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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Seduzioni e delusioni del neoliberismo

 

Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.

Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore  e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.

Le conseguenze di ciò sono, oltre al deperimento e alla delegittimazione delle strutture pubbliche e dei corpi intermedi tradizionali (Stato, burocrazia, partiti, sindacati), l’estensione illimitata dell’area del mercato, a cui nessun ambito può pretendere di sottrarsi (l’arte, la cultura, l’istruzione, la scienza, la sanità, il turismo, il tempo libero, lo spettacolo, la politica, ne sono investite e assorbite, ne ricevono “valore”): insomma, l’universale mercificazione della vita di tutti. Questa estensione del mercato, la sovranità dell’economico e della sua auto-interpretazione come “equilibrio” e come progressivo nec plus ultra dell’umanità, ha come conseguenza l’iscrizione di tutta la vita, di tutte le vite, nel registro della concorrenza e della competizione, della prestazione e della valutazione – a opera di agenzie pubbliche e private, che assumono il peso determinante che un tempo spettava ai ministeri –. Non il conflitto, che è un fatto pubblico e sociale, e neppure la collaborazione, ma la competizione, che è un fatto privato, tiene ora il centro della scena.

Questa visione è stata abilmente introdotta nell’immaginario delle masse, con un’opera insigne di psico-politica;  vi ha fatto presa, vi si è radicata, perché è stata presentata nel momento della massima delegittimazione delle strutture di potere tradizionali: la caduta del comunismo in Russia e dintorni (con l’enorme eccezione della Cina, che si concilia col neoliberismo attraverso la nozione di autorità), e la crisi, in Occidente, dello Stato sociale (in realtà, del sistema di Bretton Woods) e delle forze politiche che l’hanno supportato (i partiti democratici del secondo dopoguerra). Questa visione neoliberista, insomma, è stata legittimata attraverso il ricorso a un’accezione emotiva, euforica ed energetica, della nozione di libertà individuale, declinata come ribellione contro l’autorità – appunto, partiti e sindacati, ma anche Stato ed élites tradizionali (i “professoroni”)  – e come potenziamento del singolo soggetto attraverso l’azione rivolta al successo, all’affermazione di sé. Una libertà che è deregulation su scala ridotta, analoga a quella che la politica perseguiva, negli anni Novanta, su scala mondiale. Tutti possono arricchirsi, tutti possono mettersi alla prova, tutti possono competere per migliorare la propria posizione sociale; e tutti lo fanno rimanendo «se stessi», liberandosi da ogni autorità, obbedendo solo ai propri istinti vitali, coltivando e amplificando i propri talenti: «anche tu puoi, se vuoi». Non il comando ma il libero contratto, sempre revocabile, è la figura chiave di questa società; non l’autorità ma la libertà; non il dovere ma il diritto soggettivo; non il governo e il diritto pubblico ma la governance privatistica a rete e la lex mercatoria, pattizia, elastica; non la stabilità dell’ordine ma il movimento, la circolazione, l’innovazione, l’intrapresa; non la nascita né gli studi, ma il successo (confuso col merito), l’aggressività, l’avidità: greed is good, il peccato capitale dell’avarizia è un bene. Dai garage della Silicon Valley escono i nuovi miliardari con il loro grido vittorioso (già sessantottino): stay fool, stay hungry, la sfida a non appagarsi mai. L’utile è legittimato dal sentimento, la speculazione dalla commozione.

Tutto ciò va oltre Mandeville: qui non si tratta di vizi privati e di pubbliche virtù, ma della nietzschiana trasvalutazione di tutti i valori, di una eroica volontà di potenza paradossalmente diffusa in tutto il corpo sociale, e applicata all’ambito (per Nietzsche spregevole) dell’utile, e divenuta, ancora più paradossalmente, norma collettiva. Dalla critica al normativismo razionalistico, dalla derisione del pensiero dialettico, dalla decostruzione del logos moderno e delle sue strutture politiche, in primis la sovranità, emergono – in chiave mondialista o liberista, benicomunista o ultraprivatistica – la medesima apologia dell’«oltre», il medesimo scuotimento dei fondamenti, la medesima «splendida aurora» della soggettività desiderante, il medesimo godimento in atto, il medesimo trionfo dell’immanenza, la medesima pretesa che le dinamiche sociali, spiegabili attraverso l’agire individuale, si autosostengano, che non debbano rinviare a null’altro che a se stesse. La partita si gioca tra “movimenti” globali, nella concorrenza tra il francescanesimo moltitudinario, da una parte, e il general intellect mercatista dall’altra, sulle teste di Stati e classi, scienze e autorità. Le prospettive politicamente confliggono, ma convergono nella critica del Vecchio, travolto dall’energia del Nuovo.

Al di là delle analogie e delle differenze rispetto alla prima grande ondata di movimenti del dopoguerra – la generazione del Sessantotto lottava per una  forma diffusa anarchica e rizomatica della libertà, ma nonostante le sue istanze libertarie e individualistiche fu capace di agire socialmente e di contestare la guerra in Vietnam – resta il fatto che la narrazione del neoliberismo fece presa perché apparve rivoluzionaria: la quarta rivoluzione del XX secolo dopo quelle comunista, fascista, e socialdemocratica. Una rivoluzione che prometteva l’immediata liberazione individuale: se si promuove la libertà contro l’autorità, l’espansione contro la costrizione, la potenza contro la diligenza, l’eccezionale contro il normale, la velocità contro la staticità, la trasgressione contro il conformismo, l’immanenza contro la trascendenza (o l’auto-trascendimento), la seduzione è garantita.

Nulla di tutto ciò si è rivelato vero, se non le sue esagerazioni e le sue contraddizioni, la sua negazione pratica nelle contraddizioni che si sono rivelate. A partire dal soggetto euforico, che si è rovesciato in soggetto impotente e impaurito, avendo ben presto sperimentato che il mare sconfinato delle opportunità è in realtà la selva aspra delle tribolazioni e delle lacerazioni; che i poteri economici dilatati su scala planetaria lo schiacciano come una nullità; che la centralità del consumatore è in verità la subalternità dell’individuo asservito a ogni manipolazione; che l’espansione anarchica dell’Io è prerogativa dei pochi che reggono il mondo, moltiplicando la mortificazione e la soggezione di innumerevoli Io, legati dalle  «catene del valore» che nel globo vincolano uomini e donne come propri strumenti, mai unificati in un diritto comune e in una coscienza comune ma anzi sempre parcellizzati, separati, divisi, posti in concorrenza gli uni contro gli altri;  che più si parla di privacy (concetto già in sé difensivo) più l’individuo è oggetto delle invasive costrizioni di apparati di potere pubblici e privati davanti ai quali è trasparente, e dai quali non può sfuggire.

Al livello pubblico, poi, lungi dall’estinguersi lo Stato si è rafforzato; non verso i pochi forti, naturalmente, ma verso i molti deboli, che ha disciplinato, sorvegliato e punito con tanta maggiore energia quanto più le contraddizioni del neoliberismo hanno mostrato che il sogno euforico del benessere diffuso aveva come controparte la povertà avanzante, la disuguaglianza, l’anomia sociale, il crollo della qualità della vita; lo Stato sempre più volentieri ha fatto ricorso all’eccezione contro la norma,  e sempre più spesso si è dato forme di governo spostate dalla democrazia alla tecnocrazia, centrate non sulla rappresentanza sovrana ma sulle agenzie non rappresentative che «mettono al sicuro» i fondamenti del sistema dall’invadenza della politica; e ha visto erodere sia la propria legittimità (non è più capace di ispirare civismo) sia  la propria sovranità – mentre la filosofia la decostruiva –, a fronte del potere dell’economia, della finanza e delle agenzie di rating. Nondimeno, le grandi sintesi politiche, i Grandi Stati, sono ancora in grado di determinare la politica internazionale, con le loro sovranità in concordia discors rispetto alle potenze economiche.

Al livello sociale, infine, la produzione, espunta dalla teoria, è rimasta centrale con tutte le sue contraddizioni: il lavoro è divenuto più incerto, povero, indifeso, scarso. E ciò o è giudicato senza rimedio, o vi si interviene a livello etico, con il capitalismo compassionevole, oppure con distribuzioni di sussidi; o ancora con lo scambio fatale fra diritti sociali (progressivamente negati) e diritti civili (tendenzialmente, anche se molto lentamente, concessi o allargati). Lo Stato sociale è finito sotto l’orizzonte; la critica strutturale dell’economia non esiste più; l’individuo è solo davanti e dentro il capitale, e deve sopperire con nuove emozioni private – dalla fidelizzazione all’azienda a qualsivoglia altro orgoglio identitario –, alla perdita di senso del suo agire. Inutile dire che a fornire tali emozioni provvede il sistema mediatico.

Infine, nella morsa dell’ordoliberismo tedesco – la matrice dell’euro –, quella che nel neoliberismo “austriaco” era libertà è diventata dovere, al kosmos spontaneo si è affiancata una severa visione statalistico-organicistica, l’euforia si è rovesciata in austerità, in espiazione, in disciplina, in paura, in autorità; ed è emerso che il nuovo paradigma economico altro non è se non una dottrina liberale deflativa, che prevede ogni anno tagli al bilancio dello Stato, spending review, compressione della domanda interna oltre che dei diritti sociali, orientamento del sistema economico alla esportazione.

Non siamo però di fronte all’universale schiavitù; la reazione a tutto ciò c’è stata. L’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione del bail-in, la legge Fornero, l’inoccupazione strutturale, le disuguaglianze crescenti e incolmabili fra ricchi e poveri, il sotto-finanziamento sistematico dei servizi pubblici, le insicurezze sociali ed esistenziali che da tutto ciò derivano, le prospettive di dover subire ogni anno manovre «lacrime e sangue» e di dovere affrontare un destino come quello della Grecia: tutto ciò non è stato controbilanciato dalla stabilità dei prezzi, dall’Erasmus, dai voli low cost, dal roaming europeo, dalla diffusione degli smartphone. Si è generato, piuttosto, in Italia, in Europa, in Occidente, un “momento Polanyi”, una mossa difensiva rispetto al dominio del capitale, una ricerca di protezione, anche nella forma dell’affidamento plebiscitario a un capo; una reazione che le sinistre di governo, le élites politiche di ieri, denigrano come “populismo” e delegittimano come “sovranismo”, ma che non analizzano nelle sue cause originarie e che si limitano a deplorare moralisticamente come “cattiveria”; un malessere che non hanno intercettato, che  hanno lasciato alle destre europee, e che ora definiscono “fascismo”.

Ma i sovranismi (termine privo di dignità teorica) non sono una declinazione aggiornata di un presunto «fascismo eterno». A parte le differenze sostanziali (il nesso tra violenza e politica, e tra guerra e politica, essenziale al fascismo, è pressoché assente nei partiti che hanno intercettato questo trend), vi è oggi un’altra divergenza rispetto ai processi degli anni Trenta a cui pensava Polanyi. La richiesta che gli Stati tornino ad appropriarsi della sovranità ha più il senso della tutela delle esistenze singole e familiari, dei piani di vita individuali, che non della ipertrofia del ‘politico’, della volontà di potenza nazionalistica. Ciò che si chiede è più uno Stato protettore che uno Stato militare, più uno Stato sociale con qualche tocco di “comunità” che uno Stato-Moloch, più un individualismo di massa che un nazionalismo identitario, per il quale mancano i presupposti culturali: il nazionalismo, infatti, implica una forte dimensione pubblica e una consapevolezza storica collettiva, che oggi francamente non è dato vedere. Il neo-liberismo ha lasciato il segno, almeno nelle percezioni esistenziali e negli immaginari collettivi: più che di identità nazionale si tratta oggi di protezione dei privati dal mercato dilagante e dall’austerità sempre incombente e, infine, del rifiuto della «società liquida» e delle sue solidissime, inscalfibili disuguaglianze.

L’orizzonte della protesta, insomma, resta sostanzialmente il medesimo – fatto salvo l’abbattimento, a volte grave, di alcuni tabù lessicali, ossia del «politicamente corretto» –; la reazione al neoliberismo è declinata in chiave non di conflitto sociale ma di invidia individuale, non di un nuovo paradigma economico ma di odio anticasta, non di critica dell’economia politica ma di libero sfogo di pulsioni securitarie (in parte giustificate, e in parte spinte fino alla xenofobia), non di ripresa dell’elaborazione critica ma di ulteriore svilimento della cultura “alta” in nome del plebeismo, non di giustizia ma di giustizialismo, non di coraggio ma di timore (legittimo, ma ingigantito ad arte dai governi). Domina ancora l’individualismo, benché mutilato, ferito, umiliato, deluso. Reazione, quindi; non vera ribellione; meno che mai rivoluzione. Il soggetto individuale non diviene collettivo; resta quello di prima: emotivo, ma animato da emozioni ben diverse. Un soggetto sedotto, abbandonato e ormai carico di timore e di rancore. Le molte ragioni dei singoli (parecchie buone, qualcuna cattiva) non diventano ragioni politiche collettive: siamo davanti, con valori in parte rovesciati, alla medesima pseudo-attività, e reale subalternità, alla medesima impotente solitudine, che caratterizzava il neoliberismo.

Il quale, da parte sua, a questa reazione, rabbiosa ma non alternativa, riesce ad adattarsi. È possibile che il sovranismo divenga, dopo tutto, una sorta di  “piano B” dei poteri dominanti, che passano dal mondialismo ideologico a un moderato territorialismo (con largo uso di capri espiatori) sulla base del principio «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»; ed è certo che il sovranismo è per ora una ricerca di protezione senza proiezione, senza un’idea di politica.

L’opposizione fra individualismo liberista e mondialista, da una parte, e sovranismo dall’altra è, insomma,  più di forma che di sostanza; più di mentalità che di struttura; e non è un’opposizione fra democrazia e antidemocrazia. La democrazia era di fatto divenuta post-democrazia già in età neoliberista: oggi, a (parziale) differenza di ieri, se ne vilipendono pubblicamente i resti. Il che, certo, è più grave, a livello ideologico; ma la costituzione materiale del nostro Paese, dell’Europa, del cosiddetto Occidente, va per la sua solita strada. Per provare a ridare vita e significato alla democrazia bisogna uscire dalla contrapposizione superficiale fra sovranisti e  europeisti (o mondialisti), rinunciare alle prediche moralistiche e dare inizio a un grande investimento culturale – critico, analitico e propositivo – paragonabile a quello che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso spianò la via alle truppe trionfanti del neoliberismo; il quale oggi cambia volto e retorica, ma non trova ancora avversari sufficientemente consapevoli e radicali.

Pubblicato in «Italianieuropei», 3/2019, pp. 75-82

 

Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi

«Tutto ciò che è stabilito evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».

Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.

La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria Indipendente», l’8 marzo 2017.

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