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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Jobs act

A sinistra: da dove ripartire?

Intervista con Virgilio Carrara Sutour

Professor Galli, parlando della distanza della sinistra e del centro-sinistra dall’elettorato che vorrebbero rappresentare, del loro eterno dividersi e della conseguente incapacità a reagire a forze che si accaparrano elementi del loro discorso, da dove possiamo partire per ricercare le cause di questa condizione?

Il fatto di parlare, allo stesso titolo, di ‘sinistra’ e di ‘centro-sinistra’ costituisce in sé un indice di indeterminatezza su ciò che oggi la sinistra è.

Con ogni evidenza, il centro-sinistra si è posto come architrave dell’attuale sistema socio-politico ed economico. Ciò ha funzionato finché il sistema ha avuto un minimo di capacità produttiva, di ordine e benessere. Quando il sistema, nel 2008, è andato in crisi (benché le ragioni della crisi siano insite nella sua stessa natura), la politica italiana è stata sospesa: abbiamo avuto governi tecnici sorretti in Parlamento quasi da tutta l’Assemblea. In seguito, abbiamo avuto un centrosinistra – la fase renziana – che ha promosso una serie di riforme funzionali a un assetto tutt’altro che ‘di sinistra’.

Ossia?

Allo scopo di rendere il sistema sociale ed economico più funzionante, conservandone tutte le contraddizioni interne, alcune riforme sono state fatte (il ‘Jobs Act’, la ‘Buona Scuola’); altre sono fallite: la Costituzione. Di fatto, il centro-sinistra non ha saputo – questo è il punto – individuare e, men che mai, correggere le contraddizioni del sistema, che produce più disagio che benessere, più povertà che ricchezza. Inoltre, quando produce ricchezza, non la distribuisce equamente. Il sistema genera disuguaglianza crescente e priva i cittadini, soprattutto i giovani, di un ragionevole futuro.

Tutto questo non è stato approfondito e compreso dal centro-sinistra?

Non lo ha capito o non l’ha voluto capire. Alla prima occasione, non appena i cittadini hanno avuto l’opportunità di esprimersi con il voto, la loro scelta è andata contro l’architrave politico del sistema, cioè il PD, e contro il suo contraltare di destra, cioè il partito di Berlusconi. La sinistra – è ora di porre termine a questa confusione – non è il centro-sinistra.

Come può essere definita?

Come una forza di critica e di cambiamento, in senso democratico e progressista. Per ‘critica’ intendo una forza culturalmente dotata, capace di analizzare la società cogliendone il lato conflittuale, in vista o di un rovesciamento degli attuali rapporti di forza o, in ogni caso, di riforme strutturali dirette a imbrigliare la potenza del capitale, non a lasciarla correre indisturbata.

In Italia, una sinistra di questo tipo, di fatto, non c’è. Non c’è un Corbyn, per intenderci. La ragione principale è che, al di là del PD che non è di sinistra, la sinistra è poca cosa: culturalmente irrilevante e divisa al proprio interno – come dimostrano le tragicomiche vicende di LEU.

In ogni caso, tanto quando è architrave del sistema, tanto quando ne vuole essere critica, ovvero sia quando è centro-sinistra sia quando è sinistra, le forze di cui parliamo hanno assorbito fattori, elementi, suggestioni e punti di vista del sistema, in misura tale da non essere capaci di farlo funzionare, né di contrastarlo seriamente.

In che cosa si è tradotto, per la sinistra, questo processo di assorbimento?

Pensiamo soltanto che la sinistra ‘alternativa’ è, praticamente, tutta mondialista: su questo punto, che è decisivo, è perfettamente in sintonia con il neoliberismo. Detto altrimenti, la sinistra non ha alcuna consapevolezza dell’esigenza maturata dentro la società italiana – ma non solo qui – di difesa, di tutela rispetto ai fattori più perturbanti del nostro tempo: mercati e migrazioni. Volendo offrire a questo dato uno spessore storico, penso al Karl Polanyi di La grande trasformazione (1944): l’analisi della nascita dei fascismi come domanda delle società di essere tutelate rispetto a una precedente fase di liberismo estremo. In un dato momento, al predominio della funzione privata – che, tra l’altro, ha provocato gravissimi scompensi – le società oppongono la richiesta di un predominio della funzione pubblica, cioè dello Stato.

Naturalmente, con questo non intendo affermare che il fascismo sia stato veramente una tutela dalle dinamiche del capitalismo: ne è stata piuttosto una variante. Né intendo affermare che l’attuale fase politica sia analoga alla nascita dei fascismi europei. Le forze politiche che, avendola intercettata, stanno approfittando di questa fase, sono forze di destra, ma non sono fasciste, non avendo del fascismo alcuni assunti: la violenza politica come metodo, la guerra come finalità. Soprattutto, non hanno del fascismo il culto dello ‘Stato potente’.

Però ci sono elementi di violenza molto forti.

Sì, ma non sono elementi di violenza ‘sistematica’: la coincidenza tra politica e violenza, oggi, non è accettata da nessuno. Banalmente detto, chi afferma oggi che l’omicidio politico non sia un omicidio, ma una misura opportuna? Né la guerra è vista come finalità della politica, come invece era per il fascismo.

Una parte di questa violenza, però, è confluita nelle politiche securitarie alle quali si assistiamo in diverse realtà nazionali, compresa la nostra.

Appunto: mentre la fase fascista aveva sia una componente securitaria sia una componente di aggressività tanto interna quanto esterna, oggi invece prevale di gran lunga la semplice richiesta securitaria e solo in parte identitaria. Le società europee stanno chiedendo un ‘alt’ alle dinamiche economiche (che coniugano liberismo e austerità) imposte da Bruxelles e all’immigrazione. Queste sono le due grandi richieste, che però non vanno oltre: non sono prodromiche allo sviluppo di una ‘volontà di potenza’, anzi sono richieste molto piccolo-borghesi che non presentano niente di eroico e aggressivo.

Gli episodi di violenza contro i migranti non generano consenso. Nella peculiarità del caso italiano, ha invece prodotto dissenso, in un’opinione pubblica già esasperata dalla crisi, la palese incapacità dei Governi della XVII legislatura a gestire il flusso migratorio. La rabbia nei confronti dei migranti rappresenta un elemento accessorio rispetto alla gravissima crisi socio-economica che ha colto il Paese e dalla quale l’Italia non si è ripresa, a differenza di altri Stati europei – al di là del fatto che il modello economico contenuto nell’euro è un modello deflattivo, che non consente grandi sviluppi dell’economia.

Questa esigenza passiva di difesa nasce dai ceti più deboli della società, quelli che patiscono di più le logiche dell’euro. La crisi di quelle logiche non è stata ravvisata; oppure, se lo è stato, è stata derisa e negata dal centro-sinistra, ma anche dalla sinistra. Il primo fa parte dell’establishment e ha introiettato un unico ordine (politico, economico e sociale) possibile: quello vigente, che, secondo il principio thatcheriano del TINA (there is no alternative), dovrà risultare buono e giusto per chiunque.

La sinistra in senso proprio, in ogni caso numericamente priva di peso, non ha colto diverse caratteristiche della crisi.

Un esempio di questa miopia?

La sinistra chiede ancora più Europa, senza porsi il problema di ‘quale’ Europa si prospetti: aumentare il peso dell’Europa nel suo attuale assetto istituzionale ed economico porta palesemente ad aggravare la crisi, non a risolverla. Il chiedere, poi, un’apertura incondizionata dell’Italia ai diversi flussi migratori le aliena la stragrande maggioranza dei consensi degli italiani.

Il centro del consenso – lo dimostra la campagna di Salvini, a costo zero – sembra dipendere dalla questione migratoria, che diventa centrale o quantomeno equiparata a quella economica.

Abbiamo una richiesta di protezione su due fronti (economico e migratorio), che identificano fenomeni entrambi strutturali. La sinistra non riesce a mettere ordine in questo mare di problemi, mentre la destra li vede, perché più spregiudicata, più superficiale e più abile, offrendo protezione: tanto sul versante economico (ricordiamo la polemica anti-euro che c’era nella proposta della Lega), quanto su quello delle migrazioni. E gli italiani ci credono.

In tutto questo, dove si colloca il Movimento 5 Stelle?

I 5 Stelle sono un fenomeno che, prima o poi, da qualche parte deve ‘cadere’. Più facilmente – o, diciamo, ‘maggioritariamente’ – cade a destra, benché all’interno del Movimento molti voti e alcune intuizioni (che non vanno al di là delle intuizioni, cioè non diventano sistema di pensiero), un tempo, stessero a sinistra.

È molto probabile che l’offerta di protezione della destra contro il capitalismo e contro i flussi migratori sia, entro certi limiti, efficace nel secondo caso ma, al tempo stesso, che non riesca (o non voglia) fornire adeguata protezione rispetto alle logiche più dure del capitalismo. Non a caso, sotto il profilo economico, la vera richiesta della destra ha a che fare con le pensioni e non, ad esempio, con l’Articolo 18. Se si vuole proteggere la società dalle logiche del capitalismo, si deve rafforzare il potere dei lavoratori: il loro status giuridico, la loro capacità economica, il loro peso nelle lotte sindacali, puntando su un’economia fondata sulla domanda interna e non sull’esportazione. Tutte cose che la Lega non si sogna nemmeno lontanamente di fare. Mentre, probabilmente, è nelle corde della Lega aiutare il proprio elettorato ad andare in pensione presto, cosa che non è di per sé sconvolgente sotto il profilo politico – può esserlo, se mai, sotto quello dei conti.

Esiste il ‘nazionalismo’ leghista?

Una vera politica nazionalistica non costituisce un tratto distintivo della Lega, perché per fare nazionalismo ci vuole cultura: non basta dire che il presepe è più bello dell’albero di Natale, né che gli italiani sono cristiani anziché islamici. Per fare del nazionalismo bisogna essere in linea con la tradizione nazionale, cioè conoscere Dante, la storia italiana, la storia dell’arte… Ed esaltarla, il che – dico io – è in sé negativo, mentre conoscerla sarebbe un bene per tutti.

Sappiamo che, a destra, questa conoscenza non c’è; ma non c’è nemmeno a sinistra. Comunque sia, dissento fermamente da chi afferma che siamo di fronte a un’impennata del nazionalismo. Quale nazionalismo? Quando l’Europa era in preda ai nazionalismi – quelli che determinarono la Prima guerra mondiale – gli intellettuali erano almeno capaci di interpretare la cultura nazionale. Oggi chi lo fa? Siamo davanti a un’impennata di paura, molto più banalmente.

Si può spiegare questa paura con un’unica, grande causa?

La causa prima è l’insicurezza economica: in sostanza, l’individuo ha perduto il controllo sulla propria vita. Questo è il tema di fondo. Ti passa tutto sopra la testa a opera di poteri che non si riescono non solo a porre sotto controllo, ma nemmeno a individuare.

La democrazia è, in primis, retta dall’idea che la politica si trovi sotto il nostro controllo, ovvero che capiamo quello che succede perché siamo noi a farlo. In secondo luogo, la politica democratica è, almeno, trasparenza: anche se il potere è gestito dagli altri, dalle élites, siamo noi a legittimarle e a chiedere conto. L’impotenza davanti a forze non individuabili (che cosa sono i ‘mercati’? Chi sono i ‘migranti’? Da dove arrivano?) e la conseguente percezione di vivere in un contesto fuori controllo generano quel sentimento primordiale che è la paura.

La sinistra e il centro-sinistra hanno fatto di tutto: non per eliminare le cause della paura, ma per dire agli italiani che sono degli stupidi, dei selvaggi e dei barbari, se hanno paura: mi sembra assolutamente folle, anche sotto il semplice profilo del buon esito della propria proposta politica.

Cosa è mancato a quelle proposte?

Bisogna ascoltare le ragioni di chi ha paura, capire che cosa teme allo scopo di eliminarlo, non di opporvi prediche e buoni sentimenti. Parliamo di paure altamente giustificate, soprattutto quelle inerenti alla nostra condizione socio-economica. In una situazione di paura, i cittadini non si sono certo rivolti a Bruxelles per farsi difendere, né all’ONU. Si sono rivolti all’unica realtà istituzionale che conoscono, per la quale votano e che identifica la loro soggettività giuridica pubblica: lo Stato. Da qui nasce l’accusa di ‘sovranismo’: un’accusa sbagliata e concettualmente fallace, perché l’idea che esiste la sovranità popolare (ossia: sono i cittadini che comandano, non i mercati) è contenuta nella Costituzione e quindi non è un ‘ismo’, una tendenza di parte, ma è patrimonio di tutti.

Questi sono discorsi che stanno benissimo a sinistra. Tuttavia, per motivi di compromissione con il potere (il caso del centro-sinistra) o di incapacità culturale (la sinistra), essi non sono stati rilevati. Sono stati, invece, raccolti entusiasticamente dalla destra che vi ha fatto rientrare le sue scarse vedute e i suoi pregiudizi. Per cui la sinistra deve piangere se stessa per quanto sta succedendo in Italia: se Salvini vince le elezioni, non è colpa sua, ma di chi lo lascia vincere, dicendo ai cittadini che sono dei deficienti o dei barbari.

Secondo Lei la sinistra è in grado di rifondare un proprio discorso? Ci sono esempi storici che potrebbe recuperare?

L’Italia uscì dal fascismo attraverso una guerra, scatenata e persa dal fascismo, dentro la quale si è inserita la Resistenza. Poiché nessuno evidentemente auspica tragedie, occorrerà molta pazienza. Tranne che i rappresentanti dell’attuale Governo non commettano errori così gravi da alienarsi il proprio elettorato (quello che sperano in tanti), bisogna ricominciare da capo.

In che modo?

Smettendola di pensare che la sinistra debba avere più amici tra gli imprenditori che non tra i sindacalisti. Facendola finita con l’idea che centro-sinistra e sinistra siano la stessa cosa, e che non ci siano differenze di interessi all’interno della società, perché queste differenze ci sono. È giusto dire a una persona: ‘Non sei titolare di alcuna tutela perché il capitalismo vuole flessibilità’?

La sinistra non è nata per favorire il capitale e le sue ragioni, ma per analizzare la società da un punto di vista specifico, quello del lavoro e per organizzarne gli interessi e i valori. Concettualmente è facilissimo dire a qualcuno: ‘Faremo una legge perché tu possa essere licenziato, perché il capitalismo di oggi funziona così; ma non ti preoccupare, perché il capitalismo funziona tanto bene che, se ti licenzia un’impresa, il giorno dopo un’altra sarà pronta ad assumerti’. Affermare questo è facile, ma criminale: il capitalismo odierno funziona distruggendo il lavoro, non creandolo, perché non ne ha bisogno. E infatti, in ultima analisi, un’ipotesi come il reddito di cittadinanza va nella logica dell’attuale forma di capitalismo, che preferisce dare sussidi piuttosto che creare lavoro (se invece insieme al reddito di cittadinanza verrà creato vero lavoro, tanto meglio: staremo a vedere).

Non dico, allora, di fare la Rivoluzione di ottobre: l’obiettivo è riequilibrare, con un nuovo compromesso, le ragioni del capitale e quelle del lavoro. Niente di sconvolgente, ma certamente un cambio di paradigma. Più beni comuni, più potere al lavoro, più domanda interna, più mano pubblica nell’economia, più investimenti. Per cominciare, si dovranno organizzare gli interessi che si contrappongono naturalmente al capitale, senza inventarseli.

Come farlo, concretamente?

Iniziando a tornare sui luoghi di lavoro. Anziché alle assemblee di Confindustria, si deve andare alle assemblee sindacali.

Un metodo che fa appello a una ritrovata condizione di prossimità?

Assolutamente sì. Prima occorre l’analisi critica, quindi anche distanza: studiare i libri e le ricerche empiriche, a livello intellettuale. A livello di azione politica, poi, è questione di prossimità… Senza, però, entrare nella logica della politica fatta per via telematica, che è perdente. La politica funziona quando le persone si parlano: tutti ne abbiamo bisogno. Ma per parlarsi è necessaria la fiducia verso coloro che si propongono come politici. Temo che la sinistra, intesa anche come persone, oggi abbia perso la fiducia degli italiani.

Potrebbe citare, in proposito, un esempio recente di questo distanziamento?

Nel caso emblematico del crollo del ponte Morandi a Genova, penso che una sinistra (un centro-sinistra, in realtà) che continua orgogliosamente a rivendicare le privatizzazioni manchi di intelligenza politica. Le logiche del neo-liberismo sono state assorbite a tal punto dagli esponenti di questa sinistra, che paiono credere davvero che il privato perseguendo i propri interessi realizzi, attraverso la concorrenza, l’interesse collettivo. Quando cade un ponte costruito con denaro pubblico e dato in gestione a un privato (con i guadagni che ne derivano), la prima cosa da pensare non sarà: ‘Abbiamo fatto bene a fare le privatizzazioni’, bensì: ‘Forse c’è qualcosa di sbagliato nell’affidare un bene pubblico in mano ai privati’.

Dagli anni ’80, i pregiudizi filo-capitalistici hanno sostituito i dogmatismi marxisti. In tempi non così lontani, certe persone giuravano sulle parole di Karl Marx, che forse non avevano nemmeno letto…

Cosa ha significato, per la società italiana, il voto politico del 4 marzo 2018?

Il neoliberismo, assunto dal centro-sinistra a panacea di ogni male, spiana le società, disgregandole. Al momento di andare a votare, queste società si ribellano: si potrà gridare al cielo che sono ‘barbari’, ma intanto gli elettori hanno votato. Se solo penso che le fasce più avanzate del PD hanno come motto ‘discontinuità senza abiure’, e che sono convinte di prendere voti su questa base… In realtà l’unica loro speranza è che l’attuale Governo sia distrutto da qualche cosa: dallo spread, dalla magistratura, da una catastrofe. Certamente l’azione politica delle forze di opposizione non sarà capace di distruggerlo, per quanto Salvini e Di Maio non siano due Napoleoni della politica.

Bisogna tornare a essere, lo ripeto, keynesiani, pensando a un forte impegno della mano pubblica: un impegno di proprietà, di direzione e di controllo. Il capitalismo, da solo, è deleterio: non a caso, l’Italia del dopoguerra si è ripresa con un’economia mista, non solo capitalistica.

Il quadro attuale non fa troppo ben sperare su cambi di marcia in grado di ridefinire le scelte politiche e il voto alle prossime elezioni europee?

Non lo so perché, da qui ad allora, chi governa fa ancora in tempo a commettere errori fatali. Un passaggio fondamentale sarà capire che cosa succede davvero una volta varato il DEF, quando la manovra economica prenderà corpo. Anche qui è davvero penoso vedere che l’opposizione consiste nell’applaudire lo spread, o nel rimanere delusi quando questo non esplode, come invece gli economisti mainstream avevano profetizzato.

Il Governo si sta giocando tutto sul ‘Decreto sicurezza’ e sulla manovra economica. Se non ci sono fatti rovinosi e se il centro-sinistra non tira fuori qualcosa di meglio degli attuali candidati e programmi, faccio una facile profezia: al momento, se in tutto il Paese la Lega è data al 32%, nel Norditalia lo è al 48%. Questo significa che buona parte degli italiani è ‘barbara’, oppure che tutte le ragioni siano state lasciate alla destra, e che la cecità più assoluta ha colpito la sinistra.

L’unica risorsa che mi appare plausibile è una candidatura di Marco Minniti nel PD, con silenzio totale e definitivo di ogni altro personaggio, a partire da Renzi. Il PD ‘diventa’ il partito di Minniti, che fa sostanzialmente concorrenza a Salvini, senza esagerare: come mostra l’esito delle elezioni in Baviera, quando un partito di centro si mette a fare concorrenza agli estremisti perde un pezzo del proprio elettorato.

Una candidatura di Minniti in questi termini comporterebbe un cambio di sistema?

Non cambia il sistema, ma lo rafforza e lo razionalizza, soddisfacendo a uno dei due problemi sul tappeto. L’altro, quello economico, non è alla sua portata. Naturalmente, con la clausola del silenzio assoluto sulla ‘Buona Scuola’ o sul ‘Jobs Act’, e con il recupero di qualche parola di sinistra, come ‘sfruttamento’ o ‘sicurezza’.

In quali forme sarebbe declinata la sicurezza?

Sicurezza rispetto alle vicende economiche (accezione che non sarà usata) e rispetto al dilagare della criminalità – quella spicciola, che spaventa quotidianamente, e quella importante, che è poco all’attenzione di Salvini (a partire dalla lotta alla mafia). Si può tentare di spiazzare Salvini su terreni di quel genere. Se, al tempo stesso, le cose vanno molto male per il governo giallo-verde, allora, lo ripeto, uno spazio c’è. Altrimenti vedo nel PD un partito che sta fra il 15% e il 20%, e gli altri che alle europee crescono ancora. Se mai, si può immaginare che M5S e Lega entrino in rotta di collisione, ma tale è la loro voglia di governare che, anche se in linea teorica rappresentano mondi e – forse – interessi diversi, si sforzeranno di restare insieme il più a lungo possibile. I 5 Stelle sono famelici di potere; sono come un bambino in un negozio di dolciumi: non lo tiri più fuori. I 5 stelle dovranno arrivare al divorzio politico da Salvini, ma è probabile che aspettino il più a lungo possibile. E poi dovranno decidere che cosa fare da grandi. E non sarà facile.

 

L’intervista è stata pubblicata in «L’Indro» il 16 ottobre 2018

Parlare di “sistema e antisistema” è un inganno politico

Intervista con Donatella Coccoli

«Eccome se c’è differenza tra destra e sinistra. Bisogna solo tirarla fuori, renderla manifesta, perché il bisogno di sinistra, anche se ormai inconsapevole, c’è in tutti coloro che stanno male, anche se hanno rifiutato la sinistra alle ultime elezioni». Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche a Bologna, nel 2010 aveva scritto per Laterza Perché ancora destra e sinistra. In quel libro, poi uscito in seconda edizione nel 2013, già prefigurava scenari contrastanti nella società e nella politica. Poi, le cose sono precipitate e Galli le ha vissute in prima persona. Eletto con il Pd di Bersani alla Camera nel 2013, nel 2015 se n’è andato, entrando in Sinistra italiana, ma per le elezioni del 4 marzo ha scelto di non ricandidarsi e di tornare all’insegnamento universitario a Bologna.

Professor Galli, negli ultimi tempi ci viene propinato un mantra, soprattutto da parte del Movimento Cinque stelle, e cioè che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso. È proprio così?

In prima battuta si potrebbe dire che destra e sinistra, concetti tipici della storia moderna, hanno senso quando la politica ha la capacità di decidere su questioni importanti, come sulla modalità con cui avviene la produzione e la distribuzione della ricchezza. Ma da tempo le grandi decisioni non le ha prese la politica istituzionale a livello nazionale. Le hanno prese i mercati, e gli Stati che a essi si sono aperti attraverso trattati internazionali. Detto questo, dentro quella via già tracciata si può ancora distinguere destra e sinistra, ma su questioni per lo più marginali.

Quali sono adesso le questioni che permettono di identificare destra e sinistra?

Per esempio lo ius soli. Certo, si può dire che è di sinistra volere lo ius soli e di destra non volerlo, ma questo significa rimanere dentro il mainstream. Invece, se volessimo scendere un po’ più alla radice, potremmo prendere il Jobs act. Su questo tema si può dire che la partita è tra coloro che vedono il lavoro come variabile dipendente dal mercato e coloro che invece nel lavoro vedono qualcosa più importante del mercato. E quindi l’ingiusto licenziamento è qualcosa che il mercato non può comprare, per cui chi lo subisce deve essere reintegrato, non ricompensato. Ma vi sono forze che si dicono di sinistra secondo le quali il Jobs act è giusto.

E allora è semplice, non sono forze di sinistra.

Sì, la deduzione non fa una piega. Per essere di sinistra non basta proclamarsi di sinistra. Ma passiamo al terzo livello di destra e sinistra, ancora più radicale. La distinzione si gioca sul neoliberismo. In prima battuta sembra che chi si oppone al neoliberismo sia di sinistra e tutto quello che accetta il neoliberismo sia di destra. Ma si dovrebbe distinguere invece tra destra economica e destra politica, che molto spesso si presenta come antiliberista.

Si riferisce all’ “antiliberismo” della Lega?

Esatto. Tutta la destra sociale in Europa, almeno a parole, è antiliberista. Ma il suo essere antiliberista è rivolto solo contro alcuni aspetti del neoliberismo e in ogni caso sconfina nell’antidemocrazia. Naturalmente esiste anche una sinistra filoliberista: l’Italia ne è piena. Insomma la differenza fra destra e sinistra esiste ma va integrata (non sostituita) con la differenza fra liberismo e antiliberismo (economica) e fra sistema e antisistema (politica).

Veniamo alla situazione della sinistra in Italia, sconfitta alle elezioni del 4 marzo.

C’è prima di tutto una sinistra che ho definito “accompagnamento liberal” del neoliberismo. È il Pd, che gioca il proprio progressismo sui diritti, ma ignora l’esistenza di un problema sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e sulla subordinazione del lavoro e che, al massimo, emette alti lamenti sul fatto che c’è diseguaglianza sociale ma non capisce dove e come essa di genera. Così interviene con elargizioni monetarie che non modificano la struttura dell’assetto economico complessivo. Questo è stato il modo di essere di sinistra del Pd, e di molti di quelli che ne sono usciti all’ultimo minuto. Certo, qualcuno dentro il Pd ha fatto opposizione, ma è stata troppo debole.

E la sinistra a sinistra del Pd?

La sinistra antagonista corre il rischio di essere antagonista e basta, cioè di accettare il terreno di lotta che di volta in volta viene offerto, con esiti irrilevanti. Il fatto è che c’è un dislivello enorme tra la grande massa di popolazione che l’attuale situazione economica fa decadere sotto un certo livello di vita e rende disponibile a posizioni antisistema e la capacità della sinistra di rappresentare questa base potenziale. Il Pd è votato nei quartieri alti, la sinistra democratica di Leu ha ottenuto il 3%, gli antagonisti di Pap non hanno fatto presa. La realtà è che quelli che sono perdenti nell’attuale modello economico non si sono sognati di votare a sinistra. Da qui in molti sono giunti alla conclusione: destra e sinistra non esistono, esiste solo forze di sistema e antisistema.

Che cosa significa sostenere la dicotomia sistema-antisistema?

Significa eludere il problema. In questo modo si arriverebbe a pensare che il 55% degli italiani che ha premiato M5s e Lega sono antidemocratici, che addirittura il fascismo è dietro l’angolo. È chiaro che così non si guarda la causa, che va interpretata attraverso la vecchia griglia destra-sinistra, su base economica. L’Italia ha votato forze antisistema perché non c’era una sinistra in grado di raccogliere le sue istanze di protesta contro un sistema politico ed economico che è costruito per togliere potere al popolo, rendendo i cittadini poveri, deboli e ricattabili.

Quindi è una pura operazione politica ridurre tutto a sistema e antisistema?

Assolutamente sì. È la più sottile operazione politica adesso sul mercato. E non è contrastata, perché invece di analizzare le cause storico-politiche per cui c’è una società che non piace alla maggioranza dei cittadini, ci si limita a dire “quelli sono matti, sono di destra, sono cattivi, sono populisti”. Ora, spesso è vero, sono populisti e antisistema, con venature a volte antidemocratiche. Ma chi o che cosa li ha fatti diventare così?

C’è chi ha parlato di “volatilità del voto”: di fronte ad una delusione per M5s, gli italiani potrebbero tornare a votare la sinistra?

No, gli italiani delusi dai Cinque stelle non torneranno a votare Renzi, voteranno molto di peggio, a destra. Dire volatilità del voto è la trascrizione politologica del concetto sociologico di società liquida. Quanto più la società è liquida, in realtà, tanto più è solida, nel senso che una volta distrutti i legami sociali dal neoliberismo, le diseguaglianze rimangono solidissime. Quindi il voto può essere libero e fluttuante, però se non cambiano i motivi per cui la gente protesta, il voto di protesta, molto difficilmente tornerà ai partiti dell’establishment.

Lei ha scritto di recente che la sinistra, più che di governo, deve essere «di popolo, di studio e di cultura». C’è un po’ di speranza?

Le questioni ormai sono strutturali. O hai la forza per fare cambiamenti strutturali o non ce l’hai e allora è meglio mettersi a studiare, visto che se ne ha tanto bisogno, e prepararsi così a costruire un’Italia nuova. Il Pd oggi è inutile. Non è che deve ritrovare la propria identità come dicono in tanti: no, la deve proprio trovare perché quella che aveva non era di sinistra, era una identità blandamente blairiana. Si tratta di rifondare Pd, ma anche Leu e ogni sinistra. Siamo, come diceva Gramsci, alla fine della guerra di movimento, se mai è stata combattuta; adesso è guerra di posizione, cioè bisogna tornare ad accumulare riserve, energie, saperi, legittimità davanti ai cittadini. La sinistra deve piantarla di stare sui social media e tornare a ciò di cui tutti hanno bisogno: l’incontro di persone reali in spazi fisici. Bisogna reinventare le sedi di partito. L’unica cosa che conta sono le persone che non sono astrazioni algoritmiche insediate dentro un computer. La sinistra deve fare quello che gli altri non vogliono fare, cioè scatenare la libertà e l’energia delle persone, e questo è possibile solo se le persone vengono riconosciute come esseri umani veri e non come dei target elettorali o propagandistici o consumistici. Per tornare ad avere la fiducia dei cittadini la sinistra deve tornare ad avere fiducia in se stessa, il che significa riconoscere la sconfitta senza se e senza ma, fare il mea culpa e ricominciare, possibilmente anche con facce nuove, purché serie e competenti. Perché la politica è una cosa terribilmente seria: dalla politica passa, o dovrebbe passare, la vita di tutti.

L’intervista è stata pubblicata in «Left», n.17, 27 aprile 2018

La sconfitta del «sistema»

 

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.

A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobs act è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.

Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza. Un’impotenza di fondo, quindi, quella della sinistra, per sopperire alla quale si è fatto ricorso a temi laterali, come lo ius soli e perfino l’antifascismo, che in realtà svelano una concreta incapacità di entrare in empatia con gli italiani e con i loro problemi. Cosa che è riuscita, con la consueta abilità, alle destre e ai qualunquisti, che hanno immediatamente colto che il primo problema dell’Italia è la sicurezza – dove per «sicurezza» dobbiamo intendere le sicurezze esistenziali (cioè la sicurezza del lavoro, della sanità, del Welfare, oltre alla tutela delle libertà personali), una volta assicurate le quali c’è anche la capacità e l’attitudine all’accoglienza. Quella della sinistra è stata davvero una campagna elettorale di carattere moralistico. Naturalmente, quella dei qualunquisti e della destra è una «sicurezza» a sua volta parziale e propagandistica. Il che, ovviamente, non ha impedito che sui fallimenti della destra economica, che da decenni comanda in Europa e che è la portatrice del progetto neoliberista e ordoliberista dell’euro, si siano infilati, secondo un modello classico, la destra politica e i qualunquisti. La sinistra è rimasta a guardare, perché non è in grado di fare analisi politica, economica, strategica, delle dinamiche storiche contemporanee. E senza analisi non c’è linea politica.

Occorre, pertanto, avere chiaro che il problema teorico e politico di fondo è che la sinistra non sa che cosa vuole e che cosa vuole essere; a quale tipo di bisogno vuole rispondere. A ben vedere, oggi siamo davanti alla débâcle del ceto politico postcomunista, che ha dato origine al Pd senza però riuscire a fondare una prospettiva politica vincente, e che alla fine è stato sconfitto dall’altra componente, inizialmente minoritaria, dello stesso Pd – quella degli ex DC –. Ma anche questi, oggi, non riescono più a parlare agli italiani.

Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti. Oggi l’Italia chiede protezione, in modalità differenti, se non opposte, in relazione ai propri spazi sociopolitici. Il Sud, dove la società è fragile, chiede, con il M5S, un sostegno economico vitale, una vera rendita politica. Il Nord, dove la società è più forte, chiede, con la Lega, efficienza e lotta al degrado. Chiede ovunque più Stato, e un rinnovo radicale delle classi politiche ormai delegittimate, anche se in due direzioni diverse.

In realtà, il principale problema da porsi è se il modello economico che è entrato in crisi sia riformabile, o se invece abbia finito di produrre effetti positivi. Un sistema che – è bene ricordarlo – è stato almeno simbolicamente rifiutato nel Regno Unito, non certo orientato in senso europeo; che in Francia ancora funziona grazie al meccanismo elettorale, che è una sorta di ingessatura della società e che fa sì che il Presidente della Repubblica governi con nemmeno il 25 per cento dei consensi; e che in Germania costringe i due principali partiti, un tempo concorrenti – SPD, CDU-CSU –, alla Grosse Koalition, un taglio delle ali che ha un costo politico-sociale enorme (e che vedrà la crescita della destra antisistema).

Insomma, nei principali Paesi europei, con le ovvie differenze che li connotano, il sistema economico-politico vigente sta perdendo colpi. Tutti sanno che c’è un problema strutturale nell’Europa, e in generale nel neoliberismo, capace – quando ci riesce – di generare soltanto un’occupazione sempre più degradata, sempre meno pagata, sempre più precaria. Un sistema nel quale le disuguaglianze aumentano, e l’ascensore sociale è bloccato. Tutto ciò pone sfide radicali alle quali si può rispondere con i sermoni e con l’antifascismo – come nella recente campagna elettorale –; oppure – come io credo – con un vero antiliberismo, con analisi che spieghino perché mai gli italiani sono diventati “cattivi”. Dire che gli italiani si sono “incattiviti”, infatti, non è una analisi politologica; bisognerebbe capire la causa del fenomeno. Tutto ciò è stato presente in campagna elettorale? No, ma era presente nella testa degli italiani, e lo si è visto.

Ora il problema non è solo quello, pur grave, di formare il governo. Al riguardo sono già iniziate le minacce di Bruxelles, all’ombra delle quali si svolgono le trattative tra forze politiche che non hanno in realtà grandi spazi di manovra, perché tanto il M5S quanto la destra non potranno certo governare insieme a quel Pd contro il quale si sono espressi i loro elettori. Il problema è come si esce dalla trappola in cui siamo finiti senza che una nuova folle austerità finisca di distruggere la nostra società e di generare altra e più grave protesta. Quanto al Pd, o viene radicalmente rifondato o è destinato alla progressiva irrilevanza.

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