’economia, e soprattutto di certe categorie, possano essere in un qualche modo sanate.

I bambini, anche mossi dai genitori, prima scrivevano ovunque “andrà tutto bene”. Ora l’EU stanzia 750 miliardi, anche se non tutti sono a fondo perduto. È andato tutto bene?

L’EU non stanza 750 miliardi. L’Europa deve prima di tutto raccogliere 750 miliardi sui mercati finanziari mondiali. Poi ne mette a disposizione agli Stati delle tranches. Alcune a fondo perduto, altre in forma di prestiti che devono essere restituiti, ed evidentemente in modo condizionato. In ogni caso questa quantità di denaro, ove sia raccolta, entrerà in circolo soltanto quando scatterà il bilancio della UE, nel 2021. Poi anche la quota a fondo perduto che viene data gli Stati che la richiedono sarà in qualche modo restituita, perché gli Stati che dovranno istituire delle euro-imposte, per rimborsare la UE, che a sua volta deve restituire i fondi a coloro che glieli hanno dati. Perché tutto nasce dal fatto che la BCE non stampa denaro. Questo è il punto vero: che nessuno ha voluto trasformare il sistema economico finanziario europeo in un sistema che avesse come punto culminante una capacità di prestatore di ultima istanza da parte della BCE, come fa la Federal Reserve in USA.

Quindi cosa potrebbe accadere, se ricevessimo il Next Generation Fund?

Ci accorgeremo che questi soldi non vengono inventati dal nulla, e questo qualcuno sono i cittadini che pagheranno le nuove tasse europee, oltre alle tasse statali. Per di più, questi denari, anche quelli a fondo perduto, verranno elargiti soltanto a seguito del fatto che lo Stato beneficiario si adegui alle richieste di riforme strutturali avanzate dalla UE. Il che vuol dire che la UE vuole che lo Stato Italiano sia più ricco e che i cittadini italiani siano più poveri, vuole spostare ricchezza dai conti correnti degli italiani alle casse dello Stato. Quello che nessun Governo nazionale in questo momento ha il coraggio di fare, cioè una patrimoniale, verrà probabilmente innescato dalla dinamica europea. L’Italia potrà godere di finanziamenti soltanto se sarà in grado di implementare le riforme che l’Europa le chiederà. E tutto ciò potrebbe essere estremamente doloroso, a partire dal 2021.

Prima di quella data cosa faremo?

Prima resta soltanto il ricorso al MEF, il quale a sua volta elargisce pochi soldi e con condizionalità, perché è un sistema di prestito, non è un sistema di denaro a fondo perduto. Chi ottiene questi fondi deve anche soggiacere al controllo ravvicinato dei creditori, che significa o la troika o qualche cosa che le assomiglia moltissimo. Tutto ciò vuol dire che lo scenario economico è particolarmente pericoloso. Prima di tutto per la debolezza intrinseca, cioè il crollo della domanda determinata dal lockdown, e poi per il fatto che ad essa si reagisce con politiche finanziarie che comporteranno a loro volta impoverimenti, anche di quelle fasce di popolazione che non sono state pesantemente colpite; penso ai pensionati che, con ogni verosimiglianza, si vedranno ristrutturare la pensione o sui cui conti correnti inciderà una tassazione straordinaria. Tutto ciò, se messo insieme a un ipotetico secondo lockdown, crea uno scenario non facilmente controllabile dalle istituzioni. Naturalmente, quello che le ho descritto è lo scenario peggiore;  poi ci sono auspicabilmente gradi di intensità minore dei problemi, tanto sanitari quanto economici. Nello scenario migliore non c’è la seconda ondata, la domanda riparte autonomamente, non abbiamo bisogno di ricevere o chiedere tanti soldi e poi non avremo bisogno di misure di austerità tanto severe per restituirli.

In cosa potremmo trovare un sollievo?

Una notizia che darebbe sollievo, tanto sanitario quanto economico, sarebbe il vaccino: farebbe venir meno quel senso di vulnerabilità estrema che è il risultato più evidente della pandemia. Le crisi economiche sono molto dure da sopportare, ma vi siamo in un qualche modo abituati; quello a cui non eravamo abituati sono le crisi sanitarie, soprattutto attraverso il lockdown che è stato molto doloroso, che ha anche distrutto beni immateriali importantissimi, come ad esempio la pubblica istruzione. Non illudiamoci infatti che abbiano imparato molto, i nostri studenti, quest’anno, nonostante gli sforzi benemeriti dei docenti e degli stessi studenti. L’insegnamento richiede la presenza, la relazione.

Alcune delle libertà costituzionali hanno subito una contrazione durante la stasi coatta in casa; lei a tal proposito ha parlato di un esercizio di sovranità, può spiegarci in cosa consiste? 

Premetto che la parola sovranità è una bellissima parola che fa parte del primo articolo della Costituzione della Repubblica e non significa nulla che non sia compatibile con l’esercizio democratico del potere. La sovranità si è manifestata per quello che è, cioè il desiderio di esistere di un sistema politico e di un popolo. Un desiderio che vuole realizzarsi e adopera tutti gli strumenti legalmente a disposizione, anche con qualche forzatura. C’è stata una compressione delle libertà, tutti lo dicono, tutti ce ne siamo accorti. Il punto non è che ci sia stato un mezzo colpo di Stato ma che, nonostante nel nostro ordinamento non sia presente in modo esplicito una fattispecie definibile come caso d’emergenza, siamo arrivati alla compressione dei diritti, sia pure attraverso vie un po’ tortuose sotto il profilo giuridico, e che tutto ciò era inevitabile. Nel caso d’emergenza ti comporti come la necessità richiede, anche se non hai una Costituzione che parla con chiarezza dello strumento necessario. Oltretutto si è fatto ricorso ad uno strumento legale, non è stato nemmeno violata la Costituzione, sono stati semplicemente messi in gerarchia i diritti costituzionali e si è detto che il più importante è il diritto alla vita.

Mi interessa inoltre sottolineare che la sovranità si è manifestata nelle sue forme più tipiche, più radicali, smontando la società, che improvvisamente si è trovata come sgretolata: le sue vecchie forme sono quasi scomparse e ha assunto nuove forme. Improvvisamente le persone non sono più state ad esempio il professore, il giornalista, il deputato, lo studente, l’operaio, l’impiegato, ma eranola persona sana, il portatore sano e inconsapevole, il malato leggero, il malato grave, quello da ricoverare in ospedale, il malato da mettere in terapia intensiva, il morto. La società aveva perduto le sue forme e ne aveva assunto delle altre, sulla base di atti sovrani, orientati al valore della sanità e della vita. E inoltre, la sovranità si è manifestata attraverso uno dei suoi strumenti fondamentali: il confinamento delle persone in casa e la chiusura dei confini alle frontiere.

Abbiamo quindi perso libertà che ci sono state garantite per più di 70 anni?

È inutile dire che la sovranità è una brutta parola o che non esiste, che è obsoleta. Il virus è la globalizzazione, e contro la globalizzazione agisce la sovranità. Il virus passa le frontiere e per difendersi si lavora sul confine, si cede spazio, per guadagnare tempo. Oggi vale la pena di dire tutto ciò,  per sfatare la leggenda del Sovranismo, che è un imbroglio concettuale. Anziché Sovranismo si dovrebbe dire ‘esercizio della sovranità orientato a destra’. E a me non piace. Ma non si può dire che la sovranità sia un concetto obsoleto o errato, perché questo è falso.

Il 2 giugno ricorre anche la data della morte di Garibaldi;  cosa è rimasto dei valori risorgimentali tra i cittadini? E tra i politici?

L’ultimo politico che pensava a Garibaldi credo sia stato Bettino Craxi, che era un collezionista di cimeli garibaldini. Oggi penso che Garibaldi sia una figura al di fuori dell’orizzonte e dell’interesse dei cittadini e dei politici. E non sto dicendo che ciò sia giusto. Al contrario. Ma più in generale mi chiedo: quale rapporto questo Paese vuole avere con la propria storia? Questo Paese sa di avere una storia? Gli interessa? Interessa a qualcuno che esista un’identità storica italiana? Questo Paese vuole esistere in senso storico-politico come esistono la Francia o la Germania o la Gran Bretagna o la Spagna? Questi sono Paesi democratici, pieni di problemi come tutti, ma coltivano un rapporto con la propria storia, in modo diverso a seconda degli orientamenti. Noi, qual è la cosa più lontana nel tempo cui facciamo riferimento? Forse la Resistenza…

Molti dei problemi della contemporaneità non sono forse pregressi? Penso ad esempio alla polemica sull’Euro..

La debolezza della compagine nazionale unitaria non l’ha inventata l’euro, la debolezza internazionale dell’Italia purtroppo è una costante della nostra storia. La capacità di interpretare la politica anche in  dimensione storica fa parte del modo con cui i politici dovrebbero lavorare, ma oggi francamente, politici così non ce ne sono. Lo dico con cognizione di causa perché li ho anche frequentati. Anche perché gli intellettuali di riferimento in questo momento sono gli economisti, i quali non vogliono pensare in chiave storica, perché credono che l’economia si avvicini ad una scienza naturale, che sia qualche cosa che ha delle leggi proprie,  che in alcuni di loro diventano dei dogmi. È rarissimo vedere un economista che ha capacità di pensiero storicamente profondo, che mette in fila i problemi economici in chiave storica, che relativizza in qualche modo l’economia perché ne vede la storicità.

Questa mancanza di visione storica è il limite degli economisti liberisti contemporanei?

Eh, sì, è proprio così. Questo è il pensiero unico: “è così perché è sempre stato così”, oppure, “prima di noi c’era il Medio Evo”. Il problema  del nostro Paese è che siamo dentro un’egemonia intellettuale di cui spesso le persone non si rendono conto, ma che è nata quaranta anni fa, cioè la grande svolta all’insegna del Neoliberismo che ha permeato di sé non solo le strutture dell’economia, della finanza e la politica, ma anche la psicologia delle masse e quella dei politici.

Pubblicata in «Tiburno» il 2 giugno 2020

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