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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Chiesa

Le repubbliche monarchiche

 

«Non è certo un bene se si è molti al comando; uno sia il capo, uno soltanto il re, a cui dette il figlio di Crono scettro e leggi, perché regni sugli altri». Così, con le parole di Odisseo in assemblea, l’Iliade legittima la figura di Agamennone, re dell’Argolide e per l’occasione re dei re, comandante in capo dei Greci davanti a Troia. La figura del re appare già collegata da una parte a una identità collettiva, e dall’altra alla divinità; inoltre, emerge qui un’altra caratteristica dei re: il loro compito è di esercitare la giustizia, garantire le leggi. Ma, benché sia pastore di popoli, Agamennone non gode di un pieno potere politico. Anche questa è una caratteristica della regalità, la cui essenza sta nella funzione «pontificale» di unione fra l’umano e il divino. Una funzione che ha una connotazione religiosa prima che direttamente politica.

Le principali culture – quelle storiche e quelle «primitive», di Europa, Asia, Africa, America  – presentano, in modi diversi, questa costante: il re apre  un gruppo umano alla trascendenza, lo sottrae alla contingenza, ai pericoli, alla rovina; funziona (lo ha spiegato René Guénon) come un asse, un albero della vita che unisce cielo e terra, attorno al quale ruota una civiltà. Il re è interno ed esterno alla città, alla tribù, all’Impero: li incorpora in sé e li porta fuori di sé, li apre a leggi cosmiche, e così garantisce che le cose terrene procedano allo stesso ritmo delle cose celesti; grazie al re la giustizia è assicurata, i mostri del caos sono respinti sotto terra, i campi sono fecondi. Come ha scoperto Georges Dumézil, vi è una corrispondenza fra ordine celeste tripartito (gli dèi regnanti, gli dèi guerrieri, gli dèi della fecondità) e tripartizione mondana fra re-sacerdoti, custodi, produttori: il posto del re è il vertice, sporgente verso il cielo, di una società gerarchica, organizzata secondo ritmi naturali e divini di cui egli è il custode.

Il re – come negli scacchi – non è il pezzo più potente della politica, ma è il più importante: se è salvo, tutto è salvo; se va perduto, tutto è perduto. Quella che esercita è una funzione esistenziale e simbolica, in cui ha come concorrenti i sacerdoti, prima ancora che i poteri aristocratici. Una delle più grandi rivoluzioni che l’Occidente ha conosciuto è stata determinata dal cristianesimo, che ha chiarito che il re non è Dio, come pure era stato possibile credere (il caso del faraone egizio è ovvio; ma anche gli imperatori romani avevano percorso un lungo cammino su questa via; del resto, fino al 1945 l’imperatore del Giappone era considerato il diretto discendente della dea Amaterasu), e che non è neppure l’unico anello di congiunzione fra il cielo e la terra: questo ruolo, dopo essere stato di Cristo, è della sua Chiesa – e il dualismo fra re e Chiesa è stato una delle radici dell’Occidente –. Ciò non toglie che la Chiesa abbia anche legittimato il potere politico come proveniente da Dio: il re è tale per investitura divina,  che deve però essere riconosciuta dalla Chiesa. Per tutto il Medioevo, a partire da Carlo Magno, e fino alla prima età moderna, l’incoronazione del re era un sacramento, non a caso ripreso da un re ultrareazionario come Carlo X, che nel 1824 volle farsi incoronare a Reims secondo l’antico cerimoniale, per mettere in chiaro l’origine divina e non popolare della regalità. Al tempo stesso – ce lo ha insegnato Marc Bloch – i re erano taumaturghi: «Il re ti tocca, Dio ti guarisce» era la formula con cui esercitavano il loro potere di sanare i sudditi; mentre i giuristi  di epoca Tudor avevano teorizzato, lo ha mostrato Ernst Kantorowicz, che il corpo del monarca coincide col corpo stesso del Paese. E molto dopo Velázquez , nel suo quadro più famoso, Las meninas,  ci mostrerà che il re, anche se assente dalla scena, è l’indispensabile punto di vista che rende visibile il mondo. Il re forma il popolo e lo Stato, ma al tempo stesso è ad essi estraneo, superiore. Chi attenta al re deve essere non solo messo a morte ma squartato (come Damiens nel 1757), perché il venir meno del re fa venir meno l’esistenza stessa del corpo politico.

Certamente, nel corso della storia attorno al re si è coagulato anche un vero potere politico, culminato nell’assolutismo, cioè nella costruzione di un’idea di sovranità come potere supremo, che si pone come potere egemonico rispetto a tutti i poteri sociali (senza però distruggerli): gli aristocratici, i ceti borghesi, la stessa Chiesa. È questo il «potere divino dei re per grazia di Dio». Ma è evidente che in piena età moderna il disincanto del mondo, la nuova scienza, il nascente capitalismo, non consentivano al re di presentarsi come veramente divino. Quella formula voleva dire dire, lo ha sottolineato Otto Brunner, che il re era l’essenza politica dello Stato («lo Stato sono io», affermò Luigi XIV), che era il centro di un potere non derivato ma originario, e che ne rispondeva solo a  Dio; per questa via il re si è avviato a essere, con Federico II di Prussia, «il primo servitore dello Stato». A quel punto bastava un ultimo sforzo, per dirla con Sade, a rovesciare il punto di vista e collocare al posto del re il suo nuovo avversario: non più la Chiesa ma il popolo, la nazione, il fondamento nuovo di un potere che ha la propria rappresentanza politica nel Parlamento. Quell’ultimo sforzo era la rivoluzione, che non poteva non passare, in Francia (ma anche precedentemente in Inghilterra), attraverso il regicidio; e benché un grande controrivoluzionario come Maistre lo equiparasse al deicidio, è invece vero che  le repubbliche borghesi nacquero contro un re che ormai nella realtà aveva ben poco della regalità tradizionale.

Eppure, la regalità non è andata del tutto perduta; gli Stati nazionali non repubblicani hanno istituito diversi compromessi fra re e popolo, sulla base del principio che il re regna ma non governa, dato che il governo dipende dal Parlamento. Così, lo Statuto albertino parlava di un re «per grazia di Dio e volontà della nazione», la cui persona era «sacra e inviolabile»; il Reich bismarckiano vedeva nel re un potere reale, il «principio monarchico», che fronteggia con il  Parlamento, il luogo del potere del popolo; in Inghilterra il re ancora oggi può parlare del «mio governo» nel suo «discorso della Corona». Ma al di là del concreto potere politico che i re possono avere conservato nella storia contemporanea, resta vero  che il re è titolare, lo ha detto Benjamin Constant, di un «potere neutro», non direttamente politico, e continua a esercitare una rappresentanza simbolica della nazione, a essere fattore di equilibrio e di continuità; collega il presente, con le sue lotte e le sue divisioni, non al cielo ma a un passato che si esprime nella dinastia, alla tradizione in cui si riconosce la nazione intera, alla storia patria. Non più un ponte fra l’aldiquà e l’aldilà, quindi, ma fra la prosa quotidiana e i valori, supposti perenni, che orientano un destino collettivo. Certo, è subentrata una grande trasformazione: i re non incorporano più lo Stato, e semmai sono incorporati in esso: sono una delle sue istituzioni. Non sono in opposizione al popolo, alla democrazia, ma la integrano. Non sono più garanti di una giustizia che trae origine dalla trascendenza ma possono trascendere la giustizia con l’esercizio di una prerogativa che è loro rimasta: la concessione della grazia.

La funzione simbolica della regalità permane anche nelle repubbliche, ancora una volta in forme diversificate. La Francia –  il Paese che ha processato e sacrificato il re («non si regna impunemente», disse Saint-Just alla Convenzione accusando Luigi XVI, e cogliendo nella regalità solo la estraneità al popolo) – non si è data forse un Napoleone e un Luigi Filippo? Non ha avuto bisogno di divinizzare se stessa, nel culto della nazione repubblicana? Non ha forse costruito, con la Quinta repubblica di de Gaulle e con la sua successiva evoluzione, una sorta di monarchia elettiva, in cui il presidente ha sia potere reale (in politica estera, soprattutto) sia una intensa capacità di esercitare la rappresentanza simbolica del Paese? E gli Usa non hanno fatto del presidente qualcosa di simile a un re, che regna e governa al tempo stesso?

Anche la nostra Costituzione fa del presidente della Repubblica un organo dello Stato, e gli assegna una posizione politicamente neutra ma non puramente notarile – la custodia della Costituzione attraverso il richiamo ai suoi valori, al suo spirito e alla sua lettera, cioè a una sorta di tradizione democratica –. Inoltre, se la sua persona non è sacra e inviolabile, tuttavia entro certi limiti è sottratto alla legge penale (almeno secondo una parte della dottrina); se è irresponsabile, esercita tuttavia la moral suasion e nomina i senatori a vita; se ogni suo atto necessita della controfirma di un ministro, tuttavia rappresenta simbolicamente il Paese, all’interno e all’esterno.

Forse non rispondono del tutto a queste caratteristiche le superlaicizzate monarchie nordiche, o i deboli presidenti di repubbliche come la Germania e l’Austria; ma certamente le monarchie non sono soltanto occasioni di gossip, e coprono anzi un’esigenza della politica, presente anche nelle repubbliche. Che non è precisamente quella di individuare un leader forte o carismatico (questa è un’altra storia, che ha a che fare con l’evoluzione del potere politico e con la crisi dei Parlamenti), ma quella di mantenere aperto l’orizzonte della politica. Che è una dimensione multipla, complessa: ne fanno parte l’economia e la cultura, il potere istituito e le fedi religiose; e anche il bisogno di coltivare fonti di senso e di identità simbolica che vanno oltre l’esistenza quotidiana. Un bisogno che ha cercato soddisfazione nella regalità, e in ciò che oggi ne fa le veci.

Pubblicato in «Corriere della Sera – La Lettura», 3 novembre 2019

 

 

 

 

Intervista a Carlo Galli: nuova edizione spagnola del classico «Genealogia della politica»

Intervista con Gerardo Muñoz

 

 

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Professor Galli, the Spanish edition Genealogía de la política (Buenos Aires, unipe, 2018), a classic of contemporary political thought, has just been released in Argentina after twenty years. We should not forget that Argentina has always been a fruitful territory for the reception of Carl Schmitt’s work. Perhaps my first question is commonplace but necessary: how do you expect readers in Spanish to read your classic study?

Come ci ha dimostrato il compianto Jorge Dotti, la recezione di Schmitt in Argentina è stata imponente e pervasiva, e si è intrecciata con la riflessione filosofica, giuridica e politica sullo Stato e sul suo destino. Ho fiducia che il mio libro, grazie alla traduzione spagnola, possa interessare gli specialisti di Carl Schmitt – giovani e maturi – che sono numerosi e agguerriti, non solo in Argentina ma anche in Europa: dopo tutto, la Spagna stessa ha un lungo e fecondo rapporto intellettuale con Schmitt, che, come ci ha mostrato da ultimo Miguel Saralegui, può anche esser definito «pensatore spagnolo».

This edition comes out in a timely moment, that is, in the wake of the centenary of the Weimar Republic (1919-2019); a moment that Weber already in 1919 referred as a point of entry into a ‘polar night‘. Does Schmitt’s confrontation in the Weimar ‘moment’ still speak to our present?

Schmitt è stato il più grande interprete della Costituzione di Weimar, in un’epoca in cui non mancavano certo i grandissimi costituzionalisti. La sua Dottrina della costituzione è una diagnosi geniale della situazione storica concreta in cui i concetti politici della modernità si trovano a operare. Ed è stato anche il più acuto interprete (nel Custode della Costituzione e in Legalità e legittimità) della rovina di Weimar, causata da uno sfasamento gigantesco fra spirito e strumenti del compromesso democratico weimariano, da una parte, e, dall’altra, la polarizzazione radicalissima in cui la crisi economica aveva gettato il popolo e il sistema politico tedesco. Una democrazia senza baricentro politico funzionante, senza capacità di analizzare le proprie dinamiche e di reagire attivamente, è alla mercé di ogni crisi e di ogni minaccia. Questo è stato vero a Weimar fra il 1930 e il 1932 ed è vero in Europa anche oggi, al di là dello specifico modo autoritario che Schmitt aveva prefigurato (la dittatura commissaria del presidente del Reich ex art. 48). Certamente, oggi  le capacità dei sistemi democratici di gestire le crisi sono molto migliorate da allora; il neoliberismo ha molti mezzi per difendersi.  Ma anche oggi un sistema politico debole o incapace di analizzare le vere cause dei problemi (in Europa, il nesso  fra l’incepparsi del neoliberismo e  il dominio ordoliberista dell’euro) non può far fronte a crisi economiche e sociali radicali.

Weimar signaled the weakness of parliamentary democracy of a ‘belated nation’, and the rise of presidentialism. Schmitt never ceased reflecting on executive power in the fabric of democracies. As new presidential authoritarianism is developing in the West, is Schmitt’s political reflection proved right (presidentialism as a counter-force to Market domination)?

Siamo di fronte, oggi, a due debolezze: quella del parlamentarismo, che è vecchia di cento anni, e quella del mercato, che è vecchia di dieci anni (in riferimento all’Europa, quanto meno). La soluzione del presidenzialismo autoritario, del rafforzamento degli esecutivi per vie decisionistiche e personalistiche, sta avanzando: ma ho l’impressione che sia una risposta solo superficiale alla crisi dell’impianto neoliberista delle nostre società: che cambi molto a livello politico (e non sempre nella direzione giusta) perché non cambi nulla a livello dei rapporti di potere nella società, nei rapporti di produzione e nelle tutele giuridiche del lavoro. Insomma, ho l’impressione che la spinta a destra “anti-sistema” sia l’ultima risorsa del “sistema”. Da Schmitt abbiamo imparato che la politica non esige solo ordine ma anche energia, ovvero che non c’è ordine senza energia; e io credo che l’energia per affermare un nuovo ordine non possa essere monopolizzata da un capo autoritario che si colloca in un rapporto mediatico-plebiscitario con le masse: la proiezione verticale dell’energia, della lotta, deve partire dal basso, e giungere in alto, al vertice politico, attraverso i partiti, o in ogni caso attraverso soggetti collettivi forti, situati e determinati, non “vuoti”. Senza soggetti politici collettivi non c’è democrazia. Nel ricostruire soggetti di massa c’è l’inizio della soluzione del problema – certo, anche le istituzioni vanno rinnovate –, ma anche la sfida più grande.

Schmitt as a great thinker of sovereignty would have been interested in our present political transformation. Are we in a ‘Polanyi moment’, as you have characterized it recently?

Come sostengo nel mio ultimo libro – Sovranità (Bologna, il Mulino, 2019) – e come è ormai opinione diffusa, noi siamo oggi in un «momento Polanyi». Abbiamo conosciuto l’invadenza del mercato, e il fallimento delle sue pretese di autoregolazione che in realtà hanno prodotto distruzione della ricchezza pubblica e disuguaglianze abissali di quelle private, così che il legame sociale è saltato, compromettendo la stessa democrazia e gettando gli individui nell’insicurezza economica ed esistenziale (il soggetto attivo e ricco d’energia presupposto e promesso del neoliberismo si è rivelato pura ideologia). E abbiamo conosciuto la risposta difensiva della società, che sta chiedendo – anche se confusamente, perché è ancora impregnata di ideologia neoliberista e individualistica – più sicurezza, più Stato, più regolazione politica per arginare il potere immenso delle forze economiche private e corporate, che non ha più una dimensione socialmente costruttiva e ordinativa. Il dramma è che oggi, come negli anni Trenta, questa richiesta di sicurezza, di freno al capitale senza freni e senza limiti, è intercettata dalla destra, mentre la sinistra – che esprime di fatto le minoranze che nell’attuale sistema vivono bene –  la nega, la irride, la giudica “fascista”. E la destra dà, come si è detto, risposte solo parziali, inadeguate. Propone sì una politica “forte”, ma contro i deboli e contro i diritti democratici; non certo contro le potenze economiche. Propone sì “ordine” – che è un concetto positivo – ma un ordine esteriore, superficiale, che lascia intatto, o che tocca solo marginalmente, il disordine e l’ingiustizia sociale.

The interpretations of Schmitt’s juridical thought have flourished tremendously in recent years. There is Schmitt the Catholic, Schmitt the concrete Crown-Jurist during National Socialism, Schmitt the ‘Leftist Antagonist’, as well as a reactionary counter-revolutionary Schmitt. Your strong reading, however, favors a thesis of a Schmitt that thinks the ‘origin‘(arche) of the political. Is this reading capable of giving us, in turn, the ‘most original’ of Carl Schmitt’s thought?

L’attuale enorme fortuna mondiale di Schmitt ha almeno due rami, quello angloamericano e quello “latino”, che rispondono a due modi differenti di vedere lo stesso problema: la crisi del liberalismo e della  liberaldemocrazia, che pure sembravano trionfanti sulle alternative di destra e  di sinistra. In diversi contesti politici e istituzionali, in diverse tradizioni politiche, e quindi con accenti diversi e con impegni disciplinari diversi, si cerca in Schmitt un’alternativa alle tradizioni politiche occidentali del XIX e del XX secolo. Ma questa alternativa non è tanto ideologica (Schmitt è, da questo punto di vista, un pensatore apertamente reazionario) quanto metodologica: la grandezza di Schmitt sta nella genealogia, cioè nella sua idea che per capire la politica si deve comprendere l’origine concreta di un concreto assetto di potere e di sapere. E si deve capire che questa origine non è un fondamento stabile, ma un’energia, uno squilibrio, un conflitto, che stanno dentro ogni ordine, che lo relativizzano ma anche lo tengono vivo; la concretezza, in Schmitt, viaggia sempre insieme al nichilismo. La scoperta teorica della «origine della politica» ha poi come contropartita una pratica che può essere tanto rivoluzionaria (attivare nel conflitto una nuova origine: le rivoluzioni, il potere costituente) ma anche la «politica dell’origine», cioè la difesa extra-legale, decisionistica, di un assetto politico esistente, attraverso il richiamo alla sua legittimità originaria come fattore stabilizzante contro i nemici interni (una stabilizzazione attraverso l’esclusione, quindi). Potere costituente rivoluzionario e «sistema dei presidi» sono entrambi presenti, necessariamente, in Schmitt. Questo giurista opera la più radicale de-costruzione storica e genealogica dello Stato: infatti è presente in lui oltre che la difesa autoritaria dello Stato anche il tentativo (in epoca nazista) di andare oltre lo Stato, di cui ha dimostrato la storicità e la relatività. Ed è anche il più duro difensore dello Stato: come tale, tra l’altro, è oggi grandemente apprezzato in Cina, il “terzo ramo” della sua fortuna, che sia pure a rimorchio della letteratura scientifica americana, lo utilizza per legittimare gli aspetti autoritari del sistema politico comunista.

Following up on the previous question on the ‘appropriations of Schmitt’ for ideological projects. What is your opinion of Left-Schmittianism? Is that a project too limited? I am thinking here of left Schmittianism in certain populist political theories…

Ci si può appropriare di Schmitt a scopi ideologici: egli stesso ha legato il proprio pensiero a ideologie (una di esse, nefasta). Ma la sua importanza sta nella genealogia. Sotto il profilo pratico, è importante la sottolineatura della necessità che la politica sia energia prima che istituzione, conflitto prima (e durante) l’ordine. Ciò può essere accettato anche da sinistra. Ma ci si deve intendere sul radicamento e sulla serietà di questo conflitto, e sulla intensità di questa energia. Non sono favorevole al “populismo” se questo è un insieme di significanti vuoti, se è una “protesta”, se il popolo non si determina (e si divide) concretamente in classe (lavoratrice, subalterna, oppressa); e non sono favorevole alla “democrazia agonistica” se con questo termine si indica una pratica di disobbedienza civile o di scomposti riots. Non le moltitudini ma la sovranità è ciò che è pensato da Schmitt, che è un pensatore radicale e strutturale: addomesticarlo o utilizzarlo metaforicamente è inutile. La sua forza è che mette di fronte alla politica intesa come aut aut; e ci dice che prima o poi l’ aut aut si presenta; e ci sfida a individuarlo qui e ora. Non è un pensatore della norma, della quotidianità, né del processo dialettico. Non è un benpensante né può essere arruolato nell’opposizione mondialista al capitale mondialista.

In Genealogía de la política there is a strong reading that favors ‘spatiality’. The notion of space was also important for Schmitt, which he linked to the Roman Catholic Church (Rome as raum). How important that we pay attention what Schmitt has to say about space for our epochal transformation?

Schmitt è il grande nemico dell’universalismo: tecnico, morale, giuridico, economico. Per lui, l’universalismo è una interessata negazione della politica; è potestas indirecta. Lo spazio liscio (il mare) non ha qualità politica: l’ordine politico esige il nomos, il porre confini in terra, il prendere per delimitare. L’ordine è monistico-dualistico all’interno, e pluralistico all’esterno. L’ordine esige confini e sovranità, e cioè il nemico reale, concreto; non il nemico-criminale, il pirata, il nemico dell’umanità. Il rapporto di Schmitt con la Chiesa cattolica, poi, è complesso: da una parte c’è il rifiuto dell’universalismo inteso come potestas indirecta; dall’altra c’è l’esaltazione per l’ordine che essa realizza con la complexio oppositorum, che però è da lui attribuita esclusivamente alla Chiesa mentre lo Stato ne è costitutivamente incapace (e infatti si fonda sulla decisione-esclusione-delimitazione); dall’altra ancora c’è l’apprezzamento per il radicamento dell’universale cattolico nella concretezza dei «luoghi» (a differenza del protestantesimo). Ma a quest’ultimo proposito Schmitt dà più peso a «Roma» che al cattolicesimo, esibendosi in una funambolica identificazione fra Roma e Raum, che ha solo valore metaforico. Ma certamente in generale per Schmitt la politica si dà nello spazio, sia come forma sia come conflitto: nello spazio dello Stato o dell’Impero (ovvero del Grande Spazio).

The crisis of technico-economical domination during the twentieth century was countered by Schmitt’s thought with a strong and contradictory (complexio oppositorum) notion of political. The political was to be understood as a restraining force (Katechon). However, is not the political also today ruined, lacking legitimacy, always already fallen to techne? Are we in a post-Katechon epoch?

Io non identificherei il «politico» con la complexio oppositorum: la complexio è una modalità di ordine politico che non ha bisogno del «politico» (inteso come rapporto amico-nemico) perché si fonda sull’auctoritas in senso forte, che però nella modernità non è a disposizione dello Stato. Il «politico» è al tempo stesso concretezza e conflitto reale; è il modo immediato dell’esistenza politica moderna e non è di per sé un katechon, perché il katechon è una forma (e una forza) che  trattiene appunto il conflitto. Ma certamente il «politico» è un conflitto che che provoca la decisione, che tende alla forma, pur senza mai poterla compiutamente raggiungere;  è una concreta e cosciente parzialità. E quindi è katechon di fronte al conflitto assoluto, insensato, meccanico, moralizzato, che si genera nel mondo universalistico della tecnica; a questo conflitto Schmitt oppone il partigiano, portatore di un conflitto concreto. Il conflitto (indeterminato) si frena col conflitto (determinato), insomma. In ciò Schmitt è analogo a Clausewitz, che analizza la guerra reale, non quella assoluta. In ogni caso, oggi siamo certamente in un’epoca che per certi versi è post-katechontica, in cui cioè il conflitto è slegato dal suolo e dai confini (si pensi al terrorismo). E tuttavia è anche vero che oggi si va configurando nel pianeta un nuovo ordine spaziale, fatto dall’equilibrio precario fra Grandi spazi semi-sovrani – o di grandi e medi Stati in competizione con le grandi imprese multinazionali, oltre che tra loro stessi –, in un’epoca che è ormai post-globale. E che perciò torna a essere politica.

Finally, Prof. Galli, as you yourself have written in Guerra Globale(2000), conflict and civil wars have intensified in our times, something that Schmitt understood very well in his later writings, but that now have become a spatial and concrete operation of governing anarchy. Is Schmitt’s thought still the conceptual horizon to grasp our problems, or do we need to move beyond Schmitt?

Io credo che si debba andare «con Schmitt oltre Schmitt». Cioè che si debba rinunciare al peso reazionario della sua ideologia, e che lo si debba ambientare in un’epoca precisa, la crisi tedesca degli anni Venti, la tragedia degli anni Trenta,  e la crisi europea degli anni Quaranta. Credo quindi che da Schmitt non si debbano trarre «leggi» né «regolarità» eterne della politica. Credo però anche che, dal punto di vista intellettuale, la sua genealogia sia un acquisto permanente del nostro modo di pensare la politica; Schmitt ci ha insegnato a pensare concretamente, a interpretare la politica in modo serio e drammatico, a non cercarvi fondamenti e  stabilità, pur nella consapevolezza che l’ordine è indispensabile; e anzi a leggere nel tempo del disordine e dell’anarchia i segni dell’ordine possibile (per il quale va spesa energia, a partire da un conflitto reale). Ci ha insegnato a non credere alle soluzioni facili e semplici, tecniche o morali o “narrative”, delle questioni politiche. A pensare agli ordini come realtà necessarie e al tempo stesso contingenti. A pensare alla politica come energia e come istituzione. E non credo che di questo insegnamento ci dobbiamo o ci possiamo liberare, benché oggi si viva in un contesto politico interno e internazionale molto mutato rispetto a  quello in cui viveva e scriveva Schmitt. Il suo pensiero è parte fondamentale  di ogni pensiero critico, che voglia lasciarsi alle spalle il normativismo, il funzionalismo, e il neoliberismo.

 

Intervista pubblicata il 2 maggio 2019 in «Cuarto Poder» e in «The Clinic»; e in «Política común», Volume 13, 2019.

 

La democrazia sostanziale di Giuseppe Dossetti

Sostanziale, integrale, effettiva, reale: la democrazia secondo Dossetti non può essere solo formale, né solo politica, né solo economica e sociale; deve anzi superare la moderna divisione (con altro lessico, l’alienazione) fra questi ambiti per essere umana, genuina, morale. Deve essere cioè una autentica rivoluzione, non un prolungamento del liberali­smo che diviene di massa. Da qui alcuni giudizi parzialmente critici di Dossetti sulla Costituzione italiana – alla cui redazione egli ha pure autore­volmente contribuito – che a questa rivoluzione si orienta senza portarla fino in fondo (benché alla Carta vada riconosciuto il grande merito di essere, in linea di principio, radicalmente innovativa).

Questa è la tesi politica complessiva di questi scritti, culminanti nella relazione del 1951 su Fun­zioni e ordinamento dello Stato moderno. Una tesi che va decifrata e contestualizzata, e misurata sulle discussioni attuali intorno alla democrazia.

Sono innanzitutto evidenti gli influssi tanto di Maritain quanto di Gemelli, elaborati in modalità originali. Dall’umanesimo integrale del primo, Dossetti riprende la critica al liberalismo come ci­fra dell’intera età moderna, caratterizzata dall’idea che la libertà – in pratica coincidente con la libertà di pensiero e con il diritto di proprietà – sia una qualità autonoma del soggetto, in sé chiusa, del quale costituisce l’origine e il fine; e dall’idea che attorno ad essa debba ruotare lo Stato moderno, il quale a sua volta è “agnostico” sui fini e si affida a una presunta capacità umana di produrre l’utilità collettiva attraverso il perseguimento dell’utilità privata, mescolando così una sorta di ottimismo antropologico (la libertà moderna come produttri­ce di bene) a un pessimismo sulle strutture sociali e politiche (ritenute oppressive quando non rese meramente neutrali). La modernità è nichilistica, per Dossetti: nega la natura delle cose, e le pensa tutte interamente plasmabili dall’uomo e tutte traducibili in merci; azzera i diritti storici concreti, le mediazioni sociopolitiche reali, e immagina una società priva di fini che non siano individuali; fa dello Stato una macchina che consente ai privati di creare autonome istituzioni giuridiche impersonali e di fatto incontrollabili (le grandi corporations), mentre si ferma davanti ai diritti economici dei possidenti, gli unici che siano valorizzati come assoluti e intoccabili. Da questo punto di vista, il marxismo non è, per lui, una «calunnia» contro la borghesia.

Una variante di questa posizione epocale è data dalla prospettiva, politicamente ma non qua­litativamente opposta, che vede la libertà radunarsi tutta nello Stato, il quale da mezzo diviene così fine a se stesso e unico protagonista della storia, in con­trapposizione all’individuo. Lo Stato moderno è o troppo o troppo poco.

Si tratta di temi diffusi nel pensiero cattolico, in parte risalenti a Lamennais, declinati da Dossetti in chiave democratica, con un’attenzione alla rappresentanza politica non solo dell’ideologia, dell’opinione e degli interessi individuali, ma an­che (in una seconda Camera) dell’articolazione concreta della società nei suoi corpi intermedi (tema, questo, di derivazione, tra l’altro, gemelliana, ma lontano, per quanto riguarda Dossetti, da declinazioni corporative).

Allo Stato moderno Dossetti contrappone uno Stato né totale né corporato, ma «nuovo», che abbia come perno teorico la capacità intensamen­te politica di orientare, o «finalizzare» la libertà, ovvero di attuare la reformatio della società senza pretendere di crearla ma certo caricandosi del dovere di plasmarla, fino a farla diventare il cuore della vita associata: uno Stato, insomma, in grado, con la propria carica politica, di «assoggettare» l’economia, ovvero di rendere effettuale, con il potere politico, il controllo sociale su di essa, e di andare perfino al di là dell’interventismo statale contingente per giungere, attraverso la lotta contro le grandi concentrazioni di potere economico, fino alla dimensione del «piano». Uno Stato, quindi, non pensato attraverso lo statalismo giuridico formale, e che anzi da una parte è strumento, e pertanto realtà storica né prima né ultima – tale realtà è semmai, nella dimensione terrena, la per­sona ovvero il bonum humanum simpliciter –, ma che dall’altra si carica di una politicità che è anche socialità e moralità (non eticità nel senso gentiliano, certamente): la moralità della politica consiste nel combattere il male individualistico, l’egoismo, la cecità.

La prospettiva di Dossetti non è Stato-centri­ca. Semmai, sta nel rapporto con la trascendenza. L’ Assoluto, infatti, non è assente dalla riflessione di Dossetti ma non certo in modo tale da generare un fondamentalismo, sì piuttosto come una fonte d’ispirazione e di tensione o, se si vuole, come una fonte d’energia per un agire politico umano e con­creto, per quella “democrazia sostanziale” che è il volto storico del cristianesimo. L’apertura alla tra­scendenza è l’origine della possibilità che la libertà si apra all’altro, non si chiuda nell’egoismo. L’obiettivo politico di andare oltre la democrazia for­male borghese – una democrazia solo politica che lascia intatte le disuguaglianze e i centri del potere economico nella società, così che permane sempre la distanza fra istituzioni politiche democratiche e realtà sociale oligarchica – può essere posto, secondo Dossetti, soltanto attraverso una radicale reinterpretazione umanistica e cristiana della mo­dernità, del suo pensiero, dei suoi istituti giuridici, della sua alienazione strutturale. Una prospettiva che è certamente ispirata dalla dimensione religiosa ma non è per nulla ascrivibile a una teologia po­litica, neppure secolarizzata e democratica, perché ha la propria forza nella duplice consapevolezza dell’incompiutezza della dimensione terrena e del­la reciproca piena indipendenza di Stato e Chiesa, come recita appunto la Costituzione anche per impulso di Dossetti. Il rigore radicale di Dossetti è religiosamente generato: ma dalla religione la poli­tica trae la propria nobiltà e la propria doverosità, non certo soluzioni dogmatiche ai problemi della città dell’Uomo, soluzioni e problemi che vanno invece ricercate e individuati con lo strumento del sapere scientifico più avanzato.

Queste campiture intellettuali vanno contestualizzate storicamente. C’è in Dossetti – vicino, negli ultimissimi anni Quaranta e nei primissimi Cinquanta, a Felice Balbo – la percezione di una crisi agonica della civiltà occidentale, che si mani­festa, per lui, nelle trasformazioni dell’individuo, della società e dello Stato; una catastrofe che smen­tisce i presupposti e le finalità del liberalismo: con una panoramica di impressionante precisione e di lungimirante proiezione Dossetti vede infatti la scarsa efficienza del governo parlamentare, la sua incapacità di orientare responsabilmente la società, la debolezza dei partiti (tutti, con l’eccezione del Partito comunista, poco più che gruppi d’interesse), il dilagare della tecnica e della fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi politici, l’ingigantirsi della dimensione internazionale (nell’età in cui il mondo è diviso in due blocchi) come quella veramente centrale nella politica, l’affannarsi della politica domestica a inseguire (nella forma dell’assecondamento ben più che del governo) i fenomeni economici con un’attività normativa che trasforma la legge (che dovrebbe essere gene­rale e permanente) in una serie di provvedimenti instabili e contingenti, e infine l’inadeguatezza di un’amministrazione ancora tutta gerarchica (napoleonica, si potrebbe dire) davanti ai compiti nuovi. Insomma, la deriva della modernità razio­nalistica e liberale, e delle istituzioni statuali che ne sono nate.

Una crisi irreversibile, per Dossetti, appunto catastrofica, a cui il marxismo non è una risposta perché tutto interno all’immanentismo moderno, per quanto sappia cogliere alcune contraddizioni del liberalismo; e perché lontano dal metodo della libertà politica, eversivo nei contesti liberaldemocratici e totalitario nelle sue realizzazioni; incapace insomma di pensare veramente un ordine positivo e umano, oltre quello nichilistico e contraddittorio della modernità. Dossetti, quindi, combatte il mar­xismo, contesta la sua mitologia, ma a differenza dei conservatori non lo teme: semmai lo sfida in umanesimo, in radicalismo, in empito innovatore. Una crisi della modernità alla quale non è stata risposta adeguata il fascismo (anzi, troviamo in queste pagine un’esplicita tematizzazione della necessità di una formale conventio ad excludendum antifascista) ma neppure l’interclassismo o altre prospettive riformiste, subalterne al primato moderno dell’individuo e dell’economia, e alle sue contraddizioni (è presente una polemica anche contro Röpke, uno dei padri dell’ordoliberalismo). Fa eccezione il laburismo inglese, la cui vittoria elettorale nel 1945 Dossetti saluta con grande entusiasmo proprio perché vi vede non l’afferma-zione di un blando riformismo ma un evento che lungi dall’aggiungervi un capitolo mette, per lui, la parola fine al libro della modernità, lo chiude e ne apre uno nuovo. Una prospettiva un po’ forzata, evidentemente, ma indicativa di ciò che Dossetti chiedeva alla politica.

L’azione politica adeguata al superamento della crisi è stata la partecipazione di Dossetti alla Resistenza, alla Costituente, alla vicenda della Democrazia Cristiana. Un’azione politica incon­tentabile, accanita, impegnata e impegnativa, ma per nulla utopistica – chi conosce l’attività politica di Dossetti nelle due circostanze in cui è stato vi­ce-segretario della DC (documentate da ultimo in L’invenzione del partito, a c. di R. Villa), sa bene quanto duramente politica, concretamente pratica, e anche polemica, essa fosse. Un’azione che si è appuntata sulla costruzione dei prerequisiti della «democrazia sostanziale», ovvero in primo luogo a impiantare una Costituzione che non fosse un elenco di diritti statici ma che ne prevedesse ap­punto la finalizzazione a un umanesimo integrale, alla democrazia intesa come «massima espansio­ne della persona umana secondo i meriti». Una Costituzione progettuale, quindi, orientata dalle «norme di scopo» dei Princìpi fondamentali, per la cui formulazione Dossetti non ha avuto certo problemi a dialogare costruttivamente con Togliatti. Una Costituzione che prevede uno Stato forte, che tuttavia riconosca il pluralismo sia ideologico sia delle istituzioni sociali e politiche intermedie.

La sua parziale insoddisfazione, che serpeggia nella relazione del 1951, che gli fa considerare la Carta il «meno peggio» e non un compiuto «bene», deriva dalla circostanza che la spinta propulsiva di quella finalizzazione gli è parsa ben presto affievo­lita e che la concreta struttura dello Stato, dei suoi poteri, dei suoi organi, è rimasta più tradizionale di quanto egli avrebbe voluto, e di quanto reputava necessario a voltare pagina. Dossetti non temeva di ipotizzare un esecutivo ben più robusto di quello disegnato dai costituenti, e ben più lontano dai contrappesi del regime parlamentare, poiché era forte la sua idea di politica, il suo costruttivismo cristiano; come non temeva che lo Stato fornisse ai diritti individuali e collettivi garanzie fortemente gerarchizzate: erano proprio queste concretezze a fornire la possibilità che il popolo entrasse davvero, esistenzialmente, all’interno delle forme giuridiche democratiche, ne divenisse soggetto e non ne fosse oggetto. La politica italiana si stava sviluppando, a suo giudizio, in un contesto di involuzione com­plessiva e di affermazione dei vecchi poteri, molto abili a inserirsi nel mondo cambiato per perseguire con nuovi mezzi i propri vecchi fini di dominio. Era mancata insomma, dopo il grande sforzo reso­si necessario per superare con successo l’impianto formale liberale della Costituzione, la capacità, per lo Stato che voleva uscire dal proprio agnosticismo, di dotarsi non solo di nuovi fini personalistici ma anche di nuovi strumenti, di istituzioni nuove. Insomma, la lezione di Dossetti è stata imparata a metà: i cattolici hanno saputo apprendere a «non aver paura dello Stato», e a utilizzarlo ai propri fini – essenzialmente, a praticare la politica come freno della «inclinazione al male delle cose uma­ne», e promuovere il bene inteso come fioritura integrale della persona – ma non hanno saputo inventare le modalità istituzionali per appaesare il nuovo Stato in un mondo nuovo, per celebrare fino in fondo quell’alleanza fra cristianesimo e popolo che avrebbe dovuto sostituirsi alla vecchia alleanza fra Trono e Altare.

Sappiamo che fra il ‘51 e il ‘52 matura in Dossetti l’idea dell’insufficienza di una politica di “sinistra cristiana” – un’insufficienza generata dai ritardi della politica ancora ferma a un’età superata, quella del parlamentarismo, ma anche dalla divisione del mondo che spacca la politica italiana, e dalle chiusure della Chiesa; e sappiamo ancora che tale idea di insufficienza non spegne tuttavia la politicità intrinseca del suo pensiero, almeno fino all’esperienza bolognese del ‘56-’58, e al più tardo impegno sul Vietnam. E sappiamo infine che quando sul finire della vita Dossetti, che ne aveva criticato le debolezze, vide la Co­stituzione minacciata da tentativi di riforma che volevano segnare il trionfo, anche formale, della nuova realtà neoliberista nel frattempo sostituitasi a quella keynesiana, egli – che nella nuova passività promossa dal capitalismo sfrenato vedeva i rischi di un riaffacciarsi in forme nuove del vecchio fa­scismo – difese strenuamente la Carta che almeno incorporava, sia pure fornendo ad essi strumenti non adeguati, i princìpi fondamentali che orienta­vano lo Stato verso la “democrazia sostanziale”, e non facevano della repubblica la semplice custode degli assetti di potere delineati dalle libertà econo­miche. La democrazia sostanziale doveva rimanere quanto meno un progetto possibile, un orizzonte e un orientamento, e non essere cancellata dall’orizzonte, formale e progettuale, della politica italiana.

La preoccupazione di “ispessire” la demo­crazia, di disegnarla come una forma politica non semplicemente contrattuale o procedurale ma anzi di dare spazio, in essa, alla esistenza concreta di cittadini legati non solo dal contratto utilitaristico o dall’idea di giustizia, di pensarla quindi come la cornice del flourishing delle singole persone nei loro contesti culturali, è largamente diffusa anche nella filosofia politica contemporanea, che tuttavia resta in buona parte interna a un paradigma libe­rale allargato ad accogliere “valori”, e che quindi si differenzia, prevalentemente, dal pensiero politico di Dossetti, segnato da una verticalità e al tempo stesso da una concretezza sociologica che la filoso­fia politica contemporanea difficilmente persegue. Inoltre, i nostri tempi per molti versi – definitiva scomparsa dei partiti, personalizzazione integrale della lotta politica, crollo del comunismo reale, emergere delle questioni del multiculturalismo, in­cremento del peso della dimensione sovranazionale sulle politiche domestiche, parallelo rafforzarsi delle competenze securitarie degli esecutivi, crollo dell’idea di progresso, incremento delle disugua­glianze sociali, progressiva marginalizzazione del lavoro – sono lontani da quelli in cui nacquero le riflessioni e le posizioni qui raccolte. Ma per altri versi presentano sconcertanti analogie: la crisi del parlamentarismo, il tramonto della centralità politica della forma-legge a favore del decreto o del provvedimento, e in generale la rinuncia della politica a governare il presente secondo categorie e fini esterni alle logiche economiche, e a istituire al­ternative: una rinuncia che si è rovesciata ai nostri giorni nell’ideologia dell’assecondamento politico del capitalismo come unica forma possibile e pen­sabile della società, e che ha come obiettivo una pseudo-democrazia apolitica, risolta nelle proce­dure tecniche di valorizzazione e nella rimozione degli ostacoli al pieno funzionamento del capitale nella sua presunta neutralità. Con il risultato che la libertà è finalizzata non al fiorire della persona nell’uguaglianza, secondo i meriti di ciascuno, ma al profitto di pochi.

Certo, nel pensiero di Dossetti echeggia una stagione di quasi-onnipotenza della politica, una stagione in cui la politica credeva ancora in se stessa come principale potenza trasformatrice; una stagione che sembra ormai trascorsa. Nondimeno, la sua lezione è di impressionante attualità. Vi sono, indubbiamente, in primo luogo, una precisione concettuale, un rigore categoriale, una sostenutez­za dell’argomentare, che hanno una trattenuta ma potentissima capacità espressiva e che emanano una limpidezza morale che incute vero rispetto. Senza che assuma movenze fanatiche, in Dossetti la politica diventa un dovere, e proprio per questo egli può ricercarne il potere: per capacità analiti­ca, per realismo e senso pratico, per ispirazione spirituale, Dossetti va ben oltre l’indignazione, attitudine un po’ facile e a volte paradossalmente disimpegnata.

Ma, ancora più concretamente, alcuni degli obiettivi che egli si pone sono condivisibili da chi affronta in modo critico le questioni politiche dell’oggi: ridare alla politica la capacità di essere un’interrogazione sui fini della società e non solo un assemblaggio di disuguaglianze coperte dall’uguaglianza formale di diritti più o meno ca­suali; perseguire quindi una non estremistica ma radicale politicizzazione della società, nel senso che la politica (lo Stato) sappia dirigere la società individuando e sollecitando in essa, con metodo democratico, ragioni e forme, diritti e poteri; im­maginare infine una democrazia che non si limiti a essere metodo – infatti, quando la democrazia vuol essere soltanto tale, lo stesso metodo (la legalità) non viene rispettato e si rovescia in informità, in eccezione permanente – ma voglia invece essere energia politica di confronto e di competizione, e costituire la forma giuridica di sostanze storiche e di concretezze sociologiche.

La consapevolezza che la politica è potere di governo carico di responsabilità e di finalità, che senza politica non c’è democrazia umanistica ma solo l’ordine non umano della tecnica e la pro­spettiva inumana della sopraffazione universale, è il senso più radicale della posizione politica democratica di Dossetti. La quale è stata una possibilità che, per quanto non certo inerte, non è divenuta pienamente realtà, a suo tempo, benché abbia fecondato parte della riflessione e dell’azione della sinistra cristiana nell’Italia del dopoguerra. Una possibilità che – in dialogo con la laicità più pensosa e meno ideologica, con il pensiero critico più responsabile e meno “alla moda” – dovrebbe ancora essere coltivata perché si inneschi quel grande ripensamento della democrazia di cui il nostro Paese mostra di avere oggi un così grande bisogno. Un ripensamento che tragga origine dalle potenzialità che, anche per opera di Dossetti, sono implicite nella Costituzione, e che, anziché “supe­rarle”, le renda finalmente realtà.

 

Prefazione a G. Dossetti, Democrazia sostanziale, a cura di Andrea Michieli, Marzabotto, Zikkaron, 2017.

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