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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Politica

Brisighella, i comunisti nella terra dei preti

Non è un’operazione nostalgia quella di Visani e Baldi, un «come eravamo» carico di rimpianti. È una documentazione prosopografica – cioè compiuta attraverso la ricostruzione dei profili di alcune personalità – di una storia: quella di un paese, Brisighella, in cui, per una serie di circostanze storiche legate al forte insediamento cattolico (vi sono nati sette cardinali), il Pci, a differenza di quanto avvenne in quasi tutta l’Emilia-Romagna, fu a lungo all’opposizione – sia pure con percentuali elettorali molto alte – rispetto a una Dc particolarmente radicata. Attraverso ricordi personali, di familiari, di amici, il libro ricostruisce insomma numerose vicende umane e politiche, di lotta, di Resistenza, di militanza, e di amministrazione civica (dagli anni Settanta).

Emergono così dal passato figure e memorie di martiri torturati a morte (Luigi Fontana) e imprigionati (Amedeo Liverani, Luigi Bandini, Gildo Montevecchi) dal fascismo trionfante; di uccisi dal fascismo declinante durante la lotta di Liberazione (Renato Emaldi); di partigiani poi divenuti dirigenti politici e sindacali (Sesto Liverani, Aldo Gagliani, Mario Marabini, Sergio Laghi, Sante Moretti, Amos Piancastelli); storie di fede politica semplice, di militanza e a volte di eroismi senza protagonismo, di lavoro durissimo in una terra povera, di generosa disponibilità al volontariato per la costruzione di Case del Popolo e per la gestione delle Feste dell’Unità, di partecipazione alla vita del partito e del sindacato.

Nulla di diverso da quanto accadeva in tutta l’Emilia-Romagna, insomma, anche dove i rapporti di forza erano più favorevoli alla sinistra. Una storia di emancipazione faticosa, di trasformazione lenta di costumi e di stili di vita segnati inizialmente da passività e da tradizionalismo e poi modificati in senso progressivo appunto dalla maturazione politica e dalla presa di coscienza, dapprima pionieristiche e poi di massa, dal protagonismo individuale, familiare e collettivo, che la politica ha prodotto e assecondato – ovviamente, una trasformazione resa possibile, a livello più generale, dal contesto democratico nazionale e da un’economia che pur nelle sue storture e contraddizioni ha avuto anche effetti modernizzanti, oltre che dalla buona amministrazione gestita dalla sinistra a livello provinciale e regionale, ma anche da una Dc fortemente controllata dalla minoranza comunista, a livello comunale –.

Una storia locale che è anche uno specchio in chiave minore di una storia regionale e nazionale, quindi. E che si caratterizza non tanto per i contorni a volte folkloristici e neppure per i tratti di umana simpatia o di affettuosa vicinanza degli autori ai personaggi narrati – tratti nondimeno presenti, che danno sapore di autenticità al libro –, ma per una evidentissima compenetrazione di politica e vita, di percorsi individuali e di legami comunitari, di serietà esistenziale e di fiduciosa apertura sull’avvenire, di lotta per il progresso e di adesione alle radici di una collettività coesa e consapevole. Ciò che emerge, e che davvero suscita rispetto e commozione, è il compenetrarsi della politica con la vita, della forza di un’idea, di una organizzazione, di un progetto, con la spontaneità e con la quotidianità delle vicende individuali, familiari, sociali, e con la tenacia delle amicizie e delle vicinanze durate decenni.

Al di là dell’ammirazione per le persone e per la loro operosità, al di là del giudizio storico sulla capacità della sinistra di costruire una società cosciente di sé dove c’erano quasi solo miseria e ignoranza, al di là anche di ogni nostalgia per un passato in cui l’Italia, l’Emilia-Romagna e i suoi borghi, seppero crescere con un qualche senso comune, è di questo intrecciarsi di politica e vita che oggi sentiamo la mancanza, nello sbandamento dello pseudo-individualismo di massa, nell’universale subalternità a logiche e a potenze e a narrazioni che ci trascendono e ci impediscono (o lo vorrebbero fare) ogni protagonismo, ogni tentativo di costruire di nuovo il nostro destino individuale e collettivo. La mancanza, insomma, di una politica pienamente legittimata perché vissuta come parte integrante di un percorso di crescita di tutti e di ciascuno, che questo libro ci mostra nel passato non poi remotissimo, a Brisighella, e che non dobbiamo disperare di poter vedere all’opera anche nelle mutate circostanze del presente.

Claudio Visani – Viscardo Baldi, I comunisti nella terra dei preti. Storia e personaggi del Pci. Brisighella, 1921-1991, con una Prefazione di Vasco Errani e una Postfazione di Dianella Gagliani, Faenza, 2017, pp. 224, euro 15.

La recensione è stata pubblicata in «Strisciarossa» il 28 ottobre 2017

 

Cultura e politica

Intervista con Luca Taddio

Nel suo ultimo libro Democrazia senza popolo (Feltrinelli) ha cercato di osservare con gli occhi dell’intellettuale il mondo della aule parlamentari. Quale bilancio ha tratto della sua esperienza politica?

Ho capito quanto sono differenti i due mondi, quello della cultura e quello della politica, che hanno bisogno l’uno dell’altro ma che operano secondo logiche non sovrapponibili se non in minima parte. Questa comprensione è stata un’opera di disincanto che mi ha arricchito. Ne esco più lucido e consapevole anche scientificamente.

Il linguaggio di un filosofo politico e il linguaggio della politica di tutti i giorni possono arrivare a incontrarsi per aprire un dialogo? Oppure sono due mondi ormai agli antipodi?

I linguaggi divergono e anche le finalità degli attori. L’intellettuale vuole arrivare alla radicalità e alla nettezza dei concetti e dei loro movimenti, mentre il politico smussa gli angoli e le asperità perché il linguaggio gli serve per operare, per cercare consenso, non per capire. È però vero che in passato, e in pochissimi casi anche oggi, era chiaro che senza una potente e radicata azione di pensiero, senza egemonia culturale, la politica è cieca, è pura tattica di auto-conservazione, sempre più precaria, dei ceti politici.

Pensa che anche gli intellettuali abbiano qualcosa da rimproverarsi?

Gli intellettuali hanno esibito impegno politico, e qualche analisi intelligente, fino agli anni Settanta. La grande trasformazione neoliberista li ha colti di sorpresa e non l’hanno capita, quando non l’hanno assecondata più o meno consapevolmente. Hanno da rimproverarsi di avere accettato che l’attività di elaborazione culturale venisse ridotta a entertainment oppure a consulenza tecnica, di avere rinunciato al pensiero critico e responsabile rifugiandosi semmai, in certi casi, in compiaciuti sofismi, e di non avere contrastato l’ingresso del neoliberismo nell’Università, che ha comportato la trasformazione di questa in azienda. Insomma, hanno la responsabilità della loro irrilevanza.

I cittadini non si riconoscono più in ciò che avviene all’interno delle stanze della politica. Il risultato di questo fenomeno è una crisi della democrazia rappresentativa; la politica continua a prendere decisioni nonostante la mancanza di appoggio, o il disinteresse, dell’elettorato. Come vive questa “coda di lucertola” un parlamentare? La diretta conseguenza di tale condizione è il populismo?

Il Parlamento, la Camera per quanto mi riguarda, è in realtà solo l’anticamera della politica – e ciò contravviene all’essenza del regime parlamentare -. I ristretti circoli che prendono le vere decisioni politiche sono esterni alla politica istituzionale, perfino al governo, il quale in ogni caso ha una netta supremazia sul legislativo. Sono circoli economici e finanziari atlantici ed europei; sono i grandi tecnici delle burocrazie internazionali; sono i potenti think tank anglosassoni che dettano le agende del discorso pubblico globale. Da questi circoli vengono gli input ai governi, che fanno il poco che possono per contemperare le esigenze dei cittadini e quelle dei mega-poteri mondiali. I parlamentari eseguono, o protestano vanamente (e quando le opposizioni diventano maggioranza si adeguano anch’esse). L’opera di armonizzazione e di precario equilibrio tentata dalle élites politiche non può riuscire, e questo fallimento lascia un enorme scontento presso strati sempre più larghi delle popolazioni. A questo scontento si dà il nome di “populismo ” e di “anti-politica”, benché si tratti di spinte politiche reali che potrebbero aiutare la democrazia.

A suo parere, in che modo è possibile stimolare il coinvolgimento politico dei cittadini?

Il coinvolgimento in parte c’è già, in tutti i movimenti di protesta e di resistenza che nascono nella società in risposta al peggioramento della qualità della vita indotta dal neoliberismo. Il fatto è che sono spontanei e scomposti, spesso fuori bersaglio. E che sono nel complesso minoritari, perché il grosso dello scontento, dell’anomia, si rifugia nella disperazione, nella passività, nell’individualismo subalterno. E, soprattutto, dalle istituzioni in crisi, dai partiti inesistenti, non viene alcuna mano tesa, alcun principio di elaborazione e di forma politica. Così c’è il rischio che la residua energia politica circolante nella società vada semplicemente sprecata. È evidente che la sfida del presente è re-inventare pensiero e azione perché si realizzi il nuovo incontro fra istituzioni, partiti e popolo.

Il tema della quarta edizione del Festival Mimesis è “Navigazioni”. Come si inserisce l’ascesa dei nazionalismi in una società globale e cosmopolita come quella odierna?

Navigare necesse est. Ma una cosa è l’avventura, altra la predazione, altra ancora l’essere preda del «capitalismo estrattivo». La società è sì globale, ma non certo tutta cosmopolita. La maggior parte delle persone nel mondo, anzi, cerca stabilità, appartenenza e radicamento, se non altro come riflesso difensivo davanti alle potenze della mobilitazione globale. I localismi e i particolarismi a base etnica sono l’ovvia risposta al globalismo e alla sua potenza produttrice di crisi. Ma, ironicamente, sono anche un effetto previsto e voluto dai poteri economici mondiali, che preferiscono muoversi in uno scenario di staterelli balcanizzati piuttosto che dover affrontare robuste realtà statuali.

 

L’intervista è stata realizzata in occasione del Festival Mimesis (Udine, 23-28 ottobre 2017)

Chiarezza sulla sinistra

Intervista  con Pino Salerno

 

 

Cominciamo dall’Europa e dalla sua grande fibrillazione, dal 24 settembre tedesco al primo ottobre spagnolo fino al discorso di Macron (con il corollario delle prossime legislative austriache e il referendum farlocco del lombardo-veneto). Ne esce un quadro in cui la tecnoburocrazia di Bruxelles ha responsabilità notevoli, e l’Europa politica si dilania e non fornisce più risposte ai popoli. Qual è il tuo giudizio?

L’Europa non ama gli Stati, e nasce per superarli. Ma di fatto è dominata dagli Stati, ciascuno dei quali utilizza l’Europa e le sue istituzioni per aumentare la propria potenza. Questa è una prima contraddizione. La seconda è che il neoliberismo non ama lo Stato se non per le sue prestazioni penali, e cerca di avere a che fare più con la governance che con i governi. Ma l’Europa non è solo neoliberismo: è anche ordoliberalismo (l’euro), che implica invece un massiccio ricorso allo Stato in chiave di stabilizzatore e neutralizzatore dei conflitti. E questa è la seconda contraddizione. A ciò si aggiunga la terza contraddizione: che cioè lo Stato è sì centrale nell’attuale architettura dell’Europa ma è anche devastato da una crisi economica che tende a disgregarlo secondo linee di frattura di convenienza produttiva e finanziaria. Nel complesso, quindi, l’impulso neoliberista e la morsa della crisi vanno verso la rottura dello Stato per costruire, su basi etniche più o meno inventate, Stati più piccoli e più liberi dai vincoli di solidarietà fiscale che regnano in uno Stato tradizionale. Ma l’esigenza ordoliberista di stabilità e la diffidenza degli Stati europei verso le crisi politiche radicali vanno nella direzione di evitare ogni incentivo alla frantumazione e alla balcanizzazione dell’Europa. Per ora la linea della prudenza è di gran lunga prevalente.

In Democrazia senza popolo hai descritto l’esperienza parlamentare negli anni del renzismo. Come faremo a ricostruire l’Italia sulle mille macerie che hai narrato?

Le macerie ci sono, indubbiamente. Si è ormai affermato un modello economico che funziona solo con la completa subordinazione e privatizzazione del lavoro, e che quando produce nuova ricchezza non la redistribuisce ma la concentra su coloro che sono già ricchi. Un modello economico che produce deliberatamente disuguaglianza e degrado (poiché vieta l’intervento pubblico nell’economia in chiave anticiclica, e vieta anche gli investimenti nello Stato sociale), impoverimento e precarietà non occasionali ma strutturali, competizione ma non conflitti progressivi, abbassamento della qualità delle forme di vita e di produzione materiale intellettuale, con l’emersione di poche isole d’eccellenza, del tutto omologate al sistema. Ne conseguono oppressione e mortificazione generalizzate, crollo della lealtà repubblicana, allentamento del legame sociale, inimicizia universale di tutti verso tutti, individualismo passivo e rassegnato, crisi della democrazia, atteggiamenti anti-politici in realtà funzionali al mantenimento dello status quo o all’insorgenza di politiche di destra. La via per battere tutto ciò è in primo luogo riconoscere la situazione attuale con realismo, senza indulgere in ottimismi di maniera. In secondo luogo si deve affermare un rigoroso pensiero critico che instancabilmente denunci e riveli le contraddizioni insanabili del sistema, a partire dalla universale oppressione, dalla chiusura degli orizzonti vitali, che quasi tutti i cittadini sperimentano quotidianamente. In terzo luogo si deve dischiudere un universo realmente alternativo, che dia spazio e consistenza alla speranza di una democrazia fondata sul lavoro e non sul mercato, e alla fioritura di libere personalità e non di soggetti frustrati. In quarto luogo, non si deve avere fretta di governare: la costruzione di un pensiero pensante e non sloganistico, e di un soggetto sociale dotato di una qualche consistenza, viene prima. Dalle macerie si esce, se si esce, negli anni, non nelle settimane. La politica deve ritrovare il passo lungo e la progettualità, eludendo la trappola della comunicazione e della governamentalità.

Da qui la necessità di costruire un soggetto politico della sinistra, alternativo al Pd renziano, e alle politiche neoliberiste che esso ha prodotto. Tuttavia, dal primo luglio di piazza Santi Apostoli a oggi, l’impasse è purtroppo evidente. Quale futuro? Come riusciamo a contrastare il mainstream dell’informazione che vuole convincerci della fine della sinistra europea e della differenza con la destra? Una destra che ormai è sempre più radicalizzata verso posizioni xenofobe e razziste, e di conservazione di un’Europa intollerante e inospitale?

L’impasse della sinistra non è casuale. Essa si divide – e ormai sembra una divisione irreversibile – fra coloro che puntano a un nuovo centro-sinistra, a un nuovo Ulivo (sulla base del riconoscimento che il Pd di Renzi non è di centro-sinistra, ma che con un’alleanza a sinistra può cambiare) e coloro che vogliono costruire il quarto polo, non tanto di centro-sinistra ma di sinistra, per non allearsi mai con il Pd o eventualmente solo dopo le elezioni e solo dopo trattative sul programma di governo. Si tratta del dilemma della sinistra nell’età neoliberista: accettare la nuova forma del mondo per governarla (così si crede) allo scopo di mitigarne le asprezze, oppure fronteggiarla come un avversario che vuole trionfare sulle conquiste del lavoro e della democrazia? Le sinistre europee hanno seguito la prima via, facendosi battistrada del neoliberismo, per finire a questo subalterne e per essere scalzate dal ben più solido e convincente impianto governamentale delle forze di centro. In tal modo, le forze di sinistra non hanno neppure saputo intercettare il disagio e la protesta contro il sistema a cui esse stesse hanno dato più di una mano, e le hanno lasciate alle destre. Una sinistra che voglia rimediare a questi errori deve proporsi non tanto un generico superamento del capitalismo, ma di instaurare le condizioni politiche e sociali perché al capitalismo si affianchi, con un ruolo di riequilibrio e di governo, una politica certa di sé, ovvero consapevole del fatto che il capitalismo non crea ordine stabile, sviluppo umano, speranza collettiva.

Una siffatta sinistra deve essere guidata da politici credibili, nutrirsi di pensiero non mainstream, non accontentarsi di atteggiamenti liberal e recuperare la concretezza e la radicalità dell’analisi e della proposta. Deve non illudere i cittadini su di una facile uscita dalla situazione in cui siamo finiti come Italia e come Europa. Deve differenziarsi, rendersi riconoscibile, tanto più in un sistema elettorale proporzionale. Deve parlare senza mediazioni con le persone, non comunicare attraverso i media. Deve tornare non tanto fra la gente in senso generico quanto nei luoghi di lavoro e di formazione. Deve battere l’individualismo rassegnato e isterico a cui conduce il neoliberismo, con la prospettiva di una dimensione pubblica ricostruita. Deve insomma essere alternativa al presente stato di cose, e dare risposte ai bisogni reali dei cittadini, riassumibili nella sicurezza democratica. Ovvero la sicurezza dell’ordine pubblico, della civile convivenza; la sicurezza del posto di lavoro e sul posto di lavoro; la sicurezza sulla qualità della pubblica istruzione e della pubblica sanità; la sicurezza del territorio. Tutti obiettivi per perseguire i quali è indispensabile un nuovo investimento sullo Stato, troppo frettolosamente dato per morto, prima che sull’Europa (che resta una prospettiva utile se è gestita da Stati orientati a sinistra).

Ci deve essere, in sintesi, un motivo per cui un cittadino vota a sinistra, e la nuova sinistra glielo deve dire e dare, con un impegno pari a quello che animò i primi “apostoli” del socialismo a fine Ottocento. Nulla di meno è richiesto a chi voglia costruire una sinistra in un mondo che è governato dalla destra economica, e che scivola verso la destra politica. Altrimenti è meglio stare a casa. E qui voglio fare un’ultima osservazione: la mia non è una proposta di testimonianza, come si usa dire oggi, né una predilezione per i partitini. È una proposta di ricostruzione progettuale e di generosa apertura al rischio insito nella politica, che non si propone solo qualche guadagno tattico, ma che vuole pensare in grande e in avanti, o almeno si sforza di farlo. Ed è l’auspicio che dall’impasse finalmente si sia usciti, con radicalità e con serietà, senza esitazioni e senza estremismi.

Ingiustizie e disuguaglianze sociali: è davvero necessario governare per risolverle? Ovvero, Pisapia insiste sul centrosinistra “di governo”, discontinuo rispetto alle politiche renziane, ma evita di proporre come si governano i processi. Che ne pensi?

Sulla base di quanto ho appena detto, è chiaro che il semplice andare al governo non basta. Si rischia di non contare nulla e di avallare politiche in continuità col passato, di sposare tutte le «compatibilità» del sistema. È molto più importante insediarsi nella cultura e nella società con un lavoro di lunga lena e di ampie prospettive, che ricostruisca le persone, la società, lo Stato, la democrazia, l’Europa.

Renzi ha sostenuto che i suoi avversari sono i 5stelle e i populisti, mentre col Rosatellum costringe a coalizioni farlocche pronte a sfaldarsi il giorno dopo il voto. Zagrebelsky invita Mattarella a non firmare quella riforma elettorale a pochi mesi dal voto e indica, insieme a tanti giuristi, gli elementi di indubbia incostituzionalità presenti nel Rosatellum. Qual è l’antidoto, secondo te?

L’antidoto al Rosatellum è stato il Mattarellum o anche il Tedeschellum. Questa nuova brutta legge che martedì si inizia a votare alla Camera è buona per Renzi e per Berlusconi, dato che rende entrambi centrali nel costruire coalizioni, e al contempo spacca la sinistra e toglie qualche seggio ai cinquestelle (i quali in ogni caso, si sono tirati fuori dagli scenari post-elettorali, poiché non hanno e non vogliono avere capacità coalizionale). Ma una legge elettorale da sola non salva un Paese (al massimo lo condanna). Le coalizioni che emergeranno dalle elezioni saranno instabili, soprattutto quella di destra, lacerata tra Salvini e Berlusconi. Secondo quelli che saranno i risultati elettorali concreti, a oggi non prevedibili per la distanza che ancora ci separa dal voto, ci saranno rimescolamenti di carte in Parlamento. È su questi – sulla rottura della destra in particolare – che Renzi, ormai venuto a più miti consigli, punta per avere un ruolo nella politica di domani (e intanto si fa una legge che gli dà il controllo degli eletti, almeno per sette decimi). Francamente, si tratta di scenari tanto deprimenti quanto invece è esaltante adoperarsi per la ricostituzione di un orizzonte teorico e pratico di una sinistra non politicista, ma capace di pensare la politica in grande stile.

 

 

L’intervista è stata pubblicata in «www.jobsnews.it» l’8 ottobre 2017

Difficoltà e prospettive della sinistra

Il nuovo soggetto politico che si forma a sinistra del Pd è nella condizione di «stato nascente», ovvero è indeterminato e aperto a molte soluzioni. L’altra caratteristica dello stato nascente, ovvero la ricchezza esplosiva d’energia, è invece assente.

Quindi, l’indeterminatezza si trasforma in difficoltà, in incertezze. Come si è già visto in altri recenti tentativi di far nascere soggettività politiche a sinistra, anche in questo caso – con un imbarazzante effetto di deja vu – non si riesce a decifrare ciò che avviene (la «fase») né ciò che si deve fare (la strategia, prima ancora che la «linea»).

All’apparenza, o meglio a un primo livello, la difficoltà sembra consistere nel dualismo fra la linea «Pisapia» e la linea «Mdp». Dove il primo elemento implicherebbe la «novità» (per quanto mediaticamente costruita) e il «campo largo», cioè l’uscita, almeno tentata, dal perimetro della sinistra tradizionale (posto che lo si possa ancora definire); mentre il secondo rinvierebbe all’organizzazione efficace sul territorio, a figure dirigenziali più sperimentate (o più logorate) come Bersani e D’Alema, e a una connotazione più centrata sul «ceto politico». La strategia in entrambi i casi è indicata come la «ricostituzione del centrosinistra» (con o senza trattino, a seconda che si pensi ad alleanze post-elettorali col Pd, o invece a costituirsi come autonomi e alternativi ad esso – cioè come il «vero» centrosinistra, dato che il Pd ha tradito la sua mission originaria – ).

Questo dualismo, ormai esplicitato con chiarezza, si è spinto fino all’ipotesi di preventivo scioglimento di Mdp nel nuovo contenitore «Insieme», ipotesi rinviata a tempi più maturi, ma non respinta, perché è chiaro che non si potrà andare alle elezioni, né da nessuna altra parte, con una federazione di sigle priva di progetto. Ad esso si aggiunge la difficoltà di rapporto con Sinistra italiana e col movimento di Falcone e Montanari, che forse potrebbero prestarsi a essere l’ala sinistra dell’eventuale nuovo soggetto unitario di centrosinistra, ma non sarebbero disposti ad allearsi con il Pd. Da qui discende la difficoltà di decidere o di prevedere se alle elezioni vi sarà una lista a sinistra del Pd, oppure due.

Ma a monte di queste difficoltà di tattica politica stanno difficoltà strategiche. Difficoltà a misurare bene la crisi del neoliberismo, aggravata dalle pastoie dell’ordoliberismo, che è una crisi della società intera, di tenuta del legame sociale e della lealtà democratica. Una crisi che ha distrutto, nel nostro Paese, l’intera sfera pubblica, privando l’Italia di dibattito intellettuale (reputato inutile o ridotto a mera chiacchiera televisiva) e di innovativa azione politica (di fatto impossibile o velleitaria). Difficoltà, inoltre, a misurare la crisi del Pd, cioè della prospettiva del neoliberismo liberal, del partito borderless a vocazione maggioritaria; una crisi irreversibile a cui si offre la prospettiva riparatoria del centrosinistra rinnovato, o del ritorno all’Ulivo.

Da questa difficoltà di analisi discendono le difficoltà strategiche, ovvero l’incapacità di decidere se si vogliono i voti degli elettori del Pd dissenzienti dal renzismo ormai divenuto una ossessiva vicenda personale – mentre il Pd che subisce ogni giorno smottamenti di ceto politico e che sta risultando privo di appeal se non presso chi ha qualche bene al sole e teme di perderlo – oppure i voti di chi detesta radicalmente il Pd e il sistema di potere che esso malamente sorregge, come un sistema impoverente ed escludente (e più si sostiene che in realtà il Pil va bene, e le esportazioni pure, più si attizza la rabbia dei cittadini sui quali questo miglioramento meramente statistico non ricade – cioè la rabbia della stragrande maggioranza degli italiani –).

E di lì discendono anche le difficoltà a definire l’orizzonte dell’impegno del nuovo soggetto politico, e a decidere se questo sia determinato dalle prossime elezioni e dall’obbligo di essere presenti in parlamento, oppure se si abbia una prospettiva di più lungo respiro, quella di impiantare in Italia una sinistra che sia forza di ricostruzione del Paese e della società su basi larghe e nuove rispetto al lungo ciclo distruttivo apertosi negli anni Ottanta.

A quelle difficoltà è da ricondurre anche la disputa se la nuova sinistra debba essere identitaria o di governo, dove il primo termine, solitamente usato in senso spregiativo, designa una presunta purezza ideologica (ma quale?) refrattaria a contaminazioni e ad alleanze, il secondo una disposizione a conciliarsi col mondo così com’è, razionalizzandolo con «riforme» – ed è ovvio che la sinistra che nasce dovrà essere tanto identitaria, ovvero certa di sé anche culturalmente, quanto capace di governare il Tutto muovendo da una Parte in alleanza con altre –.

La sinistra non sa decidere fra questi dilemmi – che i politici in generale non amano mai –, ma non può neppure sperare di evitarli esercitando l’antica doppiezza, o la complexio oppositorum, strategie praticabili da grandi partiti di massa come il PCI o la DC, ma non da una piccola forza quale essa è destinata a essere, nell’immediato. E non sa decidere perché sono vere entrambe le ipotesi di base dell’analisi della società, che cioè i cittadini vogliono discontinuità (chi ha perduto, nella grande crisi) ma anche sicurezza (chi ha ancora qualcosa, per poco che sia). Perché è vero tanto che l’attuale sistema economico è insostenibile e impoverente, quanto che nessuno ha idee radicalmente alternative o la forza di realizzarle. Perché è vero che gli esponenti del vecchio ceto politico che oggi si propongono come portatori di discontinuità sono fra i responsabili delle sconfitte storiche della sinistra, ma è anche vero che il nuovo ceto politico stenta a trovare in sé idee, energie e motivazioni (a parte Renzi, la cui personale ambizione è davvero notevole).

Questa incapacità di decidere si è manifestata anche nei rapporti con il governo, rispetto al quale i gruppi parlamentari di sinistra (a parte SI) si sono alternativamente collocati tanto con la maggioranza quanto con l’opposizione. Al di là degli evidenti motivi di tattica politica, questa indecisione rispecchia tutte le difficoltà che si sono enumerate.

Eppure, la decisione serve appunto a risolvere le situazioni che non presentano in se stesse una chiara linea evolutiva. È una scommessa, non sconsiderata, sul futuro. Di questa decisione – da parte di un ceto politico credibile e convincente perché convinto – c’è bisogno perché in essa sta l’unica energia politica che in questo momento aurorale si può mettere in campo. Tutti a sinistra, insomma, devono dismettere l’attitudine epigonale, da «ultimi giorni» e collaborare a un «nuovo inizio». Detto in altri termini, solo da una decisione chiara può nascere un messaggio chiaro agli elettori, senza il quale non è probabile che la sinistra nascitura sia un neonato vitale.

E non è per nulla sufficiente che la decisione sia l’esito obbligato del sistema elettorale proporzionale al momento voluto da Renzi: se oggi questo obbliga la sinistra a presentarsi sola alle elezioni, e quindi ad accentuare le distanze dal Pd, che cosa succederebbe se un ripensamento (propiziato da Prodi) portasse Renzi a impegnarsi per un nuovo sistema maggioritario che premiasse le coalizioni? Forse si andrebbe a un’alleanza pre-elettorale col Pd, e si definirebbe questa alleanza il «nuovo centro-sinistra»? Come è evidente, a sostenere la nascita del nuovo soggetto politico devono esistere motivazioni politico-culturali più forti che non la legge elettorale, motivazioni che nascono da analisi autonome e radicali, e da progetti ambiziosi e di lungo periodo. Nonché dal riconoscimento del sostanziale fallimento storico del centrosinistra, almeno nella sua veste di partito unico (il Pd) appaesato in un contesto bipolare – un fallimento che è tutt’uno con la crisi dell’ordine economico neoliberale e dell’assetto dei poteri e delle istituzioni nel nostro Paese –.

Dare risposta ai problemi veri del Paese (lavoro, PA, scuola, università, gestione del territorio, criminalità organizzata, immigrazione, crollo dello spirito civico) in un contesto di debolezza economica e sotto i vincoli dell’euro, non è una questione di spot, di bonus, di narrazioni; è un’impresa titanica che implica la ripoliticizzazione della società, la riculturalizzazione della politica, la ricostruzione della sfera pubblica, in un contesto, per di più, oggettivamente favorevole alla destra. Se non si ha questa consapevolezza, si resta nella subalternità o nel velleitarismo. Se la si ha, si può mettere mano a un disegno di spessore storico, sapendo che la cultura politica non si inventa dall’oggi al domani, e che lo stesso si deve dire del radicamento sociale, dei leader, delle classi dirigenti.

Niente fretta, quindi, o meglio, festina lente, «affrettati lentamente». La sfida elettorale non è la più importante, benché sia incombente; il ragionamento deve estendersi molto oltre di essa, senza governismi né isolamenti aprioristici. Soprattutto, la guerra di movimento elettorale non potrà essere per ora altro che guerriglia; ben più importante è rifondare le basi di una guerra di posizione di lungo periodo. Per rifare l’Italia da sinistra, e per dare agli italiani una protezione che passi non attraverso le ricette escludenti della destra ma che si fondi sul recupero dei diritti e della speranza, a partire dalle condizioni materiali di vita, di studio e di lavoro.

È chiaro che questo soggetto – in sintesi, un quarto polo che farà alleanze quando sarà abbastanza robusto per non essere subalterno – dovrà darsi presto, ma non affrettatamente, strutture democratiche e organizzazioni trasparenti, e che dovrà quanto prima smarcarsi dal governo e dalle sue politiche. Ma soprattutto dovrà dare l’impressione di volere esistere, di volere radicarsi nella società, di voler durare, di volere affrontare problemi veri con ambizione vera.

Sessant’anni fa, nell’anno che chiuse la seconda legislatura repubblicana, la DC si preparò alle elezioni con un governo di transizione, quello di Adone Zoli (galantuomo antifascista) e andò alla prova elettorale, in pieno miracolo economico, con lo slogan «progresso senza avventure», perché gli italiani non si spaventassero dei tentativi di apertura a sinistra, che infatti rimasero frustrati anche nel corso della terza legislatura. Oggi, il partito che regge il maggior peso del governo, nel mezzo di una crisi politica, civile, economica e sociale senza fine, pare impegnato in una sorta di «avventura senza progresso», in un tentativo di rivincita personale del grande sconfitto del 4 dicembre. La sinistra, che non ha voluto attingere all’energia che in quella circostanza si manifestò (certo non era solo un’energia di sinistra) dovrà ora inventarsene una, a partire dalle condizioni materiali del Paese e da un disegno ideale che le sappia interpretare; e ha quindi il compito di prospettare agli italiani, tanto l’«avventura» quanto il «progresso», ovvero, con il linguaggio di oggi, tanto la discontinuità quanto le nuove certezze, coniugando in sé, meglio di quanto sappia fare la destra, immaginazione e realismo.

 

Intervista sulla sinistra

Intervista con Francesco Nurra

 

 

Sembra che in Italia chi è interessato alla politica debba necessariamente affidarsi alla logica della leadership del cosiddetto «uomo solo al comando»? Quali sono secondo lei le cause politiche e storiche di questa scelta?

Bisogna sfatare la tesi che a sinistra non esista una tradizione di leadership forti e anche carismatiche. Da Gramsci a Togliatti a Berlinguer, solo per restare in Italia, abbiamo esempi dell’esatto contrario. Ciò a cui oggi assistiamo è in realtà il susseguirsi di tentativi di leadership prive degli altri fattori essenziali della politica: cioè prive di idee, di partiti organizzati, radicati e partecipati, e prive di ceti dirigenti sperimentati. Leadership solitarie, insomma, che si affidano a un rapporto immediato ed emotivo con una massa di cittadini disorganizzata e utilizzata soltanto nella fase del voto, e che non si confrontano con i gruppi dirigenti ma che si affidano alla collaborazione di un ristretto «seguito», ovvero a un «cerchio magico» di fedelissimi. Se ci chiediamo perché ciò avviene, non possiamo che rispondere che questa deriva leaderistica e personalistica è il più vistoso effetto della crisi dei partiti, innescata decenni fa nel nostro Paese tanto dalla mancanza di alternanza e dalla conseguente endemica corruzione quanto dall’affermarsi di mezzi di comunicazione (televisione e rete) che rendono la mediazione partitica obsoleta fornendo ai cittadini-spettatori l’illusione della democraticità e della partecipazione. Naturalmente noi sappiamo che appunto di illusioni si tratta, che quei nuovi mezzi di comunicazione sono di proprietà privata e che hanno come esito la manipolazione, la solitudine, la mancanza di confronto e di spirito critico; che assecondano e approfondiscono la scomparsa della dimensione pubblica; che la politica va fatta da persone in carne e ossa che si incontrano per ragionare e per deliberare, costituendo così la «pubblicità»; e che al potere economico, per sua natura oligarchico e non democratico, si può opporre solo un potere politico fatto di istituzioni democratiche e di partiti organizzati. E sappiamo anche che a questa prospettiva si oppongono i poteri che hanno contribuito, con i media da loro controllati, a screditare la politica istituita per consentire il mantenimento dello status quo in quanto presunto privo di alternative

Riguardo all’ultimo referendum costituzionale, lei ha affermato che si trattava unicamente di una formalizzazione delle pratiche già attuate in Parlamento; in altre parole, il ruolo del Parlamento è esautorato da prassi meramente incentrate sull’azione del governo a discapito di un Parlamento senza alcuna capacità di azione politica: si è insomma nel pieno di una oligarchia governativa. Le sembra che dopo il referendum del 4 dicembre sia cambiato qualcosa? Crede che chiunque vada al governo segua questa prassi ormai consolidata?

La crisi del Parlamento, l’istituzione centrale della moderna democrazia rappresentativa, precede addirittura la crisi dei partiti. Sono stati i partiti, nel secondo dopoguerra, a rivitalizzare il Parlamento che non aveva retto la sfida dell’ingresso delle masse in politica e che era stato completamente asservito dai regimi totalitari. E con la crisi dei partiti degli anni Ottanta anche il Parlamento ha conosciuto una nuova obsolescenza e una perdita di centralità politica a tutto vantaggio del governo. Si tratta di un trend comune all’Occidente, ma accentuatissimo in Italia, dove la critica al parlamentarismo è sempre stata forte, con l’eccezione parziale di una ventina d’anni nel secondo dopoguerra, in chiave tanto di qualunquismo plebeo quanto di efficientismo tecnocratico quanto di autoritarismo repubblicano-gaullista. E non a caso la nuova critica al Parlamento – implicita nelle riforme bocciate il 4 dicembre, che trasferivano anche formalmente tutto il potere al governo – riecheggia, per chi le conosca, queste tradizioni anti-parlamentari, a cui aggiunge nuova virulenza l’esasperazione dei cittadini per i presunti privilegi dei parlamentari. Una indignazione nel merito fuori posto, ma giustificata dal fatto che è a tutti evidente che il Parlamento non sta facendo ciò che dovrebbe: che non rivendica il ruolo (che gli spetta) di centro del sistema politico, e si lascia guidare dal governo (il quale è certamente di fiducia del Parlamento, ma a quest’ultimo, oggi, ha di fatto sottratto l’iniziativa legislativa) e da poteri extraparlamentari come come i «capi» di forze politiche (di partiti personali, in realtà) che dall’esterno del Parlamento pretendono di deciderne le sorti. Come si è visto nella recente vicenda della legge elettorale a cui solo il voto segreto ha potuto mettere un freno, pur senza che dal Parlamento sia partita una proposta alternativa al patto dei «quadrumviri». È chiaro che a un Parlamento così debole i cittadini non perdonando nulla, e che anzi ne mettono in discussione la legittimità.

Si parla spesso di un impoverimento della cultura dei parlamentari italiani. Lei ritiene che si possa parlare di un impoverimento culturale all’interno delle ultime legislature rispetto a quelle, ad esempio, della Prima repubblica? Come contrastare questa deriva?

L’impoverimento culturale dei parlamentari rispetto alla Prima repubblica è del tutto evidente: è sufficiente confrontare i discorsi parlamentari della Prima repubblica con quelli attuali. La povertà del linguaggio, le difficoltà argomentative, l’orizzonte storico e intellettuale ristretto, balzano agli occhi – sono pochissime le eccezioni –. Non solo tutta la società è più incolta – poiché la scuola trasmette forse nozioni ma certo non solide basi di pensiero critico –, ma si sono anche interrotti i tradizionali canali di formazione dell’alta cultura (quella che dovrebbe appartenere a un parlamentare, che non deve essere un professore ma che non può neppure essere uno studente fuoricorso o un chiacchierone da bar) e anche i canali di formazione dei ceti politici (scuole di partito, centri studi, cursus honorum giudiziosamente graduali). Il fatto è che l’attuale forma economica e l’attuale società non vogliono – e quindi non preparano – né ceti intellettuali critici e autorevoli né politici autonomi culturalmente: semmai, vogliono pochi «specialisti», tecnici affidabili che stiano al loro posto; e ne vogliono pochi, perché preferiscono avere a che fare con masse poco colte, immerse nel mondo virtuale e quindi prive di profondità storica, e facilmente aizzabili, con pochi slogan plebei, contro le élites (come dimenticare i «professoroni» di Renzi?).

Ritiene, Galli, che uno dei motivi di sconfitta dei partiti di sinistra risieda anche nel deficit organizzativo interno in merito alla politica di formazione stabile dei futuri quadri e dirigenti? Lo spostamento della formazione da funzione dell’organizzazione del partito a funzione culturale dello stesso può avere contribuito, oltre che a impoverire la qualità dei quadri, anche a rispostare sui ceti borghesi di sinistra piuttosto che sulle classi più umili l’orientamento dei partiti di sinistra?

La sinistra è stata sconfitta dalla Quarta rivoluzione del Novecento, il neoliberismo, perché dapprima non ha visto arrivare la nuova iniziativa capitalistica, la nuova forma sociale ed economica che avanzava, e perché non ha saputo valorizzare la posizione di forza raggiunta a metà degli anni Settanta (alla quale ha appunto reagito il capitale). E perché, in seguito, ha salutato come un evento positivo – non con realismo, quindi, ma con ingenuità unita a masochismo – il neoliberismo, la globalizzazione e lo pseudo-individualismo che l’ha accompagnata, e l’attacco al pensiero critico e al pensiero dialettico: e così ha accettato l’autorappresentazione ideologica del capitale nella sua nuova forma, illudendosi di correggerne le asprezze con la cosiddetta «terza via». In realtà, ha attivamente contribuito alla deregulation che, distruggendo l’equilibrio di Bretton Woods, ha minato il terreno che aveva reso possibile il «compromesso socialdemocratico», la maggiore conquista politica e sociale della sinistra in Occidente: la sinistra ha creduto che la globalizzazione capitalistica estendesse la platea del ceto medio creato dalle politiche keynesiane e non ha capito che l’obiettivo del neoliberismo era ed è distruggere il ceto medio, trasformandolo in una massa di indebitati insicuri (e lo stesso vale per gli strati superiori dei ceti operai). La sinistra ha assecondato l’individualizzazione della società, senza capire che per tale via passava una delle conquiste più importanti del neoliberismo: la scomparsa della dimensione pubblica. La sinistra ha fatto propria la critica neoliberista dei partiti e dei corpi intermedi, con un atteggiamento del tutto suicida. Insomma, la sinistra ha assecondato acriticamente lo spirito del tempo senza nemmeno capirlo, assumendo su di sé le compatibilità del capitale, elevando il mercato a regola e fondamento della società, e così ha perso il luogo, il modo, lo scopo della propria esistenza politica, non ha elaborato analisi sulle contraddizioni della nuova fase del capitalismo e anzi ha negato valore alle categorie intellettuali che potevano sostenere la critica al presente stato di cose. L’autodefinizione della sinistra, oggi, è ridotta a un timido riferimento a «valori» talmente generici da risultare politicamente inutili, e l’affermazione, peraltro sempre smentita nei fatti, che «sinistra è stare dalla parte degli ultimi» – tesi estranea alla tradizione della sinistra, che si è sempre posta il problema di capire i meccanismi strutturali che portano al formarsi di ceti che sono «deboli» pur essendo centrali nel sistema produttivo, e che si è sempre data la finalità di trasformarli in soggetti politici protagonisti della storia –.

Ritiene che le categorie gramsciane siano ancora valide per l’analisi della situazione attuale? Lei come spiegherebbe alcuni fenomeni odierni attraverso il pensiero di Gramsci? Se può, fornisca degli esempi.

Sono molte e assai variegate le categorie gramsciane. In generale, va ricordato che Gramsci pensava il suo tempo, ovvero la scelta del capitalismo di abbandonare il liberalismo e di darsi forme autoritarie – sotto la pressione di trasformazioni del regime di fabbrica (il fordismo), dell’avvento politico delle masse (il nazionalismo e il socialismo) e della grande crisi economica –. Davanti a queste grandi trasformazioni Gramsci ha capito che doveva competere con esse alla loro stessa altezza; che non doveva ritrarsi in una riserva indiana, politica e intellettuale; che doveva re-interpretare l’auto-interpretazione del capitalismo, ovvero doveva prendere sul serio il suo modo di produzione, la sua politica, la sua società , la sua storia, la sua cultura, per coglierne le contraddizioni determinate, e riscrivere così la storia da un punto di vista alternativo eppure concreto, non utopistico; che doveva anche riscrivere l’agenda della sinistra, puntando a fare uno Stato nuovo, democratico (a egemonia proletaria), e a uscire da ribellismi e mitologie rivoluzionarie. Pensiero e azione, volontà e progetto, storia e decisione, si uniscono in una prospettiva politica e filosofica originale, nata in una tragica sconfitta, dentro un carcere, eppure capace, già a meno di dieci anni dalla morte di Gramsci, di costituire una delle colonne portanti del primo Stato democratico della storia d’Italia. Gramsci pensava a una politica fortissima, capace di cambiare il mondo; non a rispettare le compatibilità del capitale (a conoscerle, sì). Fare paragoni con l’oggi è impietoso: Gramsci non si sarebbe sognato di pensare a un partito «leggero», a gruppi dirigenti improvvisati, alla sottovalutazione della cultura da parte dei dirigenti politici; non avrebbe mai abbracciato una interpretazione non conflittuale della società: pur nella sua prospettiva nazionalpopolare di ricostituzione di una società larga, pensava all’esigenza di un’egemonia che la orientasse, di una politica specifica che la guidasse. Pur non indulgendo alla critica della tecnica, non pensava che la politica dovesse cederle il passo. Tenere fermo tutto ciò in un’epoca diversa, la nostra, caratterizzata da un diverso impianto della produzione, nell’età non della meccanica e del fordismo ma dell’elettronica e del lavoro spezzettato, in una società non dei partiti ma degli individui (o presunti tali), nell’età della globalizzazione che ha cambiato il rapporto fra Stato ed economia, non è facile. E richiede imponenti supplementi d’analisi. Ma l’idea che la sinistra tragga senso dal proporsi come alternativa ai rapporti economici e politici attuali, sulla base di una soggettività collettiva impegnata in un’azione emancipativa, ovvero che la sinistra sia una ripoliticizzazione conflittuale della società e in prospettiva dello Stato, non può essere dismessa, pena l’adesione di fatto ai postulati del potere liberista (che cioè la società non esiste, che il mercato è il supremo regolatore delle nostre vite e che le sue compatibilità sono indiscutibili, che non c’è alternativa, che non c’è conflitto di classe, che la disuguaglianza è un bene, che la democrazia è un lusso tendenzialmente superfluo). Come si vede, se si accettano queste premesse la sinistra è da rifare.

Socialismo sono i lavoratori che si impadroniscono dei mezzi di produzione. Lo statalismo ha prodotto l’URSS. C’è un’alternativa?

Se la contraddizione centrale del capitalismo è l’appropriazione privata del plusvalore socialmente prodotto, e se quindi non si può dismettere la prospettiva di una «società regolata», diversa da quella giungla che è oggi la nostra società, ciò non implica che la soluzione sia l’economia di comando in stile sovietico, con quanto ne è conseguito sul piano politico. La politicizzazione della società, a partire dai rapporti economici, è il vero obiettivo, il che equivale a impedire all’economia di presentarsi come forza autonoma valida in ultima istanza per l’intera società, e di far valere incondizionatamente gli interessi privati che essa incorpora in sé. Si può rilanciare il conflitto sociale, che ha mille motivi di manifestarsi; si può allargare l’intervento economico dello Stato, per quanto riguarda sia gli investimenti sia la fiscalità volta alla redistribuzione (senza la quale la crescita del Pil, se c’è, non ha positivo rilievo sociale); lo Stato – che può essere democratizzato, sia pure a fatica, mentre il mercato in quanto tale non può esserlo – può orientare lo sviluppo in una direzione o in un’altra; ambiti significativi della società possono essere sottratti all’imperativo economico e indirizzati alla piena crescita umana (scuola, sanità, beni culturali e ambiente). Soprattutto si tratta di rivalutare la dimensione pubblica (statale o collettiva, ovvero attraverso partiti e movimenti) come orizzonte di sviluppo della civiltà, che è oggi immiserita nell’angustia di un individualismo patologico e ossessivo, che peraltro viene ogni giorno smentito dal prevalere di giganteschi poteri sulle persone reali. Un’impresa di liberazione dell’uomo dalle maglie del pensiero unico e dallo sfruttamento colonizzatorio di ogni spazio vitale, ossia un’impresa di esplicito riconoscimento e di realistico contrasto delle attuali forme di «reificazione attraverso la individualizzazione subalterna», con l’obiettivo finale che gli uomini e le donne vivano in una società di cui si riconoscano autori e protagonisti, e che non gravi su di essi come una oscura forza naturale: questa è la linea strategica della sinistra, oggi. Obiettivi umanistici, quindi, perseguiti con cultura critica, serietà organizzativa, tenacia strategica, conflittualità non occasionale. L’URSS, da parte sua, è parte di una storia di liberazione che si è presto impigliata nell’oppressione per cause storiche sia remote sia contingenti: col suo comunismo militarizzato è stata un mito, ma non è un destino. I tratti illiberali della sinistra sono in linea di principio accidentali, per quanto gravi e frequenti, e non derivano necessariamente dalla sua critica al liberalismo, che è una critica di superamento, non di negazione.

In quello che sembra un ritorno al protezionismo e a un’idea degli Stati-nazione e dei confini come perno dell’agire politico, quali proposte può avanzare la sinistra del XXI secolo all’interno di questo scenario? Esiste, secondo lei, uno spazio politico per la sinistra all’interno di questo contesto?

Sono un convinto statalista. Delle grandi costruzioni della modernità – oltre allo Stato, il mercato, il partito, la tecnoscienza – lo Stato è l’unica (insieme al partito, ma meglio di questo) che, con enorme fatica e non senza contraddizioni, può essere democratizzata. La sinistra è nata anche contro lo Stato, strumento di dominio e di oppressione dei ceti padronali; ma si è presto conciliata con lo Stato, che, una volta governato da partiti di sinistra, si è dimostrato una potente macchina di inclusione sociale degli strati deboli della popolazione e di produzione di maggiore uguaglianza sociale. Lo Stato non esaurisce la politica e non coincide con tutta la sfera pubblica; ma ne fa parte integrante, e la sua obsolescenza è molto più una interessata narrazione neoliberista che una verità assodata. Se è vero che il livello dell’azione politica è nelle periferie delle città, nei movimenti transnazionali e nelle istituzioni sovranazionali, è anche vero che se non può contare sul potere dello Stato, e anzi se lo ha contro, la sinistra non ha né presente né futuro. È solo grazie allo Stato, e al partito che ne controlla democraticamente i poteri (ma non quello giudiziario), che si può istituire un credibile argine al dilagare del potere economico e mediatico. Solo agendo sul potere politico-statale si può aprire una breccia nel conglomerato di politica, economia, narrazione, che è il blocco onni-inclusivo del potere contemporaneo. Ed è vero, infine, che anche la prospettiva politica più ardita (e improbabile) che possiamo intravedere, cioè gli Stati Uniti d’Europa, ha senso solo se esistono, appunto, gli Stati contraenti con la loro volontà politica. Ed è vero, per converso, che il globalismo di sinistra rischia di essere l’altra faccia del globalismo come è narrato dal capitale – che in realtà da parte sua, nonostante la propria proclamata autosufficienza, dello Stato si serve abbondantemente (e non potrebbe essere altrimenti) e sempre di più si servirà – naturalmente in una versione penale ed emergenziale da rifiutare in toto – proprio per il relativo raffreddarsi della globalizzazione e per l’emergere in essa di linee di conflitto politiche che vedono coinvolti sia Stati sia bande armate post o pre-statuali -.

Quali testi e autori consiglierebbe a chi volesse intraprendere lo studio della Storia delle dottrine politiche? Quali invece a chi voglia avvicinarsi a una politica di militanza? Se oggi lei fosse direttore di una scuola politica simile a Frattocchie, su quali autori indirizzerebbe l’attenzione dei suoi allievi?

Secondo una celebre affermazione di Engels, il movimento operaio è l’erede dell’illuminismo francese, dell’economia politica inglese, della filosofia classica tedesca. Cioè deve essere all’altezza dello sviluppo intellettuale più avanzato della modernità, per reinterpretarlo in chiave emancipatoria. Oggi, la sinistra – che essa coincida col movimento operaio o piuttosto con l’ansia di liberazione di strati più larghi e meno omogenei della società – ha il medesimo compito. E alla ricapitolazione critica della modernità deve aggiungere anche la prospettiva, tutta novecentesca, della sua decostruzione – ponendo la massima attenzione a non cadere nella trappola post-moderna, cioè nella perdita di ogni possibilità di prospettiva critica, e quindi stando più che attenta a evitare la subalterna accettazione acritica del presente -. Compito difficile, al limite dell’aporia, come del resto è ambiziosissimo l’obiettivo politico e intellettuale che la sinistra si deve porre. Detto questo, all’elenco di Engels non si può non aggiungere il marxismo occidentale, e il confronto critico con la linea nietzschiana e heideggeriana, come non possono essere trascurati i classici moderni della sociologia, della scienza politica, e della storiografia economica e politica. Si dirà che quanto ho detto implica corsi di studi equivalenti a un paio di lauree, in Filosofia e in Scienze politiche. Ed è vero. Ma è anche vero che docenti esperti e discenti motivati possono, con un percorso concentrato ripreso nel tempo, in quattro o cinque cicli, affrontare alcuni nodi strategici dello sviluppo intellettuale della modernità e delle prospettive della contemporaneità. E soprattutto è vero che la stessa istituzione di una seria scuola di partito (non dei surrogati mediatici che oggi sono proposti) significherebbe che è risultata vincente l’idea «rivoluzionaria» che la politica, oltre che un confronto ininterrotto con la contingenza, è anche la decifrazione del presente con strumenti intellettuali complessi – perché il presente è oscuro, ma non sottratto a priori alla fatica del concetto -. Questo approccio critico alla politica è appunto ciò che l’attuale sistema di potere vieta in ogni modo: poiché a questo divieto si è da tempo felicemente accodata anche la sinistra, prigioniera del tatticismo più pigro, del «presentismo» più cieco, del nuovismo più stucchevole, del plebeismo più ambiguo, invertire questo trend è il primo, indispensabile, passo emancipatorio. È anche attraverso questo metodo che si può dare forma al soggetto sociale e politico di sinistra, sottraendolo alla anomia intellettuale e al qualunquismo a cui oggi è facilmente indotto.

Se poniamo come dato di fatto il declino delle forme di partito tradizionale, quali sarebbero, secondo lei, le modalità di organizzazione più consone per la sinistra contemporanea?

Non esiste sinistra senza sfera pubblica; e non esiste sinistra che non si ponga in relazione forte con lo Stato. Non esiste sinistra che aderisca all’ideologia neoliberista della «società degli individui» e della «società liquida», che non veda le terribili e invincibili disuguaglianze che strutturano la società attuale in strati ancora più solidi delle vecchie classi; non esiste sinistra che aderisca all’ideologia della competizione e della valutazione, e della neutralità e inevitabilità del sistema capitalistico. Non esiste sinistra senza una reale, concreta, approfondita capacità di critica e senza una reale spinta ad affermare il proprio linguaggio e la propria lettura della realtà. Non esiste sinistra senza che sia dissipata la tesi che destra e sinistra non esistono più, sostituite dal cleavage sistema/antisistema, civiltà/barbarie. Non esiste, infine, sinistra senza che si acceda anche all’idea di partito organizzato che organizza parti di società, senza sospetti divieti preventivi, senza interessati anatemi, senza compiaciuti scetticismi. La crisi dei partiti è in parte reale e in parte, invece, indotta e narrata dal neoliberismo e dai media mainstream: la leadership solitaria che si rivolge mediaticamente a folle scomposte e occasionali non sarà mai di sinistra. Ciò non significa che i partiti esistenti non possano perire per inadeguatezza, e che nuove formazioni non possano prenderne il posto, come forse in qualche modo sta avvenendo in alcuni Paesi, fra i quali purtroppo non c’è ancora l’Italia. Detto questo, tutto quanto va nella direzione di ripoliticizzare la società è da salutare con favore: ed è necessario dialogare con tutti i soggetti che si formano nella società, al fine di mettere a frutto l’energia di tutti. Quindi partiti e movimenti, forme associative spontanee della società civile e sindacati, tutto è indispensabile per raggiungere l’obiettivo di spezzare solitudine e subalternità, e ricostituire la nervatura politica di una società non rassegnata.

L’intervista è in corso di pubblicazione in «http://www.sinistra21.it» 

Carlo Galli e la politica come potere meno potente

Intervista con Luigi Somma

Osservare la politica in medias res per coglierne le trasformazioni ancora in atto, arrischiandosi su un terreno franoso e instabile come quello della politica italiana.

È possibile ritrovare questo sforzo nel libro Democrazia senza popolo di Carlo Galli – docente di Dottrine politiche presso l’Università di Bologna e parlamentare – che verrà presentato oggi alle 19 presso l’Arco Catalano di Palazzo Pinto, nell’ambito di «Salerno letteratura». Il tema dell’incontro è Per la nobiltà della politica, con la conduzione di Gennaro Carillo.

Galli traccia nel suo libro la parabola politica del nostro Paese, a partire dalle elezioni del febbraio del 2013 – segnate dal tentativo fallito di Bersani di dar vita a un nuovo governo – fino al referendum costituzionale.

Galli, partiamo dal titolo del suo libro Democrazia senza popolo. Che cosa vuol dire?

In linea di principio, non credo sia possibile che una rappresentanza politica possa sopravvivere senza il proprio rappresentato. Non c’è mai l’assenza totale del rappresentato, ma c’è una progressiva diminuzione qualitativa e quantitativa dello stesso; nel senso che ormai va a votare solo una metà della popolazione, mentre l’altra metà resta a casa. Anche nell’ipotesi che il popolo si esprima, la sua volontà è completamente ininfluente. Il sistema istituzionale della democrazia continua a funzionare anche in Parlamento, anche se c’è sempre meno popolo, che è stato prima gravemente illuso e poi disilluso.

Come si collocano le forze populiste rispetto a questo status quo?

Le forze populiste sono forze che giocano la classica mossa intellettuale e politica del populismo, cioè dividono il mondo in un «noi» e un «loro». Per cui «noi» siamo i molti onesti, mentre «loro» sono i pochi disonesti. «Loro» sono tutti uguali e, anche quando evidenziano la loro diversità, in realtà stanno recitando. Gli unici a fare la differenza siamo «noi». Dopo aver acquisito in questo modo molti voti, questo movimento, che non è né di destra né di sinistra, da qualche parte va a cadere: oggi è molto probabile che vada a cadere sulla destra.

Lei scrive: «La politica è il potere meno potente». Che cosa c’è dietro questa affermazione?

La nostra non è una società liquida, ma rocciosa e quindi composta da tante differenze, disparità e contraddizioni, che sono tutte congelate, incapaci di produrre progresso nella loro pericolosa immobilità. L’ultima generazione dei politici di sinistra ha lasciato cadere l’ipotesi che la politica fosse onnipotente, mettendosi invece a rimorchio delle potenze economiche e facendo in modo che fossero queste ultime a segnare la via e ad assegnare alla politica il proprio ruolo. Ovvero, aiutare le forze economiche a fare piazza pulita delle architetture dello Stato sociale. Così le forze politiche di sinistra si sono assunte l’incarico di aiutare il mercato a fare piazza pulita dei diritti, poiché erano questi ultimi a impedire ad esso di affermarsi.

L’articolo è stato pubblicato in «la Città. Quotidiano di Salerno e provincia» il 24 giugno 2017

La sinistra deve ritrovare se stessa

Intervista con Francesco Postorino

Il titolo del suo ultimo libro recita: Democrazia senza popolo (Feltrinelli 2017). Com’è risaputo, anche la sinistra è senza popolo. Crede vi siano le condizioni per ricucirne il legame?

Si tratta in realtà di due questioni diverse. Fine della efficacia della rappresentanza politica (un tema vecchio di almeno centocinquanta anni) e fine dell’efficacia di una proposta politica (la sinistra come partito di massa che propone un profondo riequilibrio economico sociale e politico nelle società occidentali).

Le due questioni diventano una sola quando entrano in crisi i partiti, che davano energia politica ai parlamenti e al tempo stesso organizzavano bisogni e progetti di settori più o meno estesi delle società. La sinistra, oggi, non è più partito perché non è parte, perché non sa leggere e interpretare la parzialità della società e dei meccanismi economici che la determinano, perché è imbevuta dell’ideologia neoliberista (e ordoliberista) dell’unicità della società, dell’inesistenza di contraddizioni strategiche che l’attraversano e la strutturano. E quindi lascia il popolo, con le sue sofferenze, a imprenditori politici populisti.

Se l’espressione non la turba, perché ha deciso di «scendere in campo» nel febbraio del 2013?

Non sono «sceso in campo»! Sono stato candidato come intellettuale pubblico, vicino (allora) al Pd in un’ottica di superamento sia dell’esperienza di Berlusconi sia di quella di Monti, in nome di una nuova interpretazione socialdemocratica della mission del Pd; ma quel superamento si è subito rivelato impossibile sia per la sostanziale sconfitta elettorale del 2013 sia perché il Dna del Pd, largamente debitore della cultura politica ed economica del neoliberismo, ha prevalso, sia perché un abile imprenditore politico, Renzi, era disponibile a impadronirsi del partito accentuandone le caratteristiche leaderistiche e populistiche (in senso soft).

Non è semplice il ruolo dell’intellettuale nei Palazzi del potere. Pensa di aver saputo conciliare fin qui la calma del concetto con le passioni della contingenza, la dottrina del «professore» con l’esercizio pratico e sperimentale dell’attore politico?

Ha senza dubbio prevalso in me il tentativo di conservare una coerenza intellettuale, pur essendo più che consapevole della dimensione pratica della politica, che per essere efficace deve misurarsi con la realtà. Tuttavia, non può diventare, come ormai in larga parte è, pura tattica, cieca gestione dell’esistente, né essere solo lo strumento di personali ambizioni di potere.

Perché ha lasciato il Pd?

Non certo per opportunismo. Ma proprio perché si è progressivamente evidenziata, prima con Letta e poi con Renzi, la sua piena e irrimediabile vocazione a interpretare la politica secondo una cultura (in ogni caso, scarsa) e secondo analisi totalmente interne al punto di vista neoliberista, cioè secondo un asserito individualismo che è oggettivamente la consegna della società alle logiche del profitto e alle disuguaglianze più laceranti, pur ammantandosi dei panni del «partito della nazione». Il Pd, inoltre, si è fatto con Renzi esclusivo portatore di una politica di fatto plebiscitaria, cavalcando la insofferenza popolare verso i corpi intermedi, partiti e sindacati, e anche con qualche tratto antiparlamentare e anticulturale, come è emerso durante la terribile campagna referendaria – ma era già chiaro dal «jobs act» e della «buona scuola», a cui ho votato contro, come ho votato contro la legge elettorale e la riforma costituzionale.

I progressisti di oggi, a suo avviso, hanno le idee abbastanza chiare sui diritti civili e sono veri liberal, ma ciò «non è sufficiente a definire una posizione e un programma di sinistra». Che cosa servirebbe?

I diritti civili sono un pezzo fondamentale di una società libera, un prerequisito della democrazia, ed è giusto implementarli per quanto lo consentono i rapporti di forza politici e culturali. Infatti, il cleavage destra/sinistra − che continua a esistere ma che è celato dalla pseudo-contrapposizione tra forze del sistema e forze anti-sistema − si rivela in modo chiarissimo sui temi dei diritti (unioni civili, dichiarazioni anticipate di trattamento, omofobia, tortura, cittadinanza dei figli degli stranieri) o su temi come la legittima difesa. Ma esiste democrazia sostanziale, esiste libertà dal dominio reale che grava su tutta la società, solo quando sono fatti valere i diritti sociali e materiali che implicano una revisione radicale del rapporto di forza nel mercato del lavoro, che generano uguaglianza e sicurezza esistenziale sulla stabilità del posto di lavoro, sulla sanità, sul sistema pensionistico, sul sistema scolastico. Sono questi i temi che caratterizzano la sinistra, purché declinati in modo radicale, cioè non come generica vicinanza agli “ultimi” − concetto non di sinistra quanto piuttosto (splendidamente) evangelico − ma come analisi dei meccanismi che producono subalternità e disuguaglianza, e come intervento politico di rettificazione di quei meccanismi.

All’interno del variegato filone della sinistra culturale, lei vorrebbe ridisegnare in termini socialdemocratici il rapporto dialettico capitale-lavoro e si batte in favore di una sinistra potenzialmente «governativa», anche se legata in modo indissolubile all’ideale egualitario. La sua offerta politica quanto è in sintonia con quella formulata da Sanders negli Stati Uniti o da Corbyn nel Regno Unito?

Sotto il profilo culturale la mia posizione di sinistra è molto più complessa, e si nutre, oltre che della versione francofortese del pensiero dialettico, anche di alcune suggestioni indirette ma potenti del pensiero negativo che ho a lungo studiato. Sotto il profilo della pratica politica mi sono convinto che le posizioni estremistiche sono insufficienti e in fondo subalterne, e che sono molto più temute dall’establishment le posizioni coerenti e radicali di un riformismo antiliberista. E quindi mi sento vicino alle figure che lei menziona, particolarmente a quella di Sanders, pur dovendosi sottolineare l’enorme distanza sociale, istituzionale, economica che separa l’Italia dagli USA.

In un altro volume (Sinistra, Mondadori 2013) sostiene che l’ultimo stadio del «pensiero negativo» − quello coltivato nel secolo scorso dai seguaci di Nietzsche − è attraversato dalla lezione neoliberista. Potrebbe approfondire la sua tesi?

Direi che il neoliberismo − che altro non è se non marginalismo rivisitato − condivide, come molte altre espressioni culturali a cavallo dei secoli XIX e XX, la «crisi dei fondamenti» inaugurata dal pensiero di Nietzsche. In sintesi, il neoliberismo, in quanto ostile sia al costruttivismo razionalistico dello Stato sia al conflittualismo dialettico della classe, in quanto vede l’individuo come un imprenditore concorrenziale, in quanto esalta la volontà di vita, di successo, di profitto, che sarebbe in ciascun soggetto, in quanto è ostile alle regole e indifferente alla morale, in quanto sviluppa al contempo il calcolo utilitaristico razionale e il sentimento più immediato e spontaneo (il «capitalismo compassionevole») è, oltre che un sistema economico, anche una gigantesca narrazione mistificante, un ingannevole nietzschianesimo per il popolo, un patetico superomismo di massa. Ed è anche una gigantesca truffa politica: mai più di oggi il soggetto è stato subalterno e precario, mai la società più disperatamente povera e disuguale − altro che società liquida: qui si tratta di una società in rovina −.

La libertà anarchica dell’intrapresa, l’energia eccedente delle soggettività, si sono spente nella deflazione, nella stagnazione, nella disuguaglianza, nella mancanza di legami sociali, di fiducia intersoggettiva, di speranza nel futuro. Il sentimento è divenuto risentimento, e il calcolo si è rivelato sempre sbagliato (tranne che per pochissimi).

Scrive, inoltre, che destra e sinistra sono categorie vive, le quali affondano le radici nello spazio del moderno, dove da Hobbes in poi è centrale e dirimente il nesso ordine/disordine. La sua idea è che la sinistra prende atto del disordine della storia e intende correggerlo in chiave progressiva e razionalistica; le destre, al contrario, premiano per vocazione «l’inconsistenza ontologica della realtà» e dunque – aggiungo io − le ingiustizie sociali. Le chiedo: all’interno di questo schema dove andrebbe collocata la Third Way di Blair, Giddens e Renzi?

La «terza via» è la scelta di una sinistra che accetta sostanzialmente l’impianto economico e ideologico del neoliberismo, e che si illude di guidarlo politicamente verso esiti non distruttivi. Crede, infatti, nel merito individuale, nella società liquida, nella flessibilità del lavoro, nella deregulation, nella funzione centrale (di progresso e di sviluppo) del mercato. Ha per avversari lo Stato, le burocrazie (tranne, a volte, quelle sovranazionali), i sindacati, i partiti, la stessa dimensione pubblica in generale; alla sovranità (che può essere democratica) contrappone la governance (che è sempre opaca). Privilegia inoltre l’iniziativa privata, e nega la possibilità di una significativa politica economica a direzione statale.

La «terza via» crede che uno Stato leggero, essenzialmente anti-monopolistico e anti-sindacalistico, possa ovviare ai «danni collaterali» del neoliberismo, e che in ogni caso l’iniziativa storica sia passata tutta nel campo capitalistico, che diviene così un orizzonte insuperabile, un «pensiero unico».

È l’ideologia di una sinistra di governo che progetta riforme che diano spazio e libertà d’azione alla potenza del capitale, che si illude di poter assecondare senza danni e anzi con profitto per tutti. Concorrenza fra individui, dunque, all’interno di un’unità di fondo (la società del neoliberismo). È, insomma, una versione moderata e benintenzionata (a volte) della destra, in quanto punta più sul disordine (la concorrenza, non il conflitto) che sull’ordine, e in quanto rinuncia a vedere le profonde contraddizioni della società capitalistica, il cui riconoscimento analitico è la condizione per la progettazione teorica e pratica di una società ordinata (che vuol dire «giusta»). La sinistra, infatti, pensa l’unità e l’ordine come un obiettivo da raggiungere attraverso una lotta che prenda sul serio, e non mistifichi né «naturalizzi» le divisioni e le ingiustizie del presente.

L’intervista è stata pubblicata in «MicroMega», l’8 maggio 2017.

Per il 25 aprile

La Resistenza è stata la prima esperienza democratica della nostra vicenda nazionale. Non solo opera di élites illuminate come il Risorgimento, non solo esperienza di masse nazionalizzate come il fascismo, ma, appunto, propriamente democratica, cioè al tempo stesso popolare e progressista, di massa (anche se ovviamente i combattenti in senso stretto furono, com’è normale, una frazione dell’intero) ed emancipatoria. Una riserva d’energia politica da cui ha attinto la fase costituente della repubblica.

Dentro la Resistenza si sono intrecciate tre guerre: la guerra di liberazione nazionale contro il tedesco invasore, la guerra civile contro il fascismo, e la guerra sociale pre-rivoluzionaria. Quest’ultima non rientrava nella strategia ufficiale di nessuna forza politica, e si innescò, non ovunque, per una sorta di effetto di trascinamento dall’estremismo che aveva permeato sia pure minoritariamente alcune forze di sinistra fino dall’epoca pre-fascista; in ogni caso, le dirigenze politiche responsabili la neutralizzarono e ne deviarono l’impulso verso la costruzione istituzionale e sociale della democrazia repubblicana. Ciò che rischiava di gettare l’Italia in una nuova avventura fu trasformato in spinta propulsiva per un futuro comune.

Non era per nulla ovvio che le cose si sviluppassero così. In Grecia, ad esempio, negli stessi anni una guerra di liberazione si è trasformata in guerra civile e in guerra sociale, senza produrre alcuna evoluzione democratica, e anzi generando lutti e divisioni che hanno pesantemente condizionato, in negativo, l’evoluzione successiva di quella storia nazionale. Non era ovvio neppure che nel nostro Paese una gioventù educata di fatto dal fascismo si ribellasse attivamente alla catastrofe in cui la dittatura e la guerra l’avevano gettata; né che i ceti dirigenti antifascisti, perseguitati, imprigionati, esiliati, e mai messi alla prova (nei componenti più giovani) della politica reale, esibissero la maturità e la lungimiranza che hanno effettivamente dimostrato non solo nel sottrarsi all’abbraccio delle élites pre-fasciste, reduci da una sconfitta storica (quando non responsabili di essa), ma anche nel riuscire, pur nelle enormi differenze ideologiche che li separavano, a immaginare e a condividere un’idea di Italia in positivo. Un’Italia non più matrigna ostile per il suo popolo ma finalmente pensata come la casa accogliente e condivisa, capace di realizzare la coesistenza, anche aspramente dialettica, delle diverse proposte – allora in campo – di ricostruzione di una società arretrata, difficile, percorsa da contraddizioni; una società bisognosa di essere organizzata in un nuovo assetto politico, finalmente libero dall’oppressione e dall’oscurantismo, dalle dipendenze ancestrali della donna dall’uomo, del povero dal ricco, dell’ignorante dal colto, dei molti che chiedevano giustizia e progresso dai pochi privilegiati.

È stata la spinta propulsiva della Resistenza, il «vento del nord», a rendere possibile il salto di qualità della storia d’Italia che si è manifestato a ridosso del 1945; la spinta che ha dato all’Italia il coraggio e le ha fornito l’orientamento, che le ha permesso di essere non solo uno spazio di sofferenza e di miseria, un campo di rovine materiali e spirituali, ma anche di aprirsi alla speranza; che le ha dato la forza di ricominciare, di riprendere il cammino. Se il 25 luglio e l’8 settembre sono stati la morte del fascismo e della Patria, la Resistenza, quindi, è stata indubbiamente la sua rinascita; non una propagandistica «rottamazione» del passato, ma una vera discontinuità epocale, un nuovo inizio. Pur perdendo la guerra, insomma, l’Italia non ha perduto se stessa. Il popolo in armi, in ultima istanza, ha dimostrato di essere anche popolo fondatore di istituzioni, popolo libero – di uomini liberi e di donne libere – in grado di darsi liberamente le proprie leggi.

Se la Resistenza è stata una coraggiosa scommessa sul futuro, un investimento su noi stessi, un atto di fiducia degli italiani sull’Italia, i frutti si sono quindi visti ben presto, già nel 1946, con l’impianto della Repubblica, della Costituente e con l’uguaglianza politica di genere. Semmai, è stato con la divisione del campo democratico, dovuta alla guerra fredda, che la spinta emancipatoria della Resistenza è stata lasciata affievolire, che la vita politica del Paese si è allontanata dal progetto di democrazia piena e avanzata implicito nella Liberazione, che tante ingiustizie e discriminazioni si sono conservate troppo a lungo. Eppure, nonostante timidezze e rallentamenti, la Resistenza ha continuato a costituire la coscienza d’Italia, a darci la forma del nostro «dover essere». E quando ce ne siamo allontanati, o l’abbiamo dimenticata, ce ne siamo dovuti pentire. Così come è un autentica sciagura che oggi siano intervenute divisioni che ne hanno impedito la concorde celebrazione, nella malcelata soddisfazione di chi della Resistenza è sempre stato avversario.

 

L’articolo deriva da Resistenza fra rinascita e discontinuità, «Patria indipendente», numero speciale novembre 2017.

Carlo Galli, un professore in Parlamento: «La politica di oggi? Senza cultura e senza immaginazione»

Intervista con Alessandro Franzi

«La politica italiana manca di immaginazione. Si basa soprattutto sui tatticismi, sui piccoli calcoli: ci sono le vecchie volpi che la sanno sempre lunga e pensano di sapere che cosa sta succedendo nella società. Ma poi vengono prese in contropiede dalla realtà». Carlo Galli, 66 anni, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, autore di numerosi studi sulla filosofia del potere, è abituato per formazione personale a misurare le parole. Ma dal 2013 Galli non è più solo un professore. È anche deputato di una delle legislature più tormentate della storia repubblicana. Eletto come indipendente nel Pd, è passato nel novembre 2015 nel gruppo di Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia e Libertà. Ora, sempre come indipendente, è entrato nel gruppo del Movimento Democratici e Progressisti, nato dopo la scissione del Pd. Così, oltre a misurare le parole, Galli ha potuto misurare da vicino anche i fatti, spesso meno nobili delle idee. In un libro, ha raccontato questi quattro anni da outsider in Parlamento. È intitolato Democrazia senza popolo, edito da Feltrinelli. Racconta da vicino ascese e cadute dei protagonisti dell’attuale stagione politica, da Bersani a Renzi, da Berlusconi a Salvini, da Monti a Grillo. Una stagione veloce più che riflessiva, fatta di slogan più che di pensiero, di emozione più che di ragione: tutto il contrario di quelli che sono i consueti riferimenti della vita accademica di un professore. Ma la vera rivoluzione (o involuzione) in atto, per Galli è un’altra: la democrazia rappresentativa mantiene la sua facciata, ma è sempre più svuotata di significato, sempre più preda di personalismi e populismi. Ed è la mancanza di pensiero che ha reso cieca e impotente la classe politica di fronte al “massacro” sociale portato dalle politiche neoliberiste. «È come – dice Galli a Linkiesta.it – se a un certo punto avessimo deciso che le grandi questioni erano risolte e che, quindi, bastasse far andare avanti la baracca. Non era così». In Italia, la rottura è coincisa, dice Galli, con la parabola di Matteo Renzi. È la post-democrazia. O forse una “pseudo-democrazia”.

Professore, ci dica intanto una cosa: si è pentito di aver fatto questo ‘salto’ in politica, come lo definisce nel libro?

No, non mi sono pentito, proprio perché l’ho fatto come un salto, come un atto non definitivo. Direi come un’esperienza a livello personale e un servizio per il Paese, se si dice ancora così. Quando mi sono candidato, sapevo bene che il mio mestiere era un altro. Ma ho imparato molto. Si impara sempre.

Quindi meglio chiamarla ancora professore, non deputato…

Sì, nonostante tutto parlo ancora da professore. E me lo fanno sempre notare.

Leggendo il suo libro, salta subito all’occhio una constatazione amara. Sembra che per far politica oggi non serva aver studiato o studiare, anzi il solo pensarlo diventa un impedimento. Ho capito bene?

Premettiamo che di questa cosa non sono contento. Poi, sì, ci sono stati tempi, nemmeno tanto remoti, in cui la politica italiana pur rimanendo autonoma è stata praticata da persone che avevano alle spalle una struttura culturale mediamente solida, insieme a un orizzonte ideale. Queste cose oggi sono fuori moda, sorprendono.

E perché?

Perché nel tempo la politica è stata colonizzata da logiche di tipo economico-gestionali. È come se a un certo punto della nostra esistenza, ma non sappiamo bene quando, avessimo deciso che le grandi questioni erano risolte e che, quindi, bastasse far andare avanti la baracca. Negarlo, dava la patente di stupido o di passatista. Ma i risultati si vedono: selezionare un personale politico senza immaginazione porta all’impoverimento della politica. La mancanza di immaginazione non consente di riconoscere e affrontare i problemi. E i problemi diventano così esplosivi. È quello che sta accadendo.

Nel libro c’è un’altra constatazione: la politica, l’agire politico non esiste più, esistono i personalismi.

Guardi, stiamo vivendo la fine della globalizzazione, la fine dell’euro, la fine probabilmente dello stesso concetto di democrazia che abbiamo conosciuto finora. Ma di fronte a tutto ciò in Italia non c’è un disegno politico.

Ma è possibile che la politica, non solo in Italia, stia rinascendo dal basso, fuori dal palazzo? I voti di protesta o il successo di formazioni anti-sistema potrebbero indicare questo, no?

Certo, la politica non muore. La politica c’è sempre, come la forza di gravità. Il potere e la voglia di contro-potere restano un’esigenza comune dell’umanità. Muoiono invece certi assetti istituzionali, certe forme di rappresentanza, come i partiti. Restano in piedi le istituzioni rappresentative, ma vengono svuotate delle loro funzioni. Ecco la democrazia senza popolo.

Che cosa sta accadendo?

Le società occidentali sono state massacrate dai modelli economici neoliberisti. Anche se stanno conoscendo una ripresa, dopo la lunga crisi, ormai sono considerati modelli economici antisociali. La società se ne è accorta: da qui nascono il disagio e la protesta popolare.

 Perché la politica, quel Parlamento di cui fa parte da quattro anni, non se n’è invece accorta?

Non ci sono più appunto i partiti, che una volta rappresentavano la società e mandavano impulsi al sistema politico.

C’entrerà anche quella mancanza di cultura di cui parlavamo prima, suppongo.

Come le dicevo, non c’è immaginazione, quella cultura sufficiente a decifrare la società. La politica si sta basando soprattutto sui tatticismi: succede generalmente che ci siano le vecchie volpi che la sanno sempre lunga e pensano di sapere che cosa sta succedendo nella società. Infatti, poi, vengono prese in contropiede.

Chi è stato preso più in contropiede in questa legislatura?

Bersani. Perché aveva una proposta socialdemocratica ma il Paese andava nella direzione della protesta. Il presidente Napolitano aveva chiesto al Pd di appoggiare il Governo Monti nel 2011, e il Pd l’ha pagata cara. Altro che vittoria mancata, Grillo stava crescendo di mese in mese ben prima delle elezioni del 2013. Poi, dopo Bersani, c’è stato il grande equivoco Renzi. Il quale faceva, sì, delle politiche liberiste spinte, ma all’inizio piaceva a tanti, perché aveva promesso di cambiare tutto. Solo che in seguito la gente si è accorta che voleva cambiare tutto non per farla stare meglio, ma per far funzionare meglio la macchina neoliberista. Per questo, la gente ha mandato al diavolo Renzi.

Usando il No alla riforma costituzionale, al referendum del 4 dicembre?

Esattamente. Nella testa di Renzi, il combinato disposto fra riforma delle Costituzione e riforma della legge elettorale avrebbe dovuto porre il sigillo a un sistema con un primo ministro onnipotente, il culmine dell’indebolimento delle istituzioni rappresentative. Solo che gli italiani si sono vendicati contro di lui per le promesse mancate.

Ecco, Renzi. Però nel 2014 diventarono tutti o quasi renziani, e per tre anni il governo guidato dal segretario del Pd ha avuto una maggioranza in Parlamento. Come mai?

Bisogna partire dall’inizio della legislatura, lo racconto nel mio libro. Furono mesi di disorientamento totale, le piazze erano inferocite. Non si trovava un presidente della Repubblica, tanto che poi si è dovuto rieleggere Napolitano. E non si trovava un capo del Governo, tanto che poi Napolitano ha nominato Letta. Nessuno si occupava dei parlamentari comuni. In quei mesi non c’era un principio d’ordine, non c’era una linea. Per questo Napolitano, anche se con scelte che possono essere discutibili, è stato indispensabile per non far crollare il sistema.

Renzi arrivò alla fine di quell’anno…

Il governo Letta era stato debole e anche sfortunato. Direi anche che era assai poco avvertito come un governo di sinistra. Aggiungendo a questo la condanna di Berlusconi, a quel punto Renzi, se veniva percepito dai cittadini come un rottamatore, dai parlamentari veniva percepito come quello che metteva a posto la coscienza collettiva. Renzi poteva dare un senso alla legislatura, le dava una legittimità politica, una continuità. Per questo i tanti bersaniani, che erano la maggioranza dei parlamentari Pd, diventarono renziani. Non renziani duri e puri, certo, ma uniti da un matrimonio di interessi, di solito il tipo di matrimonio che dura più a lungo. Del resto, Renzi ha avuto anche una qualità in più di altri.

Quale?

La forza mediatica.

Questo è innegabile.

Attenzione, però: la sua e quella delle forze economiche neoliberiste che hanno scommesso su di lui, lo hanno sostenuto e gli hanno dato spazio. Così c’è stato un momento in cui tutta la politica era nella testa di Renzi. Che è abile e pragmatico, ma non ha un disegno complessivo. Non è Napoleone.

Tutto questo fino alla caduta, al referendum. Fine della parabola?

No, no. Caduto, ma con calma. Perché Renzi ha ancora il predominio all’interno del Pd, anche se ora l’opposizione si muove allo scoperto. I bersaniani se ne sono andati perché Renzi, anche se non era questo il suo disegno, sta perseguendo la strada del proporzionale, per potersi alleare dopo le elezioni e tenere un partito a sua somiglianza.

E lei in tutto questo dove si colloca?

Io sono uscito nel 2015. Adesso sono anche formalmente un indipendente: non sono con Sinistra Italiana di Fratoianni ma sto nel gruppo di Scotto, che si è fuso con quello di Bersani nel Movimento Democratici e Progressisti.

Tante anime, a sinistra. Ce la si farà a ricongiungerle?

È plausibile che Renzi venga rieletto segretario, almeno se avrà abbastanza voti per non dover dipendere dal voto dell’Assemblea.

In Assemblea rischierebbe?

Io, lì, non ci scommetterei più un soldo. Comunque, con un Pd guidato ancora da Renzi penso che sia piuttosto complicato che questo movimento demo-progressista possa tornare insieme. Il destino di Renzi è di allearsi, dopo le elezioni, con Berlusconi. A meno che Berlusconi non vinca, visto che al momento il centrodestra, se unificato, è teoricamente il primo partito italiano.

Fra i suoi libri, ce n’è uno del 2010 sull’intramontata attualità dell’asse destra-sinistra: oggi lo riscriverebbe?

Sì, perché quella divisione c’è, solo che è nascosta.

Ovvero?

Quello che si vede è l’alternativa fra establishment e anti-establishment. Ma la proposta anti-establishment può essere sia di destra sia di sinistra. Uno che negli Stati Uniti avrebbe votato per Sanders può aver votato anche per Trump, salvo poi scoprire che Trump non è esterno all’establishment.

E quando crede che torneranno a differenziarsi, destra e sinistra?

La vera differenza è la critica al neoliberismo. Questo, oggi, è il vero discrimine. Certo, tutto viene coperto da un velo di odio e di rancore calato di fronte agli occhi dei cittadini: oggi chiunque sia contro l’establishment va bene. Quindi, destra-sinistra nell’immediato non emergono. Ma torneranno a emergere. E ci sarà bisogno di una proposta di sinistra che faccia la differenza e dia una risposta a chi ha subito il massacro sociale.

L’intervista è stata pubblicata in «Linkiesta.it» il 4 marzo 2017.

Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi

«Tutto ciò che è stabilito evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».

Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.

La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria Indipendente», l’8 marzo 2017.

Fra «vintage» e «quarto polo»

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Aderisco al nuovo gruppo parlamentare della Camera («Articolo 1- Movimento dei Democratici e Progressisti», se questa è la denominazione definitiva), ma come «indipendente» perché non mi paiono ancora chiari i suoi contorni politici.

La componente che proviene dal gruppo SI-Sel non è disposta a sacrificare l’originario progetto di «quarto polo» alla interpretazione minoritaria e movimentista che ne ha dato il recente congresso di Rimini, al quale parecchi non hanno neppure partecipato. Quindi quella componente – peraltro maggioritaria – non è da definirsi tanto «scissionista» quanto interprete coerente del progetto originario di SI.

Ma poiché la componente ex-SI-Sel si fonde con i protagonisti della scissione consumata da alcuni bersaniani e dalemiani in uscita dal Pd, si pone senza dubbio la questione di decifrare i significati di questa alleanza, e l’orizzonte della nuova formazione parlamentare e del soggetto politico che ne seguirà.

Finora si è parlato molto del rapporto col governo Gentiloni, che soprattutto al Senato dovrà essere non osteggiato, perché non si realizzino i propositi avventuristici di Renzi. Nondimeno, questa è una questione tattica, che si rende urgente nell’immediato ma che non può certo esaurire l’essenza dell’operazione in corso. A livello strategico, invece, si sono sentite poche affermazioni, e non tutte rassicuranti. Fra le altre, che la nuova formazione non nasce contro il Pd ma contro Renzi; o ancora che non si deve neppure polemizzare contro quest’ultimo, perché è evidente che dopo le elezioni (o prima, secondo il sistema elettorale) ci si dovrà alleare con lui (dato quindi per vincitore del congresso); che il target elettorale di riferimento del nuovo soggetto sono quelle parti del «popolo della sinistra» che non votano più il Pd di Renzi (o per astensionismo, o per sofferto «grillismo»).

Se ci si limitasse a ciò, si starebbe dando vita a una «operazione nostalgia» dal profilo minimalista – e infatti sono minimi anche i risultati elettorali attesi, stando alle prime impressioni sondaggistiche –; a una sorta di «linea vintage» di quel medesimo progetto di cui il Pd è il «marchio giovani» (benché questi non lo votino, com’è noto); insomma, a un semplice riadattamento alla nuova realtà tripolare e proporzionalista di una forza come il Pd, che, nato come partito pigliatutto a vocazione maggioritaria, ora deve marciare diviso per poi colpire unito, per riaffermare sostanzialmente immutato il proprio progetto politico. Cioè la gestione «riformistica» della situazione presente e dei trend attuali, l’identificazione con l’establishment, il fronteggiamento dei «populismi».

Se fosse confermata questa impostazione – rifare i Ds, per poi essere una parte del «nuovo Ulivo», del «centro-sinistra col trattino» – saremmo di fronte a una debolezza ancora più grave di quella denunciata da coloro che nelle cause della scissione del Pd vedono solo interessi elettorali di qualcuno, o un elemento personalistico. Si tratterebbe, più che di una debolezza, di un’occasione mancata: quella proposta di scarso respiro sarebbe infatti punita elettoralmente in quanto per nulla rispondente alle attese e ai bisogni attuali del Paese. Che ha l’esigenza di vedersi offrire un’alternativa democratica e progressista – e non rabbiosamente populista e xenofoba – alle politiche praticate dalla linea Monti-Letta-Renzi che, con i loro esiti di impoverimento quasi generalizzato, di disuguaglianza, di umiliazione e precarizzazione del lavoro, hanno messo a repentaglio la tenuta del legame sociale e dello stesso orizzonte democratico della repubblica, favorendo la nascita di quelle forme di protesta che sbrigativamente si definiscono «populismi».

Ma ci sono state anche prese di posizione più rassicuranti: la nuova formazione, in quanto si richiama all’articolo 1 della Costituzione per l’idea che l’essenza politica del legame repubblicano è il lavoro, parte programmaticamente col piede giusto. Troppo si è detto che il mercato è il cuore della società, e troppa politica recente si è data da fare in questa direzione. E proprio per questo il nuovo centrosinistra ha bisogno di sviluppare molto di più che in passato il lato di sinistra (dato che la differenza fra destra e sinistra esiste ancora, purché la si voglia cercare), atrofizzato negli ultimi anni e mai irrobustito in precedenza; e deve accentuare il lato di sinistra – la lotta non solo congiunturale ma macro-economica alla disuguaglianza e alla svalorizzazione del lavoro – così marcatamente da poter fronteggiare con credibilità il disastro economico e sociale del centrosinistra vecchio, del Pd in profondissima crisi e orientato semmai in posizione difensiva verso i «nuovi barbari» populisti.

Insomma, il nuovo soggetto politico dovrà porre in essere una discontinuità tanto netta che nelle prime fasi della sua esistenza dovrà presentarsi come «quarto polo», come una forza sì riformista ma con segno politico ed economico assai diverso da quello che è stato attribuito al termine in tempi recenti; una forza che deve prima di tutto precisare la propria vocazione e la propria analisi della situazione, cosa che ha appena iniziato a fare, e che solo in un secondo momento deve porsi la questione delle alleanze (certo, che il segretario del Pd sia ancora Renzi, o invece un esponente della sinistra interna, non è indifferente); che insomma non deve nascere politicista ma politica. Che deve parlare agli italiani con un linguaggio radicale e concreto, libero e istituzionale, con un discorso di verità e di critica che prenda le distanze dal neoliberismo e dall’ordoliberismo – mettendo il lavoro al centro – senza cadere in quelle derive identitarie e reazionarie che rispetto alle forme dei poteri dominanti non sono per nulla alternative, costituendone piuttosto l’altra faccia (Trump ne è l’esempio più clamoroso, per ora).

Solo con questi intenti, tutt’altro che nostalgici, l’operazione in corso avrà il senso pionieristico e rivolto al futuro (cioè progressista) di un’apertura di un nuovo spazio politico: quello della Terza repubblica, che deve superare democraticamente gli errori politici economici e intellettuali della Seconda.

 

Porte girevoli

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Esiste un progetto di legge di mia iniziativa il cui titolo è Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa. Questo progetto di legge è stato approvato all’unanimità in sede legislativa dalla Commissione Difesa della Camera il 4 marzo 2015. In entrambi i casi il relatore è stato l’on. Giorgio Zanin (Pd). Assegnato al Senato, in Commissione Difesa, l’11 settembre 2015, da allora non è mai stato calendarizzato né discusso.

La modifica del codice militare interviene su un particolare conflitto d’interessi, differito nel tempo, consistente nel fatto che ufficiali e dirigenti civili, impegnati durante il servizio in attività di procurement militare, possono di fatto transitare, una volta in congedo, alle dipendenze delle medesime imprese del comparto Difesa alle quali fino a poco prima hanno commissionato ordinativi. È evidente che ciò può nuocere alla correttezza dell’amministrazione, istituendo un legame troppo stretto fra Difesa e imprese. Sono le cosiddette revolving doors (porte girevoli): l’interessato esce da una porta, cioè l’amministrazione della Difesa, per entrare nell’altra, cioè l’impresa che produce per la Difesa, un fenomeno che in vari modi è oggetto di attenzione e correzione negli ordinamenti di alcuni Paesi occidentali (non in tutti).

Indagini conoscitive della Commissione Difesa, svolte durante la XVI e la XVII legislatura, avevano auspicato un intervento legislativo sulla materia, anche ai fini di attestare e consolidare l’affidabilità del comparto nazionale della Difesa in sede europea. La «legge Galli» ha quindi previsto — sotto il controllo e le sanzioni dell’Autorità garante della concorrenza — un periodo di mora di tre anni tra l’abbandono del servizio e l’assunzione di incarichi ufficiali presso le imprese della Difesa.

La unanimità dei consensi delle forze politiche, e il via libera dallo stesso governo che ha consentito l’assegnazione alla sede legislativa in Commissione (circostanze entrambe non consuete per un provvedimento presentato da un deputato alla sua prima legislatura) testimoniano dell’equilibrio della norma, che non si presenta come punitiva e che anzi si pone l’obiettivo di affermare l’indipendenza e l’autonomia delle forze armate. Il dirottamento della legge su un binario morto, al Senato, dimostra il venir meno non tanto dell’urgenza del problema, né delle condizioni soggettive del proponente, quanto di un’aliquota della capacità del Parlamento di intervenire nelle questioni della Difesa.

Questo «insabbiamento» può infatti essere visto come una semplice «pigrizia» del Senato, ma è più verosimile che il governo e le forze politiche (probabilmente anche una parte di quelle di opposizione) nutrissero qualche segreta riserva quando apertamente davano il via libera alla legge, alla Camera, e si ripromettessero di bloccarla al Senato. Questo per la crescente tendenza dell’esecutivo (particolarmente dell’ambito militare) ad autonomizzarsi di fatto dal potere legislativo o a vederlo come un socio di minoranza nella gestione del potere. Del resto, le Camere vedono restringere il proprio peso politico anche a livello normativo: ad esempio, la legge sulle missioni militari all’estero accresce il ruolo del presidente del Consiglio affidandogli i decreti di copertura finanziaria (pur soggetti a parere obbligatorio delle Camere). Un trend politico al quale si può, forse, porre rimedio solo attraverso un nuovo protagonismo del Parlamento, del quale non si scorgono però le avvisaglie.

L’intervento è stato pubblicato in «MIL€X 2017. Primo rapporto annuale sulle spese militari italiane», pp. 75-76, a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane.

 

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Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. Al fine di assicurare una maggiore integrazione europea nel settore della difesa, nonché una maggiore efficienza nel controllo dell’operato nel settore del procurement militare e il conseguente rafforzamento delle capacità tecnologiche e industriali nazionali attraverso la previsione di regole che garantiscano la più ampia affidabilità del sistema militare e industriale italiano nelle procedure relative all’approvvigionamento, alla manutenzione e all’ammodernamento di materiali e sistemi d’armamento, dopo l’articolo 982 del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, sono inseriti i seguenti:

«Art. 982-bis. – (Incompatibilità riguardanti il personale militare che abbia rivestito incarichi nei settori della programmazione dei sistemi d’arma e del procurement militare). — 1. Il militare che lascia il servizio con il grado di generale di brigata, di divisione, di corpo d’armata e di generale o grado equivalente, per essere collocato in congedo, in congedo assoluto o in ausiliaria, e durante il servizio, negli ultimi quindici anni, è stato impiegato, indipendentemente dal grado rivestito, anche temporaneamente, in attività collegabili o riconducibili all’individuazione o alla definizione dei requisiti operativi dei sistemi d’arma ovvero alla pianificazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma, delle opere, dei mezzi e dei beni destinati alla difesa nazionale non può, nei tre anni successivi alla data della cessazione dal servizio permanente, ricoprire cariche né esercitare funzioni di presidente, amministratore, liquidatore, sindaco o componente dell’organo di controllo, revisore, direttore generale o centrale né assumere incarichi di consulenza con prestazioni di carattere continuativo o temporaneo presso società, imprese o enti operanti nel settore della difesa. Le disposizioni del primo periodo si applicano al personale ivi indicato anche qualora sia collocato in aspettativa o sospeso dall’impiego.

2. Ai fini del presente articolo, per società, imprese o enti operanti nel settore della difesa si intendono:

a) le società, le imprese o gli enti che forniscono sistemi d’arma complessi e prestazioni di integrazione dei medesimi;

b) le società, le imprese o gli enti che forniscono singoli apparati o sottosistemi dei sistemi d’arma di cui alla lettera a);

c) le società, le imprese o gli enti che producono componenti o prestano servizi per le società, imprese o enti di cui alla lettera a);

d) le società, le imprese o gli enti che operano nella manutenzione dei sistemi d’arma;

e) le società, le imprese o gli enti che prestano attività di consulenza alle società, imprese o enti di cui alle lettere a), b), c) e d).

3. Chiunque assume una delle cariche, funzioni o incarichi indicati al comma 1 in violazione del divieto ivi previsto è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra il doppio e il quadruplo del valore del compenso complessivo annuo previsto per la carica, la funzione o l’incarico.

4. All’accertamento della violazione conseguono la decadenza dalla carica o funzione e l’interdizione dalla prosecuzione del rapporto di lavoro o dell’incarico incompatibile.

Art. 982-ter. – (Poteri di vigilanza e sanzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in relazione alle incompatibilità di cui all’articolo 982-bis). — 1. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato accerta la sussistenza delle situazioni di incompatibilità di cui all’articolo 982-bis e vigila sul rispetto del divieto ivi previsto.

2. Qualora accerti la violazione del divieto previsto all’articolo 982-bis, l’Autorità:

a) applica la sanzione prevista al citato articolo 982-bis, comma 3;

b) dichiara la decadenza dalla carica o funzione ovvero ordina alla società, impresa o ente la cessazione del rapporto di lavoro o dell’incarico ai sensi del citato articolo 982-bis, comma 4.

3. In caso di inottemperanza all’ordine di cui al comma 2, lettera b), del presente articolo, si applica alla società, impresa o ente la sanzione prevista dall’articolo 15, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287».

 

2. Le disposizioni di cui agli articoli 982-bis e 982-ter del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, introdotti dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche nei confronti dei dirigenti civili che abbiano assunto l’incarico di Segretario generale della difesa e Direttore nazionale degli armamenti o incarichi di direzione o controllo nelle Direzioni generali tecnico-amministrative del Ministero della difesa che operano nel settore del procurement militare.

 

3. Al personale di cui al comma 2 si applicano le sanzioni previste dai medesimi articoli 982-bis e 982-ter del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, introdotti dal comma 1 del presente articolo.

Tesi sull’Europa

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1.L’Europa come costruzione unitaria o presunta tale ha natura ibrida e oscillante. Nasce fortemente politica (il federalismo di Spinelli prevedeva una superpotenza europea neutrale fra Usa e Urss) poi diviene economica (con la CECA del 1951) per riproporsi come politica (con il tentativo della CED, abortita nel 1954); la reazione è stata di nuovo economica e funzionalistica (il MEC del 1957) e lo sviluppo successivo è nuovamente politico-economico-tecnocratico (l’Europa di Maastricht del 1992 governata dagli eurocrati della Commissione e dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo, con il metodo intergovernativo), fino al Fiscal compact del 2012 che ha tolto sovranità agli Stati a favore di un trattato economico gestito da Bruxelles e interpretato autorevolmente dalla Germania. Questa oscillazione continua e la complessità contraddittoria della configurazione attuale spiega perché è impazzita la maionese europea, ovvero perché il calabrone si è accorto che non può volare (un tempo si diceva che l’Europa è come un calabrone, che per le leggi della fisica non potrebbe volare eppure vola ugualmente).

2.La possibile fine della Ue nella sua configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini: della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude (oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa dall’euro (che ha portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della stessa democrazia occidentale postbellica.

3.L’euro è un dispositivo deflattivo che obbliga gli Stati dell’area euro a passare dalle svalutazioni competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche e giuridiche del lavoro, e alla competizione sulle esportazioni, in una deriva neomercantilistica senza fine (ma, ovviamente, intrinsecamente limitata). Modellato su ipotesi francesi (culminanti nel memorandum Delors) in una pretesa di egemonia politica continentale della Francia in prospettiva post-statuale (e infatti non a caso la protesta francese contro l’Europa è oggi marcatamente statalista e protezionista/protettiva), l’euro è stato “occupato” dal marco tedesco e dall’ordoliberalismo sotteso (la «economia sociale di mercato altamente competitiva» citata dal trattato di Lisbona è appunto l’ordoliberalismo, con la sua teoria che il mercato e la società coincidono, e che lo Stato – ovvero, nel modello europeo, le istituzioni comunitarie – è garante del mercato). Il doppio cuore dell’Europa – la guida politica alla Francia, il traino economico alla Germania – ha qui l’origine dei suoi equivoci: la Francia ha un primato solo apparente, e la Germania traina soprattutto se stessa, le proprie esportazioni, e le economie incorporate in modo subalterno nel proprio spazio economico. La stessa Germania ha dovuto, peraltro, orientare l’ordoliberalismo verso il neoliberismo, abbandonando in parte le difese sociali dei lavoratori, con le riforme Schroeder-Hartz fra il 2003 e il 2005. Ne è nato un disagio sociale che sembra oggi orientarsi anche verso la SPD (che pure ne è stata a lungo responsabile).

4.Gli spazi politici in Europa (la questione centrale) sono multipli e intersecati. Vi sono gli spazi degli Stati, demarcati da muri fisici e giuridici; vi è lo spazio della NATO, che individua una frontiera calda a est, e che è a sua volta attraversato dalla tensione fra Paesi più oltranzisti in senso anti-russo (gli ex Stati-satellite dell’Urss) e Stati di più antica e moderata fedeltà atlantica (tra cui la Germania); vi è la frontiera fra area dell’euro e le aree di monete nazionali; e soprattutto vi sono i cleavages interni all’area euro – che non è un’area monetaria ottimale –, ovvero vi sono gli spread, e oltre a questi vi è la differenziazione cruciale fra Stati debitori e creditori; vi è poi uno spazio economico tedesco, il cuore dell’area dell’euro, che implica una macro-divisione del lavoro industriale e un’inclusione gerarchizzata di diverse economie nello spazio economico germanico. È decisivo capire che lo spazio economico tedesco e lo spazio politico tedesco non coincidono (molti Paesi inglobati di fatto nell’economia germanica hanno una politica estera lontana da quella tedesca): è questa mancata sovrapposizione a impedire l’affermarsi di un IV Reich, che peraltro neppure la Germania desidera. A questa complessità spaziale si aggiunga il fatto che la NATO ora non è più la priorità americana, e che gli Usa di Trump sembrano al riguardo un po’ più scettici (ma su questo punto è necessario attendere l’evoluzione degli eventi; probabilmente lo scopo statunitense è solo quello di far sostenere agli alleati un peso economico maggiore a quello attuale, e in ciò Trump è in linea con Obama).

5.È del tutto implausibile pensare che la Germania, anche in caso di vittoria socialdemocratica, possa avanzare verso l’assunzione di una maggiore responsabilità politica europea (ad esempio, accedendo a qualche forma di eurobond): anzi, la cancelliera Merkel verrà forse punita per il suo presunto lassismo verso la Grecia e verso i migranti. Del resto, la sua proposta di Europa a due velocità – qualunque cosa significhi – vuol dire proprio l’opposto di un’assunzione di maggiore responsabilità. In Europa convivono già diversi “regimi” su molteplici aspetti della politica internazionale; il punctum dolens è il regime dell’euro, che Draghi ha difeso come «irreversibile», richiamando così la Germania alle proprie responsabilità e implicitamente riproponendo la propria politica di Qe – che la Germania non gradisce, benché le porti sostanziosi vantaggi sulle intermediazioni, effettuate attraverso la BuBa –, che però non è in alcun modo risolutiva della crisi economica. In ogni caso, lo status quo benché complessivamente favorevole alla Germania presenta per quest’ultima qualche svantaggio: oltre al contenzioso politico con gli anelli deboli della catena dell’euro, anche l’inimicizia americana, motivata dal fatto che l’euro è mantenuto debole per facilitare le esportazioni tedesche (prevalentemente). Mentre un euro a due velocità – che nel segmento più forte verrebbe apprezzato rispetto all’attuale – risolverebbe qualche problema politico, non impedirebbe alla Germania (che ha grande fiducia nella propria base industriale) di continuare a esportare merci ad alto valore aggiunto e ad esercitare egemonia nel proprio spazio economico, e toglierebbe di mezzo alcune preoccupazioni di Trump. Insomma, un nuovo SME, benché non risolutivo, sarebbe probabilmente una boccata d’ossigeno per molti.

6.In Italia la UE è stata pensata come «vincolo esterno» per superare d’imperio le debolezze della nostra democrazia, e il nostro acceso europeismo è stato il sostituto compensativo della nostra scarsa efficacia politica sulla scena internazionale, diminuita ulteriormente da quando la fine del bipolarismo mondiale ci ha privato del pur modesto ruolo di mediatori, nel Mediterraneo, fra Occidente e mondo islamico. Il continuo acritico rilancio del nostro Paese sugli step successivi dell’integrazione europea – SME, euro, Fiscal compact – non è stato poi esente da aperti intenti punitivi: basti ricordare il sarcasmo di Monti sul posto fisso, da dimenticare perché «noioso», o gli auspici di Padoa-Schioppa sul fatto che l’euro avrebbe nuovamente insegnato ai giovani, a cui lo Stato sociale l’ha fatta dimenticare, la «durezza del vivere».

7.Impiccarci al «vincolo esterno» vuol quindi dire preservare una configurazione di spazi politici che vede la nostra sovranità compromessa dal nostro partecipare alla pluralità incontrollabile degli spazi politici europei. Anche quando eludiamo più o meno astutamente alcuni vincoli dell’euro, restiamo subalterni alle sue logiche economiche complessive, oltre che ai «guardiani dei trattati», più o meno benevoli o rigorosi – secondo i loro disegni. E soprattutto vuol dire privarci degli strumenti per invertire la nostra filosofia economica e politica, e quindi consegnare l’Italia alla protesta sociale causata dall’insostenibilità del modello economico.

8.Sono necessarie riforme che vadano in senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione, si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i veri problemi dell’Italia, non i vitalizi né le date dei congressi, che sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi). Le leggi elettorali, altro tema che appassiona il ceto politico, a loro volta, sono certo importanti; ma il pericolo più grave – l’Italicum – è stato sventato.

9.Lo strumento principale per questa rivoluzione, per questa discontinuità – o se si vuole, più semplicemente, per rimettere ordine in casa nostra, per ridare l’Italia agli italiani, nella democrazia e non nel populismo –, è lo Stato e la sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano in un nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in ciò dal constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino non è segnato), una via importante per la riduzione della complessità dell’indecifrabile spazio europeo. Il termine dispregiativo «sovranista» non significa nulla se non un rifiuto di approfondire l’analisi del presente, e quindi denota una subalternità di fatto ai poteri dominanti (e declinanti).

10.L’Europa va ridefinita come spazio di pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di «servizi» – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le «cornici» delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo. Sotto il profilo storico e intellettuale Europa e democrazia si coappartengono, benché la prima democrazia moderna sia nata in America; ma per altri versi si escludono, se ci si attende la democrazia da un blocco continentale unificato da trattati monetari e dall’egemonia riluttante della Germania: di fatto la democrazia in Europa vive insieme agli Stati, e alla loro collaborazione. Dire che l’euro è irreversibile è in fondo un atto di disperazione intellettuale e politica, o almeno di scarsa immaginazione: un atto anti-europeo, in fondo. Di irreversibile, a questo mondo, c’è solo l’entropia, un destino fisico; ma ciò che la storia ha fatto può essere cambiato, soprattutto se il cambiamento deve salvare le nostre società e le nostre democrazie. Ed è appunto la politica quella che, posto che se lo proponga, serve a cambiare le cose, mentre al contrario le profezie catastrofiche – minacciate a chi pretende di percorrere una via difforme dal mainstream elevato a destino – non si sono avverate. Questo ci sia di conforto e di stimolo al pensiero e all’azione.

 

Sinistra a congresso fra piccola e grande politica

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È ormai chiaro che invece di un congresso fondativo Sinistra Italiana ne terrà due, fornendo così un inedito esempio di «scissione preventiva». SI nasce sotto una cattiva stella, e anzi rischia di essere una creatura fragile e cagionevole – ma non perché precoce, anzi perché tardiva (quanto entusiasmo è passato sotto i ponti dal teatro Quirino!) –; o addirittura potrebbe essere un progetto nato morto.

I vortici che rischiano di sommergerla sono molteplici. Quelli che si generano al suo interno, in primo luogo. Si tratta di divisioni personali, di beghe sulle tessere, di abitudini al piccolo cabotaggio, di mancanza di elaborazione teorica e quindi di divergenze sulla natura e sull’orizzonte stesso della sinistra (sul ruolo dello Stato, sul rapporto con l’euro e l’Europa, sulle questioni della sicurezza e sulle migrazioni) – che spesso si traducono nel tema del rapporto col Pd (che è in realtà segno di subalternità) –. Sullo sfondo si delinea la divaricazione fra l’autonomia – che per chi la critica è una «deriva identitaria» (anche se non è chiaro di quale identità si parli) –, da una parte, e dall’altra la vocazione “responsabile” alla collaborazione al «campo progressista» di un rinnovato centro-sinistra – nell’ipotesi che questo nuovo «centro-sinistra immaginario» (tutto da precisare) possa rimediare ai disastri perpetrati dal «centro-sinistra reale», che a suo tempo ha spianato la strada al neoliberismo e al suo nemico speculare, il populismo –.

Il «campo» della sinistra è, a sua volta, percorso da tentativi di ricomposizione: Cuperlo dall’interno del Pd, Pisapia e D’Alema dall’esterno, lanciano ciascuno (differentemente l’uno dagli altri) un’Opa – forse non ostile ma certo egemonica – sullo spazio a sinistra del Pd, il che impedisce a SI di essere protagonista del gioco, e la relega di fatto al rango di comprimario.

Ma non solo lo spazio a sinistra rischia di essere affollato di proposte deboli e concorrenziali e di finire occupato dall’astensione o dalla protesta anticasta; incombe anche la questione della nuova legge elettorale. Alla Camera al momento c’è il premio di maggioranza ma non sono previste le coalizioni; al Senato queste ci sono ma non c’è il premio. Nessuno, coalizzato o no, è in grado di arrivare al 40 per cento, e quindi tutte le ipotesi di nuove leggi elettorali registrano il venir meno dell’antica vocazione maggioritaria del Pd, che si vede costretto a coalizzarsi o prima o dopo le elezioni (ma a questo punto l’alleanza preventiva non gli dà nessun beneficio), e anche la crisi della centralità del Pd, che non può cambiare la legge elettorale da solo, e cerca partner diversi (a volte il M5S a volte Berlusconi, che però pongono sempre nuove condizioni – la rinuncia ai capilista bloccati, i primi; l’attesa della cosiddetta «riabilitazione» da Strasburgo che lo renda ricandidabile il secondo, che ha anche un difficile problema strategico con la Lega –).

Per di più il Pd è divenuto l’epicentro dell’instabilità politica italiana. Renzi ha accondisceso alla richiesta di Bersani e di Cuperlo di un congresso anticipato. Ma quella di Renzi non è una resa; è infatti evidente che punta a vincere un congresso frettoloso e a favorire, mentre si svolge, l’uscita definitiva della sinistra dal Pd: l’eventuale scissione dalemiana (che se coinvolgesse anche Bersani – come avverrà se non sarà risolta la questione dei capilista bloccati, che escluderebbero quasi del tutto la sinistra Pd dal parlamento – provocherebbe un danno non piccolo al Pd sul piano elettorale) verrebbe così addebitata ai suoi nemici storici, e non al segretario.   Congresso rapido, scissione o subalternità degli sconfitti, alleanza con Pisapia per il 40 per cento, elezioni a giugno: questo resta, verosimilmente, il piano di Renzi.

Il quale non è scomparso dall’orizzonte della politica, benché il suo potere dentro il Pd sia meno saldo (ma egli resta ancora senza avversari reali) e benché col referendum e con la sentenza della Corte costituzionale (il baricentro dell’Italicum era il ballottaggio) abbia perso la scommessa di confezionarsi una nuova forma di «democrazia d’investitura rafforzata» tagliata sulle proprie misure; ma la sua politica ha ormai ha il carattere di avventura personale, di tentativo di mettere in salvo il salvabile del passato potere – che egli cerca di imporre all’Italia, nel crescente scetticismo del suo partito e nell’assenso, almeno apparente, delle forze antisistema (Lega, FdI, M5S) più interessate a sfruttare il momento, presunto propizio, che non a individuare i mali dell’Italia.

In questo contesto SI non sarà certo determinante né nell’elaborazione del modello elettorale né nell’individuazione della data delle elezioni. Potrà forse avere qualche peso nel nuovo sistema politico a base proporzionale, e quindi coalizionale, ma senza una vera rinascita teorica e organizzativa questo vantaggio varrà ben poco, a fronte della questione, mai apertamente affrontata, di che cosa significhi pensare e fare politica a sinistra, oggi –.

I mali dell’Italia, in ogni caso, non sono, come vuol far credere Renzi nel suo stanco populismo, i «vitalizi» dei parlamentari (magari fossimo a questo!), e non possono essere curati da un nuovo bagno rigenerante di campagna elettorale (come se non ne avessimo avuto abbastanza con il referendum). Stanno, quei mali, nella nostra difficoltà, per la debolezza del sistema politico e delle culture politiche, a prendere decisioni in merito a tre fini ormai incombenti: della globalizzazione, chiusa da Trump e dalla sua militarizzazione dell’economia in senso protezionistico; dell’euro, in via di chiusura per la crisi economica e sociale che ha generato, e per i crescenti differenziali di crescita che si registrano nell’eurozona (a ciò si aggiunga la crisi della Ue, scandita dalla Brexit, dalla sfida lepenista, e dai muri che sorgono ovunque); e dell’ordine democratico postbellico che già si era molto malamente adattato alla globalizzazione neoliberista e che ora, nella sua crisi, rischia di essere senz’altro scardinato da politiche di destra – la sinistra in Europa non è certo in buona salute, benché forse qualche speranza possa venire dalla Germania –.

Se manca a tutti, tranne che forse alla destra estrema, un progetto per l’Italia, se Renzi dice al popolo soltanto «stai sereno e fidati della mia abilità», se i «grillini» sono drammaticamente inadeguati, se la destra moderata non ha una vera risposta se non nel riesumare Berlusconi (se sarà possibile), in particolare la sinistra – che della costruzione dell’ordine democratico postbellico era stata protagonista, e che della globalizzazione era stata vittima e al tempo stesso propagatrice tanto affascinata quanto subalterna – non può, dopo la compromissione, ritornare in campo con un heri dicebamus, cioè con una proposta socialdemocratica che non faccia i conti con la crisi della stessa socialdemocrazia, che non ripensi il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e nella ristrutturazione della sfera pubblica in un contesto in cui sono assenti i partiti di massa, peraltro indispensabili per una rinascita della politica. Una sinistra di governo (e di «protezione» non securitaria della società) che tenga conto che la globalizzazione non è passata invano dovrà essere nei fatti rivoluzionaria, tanto è il peso delle macerie da spostare e delle nuove istituzioni da ricostruire – nonostante il risultato referendario, ridare vita materiale e non solo formale alla Costituzione non è impresa da poco –. Ma dell’energia necessaria non v’è traccia, per ora; la grande sfida di creare il «quarto polo» della politica italiana non tanto è stata fallita quanto non è stata neppure tentata. Da una parte si è ripiegati su un’ipotesi minoritaria, rassicurante, e dall’altra si è scelta una via “aperta” ma incerta e oggettivamente orientata a governare col Pd; una via che parla più al ceto politico che ai cittadini.

Di fatto, entrambe le ipotesi oltre a confermare che a sinistra è più facile dividersi che unirsi rischiano di essere solo «piccola politica», di avere a stento il respiro per partecipare su piccola scala all’impresa del «primum vivere», comune a tutte le forze politiche. Impresa ovviamente indispensabile, e che ci auguriamo riesca a SI, ma non tale da muovere gli animi delle masse. Impresa in ogni caso molto lontana da quella che dovrebbe essere propria della sinistra, oggi: rifondare la «grande politica» dopo la neutralizzazione neoliberista e dopo la reazione populista. Una mission che può essere definita velleitaria solo da chi non prende sul serio la profondità della crisi che attraversiamo e le minacce di destra che incombono sulle nostre società.

Versione riveduta di un testo pubblicato  in «La parola»n. 5, 2017

 

Sui corpi sociali

 

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I corpi sociali possono essere o quelli territoriali, oppure le organizzazioni degli interessi, oppure ancora i partiti e i movimenti politici, oppure le formazioni one issue, o infine il terzo settore. Inserirli all’interno delle istituzioni di uno Stato moderno è un’impresa improba (più o meno, secondo i casi), e non solo perché alcuni non lo chiedono, e neppure perché quando lo si tenta (come nel caso delle istituzioni territoriali italiane nella Costituzione riformata, felicemente tramontata) lo si fa piuttosto male. Il motivo non è contingente ma sostanziale. L’essenza istituzionale della modernità è infatti duplice: in primo luogo, è centrale logicamente l’unità politica, la costruzione della sovranità; in secondo luogo, lo strumento di questa costruzione unitaria è prevalentemente la rappresentanza, che non può non essere a base individuale. Sono i singoli che votano, dotati di diritti, di opinioni, di ideologie, di interessi; i singoli come atomi, e non i gruppi.

Già non è stato semplice accettare i partiti all’interno dell’unità politica – le posizioni più radicalmente unitarie, o più democratiche, come in Rousseau, non li ammettono, in quanto «fazioni»; e perfino in Inghilterra, loro patria, i partiti vengono legittimati dalla filosofia politica e giuridica solo nella seconda metà del Settecento –; in ogni caso, oggi, la loro parabola, che ha toccato l’apogeo nei cent’anni che vanno dal 1890 al 1990, è ormai nella fase declinante. E quando pure hanno costituito il nerbo della politica sono stati «parti generali», ovvero hanno riprodotto in sé le medesime logiche unitarie dello Stato; e certamente hanno sempre preteso di risolvere e mediare in sé le ragioni dei corpi intermedi, stabili o volatili che siano, ai quali si lasciava piena cittadinanza nella sfera sociale ed economica, ma la cui rappresentanza politica passava attraverso il partito (il nesso fra Pci, Cgil, Cooperative, Arci, ecc. è emblematico; ma lo stesso si deve dire sul versante della Dc). Altro discorso è, evidentemente, quello che riguarda i movimenti politici extraparlamentari, i quali però o si sono parlamentarizzati o hanno vissuto, almeno finora, vite politiche intense ma brevi. Insomma, lo si ribadisce, la democrazia rappresenta agevolmente il pluralismo delle opinioni individuali, o delle opzioni ideologiche dei movimenti (se questi vi acconsentono) o dei partiti (e anche questi, non a caso, sono riferiti nell’articolo 49 al diritto soggettivo dei cittadini alla libera associazione), ma solo indirettamente riesce a rappresentare interessi collettivi e corpi sociali organizzati. Non a caso nella nostra costituzione il CNEL è risultato assai poco vitale.

Chi ha scommesso contro la rappresentanza individuale, e al tempo stesso contro i partiti, come il fascismo, ha dato con le corporazioni rappresentanza politica diretta ai corpi sociali, credendo di essere così più aderente alla realtà delle liberaldemocrazie; ma la violenza, l’autoritarismo, l’artificiosità, la rigidità della soluzione proposta l’hanno affossata e resa per sempre improponibile.

Di fatto, i corpi sociali intermedi hanno espresso la loro intrinseca politicità all’interno del compromesso fra Stato e partiti nella stagione «socialdemocratica», finché questa è stata viva e vitale; oppure hanno trovato e ancora trovano collocazione nelle architetture dell’ordoliberalismo tedesco, in cui banche e imprese, sindacati e associazioni datoriali si intrecciano in mille modi (fra i quali la cogestione o Mitbestimmung) in una cornice complessa fatta di rappresentanza partitica (Bundestag) e territoriale federale – riferita ai governi dei Länder e non alle assemblee (Bundesrat) –. La via tedesca valorizza istituzionalmente i corpi intermedi in un quadro organico di stabilità, di collaborazione e di efficienza, che risponde alla peculiare storia della Germania.

Una terza via consiste poi nel lasciare i corpi sociali sul libero mercato dell’influenza politica, organizzati in movimenti più o meno incisivi e visibili, o, nel caso degli interessi economici, in lobbies o in altre realtà che non desiderano essere rappresentate politicamente ma che cercano di influenzare direttamente i decisori politici. Una via «anglosassone», che finora non ha incontrato la sensibilità dell’opinione pubblica italiana, e che esige in ogni caso un’attenta legiferazione.

I problemi dell’Italia di oggi nascono appunto dal fatto che nessuno di questi paradigmi è ora vigente. Tramontato da tempo il modello vetero-corporativo, il modello partitico socialdemocratico non è più vigente per la scomparsa dei partiti, il modello tedesco è appunto lontanissimo dalla esperienza italiana, e così dicasi di quello lobbistico. Dopo la rivoluzione neoliberista degli anni Settanta e Ottanta (dovuta non solo all’innovazione tecnica dell’elettronica, né solo allo shock petrolifero, ma a un vero cambio di paradigma culturale, economico e politico, appunto il neoliberismo), dopo la costruzione dell’euro, impostata a Maastricht e perseguita per tutti gli anni Novanta (il cui esito è che lo Stato e le parti sociali sono stati privati del potere di determinare la politica economica e monetaria del Paese), il problema che si pone con particolare urgenza è come reagire alla tentata privatizzazione del lavoro e di tutta la materia economica, sottratta alla rilevanza pubblica e politica a cui invece la destina la Costituzione (che infatti fonda la Repubblica sul lavoro). E in parallelo come valorizzare la pur debole politicità che, rifluita fuori degli spenti partiti e delle fragili istituzioni, permea di sé i movimenti sociali più chiaramente politici, volti a ricostruire momenti di aggregazione, di partecipazione e di messa in rete di esperienze e di istanze.

Naturalmente, sarebbe importante riflettere da vicino sui corpi sociali più politicamente orientati (movimenti, partiti, ecc.): ciò richiede senza dubbio ben altro spazio; eppure, il lato politico e il lato economico della questione dei corpi sociali, benché distinti, hanno in comune la reazione, che pare necessaria, a una pretesa strategica del neoliberismo. La pretesa, cioè, che la società sia interamente omogenea e anzi mucillaginosa, composta – secondo la celebre affermazione della signora Thatcher – non da corpi complessi in dialettica ma da singoli individui o da famiglie. Un continuum, insomma, fatto di soggetti che si credono concorrenziali – ma in realtà ugualmente subalterni, misurabili, valutabili, valorizzabili o svalorizzabili dalle tre facce del nuovo potere unico (economico-finanziario, politico-leaderistico, mediatico-intellettuale) –; da singoli, quindi, soli e in quanto tali incapaci di identificare esistenzialmente e intellettualmente le strutture profonde del sociale, cioè le parti in cui la società si articola, e i loro conflitti. Insomma la pretesa, con ogni evidenza ideologica (ovvero falsa: basti pensare che il più visibile effetto del neoliberismo è la produzione di un tasso di disuguaglianza mai visto da quasi un secolo), che la società sia liquida; e che le parti di cui eventualmente si presenta composta non siano che caste e corporazioni, nidi di privilegi e di resistenze contro quel salutare cambiamento che la politica deve perseguire, disgregandole per tenere fluido, efficiente, flessibile il movimento della produzione e del mercato.

L’ideologia neoliberista, così, oggi distingue i corpi sociali fra quelli che vengono fatti emergere per essere liquidati – partiti, sindacati, caste, corporazioni – e quelli che invece restano sullo sfondo senza neppure essere nominati, le burocrazie, le tecnocrazie, le lobbies, i livelli opachi extranazionali dei poteri economici europei e planetari. Un’altra classe sono poi i corpi del terzo settore, che all’occorrenza possono essere utilizzati per realizzare la sussidiarietà – veto mantra antistatale dei nostri decenni –; e un’altra, infine, sono i movimenti politici e d’opinione, peraltro non incentivati dal potere, che alla partecipazione preferisce l’apatia politica.

Le soluzioni di alcuni di questi problemi italiani paiono essere le seguenti. Dapprima, il perseguimento di un modello anglosassone che lasci i corpi sociali misurarsi sul mercato dell’influenza politica, regolamentato da una legge sulle lobbies. Meglio che nulla, certo (e anzi ipotesi necessaria per le organizzazioni d’opinione); ma è una soluzione che non modifica i rapporti di potere diseguali che si sono formati fino a ora a livello economico.

Un’altra soluzione può consistere nella convergenza dei corpi e degli interessi sociali su azioni volte alla tenuta e alla coesione territoriale – una volta preclusa la loro capacità di agire a livello nazionale centrale –. La costruzione, la manutenzione e l’implementazione del capitale sociale, umano, imprenditoriale, cognitivo, nei luoghi in cui esso si trova, tuttavia, ha come contropartita l’ovvia constatazione che l’Italia, da questo punto di vista, è una realtà a macchia di leopardo. L’organicismo implicito in questa ipotesi sarebbe paradossalmente contraddetto dall’emergere di linee d’esclusione, da fratture nel corpo nazionale, da disuguaglianze crescenti.

Un’ulteriore soluzione teoricamente proponibile (e per me preferibile) è un nuovo compromesso socialdemocratico, a forte base partitica e statalistico-welfaristica: ipotesi difficile a realizzarsi, in realtà, perché implica l’esistenza di partiti dotati di una forza politica ora non immaginabile, e una presenza dello Stato, insieme a una sua capacità di spesa, che è per ora poco probabile nell’Europa ordoliberista in cui ci troviamo a vivere. Un’ipotesi, nondimeno, che la sinistra dovrebbe coltivare, per non lasciarla alla destra sovranista. A questa ultima ipotesi se ne collega un’altra, quasi come precondizione: che cioè si costituisca un «Partito del lavoro», capace di interrompere la narrazione neoliberista dell’individualismo e della privatizzazione dell’economia; un partito che porti alla luce le pluralità, le differenze, le contraddizioni che attraversano il corpo sociale, e che dia voce esplicitamente politica alla loro politicità implicita. Un partito che sia «parte» e che pertanto si contrapponga dialetticamente ad altre «parti», così che stia nel conflitto (del tutto fisiologico, in verità, all’interno delle democrazie) e non nell’organizzazione e nell’organicismo, la soluzione della questione dei corpi sociali. Una soluzione politica prima che istituzionale, quindi, non priva di efficacia, e soprattutto una soluzione non ipocritamente orientata a negare la possibilità del conflitto – una negazione che è in verità, di per sé, un atto ultra-conflittuale – ma anzi realistica e al contempo capace di portare la tensione alla giustizia all’interno di una società che ne ha molto bisogno e che, non imbattendosi ormai neppure nella parola, si consegna sempre più all’apatia rassegnata o alla rabbia estremistica.

L’Italia non è «antipolitica» ma «diversamente politica»

Non sono bastati a Renzi gli endorsement delle élites di mezzo mondo, di tutte le caste e di tutti i poteri – da Napolitano a Prodi, da Obama a Juncker, da Schäuble al «Financial Times» –; non gli sono state sufficienti l’occupazione sistematica e scientifica di ogni spazio comunicativo pubblico e privato, giornalistico e televisivo, la mobilitazione di tutti i corpi dello Stato, dalle Poste alle ambasciate, la consulenza degli spin doctors d’oltreoceano, la propaganda dei vip di regime (comici, cuochi, attori, cantanti, giornalisti, presentatori); non gli è bastato ricorrere al populismo più sfacciato – che va sempre a sbattere contro qualcuno più populista –, né deridere gli intellettuali e i professori, che hanno passato la vita a studiare, a insegnare e a riflettere anziché a fare carriera politica; Renzi, e con lui il Pd, hanno perso. In modo netto e inequivocabile – anche se i renziani di ferro parlano di grande risultato, dato che il Pd ha ottenuto 13,5 milioni di voti –.

Il disegno di blindare in modo formale e definitivo – con le due leggi, costituzionale ed elettorale, fra loro combinate – lo shift, già avvenuto di fatto, verso un regime del primo ministro senza contrappesi, è stato respinto dagli italiani (tranne gli emiliani, i toscani e gli altoatesini); i quali non hanno creduto che i loro problemi, gravissimi e reali, fossero causati dal bicameralismo perfetto e dai ritardi (inesistenti) che questo comporta nella legislazione, e anzi si sono insospettiti per l’enorme energia spesa dal leader, dal suo partito e dai suoi alleati, a riformare questo aspetto della costituzione (insieme al titolo V) anziché, ad esempio, l’articolo 81, ben più rovinoso economicamente e socialmente. In quell’impegno forsennato hanno visto una trappola, in cui si mescolavano il depistaggio cognitivo, il diversivo politico, il goffo tentativo bonapartistico in sedicesimo (nella piena legalità formale, peraltro).

Benché bombardati da propaganda e contropropaganda di bassissimo livello, da pseudoargomentazioni sloganistiche, da minacce per nulla velate, da promesse deliranti, gli italiani con la loro mobilitazione massiccia e con il loro voto schiacciante hanno dimostrato di aver capito che la posta in gioco era serissima: conservare almeno, come ultimo baluardo – non solo ideale, ma anche organizzativo – di fronte al disastro sociale e politico in cui gli ultimi decenni ci hanno precipitato, la Costituzione repubblicana non ancora del tutto sfigurata nel suo limpido dettato e nel suo orientamento democratico e parlamentare; quella Costituzione che ci ha accompagnato nella crescita civile degli ultimi settant’anni, e che non è per nulla responsabile dell’attuale crisi del Paese.

Gli italiani che hanno detto No si sono rifiutati di avallare con il loro voto la democrazia dell’esecutivo, la post-democrazia, l’uomo solo al comando, il plebiscitarismo; vi hanno visto non la soluzione dei mali del Paese ma l’ultimo beffardo sigillo sullo scempio di democrazia che è perpetrato attraverso la distruzione sistematica del ceto medio e del ceto operaio, le leggi sul lavoro e sulle pensioni, la disoccupazione e l’emigrazione coatta. Un pezzo del problema, quindi, e non certo della soluzione.

Oggi non esiste praticamente un governo occidentale che si possa presentare tranquillamente agli elettori, che tendenzialmente (e giustamente) bocciano gli esecutivi in carica. Ed è vero che i 19,5 milioni di voti del No hanno un senso politico soltanto oppositivo, com’è ovvio che sia: e segnalano semmai un’Italia, soprattutto al Sud e fra i giovani (il primo forse non entusiasta di sentirsi dire che ha bisogno di una nuova narrazione, i secondi stanchi di ostentato giovanilismo), che rifiuta la politica così com’essa è praticata e chiede ben altro che le parole vuote della propaganda: un’Italia non necessariamente «antipolitica» ma semmai «diversamente politica». Detto altrimenti, quei voti non sono di nessuno, poiché contengono al loro interno opzioni troppo differenti l’una dall’altra. Almeno, tuttavia, disegnano un terreno etico-politico comune: la difesa della democrazia e della costituzione da ogni avventura, da ogni azzardo e da ogni forzatura e da ogni ulteriore tentativo di governare monocraticamente attraverso la divisione del Paese, la sconfitta dell’arroganza del potere e della presunzione di invincibilità, l’apertura di uno spazio di azione per rifare l’Italia.

L’evoluzione del quadro politico appare complessa: il Pd, col suo Sì, ha fatto breccia fra gli elettori di centro e del centrodestra e ha contemporaneamente perduto quasi altrettanto a sinistra; si tratta di vedere se questo assetto è transitorio, cioè relativo solo al quesito referendario, o se è destinato a diventare permanente. In ogni caso, il partito esce molto indebolito da questa prova, ma al tempo stesso deve continuare a essere il garante della tenuta del governo e delle istituzioni, anche se Renzi pare propenso, come al solito, all’ultima sfida, solo contro il resto del mondo: cioè alle elezioni anticipate a brevissimo termine. Ma non è detto che l’abbia vinta dentro il suo partito: ci saranno resistenze franceschiniane ed è inoltre da presumere che la sinistra interna ponga a breve la questione della segreteria; e qui si vedrà se Renzi è una meteora individuale o se esprime una quota significativa del Pd, che è ora posto davanti alla necessità di ripensare la propria natura e la propria parabola – per accettarle e andare avanti sulla linea Renzi, o per rifiutarle –.

D’altra parte, i partiti antisistema – Lega, Fratelli d’Italia e M5S – fiutano il sangue e chiedono a gran voce elezioni anticipate, ma, a parte Grillo che vuole votare subito con l’Italicum un po’ modificato, non necessariamente credono davvero a ciò che dicono: fintanto che il M5S non accederà all’ipotesi di alleanze politiche di governo, in Italia non ci sarà stabilità politica se non nella formula della solidarietà nazionale fra Pd e centrodestra (o una sua parte), e Berlusconi dovrebbe essere non favorevole a lasciare a Salvini la gestione del centrodestra in chiave antisistema; e quindi ha bisogno di tempo, come anche Alfano (le cui ansie di elezioni anticipate paiono più che altro apotropaiche), mentre il leader della Lega cerca in realtà la forzatura prima ancora sulle primarie del centrodestra che non sulle elezioni politiche. La sinistra, infine, deve decidersi – se mai vi riuscirà – fra le due ipotesi che la interpellano: puntare su un nuovo centro-sinistra, cioè collaborare col Pd (eventualmente) de-renzizzato, o proporsi come coerente forza anti-sistema e competere su questo terreno col M5S.

Buona parte delle soluzioni dipenderanno anche dalla legge elettorale che si riuscirà a fare; ma sembra chiaro che molte forze politiche (non tutte) hanno bisogno di tempo. E forse ne ha bisogno l’Italia, che dopo le dimissioni in Tv di Renzi (non certo un modello di correttezza formale) deve dotarsi di un governo non purchessia ma anzi molto solido e determinato (la maggioranza di governo c’è ancora) capace di non sprecare i tre anni e mezzo di legislatura già trascorsi e – dismettendo ogni velleità di riforma della Costituzione e senza aggravare la crisi politica con una nuova campagna elettorale dopo quella, devastante, referendaria – di disinnescare l’attuale sciagurata legge elettorale (l’Italicum, la «legge perfetta» di Renzi), e di affrontare la durezza delle condizioni che l’Europa si prepara di nuovo ad avanzare dopo la breve tregua elettorale concessa al premier, e ora a Padoan. Un governo che prepari l’Italia – dandole il tempo di respirare – a prendere, alla scadenza della legislatura, le necessarie grandi decisioni sul proprio futuro.

 

Il disagio della democrazia

Intervista con Tsakiroglou Tassos

Come afferma nel suo libro, il disagio della democrazia è strettamente connesso alla sensazione che «non ci sia alternativa» (There Is No Alternative), che siamo stati ingannati, che tutte le promesse sono state infrante. È possibile rovesciare questo stato di cose?

Il rovesciamento di questa percezione è in corso in molte parti dell’Occidente. I cittadini, nonostante le narrazioni rassicuranti (o le intimidazioni terrorizzanti) acquisiscono autonomia rispetto al sistema neoliberista, le cui contraddizioni insolubili – in termini di precarietà, disuguaglianza, assenza di prospettive – esperiscono sulla propria pelle. Ma questa ribellione assume spesso forme «populistiche» o di «destra», poiché la sinistra «di governo» è stata di fatto il principale veicolo del neoliberismo, mentre la sinistra alternativa non ha saputo elaborarne una critica convincente.

Alla luce delle condizioni nelle quali versa la democrazia nella maggior parte dei Paesi del mondo e dei risultati della globalizzazione si è sviluppato, nel corso degli ultimi anni, un dibattito sulla questione della compatibilità fra capitalismo e democrazia. Qual è la sua posizione su questo tema?

Il capitalismo non nasce democratico, e a differenza dello Stato – un altro dei protagonisti della modernità (insieme alla tecnoscienza, che politicamente significa la burocrazia) – non è democratizzabile dall’interno delle sue logiche e delle sue modalità di funzionamento. Alla sua base ci sono il profitto privato, una concezione competitiva dell’esistenza, l’indifferenza di fronte alla disuguaglianza, la mercificazione di ogni ambito dell’esistenza. Il capitalismo di per sé non produce ordine democratico, ma disordine insopportabile o dura gerarchia. Il suo individualismo è in realtà il dominio di pochi sulla maggior parte degli individui. La teoria della «sovranità del consumatore» è in realtà l’idea di una società deflattiva, low cost, che può offrire molti beni scadenti a basso costo perché ha abbattuto salari e diritti dei lavoratori. Il capitalismo neoliberista dalla metà degli anni Settanta non produce le condizioni per la democrazia – e spesso non sono democratiche neppure le ribellioni contro di esso –. È dalla politica, autonoma rispetto al capitalismo, che si deve partire per ristabilire la sovranità democratica dei cittadini-produttori. Una politica che esprima le contraddizioni della società, e non le nasconda; che si impegni a costruire nella società vaste aree non di mercato né mercificate; e che faccia ricorso alle risorse sia dei movimenti, sia dei partiti e dei sindacati, sia delle istituzioni dello Stato, fino a quando quelle dell’Europa non cambieranno natura.

«La democrazia deve essere continuamente perseguita… in caso contrario resta vuota, priva di anima», lei sottolinea. Come può ciò coesistere con l’attuale alienazione politica e con il crescente processo di spersonalizzazione e di burocratizzazione della vita sociale?

La democrazia da una parte è l’esito della modernità e delle sue idee-base (autonomia del soggetto e del popolo, lotta contro l’autorità, uguaglianza); d’altra parte, però, altre logiche della modernità (capitalismo e tecnica, soprattutto) tendono a trasformare l’autonomia degli individui in passività, l’uguaglianza in massificazione, i diritti in pretese inesigibili, la libertà nel dominio del mondo amministrato. Insomma, tendono a sovrapporre logiche oggettive a logiche soggettive; e a presentare questa sovrapposizione come «fatale», obbligata. Il disagio della democrazia è la muta protesta contro questa sovrapposizione. Democrazia in senso attivo è invece il non adeguarsi, collettivamente, a questo processo e alla sua ineluttabilità; è la volontà di cambiare radicalmente, con un’azione che passa dall’Io al Noi (ma non al Tutti: la società è sempre divisa), dalla spersonalizzazione alla ri-soggettivizzazione, dall’apatia alle lotte. Il soggetto non può essere troppo debole o destrutturato: deve avere in sé l’energia per la lotta intellettuale (la critica), per la lotta politica (il conflitto, la militanza) e per la costruzione di istituzioni. Il punto d’inizio di questa svolta è nella cultura, sia quella alta sia quella popolare – come del resto avvenne quando il neoliberismo colonizzò psicologie individuali, mezzi di comunicazione di massa, dipartimenti universitari –. Oggi è necessario (benché non sia sufficiente) iniziare a costruire una nuova koiné intellettuale, un nuovo consenso politicamente orientato, come avvenne al tempo dell’illuminismo.

Qual è il suo giudizio sulla vittoria di Trump negli Stati Uniti e quale significato essa ha per la democrazia?

La vittoria di Trump è un fenomeno popolare e al contempo è il segno di una profonda contraddizione nel corpo dell’establishment statunitense. Trump esprime la ribellione del ceto medio e operaio contro l’incapacità del neoliberismo di garantire benessere e progresso sociale: l’aumento dell’occupazione realizzato durante la presidenza Obama non è stato un aumento del tenore di vita del lavoro dipendente. Il lavoro non ha più le caratteristiche di stabilità e di sicurezza che aveva un tempo per una parte dei lavoratori. E questi hanno protestato contro disoccupazione e precarietà votando Trump, che si è presentato come estraneo al mainstream politico, economico e culturale. E davvero Trump è l’espressione di un capitalismo manifatturiero che non vuole più competere sulla scena globale con la Cina, che è ostile alle politiche globaliste di Wall Street e di Clinton, e che promette un ritorno al protezionismo o una revisione dei trattati commerciali in senso più favorevole al lavoro e al capitale Usa. Da un certo punto di vista Trump esprime la fine della globalizzazione e il ritorno alla politica forte dell’ «America first». Certo, anche la globalizzazione finanziaria aveva gli Usa come protagonisti, ma con prezzi sociali troppo alti, che alla fine si sono rivelati determinanti per la vittoria di Trump. Gli Usa resteranno una superpotenza globale, ma agiranno in modo molto più apertamente «egoistico», a partire dalla politica energetica. Ue e Cina saranno i primi a doversi misurare con questa nuova realtà. Questa è l’essenza del fenomeno Trump: a ciò si aggiunga un dato di rozzezza anti-culturale e anti-politically correct che è tipico del populismo e della sua lotta contro la cultura liberal. Nel complesso, i penultimi (coloro che hanno votato Trump) si sono ribellati contro l’establishment (Wall Street) e anche contro gli ultimi (immigrati e, in parte, minoranze di colore). La qualità della democrazia americana peggiorerà: ma la responsabilità è prima di tutto delle élites che hanno lasciato esplodere le contraddizioni del neoliberismo.

Il cosiddetto multiculturalismo mette la democrazia davanti a un dilemma, che ai nostri giorni produce divisioni, razzismo e intolleranza. Come uscirne?

La risposta multiculturale alle migrazioni si è rivelata debole; può sostenersi solo in condizioni di benessere crescente e di politiche sociali fortemente inclusive. In una fase recessiva e deflattiva, invece, il primo modo di manifestarsi delle contraddizioni sociali è la lotta dei poveri «nativi» contro i poveri migranti: una situazione che spalanca la porta a politiche populiste di destra. La sinistra non ha ancora elaborato una risposta al problema: sarà in ogni caso una risposta complessa, che comprende interventi economici e politici nei Paesi di origine, un forte controllo non vessatorio degli accessi, una severa attenzione non-discriminatoria verso le condizioni di degrado delle città. Insomma, la sinistra anche da questo punto di vista dovrà riscoprire la politica come regolazione della società. E dovrà quindi riscoprire lo Stato democratico, in attesa del formarsi di un’Europa politica non ordoliberista.

L’intervista, a cura di Tsakiroglou Tassos, è stata pubblicata in lingua greca in «www.efsyn.gr».

Vere e false libertà del lavoro

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Il lavoro ha prima di tutto una funzione privata: serve essenzialmente a guadagnarsi da vivere. Tuttavia in una società democratica esiste una dimensione pubblica della quale tutti fanno parte: ciascuno è al tempo stesso una persona privata, che lavora, e una persona pubblica, cioè un cittadino, portatore in quanto tale di diritti politici, ad esempio quello di voto.

La scommessa della Repubblica Italiana è stata, in effetti, che la cittadinanza politico-giuridica, universale, potesse essere sposata con la dimensione del lavoro, particolare ma suscettibile di essere universalizzata. Cioè che non solo il cittadino, ma anche il lavoratore in quanto tale fosse da considerare portatore di valori, o di problemi, universali. La Repubblica si dice «fondata sul lavoro» proprio perché non si basa solo sulla cittadinanza, ma anche su quello che è apparentemente il lato privato della vita, quello in cui ciascuno bada a se stesso.

Eppure questa attività privata, il lavoro, viene riconosciuta così importante, e anzi determinante nella vita delle persone e della società nel suo complesso, che anch’essa viene caricata di un valore politico e pubblico.

Il lavoro, che è un fatto privato, è anche un fatto pubblico e deve poter essere riconosciuto e valorizzato come tale: questo è il significato profondo dell’art.1 della Costituzione. A rendere effettivo questo principio siamo arrivati però solo con lo Statuto dei lavoratori.

Il lavoro è sempre stato un fattore identitario, che bollava, che faceva sì che il singolo fosse soltanto ciò che era. In una lunga fase della storia occidentale il lavoro collocava nella fascia più bassa della società, quella esclusa da qualsiasi diritto politico. In un’altra fase storica successiva, medioevale, collocava, almeno in alcune parti dell’Europa tra cui l’Italia, all’interno di una corporazione. Adesso, nelle logiche democratiche costituzionali dentro le quali dovremmo vivere, il lavoro qualifica chi lo esercita come essere umano che pensa a se stesso ma anche come un soggetto al quale, nel contempo, sono riconosciuti diritti e rivendicazioni universali.

Infatti nel lavoro entrano in gioco questioni – il rispetto della dignità del lavoratore, il riconoscimento di un’equa retribuzione, la regolamentazione dei tempi e dell’organizzazione del lavoro – che non si sbrigano né risolvono in privato, nel rapporto tra il lavoratore e il suo datore, ma possiedono una dimensione pubblica e politica. Dalla necessità – che il lavoro sia privato significa appunto che in esso ciascuno ha a che fare col bisogno – si può quindi passare, in un assetto democratico (non solo formale, ma sostanziale, cioè in un assetto di Stato sociale), alla libertà, nel senso almeno che nel lavoro si vede e si valorizza un’energia anche emancipativa e partecipativa. Il lavoro è legame sociale e legame politico.

***

Ma nella fase post-democratica che si è aperta da trent’anni, si è generata una nuova contraddizione: il lavoro è sempre più libero nel senso che è stata fatta passare l’idea che esso sia la dimensione di una autorealizzazione competitiva, di tipo individualistico e imprenditoriale, aperta a tutti; che non ci sia quindi più bisogno delle grandi strutture intermedie (il sindacato e il partito) che organizzavano il lavoro per renderlo politico. Il lavoro libero è libero da Stato, partiti, sindacato: è la corsa al successo. Ma questo individualismo si è rivelato in realtà un assoggettamento radicale del lavoratore a poteri economici illimitati, davanti ai quali non ha alcuna difesa. Inoltre, al tempo stesso il lavoro è non solo «fuori» dalla politica e dal sindacato, ma sempre più spesso «fuori», altrove, rispetto alla fabbrica, e anche in questo modo perde il suo collegamento con la cittadinanza. Finisce così con l’essere una faccenda strettamente privata, in cui si fronteggiano il datore e il lavoratore, e quindi, dati i rapporti di forza, il lavoro diviene spesso disumanizzante, sottopagato e privo di diritti. E non mi riferisco solo ai lavori che «si vedono». Ci sono molti lavori che sono altrove perché non li vediamo, «fuori» dall’attenzione: i lavori clandestini, i lavori neri, i lavori schiavistici, di cui è pieno il mondo e anche l’Italia. Gomorra è dappertutto.

In questa falsa libertà il lavoro è, insomma, «fuori», altrove, anche rispetto al singolo lavoratore: è infatti sempre più frequente lo scollegamento tra la vita della persona e l’attività lavorativa. Le infinite difficoltà di trovare un lavoro stabile rendono sempre più difficile identificarsi con la propria attività lavorativa. «Il mio essere non è il mio lavoro», deve quindi dire ciascuno.

Infine, c’è un’altra forma del dislocarsi «fuori» del lavoro: è il lavoro fuori dall’uomo, governato dai robot, dalle macchine, dai sistemi informatici. Come anticipava Marx nel «capitolo delle macchine» (Capitale, 1, 13) siamo arrivati al punto in cui o si costituisce un nuovo sistema integrato di cooperazione tra uomo e macchina all’interno della cooperazione tra gli uomini, oppure il lavoratore, al di là della sua qualifica, diventa semplicemente ingranaggio, appendice della macchina.

Questo era vero anche nella fase fordista-taylorista, ma è ancora più vero nella fabbrica hi-tech, dove il lavoratore è ancora più spossessato della capacità di comprendere e controllare quello che fa, dovendosi confrontare con una tecnologia complessa ed evoluta, alla quale risulta subalterno. L’operaio più formato e specializzato, che lavora a contatto con le macchine più avanzate, fa certo molta meno fatica fisica di quella che facevano i suoi predecessori, ma probabilmente ha anche molte meno possibilità di comprendere quello che sta facendo.

Quindi, oggi ci sono i lavoratori fortunati che stanno nelle fabbriche hi-tech, e ci sono quelli sfortunati che raccolgono pomodori, organizzati dal caporalato o prigionieri nelle galere della camorra. E ci sono sempre meno lavoratori «normali», ovvero persone in condizione di comprendere ciò che fanno sul posto di lavoro, retribuite adeguatamente e in grado di incidere in qualche modo sull’ambiente e sull’organizzazione del lavoro.

Sia chiaro, nessuno (o meglio, pochi: in vista dei successi dei «populisti», già si sentono voci che si rammaricano dell’esistenza del suffragio universale) elimina seccamente e formalmente il diritto di voto, i diritti di cittadinanza; ma quei diritti sono dissociati dal lavoro, e quindi oggi restano astratti, poco sentiti. E non a caso l’esercizio più tipico della cittadinanza, esercitare il voto, è sempre meno praticato: la perdita di identità nel lavoro va di pari passo con la perdita della partecipazione politica.

In teoria non ce ne sarebbe ragione: si può lavorar male e essere infelici e oppressi sul luogo di lavoro, e però avere voglia di andare a votare, di partecipare in qualche modo alla vita politica. Ma, in realtà, se si perde identità e dignità sul luogo di lavoro, viene meno anche l’interesse a partecipare alla cosa pubblica. Queste due dimensioni erano collegate tra loro, in una fase breve e – nonostante le sue durezze e contraddizioni – luminosa della nostra storia: i «Trenta gloriosi».

Questa dissociazione tra lavoro e cosa pubblica non è avvenuta per caso. Qualcuno – gli araldi del neoliberismo e i loro padroni – l’ha voluta, teorizzata, messa in pratica, utilizzando una vasta gamma di strumentazioni intellettuali, giuridiche, economiche, politiche. Lo sanno bene i sindacati, che si trovano a dover organizzare non più classi, ma individui, che considerano il lavoro solo come strumento per guadagnarsi la sopravvivenza, o una vita decente, e non più come una dimensione nella quale si afferma l’identità della persona, meno che mai una dimensione essenziale alla cosa pubblica.

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È evidente che la via d’uscita da questa situazione non si trova in campo puramente economico. È successo qualcosa – la rivoluzione neoliberista, e le sue crisi – che deve prima di tutto essere compreso, in una dimensione di lungo periodo. Di seguito, se si vuole rifiutare questa deriva, occorre innescare un grande processo di riorganizzazione della società e della politica.

Le istituzioni devono essere interessate a far sì che la società non sia composta da milioni di individui privi di relazioni, «atomici»; occorre ridare un ruolo alle organizzazioni, ai corpi sociali, ai partiti, senza i quali una ricostruzione della democrazia è impossibile, e ovviamente ai sindacati. I quali devono ritrovare un accesso diretto alla politica, da cui oggi sono sostanzialmente esclusi.

Il compito della ricostruzione dei corpi intermedi (partiti e sindacati) è il nostro compito attuale. E ciascuno deve fare la sua parte. L’obiettivo è la necessaria ricostruzione dell’identità del lavoratore, che sia in relazione a una nuova dimensione della politica, per contrastare la dissociazione operata dal neoliberismo.

Non è facile, ma se non ricostruiamo il nesso tra lavoro e politica attraverso i due ponti di cui abbiamo accennato, cioè i partiti e i sindacati, non andremo da nessuna parte. E scivoleremo dalla democrazia alla post-democrazia, e da questa ad avventure populiste, o peggio.

Estratto dalla relazione tenuta dall’Autore al convegno Il lavoro, la politica, il sindacato, organizzato il 4 novembre 2016 a Bologna dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna insieme all’IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali) Emilia-Romagna, e pubblicato in «rassegna sindacale», il 26 novembre 2016. 

 

Ancora uno sfregio all’Università

Stitched Panorama

Questo presidente del Consiglio proprio non conosce e non ama l’Università. Il punto è che il suo rapporto con la politica non è mediato dalla cultura, ma dalla gestione funambolica della contingenza e dalle esigenze dei poteri economici che lo sorreggono. Nel caso dell’Università, specificamente, Renzi si colloca in continuità con la logica della legge Gelmini, del resto appoggiata dal Pd fino quasi al momento dell’ingresso in parlamento: doveva essere una «riforma condivisa», insomma, e tale è stata, ed ancora è, nelle sue linee generali. Di quella legge Renzi sposa infatti l’assunto base che l’Università deve servire al sistema economico, ovvero che non deve avere autonomia e deve articolarsi in una maggioranza di Atenei mediocri (d’insegnamento, come pudicamente si dice) e in poche isole felici di autoproclamata «eccellenza», ben finanziate e del tutto interne al sistema industriale italiano e internazionale.

A ciò si aggiunga lo specifico renziano, ovvero il talento per lo spot e l’insofferenza per i corpi intermedi: questi ultimi sono gli Atenei, i professori e in generale gli ordinamenti, le istituzioni, e anche i sistemi concorsuali. Per quanto questi possano essere fallaci, sono il modo con cui un corpo di studiosi coopta, con procedure di valutazione scientifica, i propri membri. E chi altri deve decidere sull’idoneità di qualcuno a essere fisico, giurista, filosofo se non i fisici, i giuristi, i filosofi, secondo regole note? Il loro giudizio sarà anche viziato da faide e nepotismi, ma non tanto da impedire che la ricerca italiana sia assai ben quotata nel mondo, soprattutto a fronte degli investimenti scarsi e della defatigante attività didattica e burocratica a cui i professori e i ricercatori sono costretti – con stipendi ridicoli, e per di più bloccati da sette anni –.

Dire che sono i concorsi il male dell’università italiana è un depistaggio cognitivo analogo a quello che vuole che il male della politica italiana stia nella Costituzione da riformare, o nelle indennità dei parlamentari da abbassare, e non nella crisi dei partiti e nello spostamento del baricentro della politica dal legislativo all’esecutivo, e dal territorio nazionale a dimensioni extra-territoriali e sovranazionali. Depistaggi che sono altrettanti drappi sventolati davanti all’opinione pubblica, e che hanno come obiettivo il rafforzamento del governo a danno dei poteri costituiti e del loro normale funzionamento. Insomma, l’ideologia dell’eccezionalità contro la regola; dell’uomo solo al comando che porta in salvo la barca della repubblica; della fantasia e della giovinezza che trionfano sul vecchiume burocratico e sulla corruzione dei baroni, casta ancora più spregevole dei politici.

È su questi presupposti ideologici che nascono le cinquecento «cattedre Natta»; un provvedimento che comporta siano messi in non cale, e anzi vengano valorizzati, lo sfregio al corpo dei professori e la rottura dell’ordinamento; e che non si arretri davanti al fatto che con questo provvedimento – che vede i docenti «eccellenti», e superpagati, nominati da commissioni di nomina politica, cioè istituite motu proprio dal Miur e da Palazzo Chigi, e che lavorano su parametri determinati dalla politica – si ripercorra la via del fascismo, che inventò la chiamata «per chiara fama» per mostrare la superiorità del regime sulle Università, peraltro già piegate ai suoi voleri dal giuramento imposto a tutti gli ordinari.

Ma oltre che sull’ideologia renziana, sulle solide esigenze e sulle precise richieste di Confindustria, il provvedimento si basa anche su assunti dilettanteschi. Si ipotizza che gli studiosi stranieri, che presiederanno le commissioni, siano privi di pregiudizi e più autorevoli degli italiani; e si vuole far credere che cinquecento professori, in un sistema non funzionante di cinquantamila addetti, possano cambiare qualcosa, oltre a costituire un piccolo «esercito di riserva» di obbedienza governativa, collocato nelle posizioni chiave del sistema – peraltro tutt’altro che riottoso, nel suo complesso –.

Già oggi esistono istituti giuridici che consentono il «rientro dei cervelli», dietro un giudizio delle Università, com’è ovvio; ma sono sottofinanziati. Ed è proprio il sottofinanziamento complessivo del sistema universitario che costringe i giovani ad espatriare, perché non si possono bandire per loro posizioni sufficienti; e a invertire il trend non basteranno né i milioni in più che la legge finanziaria stanzia ora per la prima volta dopo anni di tagli selvaggi, né questi cinquecento posti extra ordinem, né le risorse che i docenti italiani lasceranno libere ricoprendoli – saranno infatti in gran parte italiani, già assunti, a concorrere; le retribuzioni, benché gonfiate, non sono attraenti per studiosi stranieri affermati, e ancor meno lo sono le condizioni di lavoro –. Per ovviare al sottofinanziamento sono necessari soldi, evidentemente – e a questo proposito si pensi alle migliaia di posti da ricercatore che si potrebbero bandire con il finanziamento delle cattedre Natta –; ma ancor più è necessaria una cultura politica, oggi assente, che voglia investire nell’avanzamento e nella diffusione del sapere critico per lo sviluppo democratico del Paese, e che veda nell’Università la magistratura scientifica della nazione e non il centro studi di Confindustria; una cultura politica non dello spot ma dei tempi lunghi, non dell’intervento miracolistico ma della costruzione di istituzioni durature.

Ed è necessaria anche una presa di coscienza del mondo accademico, che non si lasci incantare da qualche beneficio marginale e da qualche promessa, e che anzi da questa vicenda tragga l’energia per rivendicare la propria autonomia, centralità e dignità; un buon modo sarebbe di delegittimare il provvedimento rifiutando di essere nominati nelle commissioni d’esame. Ma questo dovrebbe essere solo l’inizio di un percorso critico, che dovrebbe estendersi anche all’ideologia della valutazione e all’Anvur nell’attuale forma e composizione. Il lavoro da fare è enorme per un ceto docente che in passato si è crogiolato in una infondata percezione di intoccabilità, che più di recente ha subito, in totale passività, l’attacco neoliberista alla cultura e alle proprie condizioni di vita e di lavoro, e che oggi viene screditato da un atto normativo che individua la via della rinascita dell’Università italiana in un percorso che dovrebbe avvenire fuori e contro di essa.

L’articolo è stato pubblicato anche in «jobnews», in «roars», e nel sito della Flc

An Answer to the Question: Can the EU once again become an Attractive Vision for Europe?

Stitched Panorama

Since the Maastricht agreement in 1992 and the establishment of the euro as single European currency the EU has become a techno-oligarchic structure where religion (the cult of the market), political economy, politics, ideology, converge towards the construction of a society that — while unable to be as prosperous as it is presumed to be, given the crisis started in 2008 — blocks Europe inside a vision of the world and of the socio-economic structure as devoid of any alternative: the ordoliberal dogma and its results, i.e. the shattering of society into individual «athoms», the subsumption of every life under the law of the market, social inequality, and emergency policies. The authentic political energy of the Old continent is neutralized and extinguished by the techno-economic uniformity of a single-thought. That political energy consisted of the capacity of mobilizing the present, transcending the existing institutions, imagining the future through the competition of ideas, classes and nations.

The EU is too powerful (because it is too close-knit) and too fragile (because it is not able to face difficulties, contestations, alternatives). The EU gives up the future insofar as it denies its own past, and this is all the more so the more it speaks of that past using the language of «roots», «identity», «values», «heritage». However, the vitality of that past lies in the understanding of Europe as a space of risky openness towards the future through conflict. Thus, this Union cannot bear the fact of being questioned, and must therefore deny the existence of problems also beyond any evidence. In this way, it lets extremisms intensify, producing further wounds, anti-European closures, and abandonments. Even a considerable part of the terrorism that afflicts us nowadays dresses with the clothes of islamic religion has endogenous origin.

While it is affected by an internal crisis in its ideology and in its technocratical structures, the EU is not able to manage the geopolitical challenges and lets them be managed by the emergency policies of the States, that build up walls and fences in order to turn the smooth space realized by the Schengen agreement into a maze where migrants escaping the collapses of the Near East, Northern Africa and the Horn of Africa are trapped like mice.

No. This EU is definitively not the future of Europe, but rather its denial. It can neither inspire trust from the citizens, nor act as a source of political legitimacy. Its constitutional architecture, its economic structure, its ideal legitimacy must be completely rethought. Élites, parties, citizens, unions, cultural associations and even the States are called to take a new and radical responsibility. The Europe of the future needs a new path and a new «Great Idea»: it must be nurtured – without any nostalgic attachment – by the Europe of the past, its critical force, its internal dialectic, in order to be an alternative to the painful fragmentation and the sad failure that we are experiencing today.

 

L’articolo è stato pubblicato nella rivista greca «Frear», n. 16-17, 2016, pp. 460-461.

 

“Imperfetto perfettismo”: le riforme costituzionali nell’Italia del secondo dopoguerra. Intervista a Carlo Galli

Intervista con Fausto Pietrancosta

Lo storico del pensiero politico Carlo Galli nell’intervista rilasciata a «Diacronie. Studi di Storia contemporanea» il 30 luglio 2016, partendo dall’esame degli esiti dell’ultima revisione del testo costituzionale, ripercorre le fasi e le caratteristiche fondamentali del dibattito sulle riforme istituzionali nel secondo dopoguerra. L’analisi delle ideologie e dell’evoluzione del pensiero politico rappresentano così l’occasione per un approfondimento degli assetti del potere in Italia alla luce degli eventi storici degli ultimi decenni.

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In che modo ritiene si inserisca la legge di revisione costituzionale (cosiddetta Riforma Boschi), approvata in via definitiva dal Parlamento ad inizio del 2016 e che a breve sarà sottoposta a referendum popolare confermativo, nel contesto politico nazionale e in che modo crede abbia influito l’attuale conformazione del sistema partitico italiano sulle scelte con essa compiute?

La legge di revisione costituzionale e la legge elettorale che la completa nascono da un input del Capo dello Stato all’inizio della legislatura, e sono state portate avanti, con modalità diverse, tanto da Enrico Letta quanto da Matteo Renzi. Quest’ultimo ne ha fatto la propria legittimazione politica, e ha pensato a due leggi che, combinate, lo conservassero al potere senza significativi contrappesi. È stato spinto a ciò dai risultati delle elezioni europee del 2014, molto favorevoli al Pd (ma anche molto caduchi, come si è visto in seguito). L’idea di fondo è di stabilizzare a ogni costo la politica italiana attraverso un’ingegneria costituzionale ed elettorale che trasformi il tripolarismo uscito dalle elezioni del 2013 in un bipolarismo al momento decisivo del voto (il ballottaggio) e in un monopolio del potere per chi risulta vincitore. Da quando si è capito che ad avvantaggiarsi del sistema sarebbero stati i “grillini”, stiamo assistendo a una serie di tentativi di smontare l’impianto della legge elettorale, e di superare il divieto delle alleanze (da sempre definite inciuci), intorno a cui è costruita. Dal punto di vista dei principali effetti sistemici, la revisione costituzionale dà un nuovo impulso al centralismo statale a scapito delle autonomie regionali, e una maggiore forza all’esecutivo a scapito del legislativo e dei poteri di garanzia. Infatti una delle più rilevanti novità della revisione costituzionale, cioè l’eliminazione dal circuito della fiducia del Senato (nel quale i governi hanno spesso maggioranze risicate in virtù della sua elezione su base regionale), rende ancora più stretto il rapporto fra il governo e l’unica Camera politica, nella quale una maggioranza gonfiata artificialmente dalla legge elettorale (se questa non verrà cambiata) garantisce che ogni iniziativa governativa troverà rapida legittimazione legale.

Pur nella diversità dei punti di partenza e del momento storico è possibile rintracciare delle analogie tra il dibattito sull’ordinamento istituzionale all’interno dei partiti di oggi e quello animato dai membri dell’Assemblea costituente fra il 1946 e il 1947? E in caso quali differenze riesce a ravvisare?

Premesso che una revisione costituzionale condotta ex art. 138 Cost. non può essere confusa con l’esercizio di un potere costituente, non trovo nessuna analogia fra l’oggi e il passato. Il dibattito attuale è stanco, ripetitivo, mediatico, ideologico e condotto per slogan. Non è all’altezza nemmeno formale della solennità richiesta a un atto costituente. La revisione costituzionale è di iniziativa governativa, ed è stata portata avanti con gravi forzature della prassi parlamentare. Oggi, in generale, l’Italia non si mette in gioco con la stessa drammaticità di allora. Ciò che allora era una necessità nazionale oggi è solo una posta della lotta politica: la lotta di Matteo Renzi contro tutti (che gli è sfuggita di mano).

Che ruolo hanno avuto a suo parere le dinamiche sociali ed economiche, ma anche il contesto geo-politico internazionale e, nello specifico, europeo sulle scelte istituzionali compiute dai membri della Costituente? Analogamente, volendo stabilire una forma di comparazione, in che modo le stesse dinamiche e il contesto internazionale odierni hanno influito sul dibattito sulle riforme alla base dell’attuale legge di revisione del testo costituzionale?

L’opera dei costituenti risente della sconfitta militare e politica dell’Italia fascista, e della volontà di dire addio per sempre alla dittatura. È dunque figlia della Seconda guerra mondiale, ma non della guerra fredda. Infatti la rottura dell’alleanza governativa tra democristiani e comunisti, nel marzo 1947, non mise fine ai lavori della Costituente che proseguirono costruttivamente fino al dicembre. La nostra Costituzione è frutto di una collaborazione fra sinistra e cattolici che si manifesta chiaramente con la scelta istituzionale democratica e con la decisione per un’economia capitalistica a rilevante componente pubblica e a forte responsabilità sociale. Oggi gli assunti di fondo che guidano la revisione costituzionale sono coerenti con le esigenze basiche dell’ideologia neoliberista (nel caso europeo, ordo-liberista), che alla politica chiede essenzialmente capacità di decisione e governabilità, con un netto sacrificio della partecipazione e della rappresentanza.

A suo parere è possibile tracciare un percorso più o meno lineare che partendo dal testo costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948, passando per le varie modifiche organiche tentate o compiute (commissioni bicamerali delle legislature IX, XI e XIII e riforme del 2001 e del 2005), possa pervenire all’attuale ultima riforma approvata dal Parlamento motivandone e chiarendone le caratteristiche della discussione e le formule definite?

Da quando le autentiche forze propulsive della prima repubblica, cioè i partiti, hanno smesso di svolgere il loro ruolo politico, cioè dalla metà degli anni Settanta e soprattutto dopo la morte di Aldo Moro, hanno coltivato la speranza di potere rimettere in carreggiata la politica nazionale riformando non tanto se stesse quanto le istituzioni, alle quali sono state attribuite colpe non loro. Così si è assistito dal 1982 in poi a una serie interminabile di tentativi di riforma – alcuni riusciti, altri falliti o bocciati dai cittadini – tutti orientati con varie strategie al rafforzamento dell’esecutivo e alla ridefinizione, oggetto a sua volta di periodiche revisioni, dei rapporti fra Stato e regioni.

Indro Montanelli in una famosa intervista rilasciata nel corso degli anni Novanta parlò del differente punto di partenza del lavoro dei costituenti tedeschi rispetto a quelli italiani nella redazione della legge fondamentale della Repubblica, sottolineandone la scelta a favore del rafforzamento del ruolo dell’esecutivo come risposta al «caos della Repubblica di Weimar» nel primo caso e, al contrario, la scelta di una forma esasperata di parlamentarismo in grado di condizionare e limitare ogni forma di azione dell’esecutivo quale origine dei mali del sistema istituzionale italiano nel secondo. Quanto ritiene ci sia di vero in questa analisi e quanto ritiene che questa eventuale consapevolezza abbia condizionato il dibattito sulle riforme costituzionali nei decenni sino alle ultime modifiche introdotte?

Il Grundgesetz tedesco non è particolarmente caratterizzato da un forte esecutivo quanto piuttosto da uno scrupoloso senso della legalità costituzionale e della legittimità democratica dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che il valore cardine della Germania postbellica è la stabilità sociale, economica, istituzionale – ottenuta con una combinazione di legge elettorale, federalismo, ordoliberalismo –. D’altra parte il sistema delineato dalla Costituzione italiana non è un «esasperato parlamentarismo» ma un «normale» parlamentarismo, in piena linea con la tradizione politica (italiana e prima ancora sabauda) fino dai tempi dello Statuto Albertino, che pure formalmente non lo prevedeva.

Bicameralismo paritario, Senato delle autonomie ed elettività della Camera alta sono stati già nel 1946-1947 temi oggetto di acceso dibattito tra le forze politiche. Come interpreta la soluzione istituzionale allora definita e come giudica la modifica dell’assetto parlamentare approvata a riguardo nell’ultima riforma rispetto alla scelta iniziale?

L’assetto istituzionale del Parlamento previsto dalla Carta del 1948 è un bicameralismo paritario, ma non perfetto. Il Senato è eletto su base regionale, il che ne differenzia, anche profondamente, la composizione rispetto alla Camera. L’età a cui si accede all’elettorato attivo e passivo è diversa. La durata era settennale (fu modificata nel 1953). Certo, rango e ruolo erano e sono uguali fra Camera e Senato; il che è stato recentemente un grave problema dal punto di vista della possibilità di formare al Senato la medesima maggioranza politica della Camera, e ha quindi creato un frequente deficit di governabilità. Ma il bicameralismo paritario, benché discutibile, non è, di per sé, motivo reale di inefficienza del processo legislativo; la quale, quando c’è, nasce dalla debolezza, dalla divisione e dalla contraddittorietà dei partiti. Oggi, si sarebbe potuto ipotizzare o l’abolizione del Senato (e l’elezione della Camera con il sistema proporzionale e una soglia di sbarramento) o un Senato di garanzia, eletto dai cittadini ma escluso dalla fiducia, incaricato tra l’altro di preparare leggi organiche (codici) in rapporto con la Camera politica. Sarebbero state soluzioni più efficaci, più rispondenti a un’esigenza reale del Paese, e quindi soluzioni anche più comprensibili di quella, pasticciatissima e incoerente, che è stata adottata (come si giustifica il mandato libero dei senatori di fronte alla loro elezione di secondo grado, e al fatto che rappresentano le «istituzioni territoriali» e non la volontà del popolo?).

La revisione del Titolo V adottata con l’ultima riforma del testo costituzionale è stata vista da molti come una sorta di arretramento rispetto al percorso di rafforzamento delle autonomie regionali in Italia, iniziato nel corso degli anni Settanta e consolidato con la riforma costituzionale del 2001, con un ritorno di molte competenze a livello centrale. Possiamo inquadrare le scelte compiute come effetto della consapevolezza del fallimento dell’esperienza regionalista in italia? In tal senso possiamo rintracciare dei punti di contatto nel dibattito istituzionale sulle autonomie locali tra il ceto politico presente in Assemblea costituente e quello attuale?

La riforma del Titolo V attuata dal centrosinistra nel 2001 non ha funzionato. Era un esito della stagione del «federalismo» italiano, che è stato praticato tanto a sinistra quanto a destra e che si è rivelato uno dei molti tentativi, sostanzialmente falliti, di rispondere con l’ingegneria costituzionale alla crisi della politica. L’assetto regionalistico della Repubblica, attivato solo nel 1970, e rafforzato appunto nel 2001, non ha dato buona prova di sé, sia per motivi legati a fenomeni di corruzione sia, assai di più, per l’alta conflittualità che ha contrassegnato, generando molte inefficienze, i rapporti tra Stato e regioni sulle materie concorrenti. Se non è fallita, l’esperienza regionalista in Italia ha certamente avuto un (relativo) successo solo in alcune aree.

Gli inevitabili riflessi della riforma Boschi sul funzionamento e le modalità di elezione degli organi costituzionali di garanzia come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale o le modifiche delle forme di controllo ed emendazione popolare come il referendum sembrerebbero andare nella direzione di uno spostamento dei rapporti di potere a vantaggio dell’esecutivo, favorendo allo stesso tempo un rapporto quasi diretto e trilaterale tra partito di maggioranza alla Camera (tenuto conto degli effetti del disposto del cosiddetto Italicum) esecutivo e corpo elettorale, ricalcando formule e prassi iper-maggioritarie in vigore in altre democrazie occidentali. Non ritiene ciò segni una rottura rispetto al solco tracciato dai costituenti nel 1946/1947? E in che modo crede abbiano inciso su tale evoluzione istituzionale gli avvenimenti degli ultimi trent’anni e in particolare quelli che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica?

Se si dovesse realizzare, il combinarsi reciproco della revisione costituzionale e della nuova legge elettorale super-maggioritaria implicherebbe non solo un significativo spostamento dei rapporti fra i poteri dello Stato, ma una trasformazione qualitativa della repubblica, che da democrazia parlamentare dei partiti diventerebbe una democrazia d’investitura rafforzata. Il sistema politico ruoterebbe infatti intorno al leader del partito uscito vincitore dalle elezioni, anche con percentuali molto basse di suffragi, calcolate per di più su una base elettorale che da parte sua si restringe continuamente. Esecutivo, legislativo, organi di garanzia, perfino la deliberazione dello stato di guerra, sarebbero a disposizione, piena o quasi piena, del vincitore, senza significativi contrappesi istituzionali. La rappresentanza sarebbe quasi interamente sacrificata alla governabilità. I partiti non sarebbero altro che effimere formazioni elettorali al servizio del Capo; quelli soccombenti non avrebbero ruolo politico, e i loro elettori sarebbero collocati in una condizione di forte disuguaglianza rispetto ai vincitori. In generale, la vita politica sarebbe non solo impoverita (si vota per meno istituzioni), ma sarebbe anche irrigidita in una brutale semplificazione plebiscitaria celebrata ogni cinque anni. La complessità e la ricchezza della politica sarebbero votate a scomparire. L’esatto contrario dell’idea di una società aperta, dinamica, dialettica, partecipativa a più livelli, disegnata dai costituenti; di una società, cioè, che non relega la politica in un angolo, e che non la delega al Capo, ma che attraverso i partiti di massa la vive democraticamente come propria dimensione normale. Il combinarsi delle due riforme risulta insomma funzionale all’idea di politica  – meramente neutralizzante e amministrativa, ma all’occorrenza anche emergenziale – del neoliberismo e delle sue varianti europee. E di fatto costituzionalizza e razionalizza le tendenze e le prassi politiche – largamente difformi dallo spirito della Costituzione – già da tempo in atto, nell’assunto che ad esse non vi sia alternativa. Ancora una volta, tutto deve cambiare perché tutto resti com’è.

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L’intervista è stata pubblicata in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», N. 27, 3, 2016.

Cambiare tutto per non cambiare niente

Da quando ha scoperto la possibilità di una vittoria al ballottaggio del M5S, il Pd ha cominciato a trovare qualche capello nella minestra dell’Italicum, dapprima proclamata squisitissima. Per di più la sinistra interna collega il proprio impegno per il Sì al referendum a modifiche della legge elettorale. E senza l’apporto dei bersaniani e dei cuperliani è improbabile che vinca il Sì; e anche le elezioni politiche divengono per il Pd ancora più un terno al lotto.

Per ora il Pd fa melina, com’è successo mercoledì alla Camera. Ma prima o poi dovrà fare una proposta su cui cercare l’accordo di altri partiti, dato che una forzatura del governo con una nuova fiducia pare da escludersi.

Si deve mettere in conto, fin d’ora, che Renzi non può modificare l’Italicum nella sua parte ideologica: non può cioè rovesciare l’assunto anti-parlamentare che il governo si formi nelle urne, e non nelle Camere, grazie a un voto dato al Capo di un partito che non ha la maggioranza dei voti popolari, e che la ottiene, grazie a un artificio, nel Palazzo. Renzi non acconsentirà mai alla logica della democrazia parlamentare, secondo la quale i governi nascono da trattative fra partiti all’interno delle istituzioni rappresentative: lo ha detto molte volte, ed è il caso di credergli, una volta tanto, poiché non è uomo che possa sopportare di dover mediare con altre volontà politiche autonome. Renzi potrà forse concedere qualcosa sulle preferenze, sulle candidature multiple, sui capilista bloccati (tutte cose che interessano molto i politici di professione), ma non concederà nulla sul premio di maggioranza – che questo scatti con o senza ballottaggio, che sia conferito alle liste o alle coalizioni pre-elettorali –. I politici di professione potrebbero accontentarsi, i cittadini no, dato che è proprio per questa via che la democrazia parlamentare si trasforma in premierato, o in «democrazia d’investitura rafforzata», senza contrappesi.

Questa trasformazione della forma di governo nasce dal «combinato disposto» delle due riforme – quella elettorale e quella costituzionale –, che è innegabile perché l’Italicum è già legge: quindi esiste già la chiave, o il grimaldello, che si adatta perfettamente alla serratura, cioè alla Costituzione riformata. E questa infatti prevede l’esclusione del Senato dal circuito della fiducia, così da garantire il governo da ogni sorpresa, mentre intanto gode della maggioranza (fittizia) alla Camera, ridotta a organo di veloce ratifica delle decisioni dell’esecutivo. Del resto, se non vi fosse una forte interferenza fra le due riforme la Corte costituzionale non avrebbe rinviato la pronuncia sulla legge elettorale: il rinvio nasce dal fatto che entrambe le riforme riguardano in modi diversi la medesima materia – il cambiamento della forma di governo – e che una decisione giudiziaria su una di esse interferisce col referendum sull’altra. La Consulta, insomma, smentisce le tesi renziane della estraneità fra le due riforme.

Ma al di là dei tecnicismi, il giudizio politico su queste è che si tratta di uno dei più grandi atti di gattopardismo della storia della Repubblica. La logica che vi è implicita è infatti che tutto deve cambiare (e, appunto, le due riforme, insieme, cambiano la forma di governo) perché tutto resti com’è: ovvero perché permanga, rafforzato, l’attuale dominio dell’esecutivo sul Parlamento, e del Capo sul partito. Un dominio – ora garantito dal Porcellum e in futuro dall’Italicum, comunque questo venga modificato, e dal nuovo ruolo del Senato – che comporta l’affermarsi definitivo del plebiscitarismo e della passività politica dei cittadini. È contro questa prospettiva, non sanabile da modificazioni di dettaglio, che il «ritorno alla Costituzione» del 1948 sarebbe un programma politico alternativo, civico e progressista.

 

 

L’articolo è stato pubblicato in «il Fatto Quotidiano», il 27 settembre 2016.

Il sentiero stretto della sinistra europea

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È vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).

Per schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni conservatrici (all’insegna del «non c’è alternativa» all’euro e alle sue regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli Stati Uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una contraddizione fra euro e democrazia sociale. Ma mentre questa opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non può essere che una parentesi), che andranno incontro a una polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.

L’altra fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo – in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e forze antisistema.

Il punto è che le forze antisistema si coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di lettura e d’azione.

Dal dibattito in corso sul «manifesto» sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina) favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a quello mondiale, iniziando col «disobbedire» alle regole economiche della moneta unica, senza uscirne.

Al di là della sovrapposizione fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la questione del demos –.

Non c’è nulla di nazionalistico o di sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più vasta scala, è senz’altro lo Stato. La politica su scala continentale ha inizio là dove la politica si condensa significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico, politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza nazionale –. Se non passa attraverso la scala statale, la lotta sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un nuovo assetto delle relazioni internazionali.

Ci si deve servire dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi? Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.

Lo spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.

L’articolo è stato pubblicato in «il manifesto», il 17 settembre 2016.

Oltre la destra e la sinistra? Sistema e anti-sistema nella politica di oggi

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La Ue, nata nel 1992 per rispondere alla sfida geopolitica e geoeconomica della globalizzazione, è un insieme di Consigli e Commissioni che esprimono poteri esecutivo-tecnocratici (il parlamento non ha la piena titolarità del potere legislativo): la dialettica politica è tutta risolta nelle tensioni fra la Commissione, custode dei Trattati, e il Consiglio dei Capi di Stato e di governo, in cui operano gli Stati, nei loro reali rapporti di potenza. Rispetto ai bisogni dei cittadini questa Europa è cieca e sorda.

Per di più, il principale prodotto dei Trattati, l’euro, è, con altro nome, il marco: la moneta nella quale la Germania da decenni si riconosce, e che ha dato in ostaggio all’Europa unita, ma che al contempo tiene saldamente in pugno, chiedendo ai membri dell’eurozona di riprodurre, almeno a grandi linee, il modello ordoliberista germanico attraverso le «riforme», la spending review, il Fiscal compact (da cui deriva l’art. 81 della Costituzione sull’equilibrio di bilancio) l’austerità, la moderazione salariale e l’attenzione primaria alla stabilità di bilancio. Queste politiche hanno prodotto linee di frattura fra il Nord e il Sud – delle quali per ora non si vede alcuna composizione (se non in una improbabile «Europa più politica e più democratica») –, e hanno seriamente lesionato le società europee: educazione, ricerca, sanità, lavoro, pensioni, diritti, sono stati colpiti da politiche restrittive e deflattive che per salvare la moneta unica hanno determinato impoverimento, disuguaglianze, inoccupazione, incertezza esistenziale nel ceto medio e fra i lavoratori, e perfino abbreviazione dell’aspettativa di vita in alcuni Paesi, fra cui l’Italia. Né si vedono sviluppi positivi: è il modello economico in quanto tale ad essere deflattivo, e a non privilegiare né la crescita né la ridistribuzione della ricchezza.

A ciò si deve aggiungere la sfida geopolitica che proviene dall’arco di crisi economica e militare che, dalla Libia al MO, riversa sull’Europa migranti senza interruzione; un disordine radicale che, insieme alle lacerazioni interne alle nostre società, è una delle cause di un terrorismo difficile da sradicare. Alla povertà, all’incertezza, si sommano così anche intolleranza, xenofobia, paura: il legame sociale e la lealtà verso la democrazia ne sono messe a repentaglio.

Il referendum britannico sull’Europa è stato l’occasione per esprimere una protesta anti-sistema, perché oggi chi si percepisce escluso dalla cittadinanza (nazionale o europea che sia) non ha a disposizione spazi e canali politici per entrare nel «merito» (il Regno Unito era di fatto già esonerato dai vincoli più gravosi della Ue) ma sente di poter ricorrere solo a un semplificato conflitto frontale: e la Ue tecnocratica e ordoliberista non è stata vista come la soluzione dei disastri imputabili alla tradizione neoliberista thatcheriana e ai suoi sviluppi successivi, ma come anch’essa parte del problema. Che quel conflitto assuma, nel Regno Unito e altrove, tratti nazionalistici è dovuto a un ovvio riflesso difensivo e identitario (che in alcuni Paesi dell’Est ha raggiunto livelli preoccupanti), e al fatto che la sinistra non è pronta a raccoglierlo e a interpretarlo, e anzi ne è travolta.

In generale, il cleavage destra/sinistra (strutturalmente ancora centrale, perché esprime la contraddizione fra i pochi ricchi e le vaste masse escluse da ricchezza, influenza e speranza) resta soffocato dal cleavage sistema/anti-sistema, che invece trova sempre una via per manifestarsi, o in un referendum o in un programma elettorale; e attraversa e scompagina i partiti di destra e di sinistra (oltre che la stessa unità politica del Regno Unito), e fa temere la possibile fine dell’ordine post-1989 – appunto, la Ue –.

In questa fine è coinvolta anche la democrazia, che risulta due volte spettrale: sia perché è ora negata di fatto (e ridotta a post-democrazia) da neoliberismo, ordoliberismo, burocrazia e tecnocrazia, sia perché la reazione contro questa negazione è populistica, ovvero non solo non è più iscrivibile nel codice binario destra/sinistra, ma è anche disponibile ad assumere forme non democratiche.

In Italia il bipolarismo destra-sinistra di età berlusconiana (inconcludente, peraltro) si è modificato; oggi la polarizzazione è tendenzialmente tra i partiti del sistema (Pd, Ncd e gruppi di centro) e i partiti anti-sistema (M5S e Lega – a prescindere dal fatto che siano veramente anti-sistema o che lo vogliano solo far credere –), i quali competono lungo l’asse stabilità/caos (dal punto di vista dell’establishment) oppure status quo/cambiamento (dal punto di vista dell’opposizione); insomma, tra le forze degli have e degli have-not, fra chi ha qualcosa, o spera di averlo, e chi non ha nulla, o teme di essere sul punto di perdere quanto ha; tra le élites, e chi spera di entrare a farne parte, e il popolo. Un conflitto frontale, semplificato, senza sfumature né dialettica, povero di cultura e ricco di potenziale violenza.

Questa polarizzazione grava sugli schieramenti politici italiani: infatti anche la destra tradizionale come Fi, che cerca di costituire un terzo polo moderato, dovrà allearsi con Salvini; ma se la Lega non rinuncerà alla propria virulenta protesta, allora o il terzo polo fallirà, e Fi e Pd si troveranno dalla stessa parte (anche senza che sia stato formalizzato un nuovo patto del Nazareno), oppure Fi sarà subalterna alla Lega, e quindi dei tre poli della politica italiana due (M5S e destra) saranno anti-sistema.

Il cleavage sistema/anti-sistema coinvolge anche SI, che ambisce a essere il quarto polo della politica italiana, per leggere da sinistra la crisi strutturale del presente, e che quindi non vorrebbe schiacciarsi a priori né sul Pd né sul M5S. Eppure, anche SI difficilmente si può sottrarre a quel cleavage e alla semplificazione che vi è contenuta: infatti, la legge elettorale consentirà forse l’esprimersi di un po’ di pluralismo al primo turno, ma certo costringerà partiti ed elettori a scegliere al ballottaggio; e la decisione sarà fra sistema e anti-sistema. E non è detto che chi giungerà alla scelta articolando «distinguo» sia premiato dai cittadini: come dicono i tedeschi In Gefahr und grösster Not bringt der Mittelweg den Tod – nel pericolo e nel più grande bisogno la via di mezzo conduce alla morte –.

Alcune conclusioni. Da un punto di vista storico, emerge l’enorme responsabilità politica della sinistra che negli ultimi decenni si è affidata alle forze neoliberiste e ordoliberiste, sperando di ammorbidirne le asprezze, anziché denunciarne le logiche che mandavano a pezzi quel modello di società e di Stato sociale che proprio la sinistra ha contribuito a creare durante i «Trenta gloriosi». Ciò purtroppo rende oggi poco credibile chi, in Italia e in Europa, vuole intercettare e indirizzare la protesta anti-sistema richiamandosi alla sinistra.

Da un punto di vista politico, poi, in assenza di una ripresa economica socialmente percepita – che cioè comporti non solo aumento del Pil ma anche restituzione di reddito, diritti e posti di lavoro a chi ne è stato privato –, il conflitto tra forze del sistema e forze anti-sistema pare aperto a ogni risultato elettorale: per colpa delle proprie interne contraddizioni il sistema non ha più tutte le carte in mano (benché in Italia la mancanza di una realistica alternativa all’euro possa forse rendere i cittadini più prudenti degli inglesi nella protesta, come del resto è appena successo in Spagna).

Infine, per restare nella logica della chiarezza delle scelte: Renzi – che alle elezioni amministrative ha sperimentato a quali rischi vada incontro il Pd trasformato in «partito del sistema» – cerca ora di proporsi, a parole, come parzialmente anti-sistema, e afferma che il Fiscal compact è stato un errore. Sia quindi lecito auspicare che almeno questa volta il rottamatore abbia il coraggio di passare dalle parole ai fatti; e se proprio vuole mettere la mani sulla Costituzione, cominci col rottamare l’articolo 81.

L’articolo è stato pubblicato in «Left», n. 28, 9 luglio 2016, con il titolo Non è più destra contro sinistra, è sistema anti-sistema.

La Germania unita divide l’Europa

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Dopo il 1990 l’Europa (che dal 1945 era divenuta un «nulla» politico) è stata costretta a tentare di essere «qualcosa», cioè parte di un ordine mondiale politicamente plurale ma economicamente omogeneo (ovvero capitalistico), senza tuttavia che l’omogeneità implichi stabilità e ordine (per non dire giustizia). Una parte che per ora si struttura intorno alla Germania unificata, che come sempre è «fuori scala» rispetto all’Europa: troppo piccola (e troppo poco motivata) per essere una superpotenza, troppo grande, popolosa, organizzata, per essere un «normale» Stato nazionale. Da cui lo stratagemma dell’euro, ideato a Maastricht come strumento di rafforzamento della Comunità europea (allora elevata al rango di Unione) per tenere la Germania unificata ben ancorata all’Europa, per non lasciarla vagare in un incontrollato neutralismo; uno stratagemma, una unione, che si sono rovesciati nella situazione attuale che vede la Germania, col «suo» euro, esondare in buona parte d’Europa e creare disunione.

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Ma il rapporto fra Germania e Europa, per nulla univoco, si iscrive all’interno di molteplici linee di frattura che disegnano gli spazi politici dell’Europa di oggi.

Esistono fratture geopolitiche, geoeconomiche, e fratture sociali. Fra queste ultime è certo fondamentale la disuguaglianza economica, la distanza (di sapere, di potere, di reddito, di proprietà) fra ricchi e poveri che attraversa tutte le società europee. È questo l’esito della vittoria epocale del neoliberismo sul keynesismo nel corso degli anni Settanta del XX secolo: una vittoria che ha assegnato alla politica un nuovo ruolo (da redistributivo della ricchezza prodotta dall’alleanza fra capitale e lavoro a facilitativo dell’egemonia incontrastata del capitale) e che ha implicato un nuovo modo di funzionamento del capitalismo, che non persegue più la tradizionale accumulazione quanto piuttosto implica la costruzione di bolle speculative a cui seguono crisi finanziarie. Ciò ha prodotto gravi lesioni della struttura delle società europee, private della stabilità e del relativo livellamento (una vasta classe media) che lo Stato sociale aveva generato durante i «Trenta gloriosi», e portate a un livello di povertà e di disuguaglianza da tempo sconosciuto. Questo è il cambiamento sociale profondo da cui è derivata, a catena, la fine della legittimazione dei partiti, dei corpi intermedi, e anche delle istituzioni della democrazia. È una frattura destrutturante, che non disegna alcuno spazio politico ma attraversa tutte le società lasciandole in una condizione anomica, disorientata oppure aspramente reattiva, e consegnandole alle forze economiche e politiche più potenti, fortunate o spregiudicate.

Altre sono le linee di frattura geopolitiche e geoeconomiche in senso proprio, che creano spazi politici coinvolgenti l’Europa. Ma si tratta di linee che si sovrappongono fra di loro: una non esclude l’altra, e insieme costruiscono un intrico complesso di spazi striati. Una prima linea di frattura è la contrapposizione fra terra e mare, che oggi, al di là delle suggestioni mitiche, fra il liberismo anglosassone e l’ordoliberalismo tedesco (o quel che ne resta). Questa contrapposizione si manifesta nella durezza dei negoziati per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), una sorta di NATO economica ultraliberista dalla quale nascerà un mercato diverso da quello strutturato dagli Stati nazionali e dalla stessa Ue, nonché, prevedibilmente, un duro colpo alla nozione di sovranità politica (la clausola ISDS – Investor-State Dispute Settlement – consente alle multinazionali di fare causa ai governi per le loro politiche che danneggiano il business – ad esempio, campagne antifumo, normative pro- labour, ecc.).

Questa linea terra-mare spiega anche la diffidenza dell’Inghilterra nei confronti dell’Europa/eurozona, e il fatto che non è impossibile che il Regno Unito si stacchi dall’Unione Europea. In questo distacco si può vedere il riemergere (certo, non incontrastato, neppure oltremanica) di una tradizionale linea di frattura geopolitica che ha strutturato la storia d’Europa, ovvero l’ostilità dell’Inghilterra verso il formarsi di poteri forti e stabili nel continente.

Un’ulteriore linea di frattura è quella disegnata dallo spazio economico dell’euro, e dell’ordoliberalismo che lo sottende. Si deve qui ricordare che l’ordoliberalismo è una variante del liberalismo, che con Walter Eucken, Alexander Rüstow, Alfred Müller-Armack, Franz Böhm, Hans Großmann-Doerth, Wilhelm Röpke produce fra il 1932 e il 1937 un impressionante apparato di articoli scientifici, manifesti d’intervento, monografie accademiche, riviste («Ordo», appunto). Wilhelm Röpke utilizzò il concetto ossimorico di «interventismo liberale» per indicare il nucleo di questa dottrina, vero Sonderweg tedesco dell’economia, rivolta tanto contro il vecchio liberalismo (il «paläoliberalismus» del laissez-faire che aveva generato la crisi del 1929), e contro le cattive reazioni alla crisi del 1929, cioè il keynesismo, quanto ancora, ovviamente, contro il socialismo. C’è in quest’ambito una forte presenza di «terza via» e un’idea di persona umana che rimanda al cristianesimo sociale (cattolico – quali erano Eucken, Rüstow, Röpke – ma anche protestante; in ogni caso, la destinazione comune fu poi la CDU), che negli anni finali di Weimar e nei primissimi anni del nazismo prende le forme di una sorta di liberalismo autoritario e del vagheggiamento di uno Stato «forte» capace di reggere un’economia spoliticizzata (e quindi «sana») – ma non si deve pensare a una dipendenza diretta di queste tesi da apparati concettuali schmittiani –.

Soprattutto l’ordoliberalismo si candida – con il grande libro di Röpke del 1944, Civitas humana – a raccogliere i resti della Germania distrutta, a contrapporsi al comunismo, a dare ordine e benessere alla Patria liberata (e dimezzata). Il che avviene, col ministro dell’economia (e in seguito Cancelliere) Ludwig Erhard, e con la sua «economia sociale di mercato», sulla base di alcuni fondamentali assunti politico-economici: lo Stato garantisce la concorrenza con severe leggi anti-trust; non interviene sui prezzi (destinati naturalmente a scendere e a mantenersi su livelli d’inflazione fisiologicamente bassi); regola l’economia di mercato dandole protezione costituzionale.

C’è nell’ordoliberalismo un’ipotesi di società organica: il mercato (pur nella consapevolezza che si tratta di una istituzione storica) è interpretato come il generatore del legame sociale e come il motore della società, mentre nello Stato si esprime la naturale pulsione societaria dell’uomo. Lo Stato è la struttura che stabilizza per via giuridica e amministrativa il capitalismo, che regola e controlla la massa monetaria, garantisce la concorrenza, e così mette in grado il mercato di produrre benessere secondo giustizia – è questa l’opera dello Stato –, in una società il cui obiettivo fondamentale è di non lacerarsi. Per l’ordoliberalismo il conflitto non è fisiologico, ma patologico: nel Dna del mercato ordinato sta scritta la collaborazione, non il conflitto, che inceppa, blocca, sregola.

Lo Stato è quindi l’elemento della guida politica, espressa non tanto nella sovranità quanto nel governo, non tanto nel diretto interventismo statale quanto nella fluidificazione della società – Eucken oppone, appunto, l’economia di movimento all’opzione totalitaria dell’economia di piano – ma a scopi di stabilizzazione. Questa fluidità nella stabilità, questa armonia, è l’obiettivo strategico, che si manifesta nel concetto di conformità, individuato da Röpke (che oggi potremmo definire “compatibilità”). La decisione politica fondamentale è su che cosa sia conforme e che cosa non lo sia rispetto agli obiettivi dell’ordoliberalismo: il che implica che vi siano opzioni politiche ed economiche che a priori sono escluse dall’orizzonte (ad esempio, leggere la società in chiave di strutturali dislivelli di potere; ma anche far valere i «diritti» del lavoro come ostacoli alla fluidità, che quindi è anche «flessibilità»). L’ordoliberalismo è un organicismo escludente, che vuole far accettare il proprio impianto teorico come autoevidente: il suo organicismo (di ascendenza aristotelica e anticostruttivistica – Röpke afferma apertamente che bisogna rivalutare il tema dei luoghi comuni e delle convenzioni, contro il razionalismo moderno –) è in realtà esposto al rischio della rigidità e del dogmatismo.

In parallelo, è anche un modello invadente: Rüstow conia il termine Lebendige Politik (politica vitale) per indicare che accanto all’agire «regolativo» della politica sull’economia c’è anche un agire «direttivo» sull’intera vita sociale per renderla conforme al modello, a tutti i livelli, da quello economico a quello politico, da quello educativo a quello finanziario. L’umanesimo ordoliberista è in realtà un governo della vita, una teoria dell’allevamento organico degli essere umani (come del resto ha visto Foucault).

C’è qui l’essenza della storia tedesca: ci sono la cameralistica e la «scienza di polizia» sei-settecentesca, la matrice (sulla base di un aristotelismo che perveniva nelle università della Germania attraverso la seconda Scolastica spagnola) da cui gli Stati tedeschi svilupparono sistemi amministrativi efficienti; c’è il mercantilismo, ossia la vecchia tentazione di un’economia orientata all’iperproduzione e all’esportazione «ostile», per impoverire e assoggettare i vicini senza necessariamente sottometterli politicamente; c’è la religione del lavoro e dell’organizzazione tipica della Germania post-bellica, la costruzione – dopo l’impero criminale – di una società organica attraverso il fitto intreccio di potere economico, potere politico, potere amministrativo, potere finanziario, a livello dello Stato e dei Länder (e dunque c’è anche il federalismo); c’è la stretta connessione fra banche e aziende; c’è la Mitbestimmung, la partecipazione dei sindacati ai consigli di gestione delle imprese maggiori. E c’è anche, nascosto in questa che sembra una teoria della forza tranquilla, del progresso senza avventure, il panico che nasce dall’aver fatto esperienza delle cattive risposte (il nazismo) alle crisi del cattivo capitalismo, del liberalismo sregolato; e c’è il terrore del rischio – di ogni rischio: dell’inflazione, del debito, dell’impoverimento, del conflitto – e la totale incapacità d’immaginare che sia possibile un altro modello politico-economico. Al di fuori di questo modello c’è solo il caos; e ciò è creduto per vero dalla Cdu e dalla Spd, tanto dalla signora Merkel (a prescindere dai volti che via via assume, di «matrigna d’Europa» o di misericordiosa soccorritrice dei migranti, o meglio di previdente procacciatrice di mano d’opera a basso prezzo per un sistema economico che deve funzionare allo spasimo e che deve finanziare un vasto sistema pensionistico) quanto da Schäuble, regista della sottomissione della Grecia (anche attraverso la minaccia di espulsione) sulla base del principio «punirne uno per educarne cento», ossia per mostrare che l’Europa è – ufficialmente – una via senza alternative né flessibilità.

È da notare che l’ordoliberalismo non è al servizio di una esplicita politica di potenza; e anzi ne è il deliberato sostituto. Non a caso oggi la Germania è «l’egemone riluttante»; pur con la sua enfasi sulla politica, l’ordoliberalismo oggi è molto meno un disegno politico e molto più un insieme coattivo di logiche tecniche e automatiche, un destino da cui nessuno, Germania o altri, pare possa scampare.

Ed è anche da notare che questo modello ha dato i suoi frutti migliori quando costituiva una peculiarità «locale» (il «capitalismo renano») all’interno di una economia occidentale a trazione statunitense, nel complesso espansiva e inflattiva (keynesiana), all’interno della quale il mercantilismo tedesco non ha avuto effetti devastanti all’esterno e anzi ha fatto della Germania la locomotiva d’Europa, consentendole tempo stesso, di costruire un solido Stato sociale – per quanto la domanda interna sia stata sempre calmierata –. Quando invece l’ambiente esterno è divenuto il neoliberismo in crisi, come è accaduto nel XXI secolo, e sempre più intensamente a partire dal 2008, l’ordoliberismo tedesco vacilla: all’interno riduce di molto le prestazioni dello Stato sociale (le riforme Schröder-Hartz del 2003-2005, l’introduzione dei mini-jobs) tanto che secondo alcuni l’ordoliberalismo in senso proprio non è più che una facciata, soppiantato da un neo-liberismo appena mascherato; mentre verso l’esterno la politica deflattiva e il mercantilismo producono danni crescenti, ossia stagnazione e disunione dell’intera eurozona. La Germania unita divide l’Europa.

L’euro è infatti – con altro nome – il marco, il costrutto in cui la nazione tedesca dal dopoguerra si riconosce, e che la Germania ha dato in ostaggio all’Europa unita, ma che al contempo tiene saldamente in pugno, obbligando gli Stati dell’eurozona, attraverso i Trattati, a comportarsi virtuosamente – secondo la definizione di ‘virtù’ dell’ordoliberalismo –, ovvero chiedendo a più di mezza Europa di agire secondo modelli che sono tipicamente tedeschi e che le realtà politiche non tedesche devono riprodurre, almeno a grandi linee, attraverso le «riforme» e la spending review. Ma che l’Europa sia lo spazio dell’euro/marco non la rende unita: anzi l’euro produce un doppio spazio, ovvero un nucleo tedesco allargato, una cintura di economie embedded nell’economia tedesca – Paesi baltici, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Olanda, Slovenia, Croazia –, e un cerchio più esterno dei Paesi del Sud (prigionieri volontari dell’euro – Spagna, Portogallo, Grecia –, mentre Italia e Francia sono in bilico fra le due aree). Questa linea di frattura distingue l’Europa dei creditori e l’Europa dei debitori − quella dei creditori è il nucleo germanico, e le economie che sono più interne al sistema economico tedesco, gli altri sono, in cerchi concentrici differenziati, collaboratori, più o meno subalterni, di quel nucleo economico −. Il segno esteriore di questa differenziazione dello spazio dell’euro sono le linee di divisione degli spread; ma la frattura esiste anche a livello di sistemi produttivi, e nessuno ha idea di come superarla: la politica prevalente è quella dell’attendismo un po’ ipocrita, del voltarsi dall’altra parte davanti agli sforamenti e ai ritardi rispetto ai parametri di Maastricht, di cui più o meno tutti gli Stati europei sono responsabili (la Germania ha un surpuls commerciale stratosferico, l’Italia ha un debito pubblico enorme, la Francia un deficit di bilancio colossale, e così via). Ma anche se Bruxelles o Berlino hanno a volte nella pratica atteggiamenti meno arcigni, e anche se Francoforte adotta una politica monetaria più che accomodante, l’economia non riparte se non a stento (e con differenziali di crescita proporzionalmente importanti tra i vari Stati), le società non cessano di soffrire e le democrazie di deteriorarsi; e chi denuncia apertamente e politicamente l’insostenibilità della situazione viene distrutto (come è capitato al primo Tsipras).

Un’ulteriore frattura è data dal fatto che lo spazio economico dell’euro a (problematica) dominanza tedesca non è propriamente uno spazio politico tedesco, nemmeno nel suo nucleo più ristretto – non c’è nulla di simile al IV Reich, insomma –. La causa di questa situazione risale alla spazializzazione postbellica del 1945-47: la cortina di ferro che ha tagliato la Germania in due, insieme all’Europa, si fondava sulla divisione dell’Europa fra le superpotenze, e sull’assunto che la Germania non avrebbe più dovuto avere ruolo politico in Europa, ovvero avrebbe potuto sì costituirsi come uno spazio economico nazionale, ma non certo riproporsi come un Reich. Ebbene, la fine del comunismo e l’annessione all’area occidentale dei Paesi ex-comunisti dell’Europa orientale ha fatto sì che questi, per quanto siano embedded nello spazio economico tedesco, non condividano le opzioni politiche generali della Germania. Questa non ha avuto, storicamente, un rapporto sempre ostile con la Russia, e anzi ha subito l’influsso del suo potente vicino, a sua volta influenzandolo: la Germania non ha confini (secondo le tesi dei geografi tedeschi ottocenteschi), dato che è collocata in una pianura che arriva fino agli Urali, e nel secolare rapporto fra l’elemento slavo e l’elemento germanico vi sono stati movimenti di marea in avanti e all’indietro, ostilità ma anche collaborazione e ammirazione.

Al contrario, molti degli Stati embedded nello spazio economico tedesco sono e restano violentemente antirussi (molto più della Germania) perché sono stati dominati fino a un quarto di secolo fa dall’URSS, protagonista dell’ultima ondata di marea slava. L’Europa è così attraversata da una memoria politica divisa: il nemico nell’immaginario e nella prospettiva degli Stati dell’Europa orientale continua a essere la Russia, erede dell’Unione Sovietica. Ciò fa sì che la Germania sia oggi scavalcata da una serie di Stati che si appellano agli Stati Uniti per esercitare una confrontation estremamente dura nei confronti della Russia, mettendo a disposizione basi militari per la NATO. Come tutto ciò pesi anche nella genesi e nella gestione della questione Ucraina è evidente.

Ora, la stessa Nato disegna nel suo complesso una evidente linea di frattura fra Europa e Russia – una frontiera che la vittoria nella guerra fredda ha consentito di spostare verso Est, così che oggi la Nato accoglie non solo gli Stati ex-comunisti dell’Europa orientale ma anche Stati balcanici eredi della ex-Jugoslavia –. Che questa situazione istituisca oggettivamente una linea di forte frizione con la Russia è ovvio: una frizione in cui l’Europa – piaccia o non piaccia ad alcuni Stati europei – è coinvolta. L’Unione Europea, infatti, non ha una propria politica di difesa. Nei trattati istitutivi è scritto che il braccio armato dell’Unione Europea è la NATO. La costruzione della proiezione armata della potenza europea è ancora agli albori; anzi, la politica militare e industriale è rivendicata in proprio da ciascuno dei pur deboli Stati europei. Eppure c’è un’ulteriore linea di frattura all’interno di quello che sembrerebbe lo spazio unitario dell’Occidente in armi. Infatti, dentro lo spazio della NATO si produce una frattura fra la Germania e altri Paesi, a essa economicamente subalterni ma politicamente oltranzisti; e ciò fa sì che la NATO sia, in questo momento, una realtà meno compatta di quanto possa apparire; certamente (data l’enorme sproporzione di mezzi) sempre in ultima istanza a trazione americana, ma soggetta agli umori, e alle paure, di una fascia di Stati molto preoccupati della politica russa e protagonisti di un dinamismo antirusso ‘dal basso’.

Insomma, dentro lo spazio europeo c’è uno spazio economico dell’euro diviso fra creditori (lo spazio tedesco allargato) e debitori, e uno spazio politico diviso fra Paesi più o meno anti-russi, il che permette agli USA di avere ancora attraverso la NATO (benché più instabile che in passato) un enorme peso sull’Europa, sulla quale invece la Germania non può (e non vuole) avere anche un’egemonia politico-militare, pur esercitandola in senso economico (ma è un’egemonia deflattiva, non espansiva).

***

Nell’Europa dei molti spazi, delle molte fratture, la Germania è quindi, al momento, segno non d’unione ma di contraddizione.

Ma non tutti i problemi europei nascono dalla Germania, «egemone riluttante». Né la soluzione sta nella sola Germania, che secondo alcuni dovrebbe esercitare un più deciso ruolo politico – a cui nessuno, in Europa e nel mondo, è in realtà preparato –. La verità è che quella di oggi è anche l’Europa dei molti Stati (inquieti e pericolanti), che sono poco più che i relitti ormai non più vitali di un’Unione Europea pensata all’epoca della guerra fredda (quando gli Stati europei erano di fatto sollevati da responsabilità strategiche, dopo che nel 1954 era stata bocciata la Ced) o all’epoca della globalizzazione incipiente e all’apparenza «pacifica». Un’Europa che pensava a se stessa come «mercato comune» e poi come «potenza civile»: ipotesi, quest’ultima, possibile solo in una situazione mondiale di relativa pace, che oggi è ben lungi dal verificarsi.

Lo spazio liscio dell’Europa potenza civile − realizzato con Schengen − è ormai attraversato da muri e da barriere di filo spinato alzate dagli Stati, e così trasformato in un puzzle, in un labirinto per intrappolare, come topi, i migranti che fuggono dallo sfascio del vicino oriente, dell’Africa settentrionale e del Corno d’Africa. E l’emigrazione stressa oltre che le strutture istituzionali anche il legame sociale, estremizzando l’opera del neoliberismo: la frantumazione della società in individui «atomici», che sono economicamente concorrenti (ma in realtà impoveriti e subalterni a poteri invincibili), e che sono politicamente preda della paura e della xenofobia.

Dalle stesse aree di crisi giunge all’Europa un’altra sfida, il terrorismo, che è al tempo stesso sistemico e strategico. È sicuramente un atto di guerra, e dunque è strategico: ma in realtà è anche sistemico perché nasce dentro lo spazio politico degli Stati europei, dentro le loro contraddizioni e carenze, e lì si alimenta. Non si può neppure sostenere che il terrorismo generi un fronte, una linea di frattura − ad esempio, il clash of religions fra cristianesimo e islamismo −: la verità è invece non tanto che l’Islam si radicalizza quanto piuttosto che il radicalismo si islamizza, ovvero che la religione è il codice in cui viene trascritta un’ostilità generata altrove, su un altro terreno (sull’esclusione e sul risentimento sociale e politico). Insomma, il terrorismo continentale è un modo della guerra globale, che è − come provai a definirla a suo tempo − quella condizione in cui «tutto può capitare ovunque in qualsiasi momento».

Il combinarsi di terrorismo e di immigrazione (due fenomeni distinti, ma che si rafforzano l’un l’altro nella psicologia di massa, e che alimentano insicurezza e disorientamento esistenziale nelle società) può essere un fattore di rafforzamento, in senso autoritario, dello Stato. Ma in realtà il sommarsi della disuguaglianza economica e della insicurezza esistenziale produce fenomeni di disgregazione della società che neppure una torsione autoritaria dello Stato potrà neutralizzare: lo «Stato forte» sarà in questo contesto solo uno Stato arbitrario, la cui forza si eserciterà in modo casuale, occasionale. Se la guerra classica produceva dentro gli Stati l’Union sacrée (o la rivoluzione), la guerra globale produce fenomeni di scollamento del tutto anomici.

Alle linee di frattura interne allo spazio dell’euro, già di per sé abbastanza complesse e intersecate, si aggiungono, dentro la Ue, le linee tradizionali degli Stati, e nelle società europee, microfratture pulviscolari, generate dalla crescente disuguaglianza economica, dalla stagnazione produttiva, e dalla paura, che possono destrutturare e fare esplodere (o implodere in avventure reazionarie) ogni spazio politico, tanto la Ue quanto i singoli Stati. L’Europa oggi non ha Nomos, e, semi-paralizzata, risponde con le leggi di emergenza (a livello degli Stati) e con nuovi rabbiosi nazional-populismi (a livello delle società) alla disuguaglianza, all’emigrazione e al terrorismo.

La risposta a livello di Ue, appunto, manca: o meglio, non è altro che la promessa (o la minaccia) di una indeterminata estensione nel futuro dell’Europa di oggi – con qualche aggiustamento che eroda ancora un po’ la democrazia, e con nuovi sacrifici per tutti, cittadini e migranti –. Un’utopia entropica, in fondo. Ci sono, certo, altre retoriche: c’è quella benintenzionata del «Ci vuole più Europa» – che è però incomprensibile se prima non si chiarisce di quale Europa si parla (non certo di un super-Stato monolitico, a guida tedesca, capace di chiudere i propri confini all’esterno; ma la stessa opzione federale, se presa sul serio nelle sue implicazioni di reale cessione di sovranità da parte degli Stati, richiede uno sforzo politico immane e non c’è traccia dell’energia politica necessaria) –, e c’è la contro-retorica delle insurrezioni cittadine su scala europea (altrettanto enfatica e indeterminata). Ma di fatto,  nessuno ha al momento soluzioni e strategie per uscire da una crisi che investe direttamente la storia e l’identità della vecchia Europa degli Stati, e della recente Europa dell’euro.

Dopo tutto, la prima cosa di cui abbiamo bisogno è forse, oltre all’analisi, un forte supplemento d’immaginazione.

L’articolo è stato pubblicato in «Limes», n. 3, 2016, pp. 175 – 182.

La “nuova democrazia” di Renzi e le ragioni del No

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Il referendum sulla riforma costituzionale non va affrontato come se si trattasse solo di una tecnicalità, di una questione di merito; o meglio, il merito che vi è coinvolto va ben al di là della riforma del procedimento legislativo, della elezione e della composizione del Senato, della nuova definizione in senso centralistico del rapporto fra Stato e regioni.

E non va nemmeno affrontato come si trattasse solo di un plebiscito su Renzi; non perché il ruolo del presidente del Consiglio non sia decisivo, in questa fase politica, ma in primo luogo perché essere chiamati a dare un giudizio sulla persona è umiliante per i cittadini, costretti a rispondere a domande poste da altri, con modalità e tempi decisi da altri, con conseguente inversione, di fatto, del principio di sovranità popolare; in secondo luogo, quel giudizio può essere offuscato da altre iniziative personali dell’interessato, volte ad acquisire consenso, ed estranee alla materia politica centrale che è in gioco.

Sia chiaro: i giudizi di merito sulla riforma e sulla persona (politica) di Renzi non possono non essere negativi. La riforma – nei suoi contenuti e nelle modalità con cui è stata avanzata (dal governo) e votata dalle Camere – è infatti un pasticcio, offensivo della logica e della correttezza parlamentare (i regolamenti sono stati interpretati in modo «innovativo», ad esempio in occasione della sostituzione dei componenti Pd della prima commissione). Chi elegge il Senato? Perché i senatori hanno mandato libero benché non rappresentino la nazione? Quali sono le competenze del Senato rispetto alla Camera e al governo, e a quanti tipi di procedimento legislativo danno luogo? Sono, questi, solo alcuni dei quesiti che si possono porre, e che vedranno i giuristi costituzionalisti disputare a lungo.

La politica di Renzi, poi, è sorretta da una logica di avventura personale, condotta con abilità tattica, con accortezza e con temerarietà, e con grande capacità di sfruttare errori e debolezze altrui; è la logica di un occasionalismo pragmatico e spregiudicato, volto alla acquisizione e alla conservazione del potere attraverso l’uso di ogni espediente retorico, emotivo, polemico, demagogico purché superficiale, accattivante e «distraente». Una politica per tutte le stagioni, insomma; e il «cambio di stagione» è deciso solo da Renzi, sulla base del suo istinto e del suo interesse politico, con esclusione di ogni mediazione e di ogni dialogo o confronto (a cui è singolarmente negato). Una politica che cerca di navigare sopra i flutti della tempesta – della crisi economica, politica e sociale interminabile – con disinvoltura mista ad arroganza.

Ma dietro le apparenze brillanti e sfidanti, e le narrazioni volontaristiche e ottimistiche, si cela – com’è ovvio, per chi fa del proprio destino personale la bussola del proprio agire – un robustissimo senso della realtà, ovvero dei rapporti di potere interni e internazionali: realtà e rapporti accettati come dati, non criticati né problematizzati, rispetto ai quali la politica di Renzi è di accondiscendenza e di adesione, guarnita di occasionali e calcolate ribellioni su punti determinati (possibilmente di buon impatto mediatico) – un esempio è la invocata flessibilità rispetto ai parametri di Maastricht, alla quale non si accompagna per nulla un’inversione della politica economica del governo –. La «filosofia» del jobs act, della «buona scuola», e anche delle riforme elettorali e costituzionali è questa.

Insieme alla modifica della costituzione va infatti valutata anche la legge elettorale che ne è parte integrante – una legge già prossima a entrare in funzione –, e che è destinata a cadere se in autunno prevalessero i No (è infatti una legge solo per la Camera: se a seguito degli esiti del referendum il Senato restasse invariato, non si potrebbero certo eleggere i due rami del parlamento, con due funzioni identiche, con due leggi diversissime tra loro come l’Italicum per Montecitorio e il Consultellum su base regionale per palazzo Madama). La sostanza politica su cui saremo chiamati a pronunciarci è quindi il «combinato disposto» delle due riforme, ovvero, nel complesso, il modello di democrazia del nostro Paese.

Ora, la Costituzione vigente prevede una democrazia repubblicana centrata sulla mediazione partitica e parlamentare delle dialettiche politiche e sociali, e sulla partecipazione dei cittadini; la Costituzione futura sarà invece leaderistica e d’investitura; e la politica non sarà più, com’è pensata nella Carta, una dimensione reale (fisiologicamente conflittuale) sempre presente e circolante nella società, e come tale da rispettare, valorizzare, rappresentare, governare, ma sarà al contrario spenta e silente per cinque anni, tutta risucchiata nel vertice del potere – palazzo Chigi –, e si manifesterà solo alla data delle elezioni in una sarabanda mediatica, in un tripudio emotivo, in un fuoco artificiale di passioni scatenate dai media in proporzione alla capacità economica dei contendenti. I cittadini (che sempre meno numerosi andranno al voto perché si sentiranno sempre più estranei a questa politica) avranno la soddisfazione di sapere, la sera delle elezioni, chi li governerà – in pratica, si elegge il capo del governo, con una legge maggioritaria (due peculiarità solo italiane) –; poi, il silenzio: c’è chi pensa e lavora per loro, chi «ci mette la faccia» senza tante mediazioni con partiti e sindacati e regioni, per essere poi giudicato plebiscitariamente da un popolo spoliticizzato.

La posta in palio, insomma, non è solo la forma di governo – il passaggio dal parlamentarismo al premierato elettivo –; dal «combinato disposto» delle due riforme emergono risultati profondamente antipolitici (la spoliticizzazione e la passivizzazione della società) e al contempo iperpolitici (per la concentrazione di potere nel capo del governo). La minoranza (ragionevole o antisistema che sia) sarà impotente per tutta la legislatura, mentre chi vince si impadronisce del legislativo, dell’esecutivo, di buona parte degli organi di autogoverno del giudiziario, della Presidenza della repubblica, dello jus ad bellum, della Rai. È la «democrazia decidente». È la governabilità. È la voce del padrone che si sostituisce alla polifonia di una società politicamente pluralistica. È una «nuova democrazia».

Anche se si lasciano invariati i Principi fondamentali della Costituzione, la si può quindi innovare radicalmente agendo sul rapporto fra esecutivo e legislativo, fra cittadini e istituzioni, fra Stato e regioni. Per giudicare di una costituzione, infatti, ci si deve chiedere contro chi è orientata, e da quale energia politica è organizzata. Della Carta vigente si può dire che è rivolta contro il fascismo, e che esprime la dialettica politica dei partiti in cui si articola concretamente la società dell’Italia repubblicana. Della Carta futura (se tale sarà) si deve dire che ha per nemico la costituzione materiale e ideale della Prima repubblica, e i suoi soggetti (cioè appunto i partiti e i cittadini attivi), e che si afferma grazie all’energia politica dell’esecutivo, nel nome dei valori supremi della stabilità e della governabilità.

Il punto è che Renzi, nel suo «realismo politico», oggi altro non fa se non implementare la politica di «riforme» apertamente raccomandata dalle istituzioni sovranazionali che realmente ci governano (da Bruxelles e da Francoforte, oltre che da New York e da Washington): una politica volta sistematicamente ad aumentare il peso degli esecutivi e a verticalizzarne l’azione, con una svalutazione della mediazione politica, sociale e istituzionale parallela e consonante rispetto alla svalutazione del lavoro e alla depressione del pluralismo, della partecipazione e dei diritti sociali, che sono oggi richieste per governare le società del neoliberismo avanzato e sempre più affaticato. Una politica di «riforme» in realtà perseguita da destra e da sinistra fino dagli anni Ottanta del secolo scorso, con stili diversi ma con l’intento di assecondare – a spese del lavoro e della dimensione «pubblica» e partecipativa della politica – le esigenze del mondo nuovo dominato dal capitale e non più dai partiti e dallo Stato.

Contro quanto Renzi sostiene – cioè che solo lui ha riformato la Costituzione –, già si sono cimentati (con vario esito) nell’impresa Amato, Berlusconi e Monti (nel 2001, nel 2005, nel 2012); per non parlare delle riforme elettorali, che dal Mattarellum al Porcellum al Consultellum precedono degnamente l’Italicum. L’obiettivo di ciascuna era di instaurare una «nuova democrazia»: di volta in volta democrazia del federalismo, del premierato, dell’austerità. E anche la riforma di Renzi ha questo obiettivo di novità, declinato come rottamazione del «vecchio» e come ricerca di efficienza centralistica e decisionistica.

Ma sul tema del «nuovo» ci si deve capire: Renzi costituzionalizza la già avvenuta decomposizione dei principi e delle strutture della democrazia parlamentare dei partiti. Già oggi il parlamento è esautorato (anche per colpa propria) e non è certo un freno o un ostacolo all’agire dell’esecutivo; già oggi i partiti sono morti e sepolti (per loro primaria responsabilità, ma anche per furiose campagne mediatiche); già oggi la politica ruota attorno ai leader e alle loro capacità comunicative e non attorno ai programmi o alle identità; già oggi palazzo Chigi è il centro della politica nazionale. Quindi le riforme di Renzi sono altamente innovative rispetto alla lettera e allo spirito della Carta vigente; ma sono conservative rispetto allo stato presente delle cose, che vogliono erigere a sistema politico compiuto.

Innovative e conservative, spoliticizzanti e iperpolitiche, queste riforme in realtà vogliono rendere governabile una società che è squassata da povertà, paura, anomia, sfiducia, passività o pseudo-ribellismo. Governabile a qualsiasi costo – anche al costo di una legge elettorale folle e di una riforma costituzionale potenzialmente autoritaria –; ma non al costo di affrontare, con lo spirito democratico della Carta, le questioni strutturali – economiche, sociali, politiche, culturali – che generano l’ingovernabilità in Italia (e nelle altre società occidentali). Queste riforme sono l’ingessatura di un arto rotto, senza che la frattura venga ricomposta: il risultato sarà un arto bloccato e irrigidito nella sua posizione storta.

Fuori di metafora: la «nuova democrazia» che sarà l’esito di queste riforme sarà una «postdemocrazia» (un regime che della democrazia conserva solo le forme esteriori ma non la sostanza attiva e partecipativa del potere democratico) e, ancora meglio, una «pseudodemocrazia». Votare No al referendum è una delle ultime occasioni per impedire che si affermi questa «novità».

L’articolo è stato pubblicato in «MicroMega», n. 3, 2016. 

 

Un nuovo partito della Sinistra per non morire renziani o grillini

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Stretta fra il Partito della Nazione (il Pd di Renzi, e le sue recenti annessioni di ex-berlusconiani) e il Movimento della Nazione (il M5S, ambiguamente estraneo alla dicotomia destra/sinistra), orfana della destra – federata a suo tempo dal Cavaliere ma ora divisa fra moderati ed estremisti –, l’Italia ha bisogno di Sinistra. Di un quarto polo che sparigli il sistema politico, che ora si divide tra forze del sistema (il Pd e vari pezzi della destra) e forze antisistema (M5S e Lega), restituisca alla politica la sua complessità, e faccia ri-emergere la dicotomia destra/sinistra, oggi oscurata ma non scomparsa.

Per realizzare questo obiettivo strategico il partito nuovo della sinistra deve farsi carico di alcuni compiti. Il primo dei quali è ripoliticizzare la società, ovvero dare orientamento, direzione, coerenza, al malessere – all’apatia, alla ribellione, alla disaffezione, alla paura, alla sfiducia – che la attraversa, alimentato dalla crisi strutturale del neoliberismo e dell’ordoliberalismo che all’euro è sotteso: una crisi che produce scarsità di lavoro, disoccupazione, povertà, disuguaglianza, e accorciamento delle aspettative di vita. Finora questo malessere si è espresso secondo le coordinate del neoliberismo imperante: come insoddisfazione individuale rivolta contro i politici in quanto personalmente corrotti, con l’implicita accettazione dell’attuale assetto dell’economia in quanto «naturale». Una ribellione passiva, quindi; che si manifesta o con l’astensione elettorale o con il voto a un movimento antisistema o ancora con la protesta estremistica di destra – alimentata dall’emergenza migranti che si somma con l’emergenza sociale –. Una ribellione che deve diventare attiva.

Il secondo compito è democratizzare la democrazia, che va sottratta alla trasformazione da democrazia parlamentare – prevista dalla Costituzione vigente – in democrazia d’investitura, o in democrazia plebiscitaria, quale è disegnata dalla riforma renziana. Da democrazia dei partiti, cioè della partecipazione e della mediazione, in democrazia del Capo e del suo rapporto immediato (in realtà, attraverso i media, di cui è l’assoluto padrone) con le masse passive. Una deriva che è da bloccare con fermezza e inventività.

Questi compiti devono certo acquistare sostanza attraverso «politiche» – su salute, scuola, lavoro, pensioni, sicurezza – ma hanno a che fare con la riattivazione della «politica» stessa, e con la sua forma tradizionale: il partito. Grazie al quale l’insoddisfazione diffusa possa diventare mobilitazione, orientata da analisi non mainstream, e organizzazione efficace che aggreghi lotte, destini, speranze. Un partito che abbia un’identità ma che non sia di testimonianza, che rifugga da reducismi e da velleitarismi, che sia radicale senza essere estremista; che si candidi a intercettare i voti degli elettori di sinistra delusi dal Pd e di chi vuole protestare contro l’attuale assetto della società e dell’economia, ma non si fida dei «cinquestelle». Un partito non «della nazione» ma che esprima un «punto di vista», un interesse collettivo determinato.

Naturalmente, il processo costituente di questo partito incontra ostacoli. Il primo è la legge elettorale, congegnata come scontro (al ballottaggio, praticamente inevitabile) fra due partiti: una versione rozza e semplificata della politica, che penalizza chi si presenta come forza critica, probabilmente minoritaria e quindi potenzialmente ricattabile sul tema del «voto utile». Il secondo è la resistenza di piccoli soggetti identitari a entrare in un processo di aggregazione più vasta; personalismi, settarismi, rancori, gelosie, dogmatismi ideologici, fanno parte della storia della sinistra, e continuano a pesare e a dividere. Il terzo ostacolo è ancora più grave, ed è costituito dalla sfiducia dell’elettorato verso la politica in generale e verso la sinistra in particolare. Una sfiducia determinata dalla lunga stagione in cui la sinistra ha avallato ogni idea neoliberista, ogni trasformazione politica, sociale ed economica orientata a principi, valori e interessi ostili o estranei alla dimensione pubblica, al welfare e alla stessa democrazia parlamentare, finendo per negare se stessa (appunto, la parabola del Pd); e determinata anche dalla «inattualità» della sinistra, dalla sua nobile pretesa di coniugare teoria e prassi, analisi e intervento politico; una pretesa controcorrente rispetto alla politica spettacolo, alla politica-spot, al populismo e al decisionismo, davanti a cui la sinistra rischia di apparire non solo inaffidabile e improduttiva ma anche obsoleta, incapace di comunicare se stessa agli uomini e alle donne di oggi. Si aggiunga a ciò – quarto ostacolo – la difficoltà che il nuovo soggetto incontra a rendersi visibile nel sistema dei media, e ad avanzare poche proposte forti che «buchino» gli schermi.

La consapevolezza di questi ostacoli è presente nella fase costituente del partito, che prevede sia momenti organizzativi classici (il tesseramento, le assemblee regionali, il congresso fondativo) sia nuove forme di collaborazione e di partecipazione (la piattaforma elettronica). Ed emerge come tensione non solo a proposito delle alleanze col Pd (al momento impossibili a livello politico ma divisive a livello amministrativo) ma anche della qualità e della fisionomia del partito nuovo, se debba essere più vicino a movimenti come Podemos o Syriza (già questi diversi tra di loro) o a forze strutturate come la Linke. Se il linguaggio della sinistra e la stessa parola «Sinistra» siano adeguati al momento storico, o se debbano essere aggiornati o del tutto re-inventati (e come).

A queste tensioni si darà certo una soluzione di compromesso – soprattutto se la sinistra troverà quel leader che ora le manca (altro ostacolo non da poco) –. Ne va della credibilità del nuovo soggetto, della sua capacità di parlare alla sua platea elettorale, potenzialmente vasta e certamente plurale. Per essere vivo e vitale, infatti, una forza politica non può fondare la propria esistenza solo sul bisogno «oggettivo» che di essa si manifesta nella società: deve sapere anche essere «soggetto», incontrare attivamente la storia presente e progettare credibilmente quella futura. Di élites senza popolo, di generali senza esercito, di partigiani senza consenso, non sappiamo più che fare.

L’articolo è stato pubblicato in «Left», n. 19, 7 maggio 2016.

Libertà civili e individuali. Ma non sempre garantite del tutto

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Gli articoli che vanno dal 13 al 28 della nostra Costituzione – ossia il titolo primo, sui «rapporti civili», della parte prima, dedicata ai «diritti e doveri dei cittadini» – riguardano un nucleo di libertà individuali che, dal punto di vista della storia del pensiero politico, appartiene alla prima fase del liberalismo moderno. Si tratta, tra l’altro, della inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza e della comunicazione; del diritto alla libera circolazione e all’espatrio; della libertà di riunione, di associazione, di religione e di culto; del diritto di libera manifestazione del pensiero; del diritto alla capacità giuridica, alla difesa giudiziaria, al giudice naturale, alla presunzione d’innocenza; del principio di responsabilità penale personale.

Dall’habeas corpus al nullum crimen sine lege, siamo davanti, evidentemente, all’applicazione del principio umanistico e personalistico contenuto nei Principi fondamentali della Costituzione, insieme al principio democratico, al laburistico, al pluralistico e al sovranazionale (per servirci delle indicazioni di Costantino Mortati). Non si tratta quindi solo di diritti di libertà difensivi, individualistici, privatistici: piuttosto, vi è lo sforzo di garantire l’intera persona umana, anche nella sua dimensione relazionale – in quanto, cioè, partecipa di associazioni, di partiti, e vuole esprimere pubblicamente insieme ad altri la propria libertà naturale e civile –. Non solo «libertà da» quindi, ma anche «libertà di», per utilizzare una dicotomia celeberrima (che, anche se non è sempre utile, in questo caso lo è).

Certo, vi è qui una forte dimensione garantista, ben spiegabile come reazione alle pesanti violazioni dei diritti umani praticate e teorizzate dai regimi autoritari e totalitari, dalla lotta contro i quali la nostra Carta è nata. Vi è, evidente, il sospetto contro l’ingerenza dello Stato nella libertà dell’individuo, contro le violazioni della civiltà liberale che erano ben note ai costituenti, in quanto le avevano sperimentate su di sé; vi è il divieto di discriminazione politica e religiosa, e vi è l’affermazione della responsabilità dei pubblici ufficiali per la violazione di questi diritti, così che nessuno si possa nascondere dietro l’alibi degli «ordini ricevuti». Vi è, esplicito, il divieto della tortura e della istituzione di tribunali speciali. Vi è, insomma, il rifiuto della politica come sopraffazione, tanto che provenga dalle istituzioni quanto che abbia origine dalla società (a ciò si riferisce il divieto ai partiti di organizzarsi militarmente). In generale, lo Stato perde il suo profilo coercitivo, e anche le riserve di legge che accompagnano, come sempre, le elencazioni dei diritti, non funzionano come trappole logiche per negare sostanzialmente (nei fatti) ciò che è affermato formalmente (negli articoli della Carta), ma come specificazioni organizzative di principi inderogabili. La logica si è rovesciata: non è più lo Stato che a denti stretti concede qualcosa; ora la funzione pubblica dello Stato democratico consiste nel garantire diritti imprescrittibili.

Individuo, società, Stato, sono quindi coinvolti in questa dichiarazione di diritti che, data la sua complessità, è definibile non solo liberale (qual è, senza dubbio) ma anche democratica. Una dichiarazione dal sapore nuovo, dinamico, fiducioso, progressivo, pluralistico. Una dichiarazione che nella storia d’Italia ha cambiato molte cose, molte logiche giuridiche, molti comportamenti amministrativi, molte forme di vita; che ha accompagnato il nostro Paese nel suo cammino di allontanamento da punti di partenza storicamente arretrati, arcaici e autoritari.

Eppure questa dichiarazione dei diritti non ha ancora concluso la sua efficacia e, ben lungi dall’essere obsoleta o scontata, è anzi di straordinaria attualità. In primo luogo perché, per quanto sembri incredibile, non è ancora del tutto attuata. Un esempio ne è la mancanza, nel nostro Paese, di una legge sulla tortura, o anche la disapplicazione di fatto del precetto che vuole la pena finalizzata alla riabilitazione del condannato. Ma non solo ritardi e arretratezze sono all’origine di alcune difficoltà: anche i più avanzati sviluppi della tecnica e l’evoluzione recente dell’economia concorrono a mettere in crisi l’impianto garantista della Costituzione. Che cosa è mai l’inviolabilità delle comunicazioni nella società delle intercettazioni di massa, «a strascico», e della pubblicazione voyeuristica delle conversazioni private? Che ne è della privacy nell’epoca delle profilazioni attraverso i cookies? Oggi il Grande Fratello non è più, o non ancora, lo Stato autoritario, ma è lo «Stato di sicurezza» che combatte, giustamente, il terrorismo, ma al tempo stesso che appesantisce la vita dei comuni cittadini; o, peggio ancora, sono le grandi imprese che dallo Stato hanno ricevuto l’autorizzazione a entrare nelle nostre case e nei nostri computer per raccogliere i mega-dati di cui sono fameliche; o i poteri biopolitici che plasmano la nostra esistenza quotidiana, che attraverso il governo dei nostri desideri assoggettano la nostra soggettività.

E che ne è della libertà d’associazione? Non di quelle segrete, come fu la P2 che tanto pesò nella storia della Prima repubblica (e come sono state le sue eredi, che tanto hanno pesato fino a oggi), ma dei partiti, per la cui esistenza e libertà si è combattuto, poiché la dittatura li aveva spenti in quanto nemici? I partiti, oggi, sono liberi, certo, sotto il profilo formale; ma sono denigrati sistematicamente, e soffocati economicamente, in un clima di linciaggio morale che disattende la ratio della nostra Costituzione, la quale vuole sì tutelare i diritti fondamentali dei singoli, ma in una prospettiva relazionale e sociale. Una società di individui isolati, qual è quella che le logiche economiche politiche del neoliberismo producono, non è una società di individui realmente liberi. Per non parlare della libertà di stampa, minacciata da vecchi e nuovi oligopoli e da vecchi e nuovi conformismi: un argomento tanto grave che merita una trattazione a parte. E delle libertà economiche di cui agli articoli 35-47, trasformate ormai nella libertà delle sole imprese e del solo mercato.

Insomma, proprio perché non è un inerte elenco di libertà formali o fittizie, questa sezione della Costituzione è ancora vitale e anzi di drammatica attualità, ed è in grado di esercitare un’indispensabile funzione critica e propulsiva nel nostro tempo. Un tempo nel quale il neoliberismo – e le riforme che a esso si ispirano, o che più o meno consapevolmente ne derivano – pare sul punto di travolgere non solo la democrazia ma anche il liberalismo classico. Un tempo in cui l’individualismo coatto e passivo rende l’individuo isolato e indifeso davanti a preponderanti poteri economici e sociali, che tolgono valore e tutela all’equilibrato e complesso disegno dei diritti dell’uomo e del cittadino previsto dalla nostra Costituzione. Un tempo, infine, che da questo disegno umanistico attende ancora di attingere nuova energia politica e morale.

L’articolo è stato pubblicato in «http://www.patriaindipendente.it» il 22 aprile 2016.

La passione della conoscenza e dell’azione

Senza passione nessuna politica, certo. Senza spinta interiore, senza sentimento della giustizia violata, senza simpatia umana – senza soffrire insieme agli altri –, non scattano quel legame politico qualificato e quella istintiva capacità collettiva (quella volontà) di vedere sé e la società in altro modo, che sono peculiari della sinistra. Se quel vedere è, etimologicamente, l’Idea, la Teoria, quella volontà è la Passione.

Arma potente e necessaria – senza la quale la ragione è destinata allo scetticismo, al vano disincanto, o allo specialismo tecnicistico –, la passione di per sé, da sola, non è sufficiente alla politica; è spontanea ma non può essere ingenua, è un’immediatezza che deve essere mediata, perché non si consegni al potere, per non venirne privatizzata e trasformata in pappa del cuore. Così infatti governa il neoliberismo: accendendo passioni viziose e infantili, esaltando avidità individuali, piccole volontà di potenza, sporadiche compassioni a distanza, e presto spegnendole in depressioni economiche, disperazioni sociali, paure xenofobe.

Piuttosto che «passione» politica questi sono «sentimenti» ed «emozioni»: quella è di lunga durata, è un fuoco grande, che vive nella storia, che può accendersi sotto la lente dell’Idea e può spegnersi sotto il gelo della sconfitta e della fine della speranza; queste sono vibrazioni quotidiane, occasionali e transitorie, anche se continuamente alimentate tanto dalle contingenze biografiche quanto dalla industria culturale e dai media. Quella è tanto soggettiva quanto collettiva – e quindi è una forza storica oggettiva –; queste sono tanto individuali quanto massificanti. Quella è direttamente politica; queste sono retorica narcisistica, una passione vuota e oziosa – come quella delle cicale, inebriate di sé e dalla propria musica (Platone, Fedro) – e quindi indirettamente politica, distraente, passivizzante e funzionale allo status quo.

Nella sua programmatica disfunzionalità rispetto al potere, la sinistra oggi più che mai – e soprattutto nei giovani – deve coniugare la passione politica e la razionalità della critica in una «passione della conoscenza e dell’azione»; deve cioè sapere che la politica non è solo pragma, opportunismo, ma è anche praticare la parola tanto come mito quanto come logos, una parola non autocompiaciuta né asservita ma autonoma e concreta, attiva e concentrata, radicale ma non estremistica, passionale ma non emotiva. Quella che i media non sopportano; quella di cui tutti – alcuni consapevoli, altri no – abbiamo bisogno.

L’articolo è stato pubblicato in «http://www.ipettirossi.com» il 31 marzo 2016.

Cosmopolitica, la tre giorni della sinistra italiana

ph-23

Riunire un bel po’ d’intellettuali a tracciare alcuni scenari di crisi; convocare politici nazionali e territoriali per avanzare possibili risposte, elaborate in gruppi di discussione tematica (su temi istituzionali, economici, ecologici, politici) ben partecipati da appassionati militanti; schierare grandi nomi, vecchi e nuovi, della sinistra, a mostrare coraggio, lungimiranza, determinazione, fiducia nel futuro; mescolare il tutto con l’entusiasmo esigente di 4.000 persone venute a loro spese al Palazzo dei Congressi dell’Eur per prendere parte al momento iniziale di un processo costituente che si concluderà a dicembre con la fondazione congressuale di un nuovo soggetto politico di sinistra. Questa è la ricetta del successo di «Cosmopolitica», la «tre giorni» della Sinistra Italiana da poco celebrata (19-21 febbraio). Successo attestato, e contrario, dal (poco) dignitoso silenzio, o dallo pseudo-britannico understatement, o dal divertito folklorismo, che le testate giornalistiche e televisive mainstream hanno adottato, in questo caso, come strategia informativa (!). Meglio non parlare di sinistra: oggi è trascurabile, e pertanto la si deve trascurare, così che trascurabile resti anche in futuro.

Ma il successo è per ora soltanto potenziale. Segnala un autentico bisogno di sinistra, un bisogno che non necessariamente la fa diventare reale e vincente. Un bisogno che nasce nel sistema politico italiano, in corso di ristrutturazione, con il Pd che cerca alleati di centro-destra, per non lasciare neppure il minimo potere alla sinistra interna e che quindi si trova scoperto proprio sul fianco sinistro: lo spazio, appunto, dove dovrebbe collocarsi il nuovo soggetto; un bisogno che nasce in una società lacerata e soffocata dalle politiche neoliberiste, contro cui Renzi polemizza a parole, mentre le adotta nei fatti e nei principi. Così che ciò che dovrebbe nascere è al tempo stesso il quarto polo politico italiano, e l’espressione di una cultura politica, e di spinte sociali, alternative al sistema. Un soggetto percorso da esigenze e da logiche non facilmente conciliabili; quella che nascerà vuol essere una sinistra di governo ma non di gestione, riformista ma non mainstream né neoliberista, critica ma non settaria: un programma difficile da realizzare, che lascia aperte, comprensibilmente, oscillazioni e opzioni da precisare.

E proprio l’acutezza del bisogno e la complessità dei compiti da affrontare può far correre il rischio di analisi affrettate, di posizioni escludenti, e quindi può sortire effetti divisivi: sindromi oltranziste, arroccamento identitari, fughe in avanti teoriche. In effetti, qualche sintomo si è manifestato: mentre la consapevolezza della sfida ambientale è apparsa diffusa e condivisa,   si sono sentite voci tra loro difformi sui temi dello Stato e della globalizzazione, del partito e dei movimenti, insomma sullo spazio politico e sulla soggettività politica che la sinistra deve assumere ed esprimere per la propria azione. Divaricazioni si sono inoltre prodotte sull’euro e sull’Europa, e soprattutto sul rapporto col Pd – mentre verso il Pd di Renzi c’è solo ostilità, vi è chi si mostra possibilista su collaborazioni amministrative territoriali e, in parlamento, su temi specifici, in un quadro politico cambiato, mentre altri, la maggioranza (sembra) su posizioni alternative −.

Entusiasmo e determinazione, quindi; ma anche problemi di analisi, di culture politiche distanti fra loro (per molti versi fisiologici, ma da smussare), e quindi di strategia, oltre che di leadership (non sono stati indicati i previsti coordinatori della fase di transizione, che durerà fino al congresso fondativo accompagnata da un grande Comitato promotore). E, inoltre, problemi di radicamento (si apre l’organizzazione sui territori, che dovrà sfociare nel pretesseramento), e problemi di unità d’azione (se proprio non si riesce, per ora, a superare il pluralismo delle sigle, la strada che porta al nuovo partito è in ogni caso ancora lunga, e molto può ancora cambiare).

Almeno, però, in questo quadro non facile − ma perché mai la politica dovrebbe essere facile? −, il dado è tratto. Fra le amministrative e il referendum sulla costituzione la sinistra prenderà forma, si farà le ossa e nascerà. E avrà ben presto modo di dimostrare se la doppia natura che la caratterizza la renderà un ircocervo, una chimera, uno spettro, o non, piuttosto, grazie all’impegno di tutti, un centauro. Cioè quello che è, da Machiavelli in poi, lo stemma araldico della politica più energica, robusta e vitale.

L’articolo è stato pubblicato in «La parola», n. 6, marzo 2016, pp. 1-2. 

 

 

Democratizzare la democrazia

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Vediamo, per cominciare, di provare a definire che cosa è democrazia – quella di oggi, per non avviarci su strade troppo complesse –. Per democrazia noi abbiamo inteso un certo equilibrio fra alcune delle strutture e delle invenzioni più importanti e significative prodotte nell’età moderna. Queste invenzioni sono: lo Stato sovrano; il mercato e il capitalismo; le diverse forme della soggettività – il soggetto individuale, il popolo, i partiti –; la tecnoscienza.

Queste quattro invenzioni strettamente correlate fra di loro, ma non sempre sincrone nel loro procedere, hanno conosciuto forme di equilibrio – particolarmente per quanto riguarda il secondo dopoguerra – che possono essere così descritte: un profilo ideologico minimo di riconoscimento e accettazione dei ritrovati della modernità (perché ci sia democrazia non è pensabile che la cultura politica sia generalmente informata a posizioni antimoderne, tradizionaliste, teocratiche e via dicendo); alcuni assetti istituzionali specifici che comprendono certamente la statualità e la sovranità, ma anche un’articolazione di questa nei tre poteri classici oltre alla presenza dei partiti come trait d’union permanente e strutturato fra la società e le istituzioni.

Poi, perché ci sia democrazia, ci deve essere un determinato assetto del capitale. Dando per scontata la non avvenuta eliminazione del sistema capitalistico (la sconfitta storica del comunismo reale), e quindi parlando di liberaldemocrazie con un nucleo economico capitalistico, noi sappiamo che questo nucleo sicuramente non può determinare le priorità del sistema politico e sociale: il profitto non viene prima dei diritti.

Infine – fondamentale – pluralismo: non esiste democrazia se non c’è pluralismo culturale e sociale. Può esistere uno Stato di diritto senza pluralismo, ma democrazia vuol dire tutto quello che abbiamo detto finora più una società ricca di diversi, autonomi centri di potere sociale e di sapere intellettuale e scientifico. Per cui è necessaria una reale diversificazione della proprietà dei media; una reale libertà di insegnamento e di ricerca; insomma, diverse culture in concorrenza e in coesistenza; un sapere diffuso e partecipato, non reificato e non chiuso nei laboratori e nelle accademie (che devono esistere e funzionare, ma non come corpi separati e privatizzati).

Queste quattro invenzioni moderne, con questi equilibri, oggi non ci sono più. Noi assistiamo, sotto il profilo economico, a una esondazione delle priorità del capitalismo che ha sconfitto il lavoro – cioè il suo antagonista e al tempo stesso il suo fratello –, lo ha ridotto di entità e di importanza, con il conseguente aumento delle disuguaglianze economiche.

Per quanto riguarda le soggettività, si osserva che il soggetto moderno si è trasformato nel singolo individualistico; il popolo si è mutato in identità populistico-xenofoba, almeno come trend; e al contempo assistiamo alla sconfitta dei partiti. Che tutti ci stiamo interrogando sul «che fare?» nasce dal fatto che non esistono più le strutture ponte fra il sistema politico e la società – cioè i partiti –, e la sconfitta dei partiti ha molte cause, ma certamente in parte dovute a un’offensiva neoliberista (in parte a un interno disfacimento).

Per quanto riguarda lo Stato, c’è da segnalare una trasfigurazione profondissima. Mentre si riduce lo spazio del «pubblico» (le privatizzazioni, la sussidiarietà) lo Stato si distacca dalla società, e si trasforma da sistema della mediazione e della rappresentanza in sistema della decisione: le nostre «riforme» sono un esempio di questo processo. Anche il Parlamento – che propriamente è il luogo dove si rappresenta la sovranità del popolo, ma che realisticamente potrebbe essere una struttura intermedia fra la società e il governo – è gravemente indebolito nella sua funzione mediatrice (per la quale sono necessari i partiti).

Quindi: verticalizzazione, spostamento verso la decisione, erosione notevole dello Stato di diritto e spostamento del baricentro della politica verso l’eccezione – non verso la norma –, per non parlare della corruzione che è fenomeno gravissimo e che tuttavia è in realtà legato alla debolezza del sistema politico.

Infine, il pluralismo culturale nella società sta svanendo. In primo luogo, perché la società è debole, impoverita dalla crisi economica e dalla ritirata dello Stato dalla società. Non a caso, dentro la società si spengono invece che accendersi centri di sapere – basti pensare alle sorti degli istituti culturali –. In secondo luogo, perché il pensiero è ormai «unico»; o è tecnoscienza progressivamente sottratta allo spazio pubblico statale e confinata in istituzioni private e o simil-private «d’eccellenza»; o è intrattenimento e ideologia surrettizia, prodotta e veicolata da media che fanno parte in modo strutturale dell’establishment. La vecchia idea liberale secondo cui i Partiti, il Parlamento e la Press (la stampa), queste tre «P», costituivano l’essenza della democrazia non sta più in piedi. Oggi viviamo dentro una sorta di continuum triforme costituito, senza soluzione di continuità, dal potere economico-finanziario, ma anche padronale alla vecchia maniera; dal potere politico – indistinto, senza che vi sia più distanza fra esecutivo e legislativo –, che è il potere meno efficace; e dal potere mediatico, che conta molto perché controlla e detiene l’agenda del discorso politico e della politica. Ma il potere mediatico è nelle mani del potere economico, e il cerchio del continuum si chiude.

Dentro questo continuum quello che abbiamo definito «democrazia» permane – e io qui devo rendere omaggio a Colin Crouch – come fantasma, ovvero come «postdemocrazia», come apparenza di democrazia, come permanere di forme prive dei vecchi contenuti. Finora pochi – anche se stanno aumentando – in Occidente (in Russia e in Cina le cose stanno altrimenti) si concentrano nell’inventare una narrazione politica veramente alternativa alla modernità e ai suoi principi. Finora è stato sufficiente lasciare che si sviluppassero alcune derive che erano implicite in quei principi. Infatti, la distruzione semi-soft della democrazia – la scomparsa dei soggetti, il trionfo dell’utilitarismo in generale e in concreto dell’utilità dei pochi, la concentrazione del potere e della ricchezza – è uno sviluppo che in parte era scritto nelle origini del Moderno, almeno come possibilità, e in parte è frutto di una furiosa battaglia politica e culturale scatenata negli anni Settanta del Ventesimo secolo e vinta dai capitalisti con sconfitta totale e radicale – per ora – della sinistra e del mondo del lavoro. Alla determinazione relativizzante del «per ora» tengo parecchio, e per convinzione e per appartenenza politica. Ma insomma di sconfitta si dovrà ben parlare; si può mettere la cesura dove si vuole ma certo un «prima» e un «dopo» si distinguono con chiarezza.

Come se ne viene fuori? Come è stato complesso costruire quell’equilibrio fra parecchi principi e parecchi ingredienti della modernità, così ora dobbiamo evitare che la grande vittoria del capitalismo (e la sua crisi sopravvenuta) si riveli la via attraverso la quale tornano in gioco le posizioni della destra estrema e oltranzista. Infatti, su una società impoverita dallo sviluppo mancato del capitalismo  dallo sviluppo promesso e non realizzato , su questa società che non crede più né in se stessa né nella politica, si abbattono i frutti di una catastrofe geopolitica del Nord Africa, del Corno d’Africa, del Vicino oriente, del Medio oriente. Una catastrofe che è stata determinata – anch’essa – dalle politiche delle potenze occidentali e delle potenze regionali, che hanno destabilizzato equilibri precarissimi che erano nati poco dopo la fine della Prima guerra mondiale. Questa distruzione di equilibri produce l’arrivo in Europa di qualche centinaio di migliaia di disperati all’anno, che mettono sotto stress non solo l’Unione europea, ma le democrazie dentro gli Stati: sulla paglia infiammabile della povertà e della frustrazione si abbatte l’innesco incendiario della migrazione e del terrorismo, capaci di generare paure, isterie, xenofobie e in generale chiusura degli spazi democratici. Infatti, insieme ai migranti coatti ci sono i terroristi: si tratta di realtà e di fenomeni diversi, e che tuttavia non è facile tenere distinti davanti a un’opinione pubblica che è così duramente e giustamente colpita dall’emergere crescente di una instabilità strutturale tanto dell’assetto capitalistico, quanto della erosione della sicurezza democratica degli Stati europei.

In politica l’instabilità è un male. È un bene soltanto per i pochi geni rivoluzionari che sanno approfittarne per fare una rivoluzione e portare il mondo a un ordine nuovo. In assenza di questi personaggi – e ricordiamo che in ogni caso si tratta sempre di passaggi sanguinosi – il nostro problema è di ripristinare un equilibrio democratico che è stato squilibrato, prima dalla vittoria del capitalismo, poi dalla sua crisi, poi dalle catastrofi geopolitiche. Senza un nuovo equilibrio democratico, l’avranno vinta quanti, fuori d’Europa ma anche dentro, stanno già preparando nuove narrazioni e nuove politiche apertamente antidemocratiche, xenofobe, razziste, autoritarie: la istituzionalizzazione degli squilibri, delle ingiustizie, delle paure che costituiscono il panorama presente e futuro delle società europee.

Quindi, si deve cercare di riportare il capitale a un ruolo compatibile con gli interessi di tutti, cioè col bene comune – sconfiggendo le disuguaglianze e la stagnazione a cui portano le sue dinamiche ; si deve rafforzare lo Stato, non nella sua capacità di decisione eccezionale ma nella sua funzione di mediazione, di inclusione, di limitazione del privato esondante e di costruzione anche economica del «pubblico»; e si devono assolutamente reinventare i partiti, aperti alla società ma anche capaci, con la loro permanenza, di dare continuità a ciò che di effervescente ma anche di effimero si muove nella società, e di consentire così un vero dialogo fra politica e cittadini.

Abbiamo poi bisogno di riportare la società a un nuovo equilibrio pluralistico della cultura. Tutte le concentrazioni dei mezzi di comunicazione, che stanno oggi avvenendo, sono altrettanti attentati alla democrazia. Dunque, l’insegnamento e la ricerca pubblica vanno potenziati, non indeboliti. Pluralismo culturale, inoltre, vuol dire che non si possono lasciar morire gli istituti culturali presenti nel nostro Paese: sono un bene profondo e radicale, e non sono esornativi, ma sostanziali.

E dobbiamo re-imparare a far sì che le persone tornino a essere soggetti moderni, contraddistinti non dal narcisismo o dalla depressione, ma dalla autonomia. E a questo fine c’è solo la scuola, e i tempi sono lunghi: la «buona scuola» sarà quella che insegna l’autonomia non l’autoimprenditorialità. Senza dimenticare che non c’è buona scuola se non c’è buona società: infatti, autonomia vuol dire darsi la legge da se stessi, cioè essere talmente equilibrati da saper essere signori di se stessi. E questo obiettivo umanistico lo si può raggiungere (forse) solo se si realizzano le condizioni politiche, economiche, istituzionali e culturali che aiutano a non rimanere schiacciati nella paura quotidiana della povertà, della precarietà, e, oggi, anche degli attentati – insomma, il nostro obiettivo deve essere l’articolo 3 della Costituzione finalmente realizzato –. Il pluralismo culturale democratico, infine, implica la critica, cioè il sapere che non c’è un solo punto di vista (presunto “oggettivo”) da cui guardare la società, ma ce ne sono molti a seconda del luogo dove si è collocati nella società, e che vanno sostenuti perché il pluralismo è la nostra vera ricchezza.

Ri-democratizzare la democrazia è un’idea meravigliosa. È il nostro compito storico. Dobbiamo riuscirci prima che le forze della destra estrema tornino a dettare l’agenda degli Stati europei.

Relazione presentata al seminario Democratizzare la democrazia (Roma, Sala Aldo Moro, Camera dei deputati, 23 marzo 2016).

Politica e sindacato

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Non basta tenere i fermi i principi fondamentali della Carta costituzionale perché si possa dire che non si cambia la sostanza della Costituzione. Questa è modificata radicalmente anche se si lascia invariata e intatta la lettera dei principi fondamentali. Il principio fondamentale che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» ha di per sé un contenuto decisivo, che è precisamente ciò di cui stiamo parlando: cioè il rapporto fra politica e lavoro. Ma non è sufficiente lasciare questo contenuto decisivo scritto così com’è. Questa affermazione di principio trae il proprio senso sia dalla concreta articolazione dei poteri dello Stato sia dalla reale strutturazione della società e del sistema produttivo. Ed è lì che è cambiato tutto.

«Repubblica fondata sul lavoro» vuol dire che la Costituzione della Repubblica italiana si fa carico di erigere un’architettura specifica intorno a un principio che distingue la civiltà moderna dalle altre forme di civiltà: il lavoro entra in modo costitutivo dentro la politica − cosa che, come ha sottolineato tra gli altri Hannah Arendt, non appartiene a buona parte della tradizione dell’Occidente −. La tradizione pensa prevalentemente la politica come qualche cosa di distinto dal lavoro, come due ambiti che non si incontrano − in modi diversi nella cosiddetta Antichità e nel cosiddetto Medioevo − e che meno che mai si sovrappongono, e che ancor meno sono la stessa cosa. Nel mondo antico la politica è gestita soprattutto − tranne nel caso dell’autorappresentazione della democrazia ateniese in Pericle − da coloro che non lavorano. Nel mondo medievale la politica è appannaggio o indirettamente degli oratores (la gerarchia della Chiesa) o direttamente dei bellatores (le aristocrazie laiche), ma non dei laboratores, con l’eccezione dell’autogoverno dei Comuni italiani e delle città anseatiche, che ha dato un contributo assolutamente decisivo alla civiltà occidentale, ma che si trova testimoniato soltanto in alcune aree dell’Europa. In ogni caso, è solo in età moderna che si afferma apertamente l’idea che la politica e il lavoro coincidono: cioè chi fa la politica sono proprio quelli che lavorano. In Olanda, in Inghilterra, in Francia, nei due secoli cruciali dell’età moderna, il Seicento e il Settecento, si formano le pratiche e le idee adeguate a questa grande trasformazione. E infine anche la nostra Costituzione, tutta moderna, può apertamente affermare che ciò che ci fa stare insieme politicamente non è né una generica socievolezza (l’uomo è un animale sociale) né è legato alla natura (la razza), all’economia (il mercato), alla trascendenza (la religione) o alla storia (la nazione): il fondamento del legame sociale e politico è il fatto che lavoriamo. Se per miracolo non fossimo costretti a lavorare, dice la nostra Costituzione, non ci sarebbe politica.

La politica è la coesistenza organizzata di quelli che lavorano. Ciò ha una triplice valenza. La prima è che il lavoro è e resta anche un fatto individuale. Si lavora per mangiare, per portare a casa lo stipendio grazie al quale vivono il lavoratore e la sua famiglia. Ma vi è un altro principio collegato al lavoro: il lavoro è parziale, non è immediatamente un principio di uguaglianza. Anzi, è attraverso il lavoro che passano le disuguaglianze. È lo spazio di differenze potentissime − soprattutto la differenza di collocazione all’interno del processo produttivo −. Terzo punto: nonostante sia un fattore individuale, nonostante sia un elemento di parzialità e, diciamolo, di conflittualità, che potenzialmente divide la società, nondimeno il lavoro è anche il fondamento dell’intero, il fondamento della Repubblica tutta quanta. Che non è una Repubblica di lavoratori: è una Repubblica del lavoro. Voi lo sapete che c’era stato il tentativo comunista di scrivere in Costituzione che l’Italia è una «Repubblica dei lavoratori»: era chiaramente una indicazione di parte, che generava perplessità insuperabili, risolte invece con la mediazione democristiana che ha proposto il testo che ancor oggi resiste.

Da ciò deriva che il lavoro ha bisogno di una doppia rappresentanza, sindacale e partitica. L’elemento sindacale è quello in cui il lavoro si manifesta nella sua concretezza materiale, nella sua particolarità individuale, territoriale e di classe (o in ogni caso di ambito sociale definito). Anche se in Italia fin da subito il principale sindacato ha scritto nella propria sigla la parola «generale», tuttavia il sindacato rappresenta il lavoro nella sua dimensione individuale − cioè il sindacato è un’istituzione a cui si rivolgono i singoli lavoratori a presentare dei problemi − e nella sua dimensione di parzialità anche aspramente conflittuale, perché il sindacato insegna a ciascun iscritto che il problema del lavoratore non è soltanto individuale, ma è anche il problema di quelli che fanno la stessa cosa che fa lui; cioè gli dà una disciplina e una carica di conflittualità che dunque esclude l’elemento della generalità politica. La generalità sindacale significa solo (e non è poco) che il sindacato si candida a non essere corporativo, a tenere presenti le ragioni di tutti i lavoratori. Ma a fianco di un sindacato è necessario un partito, che − nella misura in cui è il partito dei lavoratori, e dunque è un partito di «parte» − sia capace di tradurre la parzialità che è intrinseca al lavoro concreto in un progetto generale di società. Cioè che sia capace di rappresentare il lavoro non nella sua materialità empirica − a quello ci pensa il sindacato −, ma nella sua idealità: nell’idea, cioè, che il lavoro è l’unico titolo di cittadinanza.

Ciò è possibile grazie al fatto che − e questo è ancora più importante −, oltre al partito, oltre al sindacato, esiste lo Stato, cioè il sistema delle istituzioni. Le quali di per sé non sono parziali, sono universali e si presentano − queste sì − uguali per tutti. L’idea marxiana che lo Stato sia di parte proprio nel suo essere universale (cioè nel trattare in modo uguale i cittadini socialmente diseguali) era vera quando fu elaborata (dai primi anni Quaranta dell’Ottocento): noi oggi dobbiamo credere che lo Stato sia capace (e che lo debba fare, che lo voglia fare) anche di rimuovere attivamente le radici della disuguaglianza per dare concretezza sociale ai diritti astratti e formali secondo l’intuizione di Marshall (Cittadinanza e classe sociale) e secondo l’art. 3 della Costituzione. Ma le istituzioni nel loro presentarsi uguali per tutti sono prive di energia politica, come una colonna: che c’è, serve a tenere in piedi un edificio, ma non ha in sé energia. Alle istituzioni l’energia politica − che è necessaria a svolgere il compito dell’uguaglianza attiva, e che è sempre un’energia di conflitto, di orientamento, di parzialità − è fornita dai partiti che, quando vincono le elezioni, governano in un certo modo o in un altro. Quindi perché la frase «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» abbia un senso sono necessarie alcune evidenze sociali, economiche, politiche, istituzionali: è necessario il lavoro, per cominciare; è necessario l’individuo interessato, al limite l’individuo che si identifica con il lavoro; è necessario il sindacato; è necessario il partito; è necessario lo Stato, che è universale e stabile − come dice la parola − e che trae la propria energia dal partito che invece è di «parte» − come dice la parola −.

Di tutto ciò oggi non è rimasto nulla, o quasi. Infatti, la Costituzione è stata scritta in un’epoca diversa dalla nostra, in un differente orizzonte culturale e civile. È stata scritta dentro la «terza rivoluzione» del Novecento (quella socialdemocratica), e noi invece stiamo abitando la fase terminale (ma non finale) della «quarta rivoluzione» (quella neoliberista). È stata scritta deliberatamente come impianto del primo esempio italiano di Stato democratico-sociale. Fino a quel momento l’Italia aveva conosciuto forme di Stato che non erano né democratiche né sociali: quando erano democratiche non erano sociali (i liberali, anche i più democratici, non riuscirono a costruire uno Stato capace di includere la società), e quando erano sociali (le politiche sociali del fascismo) non erano democratiche.

Noi oggi non abbiamo il lavoro, perché il capitalismo nei Paesi dell’Occidente sviluppato ha molto meno bisogno di lavoro. Inoltre, non abbiamo il soggetto esistenzialmente interessato al lavoro. Il soggetto, oggi, percepisce il lavoro quasi solo come uno strumento per vivere al di là del lavoro, nella quotidianità del privato. Questa debole identificazione del soggetto singolo col lavoro fa parte − come l’assenza di lavoro, perché il modello economico ne ha bisogno meno − della civiltà nuova dentro la quale ci troviamo a vivere.

Che cosa sia rimasto dei partiti è poi inutile che ve lo dica: è rimasto ben poco. Sono diventati comitati elettorali di un capo a livello nazionale, e agglomerati di potere affaristico-amministrativo, ora legale ora illegale, nei territori.

Infine, che cosa è rimasto dello Stato? Poco. Lo Stato ha devoluto pezzi piuttosto notevoli della propria sovranità, dopo quella strategico-militare perduta con la sconfitta della guerra. Ha devoluto anche la sovranità che consiste nella capacità di esercitare la politica economica e, insieme ad essa, la politica monetaria, come se avesse perduto un’altra guerra. La politica monetaria non la facciamo più, ci siamo autovincolati allo schema liberale (più precisamente ordoliberale) che nella nostra storia era stato perseguito soltanto dalla destra di Quintino Sella, di Einaudi e di Vanoni (lo schema del controllo della massa monetaria e dell’intervento dello Stato nell’economia non a scopi propulsivi ma soltanto a scopo di moderazione salariale e di abbattimento delle soglie di intervento pubblico). Come principio fondamentale di politica economica abbiamo quello di non farla, perché ci siamo vincolati, con i Trattati europei, a una matrice intellettuale e pratica (ancora una volta, l’ordoliberismo) che sostiene che il mercato è originario e che è il migliore produttore e distributore di ricchezza che esista al mondo, e che compito dello Stato è potenziarne lo sviluppo, e non metterci direttamente le mani. Nello specifico italiano, poi, la pubblica amministrazione è in condizioni rovinose; il mondo della scuola e dell’Università è deliberatamente trascurato con investimenti che ci mettono all’ultimo posto in Europa insieme alla Grecia; e il mondo produttivo non assorbe i laureati (chi si laurea resta disoccupato almeno tre anni dopo la laurea).

È successo che la «quarta rivoluzione», la rivoluzione neoliberista, domina la società e domina anche le menti. Sull’idea che tutto quello che abbiamo nominato − sindacato, partito e Stato − non sia altro che sovrastruttura (come in un marxismo rovesciato) che aliena parassitariamente e burocraticamente la libertà, la potenza, l’entusiasmo, l’energia che sta in ciascuno di noi, è fondato il neoliberismo dal punto di vista soggettivo. Quando si riesce a far credere a tutti (o a molti) che il sindacato e il partito sono i nemici del lavoratore e del cittadino, e che è bella e buona cosa che il singolo entri nel mercato del lavoro fidando baldanzosamente solo in se stesso e nella propria capacità di avere successo, coloro che hanno posizioni dominanti hanno già vinto in partenza. Nella fase euforica del neoliberismo, dagli anni Ottanta alla Grande crisi, le cose funzionavano appunto così. In quella fase anche la sinistra non solo si era convertita all’idea che la libertà individuale stesse nella capacità di proiettare la potenza individuale nella società, ma aveva anche accettato l’idea che lo sviluppo economico, anzi ogni tipo di sviluppo − da quello economico-materiale alla crescita della ricchezza attraverso le bolle finanziarie −, fosse buono in sé. In ciò rendeva vere le indicazioni quasi profetiche di chi, nella cultura del primo Novecento, sosteneva che liberali e comunisti fossero la stessa cosa, e stessero soltanto facendo a gara a chi interpreta meglio la stessa ideologia del progresso e dello sviluppo tecnico-industriale (la elettrificazione del mondo). Quando la partita è stata decisamente vinta dai liberali, dalle liberaldemocrazie, dal capitalismo, a una gran parte della sinistra è stato facile arrendersi all’evidenza e aderire al partito dei vincitori, proponendo qualche piccola variante “sociale” al loro modello di sviluppo. E il pensiero critico si è rifugiato nel pensiero della decrescita, che non è un pensiero di sinistra. Mai e poi mai Marx avrebbe scommesso sulla decrescita: tutta la storia della sinistra è scritta alla luce dell’idea che la crescita produce le condizioni per la liberazione dei lavoratori (condizioni che la politica deve cogliere e realizzare).

Oggi, le idee della destra economica che hanno vinto negli anni Settanta sono pesantemente in crisi, ma restano prive di alternative credibili. Resta centrale, dopo tutto, la circostanza che la globalizzazione ha distrutto nei Paesi di antica industrializzazione i risultati delle lotte sociali di un secolo (non si enfatizzerà mai abbastanza che dal nostro punto di vista è l’esistenza di qualche centinaio di milioni di operai asiatici capaci di essere «l’esercito industriale di riserva», fuori dal perimetro delle socialdemocrazie europee, che ha consentito l’abbattimento dei livelli di tutela del lavoro occidentale). Oggi, nonostante i cattivi risultati del neoliberismo in generale e di quella specifica variante del neoliberismo che è l’ordoliberalismo (ovvero l’idea tedesca di capitalismo che abbiamo accettato e sottoscritto nei trattati istitutivi della Ue, dove sta scritto che l’Europa vuole essere «un’economia sociale di mercato altamente competitiva», che oggi implica salari relativamente bassi, concentrazione spasmodica sulle esportazioni, Stato impegnato a mantenere la stabilità della massa monetaria, quando vuole, sempre fatto salvo l’interesse nazionale germanico), in questo contesto di bassissima crescita, di disuguaglianze crescenti, di svalutazione del lavoro, di trasformazione radicale della democrazia, perché la sinistra non ha lo spazio politico che dovrebbe avere?

Perché è rimasta, io credo, nella testa degli italiani, della sinistra soltanto l’immagine terminale, cioè quella dei diadochi che si sono spartiti l’Impero di Alessandro con guerre intestine e odi funesti. Fuor di metafora: la generazione di dirigenti nazionali che ha gestito la sinistra dopo Berlinguer ha lasciato di sé un ricordo incancellabile negli italiani, e non è un buon ricordo. Dal rifiuto popolare di questo o di quel dirigente il passaggio al rifiuto della stessa parola «sinistra» è stato inevitabile, proprio perché dentro quella parola nessuno mai si è sforzato di mettere un programma di sinistra, ma, oltre alle sorti personali di alcuni dirigenti, solo politiche non certo di sinistra (fino al capolavoro di chi oggi detiene l’egemonia − poiché controlla di fatto quasi tutti i mezzi di informazione − che presenta come di sinistra l’abolizione dell’articolo 18).

È chiaro che se «sinistra» è proporre una lettura abborracciata, affrettata, patetica, dei testi della gerarchia cattolica (ignorando che la polemica anticapitalistica e antitecnologica è una costante del magistero della Chiesa, e che, anche se oggi è presentata in modo più accattivante, ha un fondamento teologico e dogmatico non certo di sinistra), non si va molto lontano. Ed è chiaro anche che se «sinistra» è rivendicare la fedeltà alla ditta − chiunque non sia emiliano non capisce l’intreccio di potere economico, amministrativo a guida partitica che in questa parola si compendia, e che è stato realizzato nella nostra regione e non altrove −, ovvero se è proporre il modello emiliano a tutta Italia, ciò è precisamente l’ipotesi che è stata sconfitta nel febbraio del 2013.

Allora, se non è proporre il pensiero critico del pontefice, e se non è proporre il modello emiliano, che cosa è sinistra? I cittadini non lo sanno, perché è stato loro detto che sinistra è sinonimo di totalitarismo, oppure che consiste nel riformare il Paese in sintonia con le esigenze del neoliberismo.

Il sindacato può essere un elemento di questa mancata risposta oppure un elemento positivo della risposta. Ovvero, può essere ciò che l’attuale forma politica gli chiede di essere: un sindacato di fabbrica, un sindacato dalla rivendicazione all’interno delle compatibilità del sistema, che accetta la gerarchia dei problemi posta in essere dall’attuale configurazione dei poteri. Questa gerarchia dei problemi non vede al primo posto l’occupazione; e non vede al primo posto la trasformazione del lavoro da mezzo di sussistenza a dimensione in cui si realizza il soggetto. Al primo posto c’è semmai la stabilità, la disciplina fiscale; al secondo posto la ripresa economica; solo al terzo posto c’è la nuova occupazione − che in ogni caso deve essere meno tutelata che in passato −. Questa è la gerarchia imposta del potere. Perché ci sia «sinistra» è necessaria una gerarchia alternativa: farla finita con il dogma della stabilità della massa monetaria e della disciplina fiscale; con l’assenza di politica economica; con la flessibilità del lavoro, con la sottrazione di diritti al lavoro, con la marginalità del lavoro. Ebbene, «sinistra» è dire queste cose, e non dirle perché ci sono dei «problemi» da risolvere ma perché si è padroni di un’analisi della società che dietro i problemi vede «questioni», contraddizioni, e che, soprattutto, vede la società come un campo di conflitto. Un conflitto in cui c’è chi ha vinto e ha messo le basi perché la sua vittoria non venga mai più messa in discussione. E in effetti questa vittoria del capitale è stata blindata dal quarto comma dell’articolo 81 della Costituzione. Oggi tutto il processo legislativo culmina nel parere dato dalla Commissione VI (Bilancio), che deve garantire che un certo provvedimento non osta non tanto l’articolo 1 comma 1 della Costituzione, o l’art. 3, ma il comma 4 dell’articolo 81.

Sinistra è dire queste cose, e poi − potendo − farle. È ridare la sovranità al popolo, e non al capitale e al mercato; è ridare centralità al lavoro; è ridare parzialità al lavoro. Ma tutto ciò si può dire e fare soltanto se si hanno gli occhi per vedere, cioè se si è fuori dall’ideologia dominante.

In questo contesto, che cosa può fare il sindacato? Essere generale e parziale al contempo, e non lasciarsi imporre nulla di ciò che avete sentito, e anzi rispondere colpo su colpo, parola su parola. Per fare ciò è decisivo che il sindacato sia capace di elaborare cultura e di praticare formazione: non può essere solo un centro sociale, o di servizio, e neppure uno sfogatoio per lavoratori. Se non sarà produttore ed elaboratore di una cultura politica, sociale ed economica alternativa perderà la battaglia. Ancora più radicalmente, se non sarà capace di capire che c’è in corso una battaglia, la perderà; mentre la sua prima vera vittoria sarà la sua rinnovata consapevolezza, culturale e politica, che è in corso una guerra sociale.

Relazione tenuta a Bologna l’11 gennaio 2016 al convegno Cultura, lavoro, sindacato, organizzato dalla CGIL − Emilia-Romagna e da Editrice Socialmente, in collaborazione con la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.

1815-1915-2015: le tre date dell’Europa concentrica

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Assumo che nell’idea di «Europa concentrica» venga compreso sia il fatto che l’Europa possa essere considerata un ordine con un centro – caratterizzato da dinamiche di esclusione e di inclusione subalterna, appunto a cerchi concentrici – sia che in talune circostanze l’Europa costituisca anche il centro di un ordine internazionale.

In quelle dinamiche sono stati coinvolti dapprima i due monoteismi non cristiani, cioè gli ebrei e i musulmani. I primi esclusi, o meglio inclusi in modo subalterno, in seguito assimilati, cioè fatti entrare nel pieno dell’ordine europeo ma al prezzo della negazione della loro particolarità, e infine sterminati. I secondi, oggetto di un’inimicizia intensa, ma dall’andamento vario nel corso dei secoli, prima come arabi, poi come turchi.

Sono inoltre rilevanti anche alcune fratture interne all’Europa, soprattutto le guerre civili tra cristiani. Le guerre di religione che hanno segnato la modernità nascente sono state risolte, in una fase iniziale, certamente attraverso l’inclusione subalterna dei non-conformi (il principio cuius regio eius religio), dalla quale però si è potuta aprire una via verso la tolleranza prima, l’affermazione rivoluzionaria dei diritti poi, al prezzo della spoliticizzazione della religione. Quindi, l’Europa come ordine è in realtà costituita da guerre civili e di religione; da rivoluzioni e controrivoluzioni; e anche dalla lotta dei nazionalismi prima contro gli Imperi multinazionali, e in seguito dai conflitti degli Stati gli uni contro gli altri; infine da fratture economiche anche gravi dentro la Ue.

Ma queste linee di frattura, interne alla storia di Europa, devono essere interpretate anche in relazione alle modificazioni della spazialità globale. Ciò che accadeva e accade in Europa era ed è collegato al rapporto globale dello spazio dell’Europa con quello che Europa non è. Non si capisce nulla della frontiera mediterranea dell’Europa, che è quella più aperta e più sanguinosa, se non si vedono oltre alle frontiere interne dell’Europa, di cui parleremo, anche le frontiere mobili che percorrono tutto il mondo globale. Provare soltanto compassione per i morti in mare nel Mediterraneo, senza vedere le linee di cesura e di contraddizione che stanno all’interno dell’Europa e senza vedere le frontiere mobili che, al livello geopolitico, determinano le migrazioni di popoli, sarebbe come avere compassione per i soldati della prima guerra mondiale dentro le trincee senza chiedersi come erano finiti lì dentro, e chi ce li aveva mandati, e perché.

Insomma, dentro la nozione di «Europa concentrica» ci sono le nozioni di ordine gerarchico interno ma anche di frontiera più o meno mobile verso l’esterno, in reciproca tensione e interazione, oltre che un’idea di «fortezza Europa» che in realtà è forse una debolezza. Su questi parametri si può ora articolare l’analisi di che cosa ha voluto e vuole dire «Europa» nelle tre date simboliche: 1815, 1915 e (attraverso il 1945) 2015.

1815: Europa centro restaurato del mondo

Nel 1815 è in corso il Congresso di Vienna mentre si esaurisce la grande stagione napoleonica: l’Europa è davvero il centro restaurato del mondo. L’Europa-centro è anche Europa concentrica perché ingloba in sé diversi sistemi di contraddizione e di alterità: la tensione tra l’Antico Regime, vittorioso nel breve periodo, e la Rivoluzione che cova sotto le ceneri e si ripresenterà (mutata) nei Risorgimenti; fra la borghesia e l’aristocrazia; fra gli Imperi e gli Stati nazionali; fra la politica di potenza e la politica di equilibrio. Ingloba inoltre la tensione politica tra la Santa Alleanza – che è rivolta contro il liberalismo, e quindi minaccia il Continente sudamericano testé liberatosi dal dominio spagnolo avendo appunto tra i propri obiettivi quello di riportare all’ordine i Paesi di (relativa) libertà costituzionale borghese che si vengono affermando nel sud America – e la politica dell’Inghilterra, che di questa alleanza non fa parte, perché la sua politica è orientata a perseguire l’equilibro di potenza nel Continente e a intensificare la propria avventura marittimo-industriale. Dentro questa Europa si sta anche formando, benché in questo momento non abbia la forza di diventare un soggetto politico, un’altra consapevolezza e alterità, che è quella del proletariato industriale; che però, nel 1815, è soltanto allo stato nascente. E insieme ad esso quegli embrioni di pensiero comunista (Babeuf, Maréchal) che si svilupperanno in seguito.

La consapevolezza di queste contraddizioni fa dire in punto di morte a Maistre, che muore nel 1821, «Je meurs avec l’Europe!». Nel 1821, quando veniva spento il liberalismo spagnolo, e dunque sembrava che la Restaurazione fosse trionfante, questo intellettuale, estremamente reazionario ma anche estremamente intelligente, aveva colto le contraddizioni che la Restaurazione credeva di neutralizzare, per fare dell’Europa il perno dell’ordine mondiale: quelle contraddizioni erano aperte, e non si chiudevano. Le vide anche Hegel, in modo meno tragico: la consapevolezza della centralità dell’Europa è presente, nella Filosofia del diritto (1821), ai paragrafi 244-248, dove la tesi di fondo è che le contraddizioni intrinseche della società civile sono ancora gestibili in modo tale che l’assetto politico-economico europeo non ha da esse molto da temere: anzi, se esse si riversano all’esterno fanno del resto del mondo un prodotto dell’Europa. Poiché la società civile è sempre troppo contraddittoria al proprio interno può e deve scaricare le proprie contraddizioni all’esterno attraverso la colonizzazione. E ciò, detto nel 1821, testimoniava una grandissima capacità di penetrazione della storia.

1915: L’Europa è il centro pericolante del mondo

Bene o male quella Restaurazione dura un secolo, dal 1814 al 1914, e costruisce un assetto abbastanza solido e al tempo stesso abbastanza elastico tanto che vi si possono formare alcune realtà nuove – l’Italia unita e la Germania unita – senza che la modificazione dei rapporti di forza interni distrugga lo spazio europeo, e senza che l’Europa precipiti in guerre distruttive. Quell’assetto d’Europa, frutto della Restaurazione, sopporta insomma le guerre di indipendenza italiana e tedesca, che hanno disturbato ma non distrutto l’Impero asburgico, cioè il massimo garante continentale della Restaurazione. In realtà la mina che ha fatto esplodere quel sistema stava da un’altra parte: nei Balcani. In ogni caso, quando nel 1915 l’Italia entra in una guerra che è scoppiata l’anno precedente, l’Europa è certamente il centro pericolante del mondo. Probabilmente i più avvertiti sanno che è pericolante, perché i grandi Imperi coloniali sono a rischio e devono fronteggiare, soprattutto quello inglese, moti di indipendenza potentissimi. E certamente, al tempo stesso, tutto il mondo è soggetto al dominio europeo, con le eccezioni di Stati Uniti e Giappone.

Nel 1915 il diritto pubblico europeo è ancora il Nomos della terra: è ancora ciò che spiega l’ordinamento totale del mondo, anche se i germi della distruzione sono già in moto.

A quell’altezza in Europa vi sono due princìpi in conflitto, e la vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro. Questi due princìpi sono: il nazionalismo e il socialismo, cioè due espressioni di contraddizioni. Il nazionalismo allora era l’espressione della volontà di potenza dei singoli Stati, in contraddizione con la pace in Europa. Ciascuno Stato affermava a parole di volersi far carico dell’equilibrio europeo, ma nei fatti praticava un nazionalismo irresponsabile perché la sensazione di sicurezza che era data dal far parte di una delle due alleanze contrapposte (la Triplice e l’Intesa) portava a trascurare molte prudenze; ciò ha dato vita a un equilibrio sempre più instabile, infine crollato per Sarajevo come avrebbe potuto crollare per Agadir o per la Libia o per qualche altro incidente – come avvenne poi per le guerre balcaniche . E in quel crollo è stato trascinato appunto l’ordine europeo restaurato a Vienna, e la sua centralità rispetto al resto del mondo.

Quindi la genesi della prima guerra mondiale è sistemica: è nata dal fatto che se ci sono troppi soggetti che si muovono col cerino acceso dentro una polveriera, prima o poi la polveriera esplode. E i nazionalismi erano la polveriera e i cerini accesi erano gli incidenti, che si susseguirono fino a quello fatale di Sarajevo, che è avvenuto in un momento in cui nessuno si fidava più di nessuno. Nel 1914 non c’era un argine allo svilupparsi autonomo dei fatti: era ormai stata tolta l’ultima pietra che teneva ferma la valanga. A quel punto la situazione è precipitata, è andata avanti da sola.

Da parte sua, il socialismo era l’interpretazione di un’altra contraddizione, quella tra capitale e lavoro, e, più in generale, della divaricazione tra ceti oppressi e i ceti benestanti: pur all’interno di un orizzonte di rovesciamento del capitalismo e della società borghese, il socialismo in realtà accompagnava l’inclusione (di fatto subalterna, ma non priva di speranze e di aperture su una più ampia cittadinanza) delle masse operaie in quella civiltà  come sapevano bene, con rabbia e odio, Sorel e Lenin . Nonostante la sua forza in Germania Francia Italia, il socialismo non è però riuscito a opporsi al nazionalismo e anzi lo ha seguito, in particolar modo quello tedesco e quello francese. Quindi la prima guerra mondiale è stata davvero la guerra dei nazionalismi, la guerra della grande alleanza tra lo Stato, il popolo in quanto nazione e la tecnica, l’altro spirito del tempo che ha cambiato in modo radicale la guerra, rendendola un’esperienza super-distruttiva e super-popolare, nel senso che coinvolgeva l’intera popolazione. Il che ha determinato sostanzialmente la fine della sovranità moderna nella sua forma classico-statuale, proprio nel momento in cui essa procedeva alla sua prestazione storica più alta, cioè mettere in armi milioni di uomini, alla nazionalizzazione delle masse, prodromica alla morte meccanica, non eroica, alla morte di massa – sto pensando a quel testo straordinario che è La mobilitazione totale di Ernst Jünger . In questo momento si manifesta la più alta capacità di comando dello Stato borghese: lo Stato è come un grosso serpente che ha mangiato una preda più grossa di lui, la società intera (che ha armato e politicizzato), ma non riesce a digerirla, a ricondurla all’ordine pacifico, finendo con l’essere deformato e reso irriconoscibile dalla sua stessa preda. La prima guerra mondiale è in realtà l’inizio di una nuova compenetrazione di Stato e società, di una scomposizione e di una politicizzazione di quest’ultima di cui approfitteranno, e a cui risponderanno, gli ordini nuovi del comunismo e del fascismo. Infatti, la guerra finisce nel 1918, ma continuerà in quell’interregno, in quella condizione intermedia, che si dà tra le due guerre mondiali, quando gli Stati europei diventano quasi tutti o fascisti o comunisti, cioè, benché la parola sia imprecisa, totalitari. Cioè Stati apparentemente fortissimi, ma a cui in realtà è sfuggita l’anima politica che non sta più nelle istituzioni statali bensì nel partito e nel suo Capo. Perciò quella prima guerra mondiale è davvero una guerra «fine di mondo», una guerra in cui finisce un mondo  non a caso Paul Valéry, che in quanto poeta aveva capacità di decifrare in modo rapido e sintetico quello che stava capitando, lo scrive nel 1919: «noi civiltà ormai sappiamo di essere mortali» ; mentre a dare al mondo una nuova e più stabile forma provvederà la seconda guerra mondiale.

Tra le questioni lasciate in sospeso dalla prima guerra mondiale c’è quella del Medio e vicino Oriente, perché nessuno è stato in grado di trattare pienamente e secondo giustizia la questione della successione all’Impero Ottomano, cosa di cui noi paghiamo il fio ancora oggi. Nel 1916 Inghilterra e Francia si limitarono a spartirsi la regione in due aree d’influenza determinate da interessi storici, strategici e petroliferi (gli accordi Sykes-Picot, che dovettero essere presto modificati ma che con la loro artificiosità resero instabile la zona per cent’anni); inoltre, nel 1919 da Versailles uscì un disegno dell’Europa centrale che sostanzialmente la svuotava (a vantaggio della Francia, che di quell’area si era resa garante, senza averne la forza) in modo tale che a riempire quel vuoto concorsero (e fu la seconda guerra mondiale) la Germania e la Russia.

1945: l’Europa è l’oggetto di spartizione più prezioso del mondo

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Europa smette di essere il centro, anche se pericolante, del mondo: resta ancora l’umbilicus mundi, ma solo perché è il punto in cui sono a contatto, e fanno attrito, le superpotenze che si sono spartite l’Europa. L’Europa non è il centro soggettivo e attivo, ma il centro passivo e oggettivo: è il premio del vincitore. E i due veri vincitori (USA e URSS) in Europa si toccavano: proprio per questo in Europa la tensione era altissima e quindi non poteva succedere nulla, altrimenti sarebbe successo di tutto. Le guerre si combattevano nei Paesi poveri, nel Sud del mondo, mentre in Europa si fronteggiavano le superpotenze, sapendo che il primo stivale sovietico o americano che avesse varcato la linea di confine, avrebbe potuto scatenare la guerra nucleare. Questa situazione ha di fatto reso l’Europa uno spazio pacifico, benché non sovrano. In realtà, la pace in Europa nel secondo dopoguerra l’hanno portata gli americani e i sovietici. E anche il Welfare in Europa lo si spiega col fatto che del vecchio dilemma «burro o cannoni» era rimasto solo il burro, e i cannoni non c’erano più, o quasi. La difesa vera dell’Europa la facevano gli americani e i sovietici.

In ogni caso, fra il 1945 e il 1947 ciascuno dei vincitori (quelli veri, USA e URSS) si prende la sua parte, all’interno della quale può fare quello che vuole (la dottrina Breznev e la dottrina Nixon ne sono la tarda formalizzazione esplicita). Noi occidentali ci siamo strappati le vesti per Berlino, Varsavia, Budapest, Praga, Danzica: ma oltre stracciarsi le vesti non si è potuto fare nulla. È stato più facile far cadere la stessa URSS, attraverso la sfida dell’economia iper-capitalistica del neoliberismo, che correre in aiuto di una delle insurrezioni popolari antisovietiche che sono scoppiate con discreta regolarità nell’Europa orientale dal 1953 fino al 1981. In quel caso ci sarebbe stata la guerra. E d’altra parte gli americani potevano fomentare, favorire, instaurare le più perverse dittature anti-comuniste nella loro parte di Europa (e di Sud America) e i russi potevano stracciarsi le vesti fin quanto volevano, ma non muovevano un dito. Insieme, invece, USA e URSS hanno rimandato a casa loro inglesi e francesi nel 1956, quando le vecchie potenze tentarono l’ultima avventura coloniale d’Europa, cioè quando hanno provato a imporre con la forza l’apertura del canale di Suez nazionalizzato da Nasser, con l’aiuto, via terra, dell’esercito israeliano. A quel punto USA e URSS, insieme, le hanno fatte tornare a casa loro. Era successo, senza che le vecchie potenze europee ne prendessero piena coscienza, che il mondo non era più eurocentrico; quelle potenze formalmente vincitrici della seconda guerra mondiale ma in realtà sconfitte insieme a tutta l’Europa, avrebbero fatto prima a dismettere gli Imperi coloniali, piuttosto che aspettare che si liberassero da soli, come del resto stava capitando: nel 1954 i francesi avevano perduto sanguinosamente sul campo in una battaglia campale contro le truppe del Generale Giap a Dien Bien Phu.

2015: L’Europa fra competizione, periferia, irrilevanza

Nel 2015 lo scenario è completamente diverso: l’Europa in quanto «centro-oggetto» non esiste più, dopo la caduta del comunismo. Perciò ha senso chiedersi che cos’è oggi l’Europa. Nel momento, unico della sua storia, in cui si presenta come Unione europea, l’Europa è una sezione altamente competitiva della globalizzazione capitalistica – o almeno prova a esserlo, con l’euro –; ma è anche una periferia di un mondo che ha i suoi centri altrove, in Cina e negli USA; è una periferia che si era illusa di essere benestante e tranquilla, un quartiere residenziale di lusso, dove si vive bene. Ma oggi questo quartiere teme di poter diventare una banlieue percorsa da violenza e odio, da sangue e fuoco, da insicurezza e terrore. L’oasi di pace è circondata dalle fiamme, che penetrano in lei attraverso due vie: il terrorismo e le migrazioni. Entrambe determinate, direttamente o indirettamente, dalla guerra civile inter-islamica fra sciiti e sunniti, nella quale l’Europa è coinvolta nella misura in cui è entrata in quel mondo contribuendo (in via a volte subalterna e a volte da protagonista) a distruggere l’ordine Sykes-Picot e in generale cancellando intere statualità: Afghanistan, Siria, Iraq, e anche Libia (l’Egitto è puntellato da un sanguinario regime sostenuto dall’Occidente) per esportarvi la democrazia, per controllarne il petrolio, per espandersi verso Hearthland (l’Afghanistan) sostituendovi la scomparsa URSS, per fermare Isis: le quattro spiegazioni – politica, economica, geostrategica, securitaria – coesistono tra loro, e a esse si deve aggiungere la politica regionale di potenza di Turchia, Arabia e Iran, oltre che la politica imperiale di USA e URSS.

Il mondo del Nord Africa e del Medio e vicino Oriente è in fiamme – e di quelle devastazioni le migrazioni sono una delle conseguenze –; se a ciò si aggiunge il fronte orientale dell’Europa (l’Ucraina) vediamo che l’Europa è circondata e attraversata dal disordine.

L’Europa, a sua volta, è un’apparente unità ma è in realtà un insieme di contraddizioni violentissime. La principale delle quali è l’euro che da elemento di unione, di forza si è rivelato elemento di forza per qualcuno e di debolezza per altri. L’euro è una moneta tenuta in piedi da un’ideologia; un club dentro il quale si può stare solo se si sposano alcune linee dogmatiche dell’ordoliberalismo tedesco. Per il quale l’arcano dell’economia non è il capitale ma la massa monetaria. Infatti in Italia già nel 1981 nel disinteresse generale, come primo tributo pagato alla rivoluzione ordoliberista, il ministero del Tesoro divorziò dalla Banca d’Italia. La politica perdeva il potere di incidere sulla massa monetaria che secondo il primo dogma ordoliberale è intoccabile: la custodiscono i sacerdoti dell’economia e non i laici, i politici; il secondo dogma è che i prezzi devono manifestare la loro dinamica senza interferenze da parte della politica; il terzo dogma è che l’economia di mercato deve essere costituzionalizzata; il quarto è che di conseguenza lo Stato non deve creare moneta generando debito pubblico, ma può solo lasciare che la ricchezza venga prodotta dal capitalismo e poi tassare i cittadini. Un altro dogma altrettanto fondamentale è la great moderation: i salari devono essere sempre più bassi di quello che potrebbero essere. Ciò che deve essere promosso non è solo il profitto, ma il reinvestimento del capitale, l’approfondimento del rapporto di produzione capitalistico attraverso un processo di innovazione. Il che vuol dire che si producono beni tecnologicamente avanzati per esportarli. L’industria lavora solo marginalmente per il mercato interno, e il potere d’acquisto delle masse (la domanda) non interessa questa economia dell’offerta: anzi si impongono le parole d’ordine di rigore, sobrietà, austerità, duro lavoro e assoluta assenza di conflitto sociale.

Questa teoria economica – che si basa su una visione politica organicistica, che ignora le contraddizioni del capitalismo – è stata estesa all’Europa, dalla natia Germania, in una fase in cui il capitale aveva e ha bisogno di una quantità di manodopera molto inferiore rispetto al passato. Il lavoro lo crea il mercato e non la politica; semmai, per sostenere la domanda e a fini di pubblica sicurezza si può concedere il salario di cittadinanza. Questo ordoliberalismo, che è anche un neomercantilismo, è nato in Germania alla fine degli anni Trenta e nei primi Quaranta, quando alcuni economisti (parecchi erano cattolici moderati) hanno elaborato un pensiero in grado di fare uscire la loro patria dalla catastrofica avventura del nazismo, e di contenere al tempo stesso lo statalismo sovietico. Ne è nato un capitalismo ben temperato in cui il mercato è pensato come naturale, come i diritti umani, e quindi va messo in condizione di creare ricchezza senza creare disordine. È stato Ludwig Erhard il primo esponente della scuola ordoliberale che abbia fatto politica (il teorico è soprattutto Röpke), come ministro dell’Economia di Adenauer e in seguito secondo Cancelliere. L’ordoliberalismo, o economia sociale di mercato, o capitalismo renano, è un modello che la Germania ha perseguito dal 1949, perché è in linea con la sua storia, con la sua amministrazione, con la struttura della sua economia e della sua finanza (vi ha derogato, tuttavia, quando le è stato utile, ad esempio al momento della sua riunificazione, quando ha deliberatamente creato una grande inflazione interna esportata in Europa attraverso il marco).

Ora, l’ordoliberalismo, che è la matrice dell’euro, ha creato un’Europa disunita nella quale c’è un nucleo forte, la Germania, e la cerchia che la circonda – l’Austria, l’Olanda, la Repubblica Ceca, i Paesi baltici, nonché i Balcani come fornitori di manodopera – e una serie di Paesi più deboli, fra cui l’Italia, che a quel modello non riescono ad adeguarsi, o vi riescono solo a prezzo di pesanti sacrifici che distruggono le basi sociali della democrazia. A parte il fatto che l’intera area dell’euro soffre di uno sviluppo asfittico e rallentato per il dogmatismo monetarista e per la disciplina di bilancio che la Germania impone alla Commissione, la pseudo-fortezza Europa è quindi percorsa da una contraddizione geopolitica e geoeconomica interna fra Paesi creditori e Paesi debitori che indebolisce molto il vincolo unitario europeo. Vincolo che si allenta ancora di più nelle diverse politiche di fronteggiamento dell’immigrazione, che determinano la formazione di frontiere interne (cioè spingono verso il superamento di Schengen) e soprattutto producono la nascita, nei diversi Stati europei, di sentimenti xenofobi e antidemocratici – più diffusi e virulenti nelle fasce più deboli della popolazione, più esposte all’insicurezza economica e sociale –.

Euro e guerra – le contraddizioni del capitalismo e l’assedio esterno e interno del terrorismo –, rendono l’Europa debole e disunita: i diversi Stati cercano sempre più chiaramente di cavarsela ciascuno da solo; non c’è una issue della politica internazionale su cui l’Europa presenti efficacemente una visione unitaria. La verità è che l’Europa unita aveva senso quando era un soft-power, quando era sufficiente a darle una mission il suo prestigio civile e sociale; ma oggi con il mondo in fiamme, e con le fiamme in casa, l’Europa unita sta scomparendo.

L’Europa del 2015 è concentrica? Sì: esiste un centro che è la Germania e intorno ci sono dei satelliti, più o meno volonterosi e più o meno riluttanti, e poi ci sono ancora più esterni gli Stati deboli che faticano a rientrare nel modello dominante. Esistono insomma una concentrazione di poteri e denari tedeschi, una gerarchizzazione dei Paesi periferici, e una nascita di virulenti movimenti nazionalistici, e di virulenti populismi, come risposta all’immiserimento della politica europea. Concentrica dunque, oggi vuole dire un’Europa a cerchi concentrici al proprio interno mentre, riguardo all’esterno, è il centro di una grande cultura e al contempo di un nulla politico. L’Europa certo è ancora la custode di gran parte di ciò che d’importante è stato prodotto a livello intellettuale ed espressivo per almeno venticinque secoli. È custode di un patrimonio. Ma, appunto, ha più o meno il peso di un custode rapportato ai padroni di casa.

Oggi, l’Europa concentrica dovrebbe porsi come compito politico fondamentale di non essere più concentrica al proprio interno, ovvero di operare nel senso dell’uguaglianza. Ciò di solito viene definito come «ricerca di più Europa politica». Questa espressione, tuttavia, non può significare un nuovo patto costituente della Ue, peraltro già bocciato e abbandonato nel 2009, ma neppure la per ora irrealistica formazione di un «super-Stato europeo» o anche solo di una Federazione, che implichi un’autentica cessione di sovranità, un bilancio unico, una tassazione unica, un mercato del lavoro retto da una legislazione unificata, una politica estera e di sicurezza unitaria. Sono sogni, questi: e infatti, il sogno federalista delle generazioni precedenti alla nostra è sfumato (ucciso nel 1954 con la bocciatura francese della CED); l’Europa è cresciuta, in questi decenni, nel segno del funzionalismo, col quale è giunta fino all’euro e qui si ferma e rischia anzi di arretrare. Quello che realisticamente (ma in realtà con molto ottimismo) si può ipotizzare è una maggiore attenzione alle conseguenze politiche dell’impostazione macroeconomica che essa ha dato alla propria moneta: insomma, una maggiore flessibilità dei parametri economici. Ma non basta. Le contraddizioni strutturali dell’euro e della geopolitica esigono di più. Ma questo «di più» è difficile da pensare e da individuare nella prassi: emerge piuttosto il «di meno», l’erosione della Ue.

L’Europa, con la NATO, avanza verso Est: ma queste conquiste oggi ci appaiono meno importanti delle profonde fratture che attraversano quella che avrebbe potuto essere l’Unione europea, e pare invece solo la disunione europea. C’è davanti a noi, insomma, un compito immane: rifare l’Europa. E non è detto che per fare questo passo avanti non si debba tentare un passo indietro, e provare a rifare il mattone dell’Europa, lo Stato, secondo democrazia e giustizia.

Relazione tenuta al convegno Europa concentrica. Soggetti, città, istituzioni fra processi federativi e integrazione politica dal XVIII al XXI secolo − Dipartimento di Scienze Politiche, Università La Sapienza, Roma −, 3 giugno 2015.

 

 

Europa: linee di frattura, punti esplosivi

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Dal punto di vista filosofico-politico questa riflessione sarebbe declinabile così: qual è il rapporto fra il concetto di sovranità e il concetto di Unione? Il concetto di Unione, infatti, può essere riempito di molti contenuti: dal quasi nulla che abbiamo ora, al massimo cioè alla federazione. E sovranità è, ovviamente, la qualificazione principale della forma-Stato, che a sua volta può essere declinata in molti modi. La sovranità è stata presente anche nella lotta del popolo greco contro l’euro: quello è stato un esercizio di potere costituente, cioè della sovranità nella sua forma originaria. Lì è stata giocata la sovranità contro un potere che non era sovrano, che non apparteneva alla determinazione del popolo greco, ma alla Unione Europea. Sovranità, d’altra parte, sono anche gli Stati che violano, forzano, sostanzialmente sospendono le strutture giuridiche poste in essere dall’Unione Europea (penso a Schengen), esercitando, in vario modo, poteri d’emergenza, che sono tipici poteri di sovranità. Sovranità è estremamente complessa come nozione, e certamente è in tensione sistematica con ogni possibile declinazione del concetto di Unione Europea (tranne che non la si voglia attribuire a questa, facendone un super-Stato). Vi è una sovranità democratica del popolo, vi è una sovranità istituzionale degli Stati che può divenire emergenziale. In ogni caso, c’è una tensione strutturale fra la sovranità e gli elementi economici e tecnico-burocratici che sorreggono l’Europa oggi.

Dal punto di vista storico, poi, se si sceglie uno sguardo retrospettivo breve − limitato agli ultimi cento anni −, parlando d’Europa sono possibili tre determinazioni, esprimibili in tre termini: «centro», «nulla», «qualcosa». Centro significa che la configurazione globale della Terra ha visto l’Europa al centro fino alla Prima guerra mondiale. Dopo, fra le due guerre, è cominciato uno smottamento che ha visto l’affermarsi di potenze extra-europee. Nulla, è ciò che è stata l’Europa dal 1945 al 1990: un nulla politico, in quanto era semplicemente l’oggetto privilegiato della grande spartizione globale. L’Europa era l’unica posta in gioco per cui si sarebbe potuta scatenare davvero una guerra fra USA e URSS, e proprio per questo ha goduto di una pace prolungata e per lei benefica. Naturalmente, con privazione della sovranità, checché ne pensassero francesi e inglesi, i quali nella data-chiave del 1956 hanno sperimentato di essere incapaci di costituire il centro di alcunché. Nel Cinquantasei – l’ultimo tentativo coloniale classico dell’Europa − le due superpotenze, benché in grave urto per la insorgenza ungherese, furono sostanzialmente d’accordo per rispedire a casa da Suez Francia e Inghilterra. L’Europa è nulla sotto il profilo storico-politico fino al 1990, quando è costretta a tentare di essere qualcosa, cioè a essere una parte di un ordine mondiale plurale. Una parte che si struttura inevitabilmente − e questo è il problema − intorno alla Germania unificata, che come sempre è fuori scala rispetto all’Europa: troppo piccola per essere una superpotenza, troppo grande per essere un normale Stato nazionale. Da cui lo stratagemma dell’euro per tenere la Germania ancorata all’Europa, per non lasciarla vagare in un vago neutralismo; uno stratagemma che si è rovesciato nella situazione attuale che vede la Germania esondare in buona parte d’Europa.

Con uno sguardo retrospettivo lungo – fin dalle origini dell’Europa, dunque a partire dall’Alto Medioevo – si dovrebbero richiamare le analisi di Rokkan sopra l’Europa strutturata su cleavages: una partizione Est−Ovest che nasce attorno alla Lotaringia, la fascia centro-europea − dalle Fiandre, alla Lorena al Nord Italia −, densissima di città, che rende difficile al suo interno il formarsi di statualità; mentre invece via via che ci si allontana da questo centro ricco di città, e a Est e a Ovest si formano statualità con capitali, cioè con città che emergono rispetto a quelle circostanti. Un’altra partizione spaziale, quella Nord−Sud, misura la distanza da Roma, sulla base del principio che ciò che è più lontano da Roma può strutturarsi più facilmente in Stato rispetto a ciò che è più vicino a Roma.

Un’altra linea strutturante l’Europa, che è stata coperta per molto tempo, ma che spiega nel profondo una quantità di cose − nessuna linea spiega tutto, sia chiaro − è una frontiera teologico-politica, che si può definire nella contrapposizione di due nomi: Eusebio e Agostino, la teologia politica imperiale e la teologia politica duale. La prima determina il rapporto tra Stato e Chiesa in tutta l’Europa orientale, dove vige una dipendenza sostanziale della struttura religiosa dalla struttura politica, che permane ancora oggi. L’altra implica la divaricazione fra la Chiesa istituzionale e i poteri politici in una perenne tensione reciproca, in perenne conflitto benché con alcuni periodi di alleanza, senza che mai ci sia una vera unificazione o una vera dipendenza dell’uno dall’altro. Le ipotesi di unificazione imperiale sono state minoritarie nella storia dell’Occidente – abbastanza celebre è l’Anonimo Normanno −. L’ipotesi di unificazione papale (la ierocrazia) è stata anch’essa, in realtà, una linea breve. La storia dell’Occidente, come ha mostrato Berman, si è strutturata sulla tensione fra la forza della Chiesa e la forza dominante del potere politico, con fasi alterne. Quella tensione è la madre della critica e della libertà.

Ora, dobbiamo chiederci quali sono le linee di frattura che disegnano gli spazi politici dell’Europa di oggi, per vedere se sono spazi politici sensati o insensati, congruenti o incongruenti, e in generale se esiste uno spazio politico europeo.

Esistono fratture geopolitiche, geoeconomiche, e fratture sociali ed esistenziali. Le prime generano linee, le seconde originano punti, atomi. Fra queste seconde è certo fondamentale la disuguaglianza politica e sociale, la distanza fra ricchi e poveri (di sapere, di potere, di reddito, di proprietà) che attraversa tutte le società europee. Questo è l’esito della vittoria epocale del neoliberismo sul keynesismo nel corso degli anni Settanta del XX secolo, e poi via via affermatasi attraverso il modo specifico di funzionare del neoliberismo, cioè le bolle e le crisi finanziarie. Ciò ha prodotto gravi lesioni della struttura delle società europee, portate a un livello di povertà da tempo sconosciuto. Questo è il cambiamento sociale profondo da cui è derivato, a catena, la fine della legittimazione dei partiti, dei corpi intermedi, e anche della democrazia. Questa è una frattura destrutturante, che non disegna alcuno spazio appunto perché produce essenzialmente atomi sociali, individui isolati.

Una linea di frattura, invece − le linee di frattura si sovrappongono fra di loro: una non esclude l’altra e insieme costruiscono un intrico di linee –, è la contrapposizione fra terra e mare, fra il liberismo inglese e l’ordoliberalismo tedesco. Ovvero fra quel processo e quella istituzione che è il TTIP, e lo strutturarsi corporato della principale economia europea, cioè quella tedesca. Il TTIP, questa sorta di NATO economica, implica un mercato diverso da quello strutturato dallo Stato nazionale ed è in rotta di collisione con la nozione di sovranità politica, democratica o istituzionale che questa sia. Questa linea terra-mare spiega anche la diffidenza dell’Inghilterra nei confronti dell’Europa/euro, e il fatto che non è impossibile che il Regno Unito si stacchi dall’Unione Europea. In questo distacco si potrebbe vedere il riemergere oggi − che è una delle tesi che io avanzo − di tradizionali linee di frattura geopolitiche che hanno descritto la storia d’Europa; una delle quali è appunto l’ostilità dell’Inghilterra verso il formarsi di strutture di potere forti, stabili, nel continente.

Un’altra linea di frattura è quella disegnata dallo spazio economico dell’euro, che è l’ordoliberalismo applicato a molti Paesi. L’ordoliberalismo si colloca contro il liberismo anarchico, che aveva generato la crisi del 1929, e contro le cattive reazioni alla crisi del 1929, cioè il nazismo, e anche contro il comunismo, e proponendo a tal fine un’ipotesi di società organica che si fonda sulla naturalità del legame sociale generato dal mercato. Il mercato è interpretato come il motore naturale della società (pur nella consapevolezza che non è naturale ma storico) mentre nello Stato si esprime l’altrettanto naturale pulsione societaria dell’uomo, stabilizzata nelle strutture che impediscono che il mercato venga turbato − è fondamentale il divieto per lo Stato di intervenire sulla dinamica dei prezzi −. Lo Stato deve essere la struttura che regola e controlla la massa monetaria, garantisce la concorrenza, e così mette in grado il mercato di funzionare in una società il cui obiettivo fondamentale è di non lacerarsi e di produrre benessere secondo giustizia. Insomma, dietro l’ordoliberalismo c’è un non-detto: cioè che il conflitto non è fisiologico, ma è patologico ed è quindi da escludere. Nella struttura del mercato sta scritta la collaborazione, non il conflitto. La Germania si è strutturata così fin dal 1949, quando Erhard scongiurò gli americani di non intervenire sulla dinamica dei prezzi, di lasciare che la crisi dei prezzi si aggiustasse da sola.

L’ordoliberalismo è l’essenza dell’euro, ma non è universale: è adatto alla Germania che era ed è una società dove c’è un fitto intreccio di potere economico, potere politico, potere statuale, potere dei Länder che la rende stabile; in questa dinamica è presente anche la Mitbestimmung, la collaborazione dei sindacati ai consigli di amministrazione delle imprese maggiori. Il tutto in chiave mercantilista, cioè con una propensione a tenere relativamente bassi i salari e a puntare sulle esportazioni (con violazione dei trattati di Maastricht da parte della Germania, proprio sul surplus commerciale). Che l’Europa sia anche lo spazio dell’euro non la rende unita, quindi: anzi l’euro produce un doppio spazio, ovvero un nucleo tedesco e una cintura di economie embedded dentro l’economia tedesca – Paesi baltici, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Olanda, Slovenia, Croazia, l’Italia settentrionale –, e un cerchio più esterno dei Paesi del Sud (esterni ma prigionieri dell’euro essi stessi). Questa è la linea di frattura che fa sì che l’Europa oggi sia distinta in Europa dei creditori ed Europa dei debitori − dove quella dei creditori è il nucleo tedesco, e gli altri sono via via, con cerchi concentrici differenziati, collaboratori, più o meno coatti e subalterni, di quel nucleo economico −. Il segno di questa differenziazione dello spazio dell’euro sono le linee di divisione degli spread.

Un ulteriore problema è che lo spazio economico dell’euro, che è in concorrenza con lo spazio economico anglofono, in realtà non è uno spazio politico tedesco. Ciò deriva dalla spazializzazione originaria – la cortina di ferro, che ha tagliato la Germania in due, insieme all’Europa – del 1945-47, che si fondava sulla divisione dell’Europa fra le superpotenze, e sull’assunto che la Germania non avrebbe più dovuto avere ruolo politico in Europa, ovvero costituirsi forse come uno spazio economico, ma non certo riproporsi come un Reich. Di fatto molti Stati embedded dentro lo spazio economico dell’euro, e anche nello spazio economico tedesco, non condividono, almeno nella loro maggioranza, le opzioni politiche generali della Germania. Questa non ha un rapporto sempre ostile con la Russia, e anzi ha subito a lungo l’influsso del suo potente vicino, a sua volta influenzandolo: la Germania non ha confini (secondo le tesi dei geografi tedeschi ottocenteschi) dato che è collocata in una pianura che arriva fino agli Urali. In quella pianura vi sono fasi di sovrapposizione secolare fra l’elemento slavo e l’elemento germanico, con un movimento di marea di avanti e indietro. Ora, il punto è che molti degli Stati embedded dentro lo spazio economico tedesco sono violentemente antirussi (molto più della Germania) perché sono stati dominati fino a un quarto di secolo fa dall’URSS, protagonista dell’ultima ondata di marea slava.

L’Europa è insomma attraversata anche da una memoria non condivisa. Il nemico mortale nell’immaginario e nella prospettiva di alcuni Stati dell’Europa orientale continua a essere l’Unione Sovietica o la Russia, l’occupazione e quel che segue. Questo fa sì che la Germania sia scavalcata da una serie di Stati che si appellano agli Stati Uniti per esercitare una confrontation estremamente dura nei confronti della Russia, con la messa a disposizione di basi militari per la NATO − basi di fatto aggressive nei confronti della Russia −. Come tutto ciò pesi sulla questione Ucraina è evidente.

L’Unione Europea non ha una politica di difesa. Nei trattati istitutivi è scritto apertamente che il braccio armato dell’Unione Europea è la NATO. La costruzione del secondo pilastro europeo, della proiezione armata della potenza europea, è ancora agli albori; semmai, la politica militare e industriale è ancora rivendicata in proprio da ciascuno dei pur deboli Stati europei. L’Europa in quanto tale non è in grado di intervenire da nessuna parte.

Ora, dentro lo spazio della NATO − che ovviamente disegna una linea di frattura fra Europa e Oriente russo − c’è una frattura fra la Germania e altri Paesi, a essa vicini ed economicamente subalterni ma politicamente oltranzisti. Il che fa sì che la NATO sia, in questo momento, una realtà meno compatta di quella che è stata finora; certamente (per l’enorme sproporzione di mezzi) sempre a trazione in ultima istanza americana, ma soggetta agli umori, alle paure, di una fascia di Stati molto preoccupati della politica russa. La questione del Montenegro che in altri tempi sarebbe stata quasi un casus belli con la Russia − un ulteriore sconfinamento nello spazio balcanico, ormai tutto occupato dall’Occidente − si spiega con questo dinamismo antirusso della NATO, ‘dal basso’.

Per ricapitolare, dentro lo spazio europeo c’è uno spazio economico dell’euro diviso fra creditori (lo spazio tedesco) e debitori, e politicamente diviso fra Paesi più o meno anti-russi, il che permette agli USA di avere ancora attraverso la NATO (più instabile che in passato) un enorme peso sull’Europa, sulla quale la Germania non può (e forse non vuole) avere anche un’egemonia politico-militare, pur esercitandola in senso economico.

E quindi la questione europea non consiste nel fatto che, pur essendo chiaro dove si dovrebbe andare, tuttavia non ci sono le forze per andarci. No: il punto è che nessuno ha chiaro dove si deve andare, e nessuno ha le forze per andare da nessuna parte. Noi oggi abbiamo per le mani i relitti ormai non più vitali di un’Unione Europea pensata nell’epoca o della guerra fredda (quando gli Stati europei erano di fatto sollevati da responsabilità strategiche) o pensata e rafforzata all’epoca della globalizzazione incipiente, della globalizzazione trionfante e all’apparenza “pacifica”. Un’Europa che, in entrambi i casi, pensava a se stessa come «potenza civile» (dopo che nel 1954 era stata bocciata la CED). Ma che esista una configurazione politica che funga da potenza civile è possibile solo se intorno ad essa non c’è un mare di inciviltà, o di guerra. Senza una situazione di relativa pace una potenza civile non esiste. Come appunto si constata oggi.

Lo spazio liscio dell’Europa potenza civile − realizzato con Schengen − è attraversato da muri, come si è visto ormai da mesi. Ma non è neppure esatto dire che se si è disfatto lo spazio politico europeo, almeno restano gli Stati: infatti, gli Stati tentano di esistere e di resistere, ma conoscono oggi una minaccia inusitata, generata da un terrorismo che è al tempo stesso sistemico e strategico. È sicuramente un atto di guerra di qualcuno contro di noi, dunque è strategico: ma se il terrorismo fosse solo questo, come è stato iniziato così potrebbe anche terminare. In realtà, il terrorismo è anche sistemico, cioè nasce dentro lo spazio politico europeo, dentro le sue contraddizioni e carenze, e lì si alimenta. È da notare che nel complesso non si può neppure sostenere che il terrorismo generi un fronte, una linea di frattura − ad esempio, il clash of religions fra cristianesimo e islamismo . La verità è invece non tanto che l’Islam si radicalizza quanto piuttosto che il radicalismo si islamizza: ovvero che la religione è il codice in cui viene trascritta un’ostilità generata altrove, su un altro terreno. Insomma, il terrorismo su scala continentale (non quello politico degli anni Settanta) non genera propriamente linee di frattura: è anzi il classico esempio di guerra globale, che è − come provai a definirla quindici anni or sono, in La guerra globale − quella condizione in cui «tutto può capitare ovunque in qualsiasi momento». In filosofia questo è lo stato di natura, appunto la situazione per sconfiggere la quale sono nati gli Stati. Ora gli Stati sono davanti a una sfida che non è una sfida ideologica delle Brigate Rosse o delle Brigate nere: è qualche cosa di diverso, probabilmente più forte ed estremamente destrutturante, perché ottiene realmente il suo obiettivo, ossia genera panico nelle popolazioni e spinge gli Stati a politiche emergenziali. Pensiamo solo alla Francia, lo Stato nazionale per eccellenza, la madre delle rivoluzioni, in cui politicamente il Fronte Nazionale ha già vinto, anche solo per lo spazio enorme che sta ottenendo, e in cui un governo socialista esce dalla Convenzione internazionale dei diritti dell’uomo.

E pensiamo anche, al di là del terrorismo, a quella bomba a scoppio ritardato che è l’emigrazione di massa, e a quanto questa stressa oltre che le strutture istituzionali anche lo stesso legame sociale, estremizzando l’opera tipica del neoliberismo: la frantumazione della società in individui «atomici», che sono economicamente concorrenti (ma in realtà impoveriti e subalterni a poteri invincibili), e che sono politicamente preda della paura e della xenofobia.

Il combinarsi di terrorismo ed immigrazione (due fenomeni distinti, ma che si rafforzano l’un l’altro nella psicologia di massa e che alimentano insicurezza e disorientamento) può essere un fattore di rafforzamento, in senso autoritario, dello Stato. Storicamente è sempre successo che la paura rafforzi le istituzioni. E quindi le frontiere statali in uno scenario post-Schengen, tornerebbero a essere le linee di frattura interne allo spazio politico europeo. Ma ho l’impressione che oggi il combinarsi della disuguaglianza economica e della insicurezza esistenziale produca fenomeni di disgregazione della società che neppure una torsione autoritaria dello Stato potrebbe neutralizzare, e che lo stesso «Stato forte» sarebbe in questo contesto in realtà solo uno Stato arbitrario, la cui forza si eserciterebbe in modo casuale, occasionale. Se la guerra classica dentro gli Stati classici produce l’Union sacrée o la rivoluzione, la guerra globale produce forse fenomeni di scollamento del tutto anomici. La paura non produce solo linee, ma anche punti. E così, alle linee di frattura, già di per sé abbastanza complesse e intersecate, si aggiungono microfratture pulviscolari, portate dalla disuguaglianza economica (come abbiamo visto all’inizio) e dalla paura, che possono destrutturare e fare esplodere ogni spazio politico, sia europeo sia statale.

Che tipo di questione pone questo scenario costituito da spazi, linee e punti esplodenti? Impone prima di tutto di abbandonare la retorica del «Ci vuole più Europa»: prima si deve capire di quale Europa si parla. Non certo un super-Stato, monolitico, capace di chiudere i propri confini all’esterno – una finalità irrealistica e indesiderabile −. Né quella posizione può significare l’indeterminata estensione nel futuro dell’Europa di oggi: «Andiamo avanti così perché in un modo o nell’altro ne verremo fuori» – è, questo, il modo di ragionare medio di chi è nato in un mondo in cui, dopotutto, non poteva succedere niente, in Europa, per le terribili conseguenze anche del minimo cambiamento . Adesso il dramma è che invece può succedere di tutto.

Dobbiamo inoltre rifiutare l’idea che ogni analisi non mainstream sia apocalittica. Apocalissi è il disvelamento: finisce un mondo, cadono i veli e se ne rivela un altro nuovo. Oggi, invece, stiamo sperimentando una fase di transizione strutturale degli ordini politici continentali europei. L’ordine continentale è in crisi: sotto il profilo economico, perché spacca le società; sotto il profilo geoeconomico, perché spacca l’Europa; sotto il profilo strategico, perché non sa andare da nessuna parte e, semi-paralizzato, risponde con le leggi di emergenza alla doppia anomia della disuguaglianza e del terrorismo.

Davanti a questa serie di problemi la sinistra è semi-impotente. L’unica potenza che al momento può porre in campo è forse una potenza di analisi, per individuare un quadro non apocalittico né rassicurante, ma realistico del mondo in cui viviamo. La sinistra moderna nasce con Marx, il quale appunto fece un quadro realistico del mondo in cui viveva. Lo stesso si deve fare ora, per evitare che la sinistra o nasconda la testa nella sabbia o segua subalterna coloro che con le bandiere dell’Occidente al vento ci vorrebbero inviare verso ignote avventure.

 

Intervento introduttivo al seminario di Sinistra Italiana − organizzato a Roma il 4 dicembre 2015 −  dal titolo Economia e politica in Europa. Vincoli, contraddizioni, conflitti.

Politica e visioni. Risposta a Toni Negri

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Con una foga polemica che a tratti non gli permette una lettura adeguata del mio testo (Molte fini, un nuovo inizio) e che lo porta, ad esempio, a fraintenderne l’apertura  rivolta contro il togliattismo deformato praticato da alcuni, ai nostri giorni, all’interno del Pd , Toni Negri mi accusa di lamentoso e indignato intellettualismo, di democraticismo, sinistrismo, politicismo, istituzionalismo, pedagogismo, goffaggine retorica e politica, cecità davanti alle dinamiche della storia e del capitalismo, e di rischiare di scivolare verso un nazionalismo “rosso-bruno”. E mi invita a studiare meglio le vicende del Pci a partire dagli anni Settanta, e a praticare la lettura di Deleuze.

C’è da chiedersi il motivo di tanto accanimento verso un documento che, affetto da queste irrimediabili carenze, dovrebbe essere abbandonato alla critica roditrice dei topi, e non mobilitare contro di sé le armi della critica, come se fosse l’epitome della metafisica moderna. Anche perché non esprime la posizione ufficiale di alcuna forza politica, né di alcun gruppo parlamentare, ma è solamente opera mia, di cui io solo porto la responsabilità.

Per tentare una risposta all’interrogativo c’è da notare in primo luogo − a livello politico immediato  una convergenza fra quanto di SI ha detto Matteo Renzi (cioè che si tratta di “delirio onirico”) e quanto sostiene Negri. A dimostrazione del fatto che contro un progetto di sinistra si mobilitano all’unisono tanto i poteri costituiti quanto le opposizioni più radicali.

Sotto il profilo filosofico, poi, c’è qui un conflitto fra due differenti orizzonti analitici: Negri in sostanza non ammette che alcuna categoria della teoria e della pratica politica moderna − soggetto, classe operaia, produzione di merce, emancipazione, progresso, riforma, partito, istituzioni, parlamentarismo  possa sopravvivere alla mobilitazione neoliberista, che le avrebbe azzerate (rottamate). Un’adeguata comprensione dell’oggi sarebbe possibile solo attraverso l’analisi di Deleuze, oltre che dello stesso Toni Negri, i quali ci informano che le società disciplinari (in cui erano appaesati lo Stato, il partito, il sindacato, la fabbrica fordista) sono ormai tramontate, che la forza lavoro è oggi qualificata non più dal tempo di vita speso nella valorizzazione ma nell’intelligenza e nella capacità di relazione, che il dominio è oggi caratterizzato da “modulazioni estensive di controllo su corpi biopolitici”, che il potere è oggi tanto massificante quanto individuante; che insomma si deve abbandonare l’idea moderna che esista un rapporto di mediazione razionale fra soggetto e oggetto, fra teoria e prassi, fra contingenza e finalità, che le istituzioni possano avere efficacia (idea che confesso di coltivare), e anche l’idea (a cui mai ho acceduto) che la politica consista nel perseguire quel “punto sublime” della storia in cui il Due si fa Uno, in cui ogni conflitto si assesta placato, e la rivoluzione dischiude le porte del mondo nuovo. Insomma, si tratta dell’alternativa fra la forma razionalistico-umanistica e il rizoma, fra i dispositivi di mediazione della modernità e la potenza dell’immediatezza che si dischiude nella contemporaneità, fra l’architettura istituzionale e la società liquida o il magma, fra cieco realismo e visione.

Sono le tesi avanzate da Negri, soprattutto da Impero in avanti, e ora riproposte con la presunzione che dai libri di successo derivi una politica di successo, che l’analisi teorica oltranzista individui necessariamente anche le forze e i movimenti dell’antagonismo sociale; che l’immanenza sia al tempo stesso la nuova dimensione non solo del capitalismo e dell’antagonismo moltitudinario ma anche la chiave della trasformazione reale del presente stato di cose (il che è falso, tranne che non si facciano passare per moltitudini, cioè si suppone per il proletariato mondiale, alcune ristrette minoranze dei centri sociali).

Questo euforico immanentismo, opposto da Negri alla tristezza e alla malinconia dell’intellettuale di sinistra che, schifato del mondo, gli vuole impartire lezioni di buone maniere democratiche (ancora assonanze con le tesi renziane sulla sinistra nemica della felicità, e sui professoroni “gufi”), conosce però due contraddizioni: lo Stato dà una parte è la presunta espressione di una trascendenza obsoleta e disfunzionale allo stesso capitale, ma d’altra parte è temuto da Negri come innalzatore di muri e rafforzatore di confini nello spazio europeo; in quest’ultimo, poi, si dovrebbe attuare, secondo lui, una verticalizzazione che dovrebbe dare una qualche coerenza (se non proprio una guida) ai movimenti. Immanenza verticale? Spontaneità guidata? Ritorno dell’auctoritas o della potestas indirecta? Aporie non piccole, in cui si incorre per non accedere alla nozione di forma, di rappresentanza, di costituzione, di sinistra democratica.

Se infine la polemica di Negri è rivolta verso il ruolo passivo delle “masse” che sarebbe implicito nel mio documento, sottolineo che lì si afferma al contrario che l’obiettivo strategico della sinistra dovrebbe essere ripoliticizzare la società, farne emergere le contraddizioni che la percorrono e che non hanno più la forza di esprimersi in modo produttivo e determinato (contraddizioni, peraltro, che non investono solo il proletariato ma la quasi totalità dei cittadini). È infatti questo l’esito dei dispositivi, delle logiche, delle strategie di individualizzazione di cui si serve il potere neoliberista: la privatizzazione mercatista dell’esistenza presentata come un guadagno mentre invece è una perdita, una sconfitta. A questa sconfitta si può tentare di reagire attraverso una strategia centrata sulla riqualificazione politica del ‘pubblico’ oppure con una linea centrata sul ‘comune’, sulla spontanea cooperazione sociale. Due risposte diverse, non c’è dubbio (benché nella concretezza della politica possano in certe circostanze trovare momenti di intersezione): l’una imperniata sulla contrapposizione autonoma al presente stato di cose, per riequilibrarlo, l’altra sulla pretesa immanente di esserne il “rovescio”. Due diverse visioni. Entrambe tuttavia segnate, questo è il punto, dal rischio proprio della politica, cioè dal fatto che questa non può essere dedotta da una teoria nè può essere vista emergere in atto dall’immanenza ma implica anche un salto, una discontinuità. La scommessa per uno Stato non certo miticamente neutro ma capace di politiche di sinistra, cioè per un potere politico che in alcune circostanze ha un relativo margine di autonomia dai poteri sociali, non è più azzardata o più ridicola della scommessa sulla potenza delle moltitudini e dei movimenti: anzi lo è meno. Poiché lo Stato − che mai fu neutro, ma semmai neutralizzatore, cioè portatore nelle sue istituzioni di un potere orientato  ha sì subito, nella sua forma welfaristica, una grave battuta d’arresto, ma nello scenario della globalizzazione capitalistica (così entusiasticamente abbracciata da Negri) la sua esistenza, come potere istituito, ancora pesa: almeno le dinamiche politiche internazionali lo testimoniano, oltre che la differenza fra le diverse politiche pubbliche e i diversi sistemi istituzionali (più o meno funzionali al potere del capitale, ovvero più o meno in grado di porvi un argine).

Inoltre, l’esigenza di uno Stato capace di organiche e strutturali politiche di sinistra è sottolineata da numerosi autorevolissimi economisti non mainstream ed è soprattutto sentita, sulla loro pelle, dai cittadini, e risponde all’umana esigenza di sicurezza esistenziale e di tutela dei diritti nel lavoro che è oggi massimamente conculcata; mentre quei movimenti emergenti nell’immanenza, senza forma e senza guida, meramente espressivi, sono più parte del problema che non della soluzione, o vivono solo nell’immaginario di Negri e dei suoi seguaci (mentre di un’autonomia del proletariato mondiale non vi è traccia, essendo questo, piuttosto, frammentato secondo linee identitarie nazionali, etniche, religiose  il che è tragico, ma vero ).

Per quanto ne so, la reazione o la resistenza all’ordine caotico del neoliberismo si manifestano, nei fatti, prevalentemente nel voto para-fascista o qualunquista, e nell’assenteismo  cioè in forme subalterne alla potenza che le suscita ; e dunque confesso di non riuscire proprio a vedere ciò a cui con tanta sicurezza si affida Negri, ovvero una coerente energia politica tutta esterna rispetto al perimetro delle istituzioni. Tranne che con “esterno” non si intendano appunto i giganteschi poteri economici transnazionali, che peraltro coerenti proprio non sono. Anche all’interno delle istituzioni, del resto, l’energia politica è quasi spenta, o si orienta (con diverse intensità nelle diverse realtà statali) verso politiche securitarie e a volte antidemocratiche, così che una politica di sinistra richiede, comunque sia, un enorme sforzo inventivo  nel senso letterale del termine .

Il mio riproporre la nozione di Costituzione (anche nel senso formale) non è formalismo; il mio constatare la debolezza e la sofferenza di coloro che sopportano il peso dei sistemi del neoliberismo nelle loro diverse varianti, non è una negazione della loro forza politica che esiste, certo, ma è potenziale, e va attivata sia dal basso sia dall’alto, sia dagli stessi protagonisti sociali  che non sono solo i movimenti  sia dai partiti, che vanno rivitalizzati, sia dalle istituzioni, che vanno riformate in senso opposto a quanto ora avviene. Se ciò è non una visione ma un abbaglio, che rende inattuale o patetica la mia proposta (che non vuol essere una semplice riedizione dello Stato sociale e della sua burocrazia, ma che non prescinde dalle finalità di quello), che cosa è mai la negriana “visione”? Un’immanenza virtuale? Una potenza narrata? Un’immaginazione onirica? È probabilmente una visione del mondo che perde il mondo, una troppo consequenziale deduzione dalla teoria di un mondo che è troppo simile al mondo del neoliberismo (cioè troppo “liscio”) e che al tempo stesso ne è troppo difforme, fino a essere un mondo che non c’è, perché quello che c’è è molto più complesso, pieno di ombre, di contraddizioni e di fratture (e anche più infelice  ma la potenza nasce appunto nella coscienza infelice, nella contraddizione in movimento ).

La verità è che la politica  fuori e dentro le istituzioni, immanente e autonoma, concreta e ideale  resta l’unica via per riequilibrare il rapporto fra capitale e lavoro, oggi squilibratissimo a favore del primo (e non per caso la politica è stata aggredita e screditata dal potere mediatico del capitalismo). E la verità è, ancora, che la politica procede dall’egemonia e dalle alleanze, dalla partecipazione e dal consenso, dalla decisione e dal conflitto  il new Deal fu appunto tutto questo , e non dalla necessità. E che richiede anche istituzioni, non mitiche ma orientate a un determinato fine sociale. E che senza un’analisi realistica delle forze, e del loro disporsi e manifestarsi, semplicemente si è sconfitti, come è accaduto alla socialdemocrazia ma anche alle varie esperienze politiche ispirate da Negri (in ogni caso, al contrario, non basta l’analisi per avere successo). Certo, si può sempre ritentare, imparando dagli errori del passato (dalla lezione degli antichi, che possiamo essere noi stessi, qualche decennio fa) e studiando meglio il presente (facendone esperienza). Ma non si può ogni volta pretendere di possedere la verità.

Quindi, per chiarezza: non sono certo io che contrappongo alto e basso, istituzioni e movimenti, mediazione e spontaneità, Stato e potenza: anzi, non credo alla loro meccanica (ideologica) reciproca esclusione ma alla loro cooperazione differenziata (mentre sono più scettico sulla cooperazione sociale e sul ‘comune’, vedendoli semmai come un obiettivo da attingere piuttosto che come una attuale forza politica). Mi limito a tentare di perseguire una politica che, scontando le immani trasformazioni sopravvenute dagli anni Settanta, ricerchi una nuova forma dell’intreccio, sempre inevitabile e insuperabile, fra istituzioni e ‘politico’, tra forma e movimento, fra ordine e conflitto. Una nuova forma che sia qualificabile come di sinistra, possibilmente. Un nuovo New Deal frutto tanto di politica quanto di visione.

Per concludere, Negri vuole segnare le distanze, estremizzando lo iato fra questi orizzonti e queste visioni e progetti, vuole esorcizzare lo spettro di Sinistra Italiana (che peraltro non si identifica, lo ripeto, col mio testo), e ne vuole annunciare il destino di certo fallimento, e magari compiacersene. Lo può ben fare, ovviamente. Come avrebbe potuto, se avesse voluto, interloquire più costruttivamente. In ogni caso, la diversità, la distanza intellettuale e strategica, fra queste opzioni, non è una scoperta di oggi, e fa parte della storia e della debolezza della sinistra.

Eppure, nonostante anatemi e fosche previsioni “rosso-brune” − derivate da un mio accenno alla questione della sovranità nazionale (che non è rivolta contro l’Europa politica federale che non c’è ma contro una Ue segnata profondamente e quasi egemonizzata dall’interesse nazionale tedesco) , sono troppo rispettoso delle posizioni altrui, benché non le condivida, per proporre inutili conciliazioni eclettiche (le alleanze tattiche − che non sono in mio potere − sembrano escluse dallo stesso intervento di Negri). A ciascuno la sua strada, quindi; a ciascuno le sue visioni, a ciascuno le sue concretezze. Ma, per favore, senza irate lezioni professorali. Queste sì fanno sorridere.

 L’articolo è stato pubblicato in ideecontroluce.it il 27 novembre 2015

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