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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Referendum costituzionale. Quali benefici?

 

La riforma del numero dei parlamentari non nasce da ansia riformatrice, ma dal malumore anti-casta degli italiani, raccolto da una forza politica – il M5S -, e da un’altra forza politica,  la Lega, per indurre i grillini a stipulare l’alleanza di governo con cui si è aperta la diciottesima legislatura, e accettato infine dal Pd che dopo aver votato contro tre volte lo ha fatto proprio per indurre  il M5S alla seconda alleanza, ossia per dar vita a un governo e non andare a quelle elezioni anticipate da cui si temeva potesse uscire vincitrice la destra.

Date le logiche politiche che hanno partorito questa riforma e questo referendum, è fin troppo prevedibile che in seguito al probabile esito di questo non inizierà alcuna stagione costituente, al contrario di quanto si sforzano di credere coloro che si sono schierati per il Sì. Forse una nuova legge elettorale verrà messa in cantiere – per salvare la faccia del Pd -, ma passerà molto tempo prima che venga approvata in via definitiva: del resto, l’assenza di una legge elettorale decente è un buon modo per non far finire la legislatura  con troppo anticipo. La riforma dei regolamenti delle due Camere, anch’essa indispensabile,  sarà un percorso ancora più accidentato e faticoso; per non parlare poi delle ulteriori riforme costituzionali che da alcuni sono avanzate a compimento di questa: abolizione dei collegi regionali per l’elezione dei senatori, parificazione dell’età per esercitare l’elettorato alla Camera e al Senato, passaggio al monocameralismo o al contrario differenziazione dei ruoli delle due Camere, revisione al ribasso del numero dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato. Un libro dei sogni, o un elenco di pretesti. In ogni caso, compiti troppo impegnativi, perché apportatori di ulteriori lacerazioni e difficoltà, per il governo Conte due.

Al di là di una boccata d’ossigeno per il governo – ma la partita vera si gioca alle elezioni regionali – quale sarà il beneficio per avere ridotto drasticamente il numero dei parlamentari? Un risparmio irrisorio per l’erario. E, poi, la soddisfazione dell’istinto anti-casta di larga parte della popolazione, nonché un momentaneo successo per il M5S. Ma ben presto i cittadini si accorgeranno che non uno solo dei problemi che affliggono il sistema politico e il sistema sociale è risolto dalla punizione del Parlamento; né sarà invertita la parabola del dissolvimento della capacità politica dei grillini.

Al passivo andrà invece registrata una difficoltà di funzionamento delle Camere, soprattutto del Senato, in relazione all’attività delle Commissioni.  E andrà computato al passivo anche il fatto che in questo Paese ci si dedica pressoché in permanenza alla riforma della Costituzione: in questo caso, poi, con una estemporaneità sconcertante. Senza un’idea, un disegno, un progetto. Quasi per vedere l’effetto che fa. La banalizzazione dell’attività costituente – che invece dovrebbe essere il più alto esercizio politico – è sintomo di un male ancora più grande: la fine del rispetto per la Costituzione è in realtà la fine del rispetto di un popolo per la qualità della propria esistenza politica. Più che il trionfo della potenza del popolo sulle istituzioni, questo referendum – salvo splendide sorprese – rischia di essere la dimostrazione del disinteresse, rassegnato e rancoroso, degli italiani verso la cosa pubblica.

A scanso di equivoci: gravi problemi ci sono. Ma non nascono dalla numerosità del Parlamento, quanto piuttosto da una crisi di lunga data del parlamentarismo. Per non parlare delle difficoltà di principio che ineriscono alla rappresentanza, negli ultimi decenni la funzione legislativa è passata di fatto all’esecutivo, che dimostra di non avere bisogno del parlamento, preferendo bypassarlo (la disintermediazione) e rivolgersi direttamente al popolo. La verticalizzazione della politica ha la meglio sulla discussione; l’immediatezza vince sulla mediazione (o, quanto meno, questa non si forma nelle aule parlamentari); la legittimità consiste nella mera efficacia dell’azione politica, e nella narrazione mediatica che l’accompagna, non nel consenso dell’istituzione in cui si rappresenta la volontà del popolo sovrano – nell’emergenza Covid, poi, queste dinamiche sono intensificate e accelerate -. Ma anche in precedenza l’energia politica non apparteneva tanto alle assemblee quanto ai partiti, che avevano popolato le due Camere di deputati obbedienti – almeno, però, meglio selezionati di quelli attuali -. Certo, la formazione della legge attraverso la libera discussione e il libero convincimento dei parlamentari è più un mito che una realtà storica; ma altrettanto certamente mai come ora il parlamento è stato lontano dal  cuore della politica.

Ora, dato che la presenza di un libero parlamento, efficiente e agguerrito, è ciò che distingue i sudditi dai cittadini, sarebbe stato logico chiedersi come restituire alle Camere autorevolezza e legittimità; come accendervi energia politica – il che potrà avvenire  per vie opposte, ma che si deve provare a fare coesistere, con il rafforzamento dell’identità politica dei partiti, e al contempo con l’innalzamento della qualità personale e dell’indipendenza intellettuale dei parlamentari -; insomma, ci si sarebbe dovuti preoccupare di come irrobustirlo, per irrobustire e rendere più trasparente la politica, per non arrendersi ai poteri opachi, extra-istituzionali, che in modo sempre più pervasivo controllano i corpi e le menti.

Senza questo intento, oggi assente, la riduzione del numero dei parlamentari è un ultimo sberleffo alle Camere, quasi a sancirne l’irrilevanza. E non si dica che la riduzione rafforza l’istituzione: le assemblee sono potenti non in quanto più o meno numerose, ma in quanto sono consapevoli del proprio ruolo e lottano per esercitarlo, e non perché dall’esterno se ne ampli o se ne riduca la consistenza numerica.

Il mantenimento dell’attuale numero dei parlamentari non risolve quasi nessun problema, di per sé – ma sarebbe il segno dell’inversione della deriva populista del Paese -; come non lo risolve la sua diminuzione, che anzi rischia di generare nuove difficoltà. Ciò di cui c’è bisogno, in realtà, è l’attenzione – del ceto politico e dei cittadini – non alla quantità dei deputati e dei senatori ma alla qualità della politica. Ma di questa attenzione, finora, non c’è traccia.

Pubblicato in «La rivista il Mulino» il 31 agosto 2020

Cultura e politica

Intervista con Luca Taddio

Nel suo ultimo libro Democrazia senza popolo (Feltrinelli) ha cercato di osservare con gli occhi dell’intellettuale il mondo della aule parlamentari. Quale bilancio ha tratto della sua esperienza politica?

Ho capito quanto sono differenti i due mondi, quello della cultura e quello della politica, che hanno bisogno l’uno dell’altro ma che operano secondo logiche non sovrapponibili se non in minima parte. Questa comprensione è stata un’opera di disincanto che mi ha arricchito. Ne esco più lucido e consapevole anche scientificamente.

Il linguaggio di un filosofo politico e il linguaggio della politica di tutti i giorni possono arrivare a incontrarsi per aprire un dialogo? Oppure sono due mondi ormai agli antipodi?

I linguaggi divergono e anche le finalità degli attori. L’intellettuale vuole arrivare alla radicalità e alla nettezza dei concetti e dei loro movimenti, mentre il politico smussa gli angoli e le asperità perché il linguaggio gli serve per operare, per cercare consenso, non per capire. È però vero che in passato, e in pochissimi casi anche oggi, era chiaro che senza una potente e radicata azione di pensiero, senza egemonia culturale, la politica è cieca, è pura tattica di auto-conservazione, sempre più precaria, dei ceti politici.

Pensa che anche gli intellettuali abbiano qualcosa da rimproverarsi?

Gli intellettuali hanno esibito impegno politico, e qualche analisi intelligente, fino agli anni Settanta. La grande trasformazione neoliberista li ha colti di sorpresa e non l’hanno capita, quando non l’hanno assecondata più o meno consapevolmente. Hanno da rimproverarsi di avere accettato che l’attività di elaborazione culturale venisse ridotta a entertainment oppure a consulenza tecnica, di avere rinunciato al pensiero critico e responsabile rifugiandosi semmai, in certi casi, in compiaciuti sofismi, e di non avere contrastato l’ingresso del neoliberismo nell’Università, che ha comportato la trasformazione di questa in azienda. Insomma, hanno la responsabilità della loro irrilevanza.

I cittadini non si riconoscono più in ciò che avviene all’interno delle stanze della politica. Il risultato di questo fenomeno è una crisi della democrazia rappresentativa; la politica continua a prendere decisioni nonostante la mancanza di appoggio, o il disinteresse, dell’elettorato. Come vive questa “coda di lucertola” un parlamentare? La diretta conseguenza di tale condizione è il populismo?

Il Parlamento, la Camera per quanto mi riguarda, è in realtà solo l’anticamera della politica – e ciò contravviene all’essenza del regime parlamentare -. I ristretti circoli che prendono le vere decisioni politiche sono esterni alla politica istituzionale, perfino al governo, il quale in ogni caso ha una netta supremazia sul legislativo. Sono circoli economici e finanziari atlantici ed europei; sono i grandi tecnici delle burocrazie internazionali; sono i potenti think tank anglosassoni che dettano le agende del discorso pubblico globale. Da questi circoli vengono gli input ai governi, che fanno il poco che possono per contemperare le esigenze dei cittadini e quelle dei mega-poteri mondiali. I parlamentari eseguono, o protestano vanamente (e quando le opposizioni diventano maggioranza si adeguano anch’esse). L’opera di armonizzazione e di precario equilibrio tentata dalle élites politiche non può riuscire, e questo fallimento lascia un enorme scontento presso strati sempre più larghi delle popolazioni. A questo scontento si dà il nome di “populismo ” e di “anti-politica”, benché si tratti di spinte politiche reali che potrebbero aiutare la democrazia.

A suo parere, in che modo è possibile stimolare il coinvolgimento politico dei cittadini?

Il coinvolgimento in parte c’è già, in tutti i movimenti di protesta e di resistenza che nascono nella società in risposta al peggioramento della qualità della vita indotta dal neoliberismo. Il fatto è che sono spontanei e scomposti, spesso fuori bersaglio. E che sono nel complesso minoritari, perché il grosso dello scontento, dell’anomia, si rifugia nella disperazione, nella passività, nell’individualismo subalterno. E, soprattutto, dalle istituzioni in crisi, dai partiti inesistenti, non viene alcuna mano tesa, alcun principio di elaborazione e di forma politica. Così c’è il rischio che la residua energia politica circolante nella società vada semplicemente sprecata. È evidente che la sfida del presente è re-inventare pensiero e azione perché si realizzi il nuovo incontro fra istituzioni, partiti e popolo.

Il tema della quarta edizione del Festival Mimesis è “Navigazioni”. Come si inserisce l’ascesa dei nazionalismi in una società globale e cosmopolita come quella odierna?

Navigare necesse est. Ma una cosa è l’avventura, altra la predazione, altra ancora l’essere preda del «capitalismo estrattivo». La società è sì globale, ma non certo tutta cosmopolita. La maggior parte delle persone nel mondo, anzi, cerca stabilità, appartenenza e radicamento, se non altro come riflesso difensivo davanti alle potenze della mobilitazione globale. I localismi e i particolarismi a base etnica sono l’ovvia risposta al globalismo e alla sua potenza produttrice di crisi. Ma, ironicamente, sono anche un effetto previsto e voluto dai poteri economici mondiali, che preferiscono muoversi in uno scenario di staterelli balcanizzati piuttosto che dover affrontare robuste realtà statuali.

 

L’intervista è stata realizzata in occasione del Festival Mimesis (Udine, 23-28 ottobre 2017)

Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi

«Tutto ciò che è stabilito evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».

Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.

La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria Indipendente», l’8 marzo 2017.

L’Italia non è «antipolitica» ma «diversamente politica»

Non sono bastati a Renzi gli endorsement delle élites di mezzo mondo, di tutte le caste e di tutti i poteri – da Napolitano a Prodi, da Obama a Juncker, da Schäuble al «Financial Times» –; non gli sono state sufficienti l’occupazione sistematica e scientifica di ogni spazio comunicativo pubblico e privato, giornalistico e televisivo, la mobilitazione di tutti i corpi dello Stato, dalle Poste alle ambasciate, la consulenza degli spin doctors d’oltreoceano, la propaganda dei vip di regime (comici, cuochi, attori, cantanti, giornalisti, presentatori); non gli è bastato ricorrere al populismo più sfacciato – che va sempre a sbattere contro qualcuno più populista –, né deridere gli intellettuali e i professori, che hanno passato la vita a studiare, a insegnare e a riflettere anziché a fare carriera politica; Renzi, e con lui il Pd, hanno perso. In modo netto e inequivocabile – anche se i renziani di ferro parlano di grande risultato, dato che il Pd ha ottenuto 13,5 milioni di voti –.

Il disegno di blindare in modo formale e definitivo – con le due leggi, costituzionale ed elettorale, fra loro combinate – lo shift, già avvenuto di fatto, verso un regime del primo ministro senza contrappesi, è stato respinto dagli italiani (tranne gli emiliani, i toscani e gli altoatesini); i quali non hanno creduto che i loro problemi, gravissimi e reali, fossero causati dal bicameralismo perfetto e dai ritardi (inesistenti) che questo comporta nella legislazione, e anzi si sono insospettiti per l’enorme energia spesa dal leader, dal suo partito e dai suoi alleati, a riformare questo aspetto della costituzione (insieme al titolo V) anziché, ad esempio, l’articolo 81, ben più rovinoso economicamente e socialmente. In quell’impegno forsennato hanno visto una trappola, in cui si mescolavano il depistaggio cognitivo, il diversivo politico, il goffo tentativo bonapartistico in sedicesimo (nella piena legalità formale, peraltro).

Benché bombardati da propaganda e contropropaganda di bassissimo livello, da pseudoargomentazioni sloganistiche, da minacce per nulla velate, da promesse deliranti, gli italiani con la loro mobilitazione massiccia e con il loro voto schiacciante hanno dimostrato di aver capito che la posta in gioco era serissima: conservare almeno, come ultimo baluardo – non solo ideale, ma anche organizzativo – di fronte al disastro sociale e politico in cui gli ultimi decenni ci hanno precipitato, la Costituzione repubblicana non ancora del tutto sfigurata nel suo limpido dettato e nel suo orientamento democratico e parlamentare; quella Costituzione che ci ha accompagnato nella crescita civile degli ultimi settant’anni, e che non è per nulla responsabile dell’attuale crisi del Paese.

Gli italiani che hanno detto No si sono rifiutati di avallare con il loro voto la democrazia dell’esecutivo, la post-democrazia, l’uomo solo al comando, il plebiscitarismo; vi hanno visto non la soluzione dei mali del Paese ma l’ultimo beffardo sigillo sullo scempio di democrazia che è perpetrato attraverso la distruzione sistematica del ceto medio e del ceto operaio, le leggi sul lavoro e sulle pensioni, la disoccupazione e l’emigrazione coatta. Un pezzo del problema, quindi, e non certo della soluzione.

Oggi non esiste praticamente un governo occidentale che si possa presentare tranquillamente agli elettori, che tendenzialmente (e giustamente) bocciano gli esecutivi in carica. Ed è vero che i 19,5 milioni di voti del No hanno un senso politico soltanto oppositivo, com’è ovvio che sia: e segnalano semmai un’Italia, soprattutto al Sud e fra i giovani (il primo forse non entusiasta di sentirsi dire che ha bisogno di una nuova narrazione, i secondi stanchi di ostentato giovanilismo), che rifiuta la politica così com’essa è praticata e chiede ben altro che le parole vuote della propaganda: un’Italia non necessariamente «antipolitica» ma semmai «diversamente politica». Detto altrimenti, quei voti non sono di nessuno, poiché contengono al loro interno opzioni troppo differenti l’una dall’altra. Almeno, tuttavia, disegnano un terreno etico-politico comune: la difesa della democrazia e della costituzione da ogni avventura, da ogni azzardo e da ogni forzatura e da ogni ulteriore tentativo di governare monocraticamente attraverso la divisione del Paese, la sconfitta dell’arroganza del potere e della presunzione di invincibilità, l’apertura di uno spazio di azione per rifare l’Italia.

L’evoluzione del quadro politico appare complessa: il Pd, col suo Sì, ha fatto breccia fra gli elettori di centro e del centrodestra e ha contemporaneamente perduto quasi altrettanto a sinistra; si tratta di vedere se questo assetto è transitorio, cioè relativo solo al quesito referendario, o se è destinato a diventare permanente. In ogni caso, il partito esce molto indebolito da questa prova, ma al tempo stesso deve continuare a essere il garante della tenuta del governo e delle istituzioni, anche se Renzi pare propenso, come al solito, all’ultima sfida, solo contro il resto del mondo: cioè alle elezioni anticipate a brevissimo termine. Ma non è detto che l’abbia vinta dentro il suo partito: ci saranno resistenze franceschiniane ed è inoltre da presumere che la sinistra interna ponga a breve la questione della segreteria; e qui si vedrà se Renzi è una meteora individuale o se esprime una quota significativa del Pd, che è ora posto davanti alla necessità di ripensare la propria natura e la propria parabola – per accettarle e andare avanti sulla linea Renzi, o per rifiutarle –.

D’altra parte, i partiti antisistema – Lega, Fratelli d’Italia e M5S – fiutano il sangue e chiedono a gran voce elezioni anticipate, ma, a parte Grillo che vuole votare subito con l’Italicum un po’ modificato, non necessariamente credono davvero a ciò che dicono: fintanto che il M5S non accederà all’ipotesi di alleanze politiche di governo, in Italia non ci sarà stabilità politica se non nella formula della solidarietà nazionale fra Pd e centrodestra (o una sua parte), e Berlusconi dovrebbe essere non favorevole a lasciare a Salvini la gestione del centrodestra in chiave antisistema; e quindi ha bisogno di tempo, come anche Alfano (le cui ansie di elezioni anticipate paiono più che altro apotropaiche), mentre il leader della Lega cerca in realtà la forzatura prima ancora sulle primarie del centrodestra che non sulle elezioni politiche. La sinistra, infine, deve decidersi – se mai vi riuscirà – fra le due ipotesi che la interpellano: puntare su un nuovo centro-sinistra, cioè collaborare col Pd (eventualmente) de-renzizzato, o proporsi come coerente forza anti-sistema e competere su questo terreno col M5S.

Buona parte delle soluzioni dipenderanno anche dalla legge elettorale che si riuscirà a fare; ma sembra chiaro che molte forze politiche (non tutte) hanno bisogno di tempo. E forse ne ha bisogno l’Italia, che dopo le dimissioni in Tv di Renzi (non certo un modello di correttezza formale) deve dotarsi di un governo non purchessia ma anzi molto solido e determinato (la maggioranza di governo c’è ancora) capace di non sprecare i tre anni e mezzo di legislatura già trascorsi e – dismettendo ogni velleità di riforma della Costituzione e senza aggravare la crisi politica con una nuova campagna elettorale dopo quella, devastante, referendaria – di disinnescare l’attuale sciagurata legge elettorale (l’Italicum, la «legge perfetta» di Renzi), e di affrontare la durezza delle condizioni che l’Europa si prepara di nuovo ad avanzare dopo la breve tregua elettorale concessa al premier, e ora a Padoan. Un governo che prepari l’Italia – dandole il tempo di respirare – a prendere, alla scadenza della legislatura, le necessarie grandi decisioni sul proprio futuro.

 

L’avventurismo del senso comune

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Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.

Un’antipolitica solo parzialmente spontanea – generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato –, e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione). E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino – programmato – del ceto medio).

Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993-94 e del 2013-14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza. Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il ‘Principe nuovo’ – anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al ‘romanticismo politico’, a un decisionismo fatto di annunci – quanto piuttosto per il peso inusuale (‘rinascimentale’) che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.

D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce: veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione; veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta); veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato); veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica; veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la Camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione; veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica; veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta; veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.

L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente – che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) – e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i ‘gufi’, i ‘professoroni’); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo ‘populismo mite’ che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità). Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.

È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede. La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.

L’articolo è stato pubblicato in «il manifesto» il 20 ottobre 2015

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