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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Legge elettorale

M5S-PD, un governo fuori dalle possibilità logiche

 

Il risultato elettorale segna un ritorno della politica – non una vittoria dell’antipolitica –. Gli italiani hanno espresso un’esigenza tipicamente politica, di protezione e di fiducia, contro i meccanismi (pretesi automatici e “tecnici”, in realtà politici anch’essi, ma oligarchici) della moneta unica e dell’impianto ordoliberista che le è sotteso. Hanno detto che il «pilota automatico», e i suoi aiutanti del Pd, ha fatto un disastro sociale e antropologico, e vogliono un diverso pilota umano, politico e non tecnico né asservito ai tecnici e agli oligarchi. E ciò, nonostante la crescita del Pil, che evidentemente non basta a soddisfare le esigenze di sicurezza del Paese. Sia perché è una crescita scarsa, malissimo distribuita, sia perché il quadro in cui essa avviene resta caratterizzato dalla disuguaglianza, dalla precarietà e dalla subalternità del lavoro, dall’incertezza delle prospettive di vita, dal degrado della società e dal malfunzionamento della sfera pubblica.

Le proteste (una ribellione, non ancora una rivoluzione) sono state di due segni diversi. Da una parte il M5S ha stravinto nella fragile società del Sud, che chiede tutela diffusa – il reddito di cittadinanza –; dall’altra la Lega ha stravinto nel Nord, che in una società più forte vuole protezione dalla inefficienza pubblica e dal degrado urbano. Con categorie tradizionali, la prima è più vicina a qualche umore di sinistra, la seconda è più connotata a destra. Ma quello che conta è che questo nuovo bipolarismo, pur imprecisamente designato, si afferma sulle rovine del Pd, il partito dello status quo, insieme a Forza Italia – non a caso entrambi sconfitti –.

Questa protesta duplice è primariamente rivolta contro i ceti politici che hanno governato fin qui; e anche se molti elettori la estendono al sistema politico-economico in generale, potrebbe essere compatibile con l’assetto economico vigente. In fondo le richieste dei pentastellati (soprattutto il reddito di cittadinanza) non eccedono l’orizzonte neoliberista, e quelle dei leghisti possono, in parte, essere contenute, almeno provvisoriamente, all’interno di un impianto ordoliberista (anche se qui l’euroscetticismo è più forte). Ma perché questo contenimento possa avvenire, il sistema economico dovrebbe fornire una performance rassicurante. E perfino in questo caso i guasti del passato, profondissimi, non cesseranno per molto tempo di produrre effetti sul modo, negativo, con cui milioni di italiani guardano il presente e il futuro, anche se si registrassero (improbabili) miglioramenti. La fiducia si è davvero spezzata. Si può dire che quel sistema non è più in grado di generare consenso, benessere (pur relativo) e coesione sociale. Gli italiani si sono “incattiviti” per qualche preciso motivo, non per sadismo o per innata xenofobia.

Da questo cataclisma politico è risultato un sistema politico a due poli e mezzo. Nessuno dei due poli può governare da solo, e ciascuno di essi fa offerte al terzo mezzo polo, il Pd. Ma le due possibili combinazioni si moltiplicano in molte fattispecie concrete: una cosa, infatti, è governare insieme, altra cosa è dare un appoggio esterno con astensione programmata su singole questioni, oltre che sulla fiducia iniziale. Naturalmente, esistono sulla carta altre opzioni: dal governo di tutti (di unità nazionale) al governo di nessuno (tecnico o del presidente). Si tratterebbe di governi non politici ma di scopo, a tempo: fino alla legge di stabilità del 2019, o fino alla nomina dei vertici dei Servizi.

Detto questo, l’esigenza di formare un governo, già a partire dal Def, si scontra con alcune incompatibilità logiche: come possono governare insieme, o in ogni caso legittimarsi e sostenersi a vicenda, partiti come M5S e Pd, fino a ieri (giustamente) feroci avversari? Forse in nome della comune opposizione alla destra? Ma quello fra destra e sinistra non era un cleavage obsoleto, almeno nel discorso pubblico dei M5S? E poi: in questa ipotesi il Pd dovrebbe essere davvero de-renzizzato, dato che Renzi si rifiuta di governare con gli uni e con gli altri; ma almeno il 60% degli eletti è composto di fedelissimi che, anche in un mondo di labili fedeltà come quello della politica, dovrebbero avere un vero tornaconto per lasciare il segretario dimissionario e imbarcarsi in un’avventura governativa (sia pure di appoggio esterno) con il M5S.

E quale tornaconto, a fronte dello svantaggio strategico di risultare un’appendice di un governo egemonizzato da altri, destinato a colpire interessi che finora hanno trovato casa nel Pd, anche se quel governo fosse guidato da una grande personalità neutrale (da individuare fra le «riserve della repubblica», posto che ce ne siano ancora di spendibili)? Per puro senso dello Stato o del Bene comune? O per posti di governo nell’immediato (ma è probabile?) scambiati contro la certa delegittimazione presso una grossa fetta di quel che resta del proprio elettorato? Una qualunque collaborazione sarebbe un placebo per rallentare una malattia mortale – la scomparsa politica del Pd, la sua irrilevanza, il suo collasso – che al contrario la aggraverebbe e ne precipiterebbe l’esito. E se qualcuno, dentro il Pd, ancora pensa di rivitalizzarlo e di renderlo politicamente appetibile, non potrà certo credere che la via verso la guarigione sia di mescolarsi, in qualsivoglia modo, con un partito, il M5S, che appartiene a un altro mondo, anche se è pieno di ex votanti Pd – i quali, come si sa, non torneranno indietro, neppure verso un Pd de-renzizzato –.

Lo stesso si dica al rovescio, del M5S: alimentato da anni dall’odio anti-Pd, come potrebbe allearsi a questo, o chiederne l’appoggio su punti qualificanti di un programma, anche se questo fosse di fatto anti-sistema (non solo a livello simbolico e politico) come quello prefigurato da Flores? La forza della moral suasion del Capo dello Stato dovrebbe essere davvero smisurata, e infinita l’abnegazione di tutti, per dar vita a un governo siffatto. Quanto a un incontro su un programma di mera conservazione dell’esistente, sarebbe un tradimento della volontà dell’elettorato che porterebbe fiumi d’acqua al mulino di un’opposizione scatenata come quella che metterebbe in atto la destra. Davvero Pd e M5S vogliono regalare all’opposizione, alla Lega soprattutto, questa ghiottissima occasione di incrementare a dismisura il proprio consenso, di pescare a piene mani nello scontento sociale, nella protesta anti-sistema? Pensano davvero, entrambi, di incrociare e di gestire un ciclo positivo e legittimante di benessere e di crescita?

Non si tratta di preferenze personali. Oggettivamente un governo sinistra (sconfittissima) + Pd (sconfittissimo) + M5S mi sembra fuori dalle possibilità logiche. E, inoltre, offensivo della volontà popolare, che non ha saputo dire in positivo che cosa vuole, ma che ha ben detto che cosa non vuole. Se poi calcoli e furbizie, o improbabili slanci patriottici, di gruppi dirigenti porteranno a tentativi in questa direzione, saranno tentativi poco proficui e molto autolesionistici.

E allora? Il rispetto della volontà popolare vuole che questa, se non produce un effetto, torni a esprimersi – i risultati, in un diverso contesto, saranno sicuramente diversi, anche a legge elettorale invariata –. Ma si tenga presente che in linea teorica esiste anche la possibilità di un governo Lega + M5S, che non è più difficile da concepire (se si fa leva sull’asse sistema/antisistema piuttosto che su quello destra/sinistra) di quello di cui si è parlato finora. In alternativa, si può pensare a un governo di scopo con tutti dentro, o con tutti fuori, per una nuova legge elettorale, che aiuti il popolo a rendere più efficace la propria volontà di cambiamento e più nitide le direzioni di questo (ma sarà un bel problema trovare un accordo su questo punto).

Se invece saranno pressioni internazionali irresistibili a obbligarci, come nel 2011, a una governabilità qualsiasi, saremmo di fronte a una riedizione dell’esperienza “Monti”. E ciò vorrebbe dire che l’interesse nazionale, interpretato dai poteri forti, dalle oligarchie, diverge dalla volontà popolare, anche se incompleta; che quindi le elezioni sono un lusso che non fa più per noi; e che, quali che ne siano i risultati, l’esito deve essere sempre l’eterno ritorno dell’identico. There is no alternative, quindi, con l’ennesimo scacco della politica democratica e con l’ennesimo trionfo del potere dei pochi.

 

L’articolo è stato pubblicato in «MicroMega» il 14 marzo 2018

Chiarezza sulla sinistra

Intervista  con Pino Salerno

 

 

Cominciamo dall’Europa e dalla sua grande fibrillazione, dal 24 settembre tedesco al primo ottobre spagnolo fino al discorso di Macron (con il corollario delle prossime legislative austriache e il referendum farlocco del lombardo-veneto). Ne esce un quadro in cui la tecnoburocrazia di Bruxelles ha responsabilità notevoli, e l’Europa politica si dilania e non fornisce più risposte ai popoli. Qual è il tuo giudizio?

L’Europa non ama gli Stati, e nasce per superarli. Ma di fatto è dominata dagli Stati, ciascuno dei quali utilizza l’Europa e le sue istituzioni per aumentare la propria potenza. Questa è una prima contraddizione. La seconda è che il neoliberismo non ama lo Stato se non per le sue prestazioni penali, e cerca di avere a che fare più con la governance che con i governi. Ma l’Europa non è solo neoliberismo: è anche ordoliberalismo (l’euro), che implica invece un massiccio ricorso allo Stato in chiave di stabilizzatore e neutralizzatore dei conflitti. E questa è la seconda contraddizione. A ciò si aggiunga la terza contraddizione: che cioè lo Stato è sì centrale nell’attuale architettura dell’Europa ma è anche devastato da una crisi economica che tende a disgregarlo secondo linee di frattura di convenienza produttiva e finanziaria. Nel complesso, quindi, l’impulso neoliberista e la morsa della crisi vanno verso la rottura dello Stato per costruire, su basi etniche più o meno inventate, Stati più piccoli e più liberi dai vincoli di solidarietà fiscale che regnano in uno Stato tradizionale. Ma l’esigenza ordoliberista di stabilità e la diffidenza degli Stati europei verso le crisi politiche radicali vanno nella direzione di evitare ogni incentivo alla frantumazione e alla balcanizzazione dell’Europa. Per ora la linea della prudenza è di gran lunga prevalente.

In Democrazia senza popolo hai descritto l’esperienza parlamentare negli anni del renzismo. Come faremo a ricostruire l’Italia sulle mille macerie che hai narrato?

Le macerie ci sono, indubbiamente. Si è ormai affermato un modello economico che funziona solo con la completa subordinazione e privatizzazione del lavoro, e che quando produce nuova ricchezza non la redistribuisce ma la concentra su coloro che sono già ricchi. Un modello economico che produce deliberatamente disuguaglianza e degrado (poiché vieta l’intervento pubblico nell’economia in chiave anticiclica, e vieta anche gli investimenti nello Stato sociale), impoverimento e precarietà non occasionali ma strutturali, competizione ma non conflitti progressivi, abbassamento della qualità delle forme di vita e di produzione materiale intellettuale, con l’emersione di poche isole d’eccellenza, del tutto omologate al sistema. Ne conseguono oppressione e mortificazione generalizzate, crollo della lealtà repubblicana, allentamento del legame sociale, inimicizia universale di tutti verso tutti, individualismo passivo e rassegnato, crisi della democrazia, atteggiamenti anti-politici in realtà funzionali al mantenimento dello status quo o all’insorgenza di politiche di destra. La via per battere tutto ciò è in primo luogo riconoscere la situazione attuale con realismo, senza indulgere in ottimismi di maniera. In secondo luogo si deve affermare un rigoroso pensiero critico che instancabilmente denunci e riveli le contraddizioni insanabili del sistema, a partire dalla universale oppressione, dalla chiusura degli orizzonti vitali, che quasi tutti i cittadini sperimentano quotidianamente. In terzo luogo si deve dischiudere un universo realmente alternativo, che dia spazio e consistenza alla speranza di una democrazia fondata sul lavoro e non sul mercato, e alla fioritura di libere personalità e non di soggetti frustrati. In quarto luogo, non si deve avere fretta di governare: la costruzione di un pensiero pensante e non sloganistico, e di un soggetto sociale dotato di una qualche consistenza, viene prima. Dalle macerie si esce, se si esce, negli anni, non nelle settimane. La politica deve ritrovare il passo lungo e la progettualità, eludendo la trappola della comunicazione e della governamentalità.

Da qui la necessità di costruire un soggetto politico della sinistra, alternativo al Pd renziano, e alle politiche neoliberiste che esso ha prodotto. Tuttavia, dal primo luglio di piazza Santi Apostoli a oggi, l’impasse è purtroppo evidente. Quale futuro? Come riusciamo a contrastare il mainstream dell’informazione che vuole convincerci della fine della sinistra europea e della differenza con la destra? Una destra che ormai è sempre più radicalizzata verso posizioni xenofobe e razziste, e di conservazione di un’Europa intollerante e inospitale?

L’impasse della sinistra non è casuale. Essa si divide – e ormai sembra una divisione irreversibile – fra coloro che puntano a un nuovo centro-sinistra, a un nuovo Ulivo (sulla base del riconoscimento che il Pd di Renzi non è di centro-sinistra, ma che con un’alleanza a sinistra può cambiare) e coloro che vogliono costruire il quarto polo, non tanto di centro-sinistra ma di sinistra, per non allearsi mai con il Pd o eventualmente solo dopo le elezioni e solo dopo trattative sul programma di governo. Si tratta del dilemma della sinistra nell’età neoliberista: accettare la nuova forma del mondo per governarla (così si crede) allo scopo di mitigarne le asprezze, oppure fronteggiarla come un avversario che vuole trionfare sulle conquiste del lavoro e della democrazia? Le sinistre europee hanno seguito la prima via, facendosi battistrada del neoliberismo, per finire a questo subalterne e per essere scalzate dal ben più solido e convincente impianto governamentale delle forze di centro. In tal modo, le forze di sinistra non hanno neppure saputo intercettare il disagio e la protesta contro il sistema a cui esse stesse hanno dato più di una mano, e le hanno lasciate alle destre. Una sinistra che voglia rimediare a questi errori deve proporsi non tanto un generico superamento del capitalismo, ma di instaurare le condizioni politiche e sociali perché al capitalismo si affianchi, con un ruolo di riequilibrio e di governo, una politica certa di sé, ovvero consapevole del fatto che il capitalismo non crea ordine stabile, sviluppo umano, speranza collettiva.

Una siffatta sinistra deve essere guidata da politici credibili, nutrirsi di pensiero non mainstream, non accontentarsi di atteggiamenti liberal e recuperare la concretezza e la radicalità dell’analisi e della proposta. Deve non illudere i cittadini su di una facile uscita dalla situazione in cui siamo finiti come Italia e come Europa. Deve differenziarsi, rendersi riconoscibile, tanto più in un sistema elettorale proporzionale. Deve parlare senza mediazioni con le persone, non comunicare attraverso i media. Deve tornare non tanto fra la gente in senso generico quanto nei luoghi di lavoro e di formazione. Deve battere l’individualismo rassegnato e isterico a cui conduce il neoliberismo, con la prospettiva di una dimensione pubblica ricostruita. Deve insomma essere alternativa al presente stato di cose, e dare risposte ai bisogni reali dei cittadini, riassumibili nella sicurezza democratica. Ovvero la sicurezza dell’ordine pubblico, della civile convivenza; la sicurezza del posto di lavoro e sul posto di lavoro; la sicurezza sulla qualità della pubblica istruzione e della pubblica sanità; la sicurezza del territorio. Tutti obiettivi per perseguire i quali è indispensabile un nuovo investimento sullo Stato, troppo frettolosamente dato per morto, prima che sull’Europa (che resta una prospettiva utile se è gestita da Stati orientati a sinistra).

Ci deve essere, in sintesi, un motivo per cui un cittadino vota a sinistra, e la nuova sinistra glielo deve dire e dare, con un impegno pari a quello che animò i primi “apostoli” del socialismo a fine Ottocento. Nulla di meno è richiesto a chi voglia costruire una sinistra in un mondo che è governato dalla destra economica, e che scivola verso la destra politica. Altrimenti è meglio stare a casa. E qui voglio fare un’ultima osservazione: la mia non è una proposta di testimonianza, come si usa dire oggi, né una predilezione per i partitini. È una proposta di ricostruzione progettuale e di generosa apertura al rischio insito nella politica, che non si propone solo qualche guadagno tattico, ma che vuole pensare in grande e in avanti, o almeno si sforza di farlo. Ed è l’auspicio che dall’impasse finalmente si sia usciti, con radicalità e con serietà, senza esitazioni e senza estremismi.

Ingiustizie e disuguaglianze sociali: è davvero necessario governare per risolverle? Ovvero, Pisapia insiste sul centrosinistra “di governo”, discontinuo rispetto alle politiche renziane, ma evita di proporre come si governano i processi. Che ne pensi?

Sulla base di quanto ho appena detto, è chiaro che il semplice andare al governo non basta. Si rischia di non contare nulla e di avallare politiche in continuità col passato, di sposare tutte le «compatibilità» del sistema. È molto più importante insediarsi nella cultura e nella società con un lavoro di lunga lena e di ampie prospettive, che ricostruisca le persone, la società, lo Stato, la democrazia, l’Europa.

Renzi ha sostenuto che i suoi avversari sono i 5stelle e i populisti, mentre col Rosatellum costringe a coalizioni farlocche pronte a sfaldarsi il giorno dopo il voto. Zagrebelsky invita Mattarella a non firmare quella riforma elettorale a pochi mesi dal voto e indica, insieme a tanti giuristi, gli elementi di indubbia incostituzionalità presenti nel Rosatellum. Qual è l’antidoto, secondo te?

L’antidoto al Rosatellum è stato il Mattarellum o anche il Tedeschellum. Questa nuova brutta legge che martedì si inizia a votare alla Camera è buona per Renzi e per Berlusconi, dato che rende entrambi centrali nel costruire coalizioni, e al contempo spacca la sinistra e toglie qualche seggio ai cinquestelle (i quali in ogni caso, si sono tirati fuori dagli scenari post-elettorali, poiché non hanno e non vogliono avere capacità coalizionale). Ma una legge elettorale da sola non salva un Paese (al massimo lo condanna). Le coalizioni che emergeranno dalle elezioni saranno instabili, soprattutto quella di destra, lacerata tra Salvini e Berlusconi. Secondo quelli che saranno i risultati elettorali concreti, a oggi non prevedibili per la distanza che ancora ci separa dal voto, ci saranno rimescolamenti di carte in Parlamento. È su questi – sulla rottura della destra in particolare – che Renzi, ormai venuto a più miti consigli, punta per avere un ruolo nella politica di domani (e intanto si fa una legge che gli dà il controllo degli eletti, almeno per sette decimi). Francamente, si tratta di scenari tanto deprimenti quanto invece è esaltante adoperarsi per la ricostituzione di un orizzonte teorico e pratico di una sinistra non politicista, ma capace di pensare la politica in grande stile.

 

 

L’intervista è stata pubblicata in «www.jobsnews.it» l’8 ottobre 2017

Sinistra a congresso fra piccola e grande politica

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È ormai chiaro che invece di un congresso fondativo Sinistra Italiana ne terrà due, fornendo così un inedito esempio di «scissione preventiva». SI nasce sotto una cattiva stella, e anzi rischia di essere una creatura fragile e cagionevole – ma non perché precoce, anzi perché tardiva (quanto entusiasmo è passato sotto i ponti dal teatro Quirino!) –; o addirittura potrebbe essere un progetto nato morto.

I vortici che rischiano di sommergerla sono molteplici. Quelli che si generano al suo interno, in primo luogo. Si tratta di divisioni personali, di beghe sulle tessere, di abitudini al piccolo cabotaggio, di mancanza di elaborazione teorica e quindi di divergenze sulla natura e sull’orizzonte stesso della sinistra (sul ruolo dello Stato, sul rapporto con l’euro e l’Europa, sulle questioni della sicurezza e sulle migrazioni) – che spesso si traducono nel tema del rapporto col Pd (che è in realtà segno di subalternità) –. Sullo sfondo si delinea la divaricazione fra l’autonomia – che per chi la critica è una «deriva identitaria» (anche se non è chiaro di quale identità si parli) –, da una parte, e dall’altra la vocazione “responsabile” alla collaborazione al «campo progressista» di un rinnovato centro-sinistra – nell’ipotesi che questo nuovo «centro-sinistra immaginario» (tutto da precisare) possa rimediare ai disastri perpetrati dal «centro-sinistra reale», che a suo tempo ha spianato la strada al neoliberismo e al suo nemico speculare, il populismo –.

Il «campo» della sinistra è, a sua volta, percorso da tentativi di ricomposizione: Cuperlo dall’interno del Pd, Pisapia e D’Alema dall’esterno, lanciano ciascuno (differentemente l’uno dagli altri) un’Opa – forse non ostile ma certo egemonica – sullo spazio a sinistra del Pd, il che impedisce a SI di essere protagonista del gioco, e la relega di fatto al rango di comprimario.

Ma non solo lo spazio a sinistra rischia di essere affollato di proposte deboli e concorrenziali e di finire occupato dall’astensione o dalla protesta anticasta; incombe anche la questione della nuova legge elettorale. Alla Camera al momento c’è il premio di maggioranza ma non sono previste le coalizioni; al Senato queste ci sono ma non c’è il premio. Nessuno, coalizzato o no, è in grado di arrivare al 40 per cento, e quindi tutte le ipotesi di nuove leggi elettorali registrano il venir meno dell’antica vocazione maggioritaria del Pd, che si vede costretto a coalizzarsi o prima o dopo le elezioni (ma a questo punto l’alleanza preventiva non gli dà nessun beneficio), e anche la crisi della centralità del Pd, che non può cambiare la legge elettorale da solo, e cerca partner diversi (a volte il M5S a volte Berlusconi, che però pongono sempre nuove condizioni – la rinuncia ai capilista bloccati, i primi; l’attesa della cosiddetta «riabilitazione» da Strasburgo che lo renda ricandidabile il secondo, che ha anche un difficile problema strategico con la Lega –).

Per di più il Pd è divenuto l’epicentro dell’instabilità politica italiana. Renzi ha accondisceso alla richiesta di Bersani e di Cuperlo di un congresso anticipato. Ma quella di Renzi non è una resa; è infatti evidente che punta a vincere un congresso frettoloso e a favorire, mentre si svolge, l’uscita definitiva della sinistra dal Pd: l’eventuale scissione dalemiana (che se coinvolgesse anche Bersani – come avverrà se non sarà risolta la questione dei capilista bloccati, che escluderebbero quasi del tutto la sinistra Pd dal parlamento – provocherebbe un danno non piccolo al Pd sul piano elettorale) verrebbe così addebitata ai suoi nemici storici, e non al segretario.   Congresso rapido, scissione o subalternità degli sconfitti, alleanza con Pisapia per il 40 per cento, elezioni a giugno: questo resta, verosimilmente, il piano di Renzi.

Il quale non è scomparso dall’orizzonte della politica, benché il suo potere dentro il Pd sia meno saldo (ma egli resta ancora senza avversari reali) e benché col referendum e con la sentenza della Corte costituzionale (il baricentro dell’Italicum era il ballottaggio) abbia perso la scommessa di confezionarsi una nuova forma di «democrazia d’investitura rafforzata» tagliata sulle proprie misure; ma la sua politica ha ormai ha il carattere di avventura personale, di tentativo di mettere in salvo il salvabile del passato potere – che egli cerca di imporre all’Italia, nel crescente scetticismo del suo partito e nell’assenso, almeno apparente, delle forze antisistema (Lega, FdI, M5S) più interessate a sfruttare il momento, presunto propizio, che non a individuare i mali dell’Italia.

In questo contesto SI non sarà certo determinante né nell’elaborazione del modello elettorale né nell’individuazione della data delle elezioni. Potrà forse avere qualche peso nel nuovo sistema politico a base proporzionale, e quindi coalizionale, ma senza una vera rinascita teorica e organizzativa questo vantaggio varrà ben poco, a fronte della questione, mai apertamente affrontata, di che cosa significhi pensare e fare politica a sinistra, oggi –.

I mali dell’Italia, in ogni caso, non sono, come vuol far credere Renzi nel suo stanco populismo, i «vitalizi» dei parlamentari (magari fossimo a questo!), e non possono essere curati da un nuovo bagno rigenerante di campagna elettorale (come se non ne avessimo avuto abbastanza con il referendum). Stanno, quei mali, nella nostra difficoltà, per la debolezza del sistema politico e delle culture politiche, a prendere decisioni in merito a tre fini ormai incombenti: della globalizzazione, chiusa da Trump e dalla sua militarizzazione dell’economia in senso protezionistico; dell’euro, in via di chiusura per la crisi economica e sociale che ha generato, e per i crescenti differenziali di crescita che si registrano nell’eurozona (a ciò si aggiunga la crisi della Ue, scandita dalla Brexit, dalla sfida lepenista, e dai muri che sorgono ovunque); e dell’ordine democratico postbellico che già si era molto malamente adattato alla globalizzazione neoliberista e che ora, nella sua crisi, rischia di essere senz’altro scardinato da politiche di destra – la sinistra in Europa non è certo in buona salute, benché forse qualche speranza possa venire dalla Germania –.

Se manca a tutti, tranne che forse alla destra estrema, un progetto per l’Italia, se Renzi dice al popolo soltanto «stai sereno e fidati della mia abilità», se i «grillini» sono drammaticamente inadeguati, se la destra moderata non ha una vera risposta se non nel riesumare Berlusconi (se sarà possibile), in particolare la sinistra – che della costruzione dell’ordine democratico postbellico era stata protagonista, e che della globalizzazione era stata vittima e al tempo stesso propagatrice tanto affascinata quanto subalterna – non può, dopo la compromissione, ritornare in campo con un heri dicebamus, cioè con una proposta socialdemocratica che non faccia i conti con la crisi della stessa socialdemocrazia, che non ripensi il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e nella ristrutturazione della sfera pubblica in un contesto in cui sono assenti i partiti di massa, peraltro indispensabili per una rinascita della politica. Una sinistra di governo (e di «protezione» non securitaria della società) che tenga conto che la globalizzazione non è passata invano dovrà essere nei fatti rivoluzionaria, tanto è il peso delle macerie da spostare e delle nuove istituzioni da ricostruire – nonostante il risultato referendario, ridare vita materiale e non solo formale alla Costituzione non è impresa da poco –. Ma dell’energia necessaria non v’è traccia, per ora; la grande sfida di creare il «quarto polo» della politica italiana non tanto è stata fallita quanto non è stata neppure tentata. Da una parte si è ripiegati su un’ipotesi minoritaria, rassicurante, e dall’altra si è scelta una via “aperta” ma incerta e oggettivamente orientata a governare col Pd; una via che parla più al ceto politico che ai cittadini.

Di fatto, entrambe le ipotesi oltre a confermare che a sinistra è più facile dividersi che unirsi rischiano di essere solo «piccola politica», di avere a stento il respiro per partecipare su piccola scala all’impresa del «primum vivere», comune a tutte le forze politiche. Impresa ovviamente indispensabile, e che ci auguriamo riesca a SI, ma non tale da muovere gli animi delle masse. Impresa in ogni caso molto lontana da quella che dovrebbe essere propria della sinistra, oggi: rifondare la «grande politica» dopo la neutralizzazione neoliberista e dopo la reazione populista. Una mission che può essere definita velleitaria solo da chi non prende sul serio la profondità della crisi che attraversiamo e le minacce di destra che incombono sulle nostre società.

Versione riveduta di un testo pubblicato  in «La parola»n. 5, 2017

 

L’Italia non è «antipolitica» ma «diversamente politica»

Non sono bastati a Renzi gli endorsement delle élites di mezzo mondo, di tutte le caste e di tutti i poteri – da Napolitano a Prodi, da Obama a Juncker, da Schäuble al «Financial Times» –; non gli sono state sufficienti l’occupazione sistematica e scientifica di ogni spazio comunicativo pubblico e privato, giornalistico e televisivo, la mobilitazione di tutti i corpi dello Stato, dalle Poste alle ambasciate, la consulenza degli spin doctors d’oltreoceano, la propaganda dei vip di regime (comici, cuochi, attori, cantanti, giornalisti, presentatori); non gli è bastato ricorrere al populismo più sfacciato – che va sempre a sbattere contro qualcuno più populista –, né deridere gli intellettuali e i professori, che hanno passato la vita a studiare, a insegnare e a riflettere anziché a fare carriera politica; Renzi, e con lui il Pd, hanno perso. In modo netto e inequivocabile – anche se i renziani di ferro parlano di grande risultato, dato che il Pd ha ottenuto 13,5 milioni di voti –.

Il disegno di blindare in modo formale e definitivo – con le due leggi, costituzionale ed elettorale, fra loro combinate – lo shift, già avvenuto di fatto, verso un regime del primo ministro senza contrappesi, è stato respinto dagli italiani (tranne gli emiliani, i toscani e gli altoatesini); i quali non hanno creduto che i loro problemi, gravissimi e reali, fossero causati dal bicameralismo perfetto e dai ritardi (inesistenti) che questo comporta nella legislazione, e anzi si sono insospettiti per l’enorme energia spesa dal leader, dal suo partito e dai suoi alleati, a riformare questo aspetto della costituzione (insieme al titolo V) anziché, ad esempio, l’articolo 81, ben più rovinoso economicamente e socialmente. In quell’impegno forsennato hanno visto una trappola, in cui si mescolavano il depistaggio cognitivo, il diversivo politico, il goffo tentativo bonapartistico in sedicesimo (nella piena legalità formale, peraltro).

Benché bombardati da propaganda e contropropaganda di bassissimo livello, da pseudoargomentazioni sloganistiche, da minacce per nulla velate, da promesse deliranti, gli italiani con la loro mobilitazione massiccia e con il loro voto schiacciante hanno dimostrato di aver capito che la posta in gioco era serissima: conservare almeno, come ultimo baluardo – non solo ideale, ma anche organizzativo – di fronte al disastro sociale e politico in cui gli ultimi decenni ci hanno precipitato, la Costituzione repubblicana non ancora del tutto sfigurata nel suo limpido dettato e nel suo orientamento democratico e parlamentare; quella Costituzione che ci ha accompagnato nella crescita civile degli ultimi settant’anni, e che non è per nulla responsabile dell’attuale crisi del Paese.

Gli italiani che hanno detto No si sono rifiutati di avallare con il loro voto la democrazia dell’esecutivo, la post-democrazia, l’uomo solo al comando, il plebiscitarismo; vi hanno visto non la soluzione dei mali del Paese ma l’ultimo beffardo sigillo sullo scempio di democrazia che è perpetrato attraverso la distruzione sistematica del ceto medio e del ceto operaio, le leggi sul lavoro e sulle pensioni, la disoccupazione e l’emigrazione coatta. Un pezzo del problema, quindi, e non certo della soluzione.

Oggi non esiste praticamente un governo occidentale che si possa presentare tranquillamente agli elettori, che tendenzialmente (e giustamente) bocciano gli esecutivi in carica. Ed è vero che i 19,5 milioni di voti del No hanno un senso politico soltanto oppositivo, com’è ovvio che sia: e segnalano semmai un’Italia, soprattutto al Sud e fra i giovani (il primo forse non entusiasta di sentirsi dire che ha bisogno di una nuova narrazione, i secondi stanchi di ostentato giovanilismo), che rifiuta la politica così com’essa è praticata e chiede ben altro che le parole vuote della propaganda: un’Italia non necessariamente «antipolitica» ma semmai «diversamente politica». Detto altrimenti, quei voti non sono di nessuno, poiché contengono al loro interno opzioni troppo differenti l’una dall’altra. Almeno, tuttavia, disegnano un terreno etico-politico comune: la difesa della democrazia e della costituzione da ogni avventura, da ogni azzardo e da ogni forzatura e da ogni ulteriore tentativo di governare monocraticamente attraverso la divisione del Paese, la sconfitta dell’arroganza del potere e della presunzione di invincibilità, l’apertura di uno spazio di azione per rifare l’Italia.

L’evoluzione del quadro politico appare complessa: il Pd, col suo Sì, ha fatto breccia fra gli elettori di centro e del centrodestra e ha contemporaneamente perduto quasi altrettanto a sinistra; si tratta di vedere se questo assetto è transitorio, cioè relativo solo al quesito referendario, o se è destinato a diventare permanente. In ogni caso, il partito esce molto indebolito da questa prova, ma al tempo stesso deve continuare a essere il garante della tenuta del governo e delle istituzioni, anche se Renzi pare propenso, come al solito, all’ultima sfida, solo contro il resto del mondo: cioè alle elezioni anticipate a brevissimo termine. Ma non è detto che l’abbia vinta dentro il suo partito: ci saranno resistenze franceschiniane ed è inoltre da presumere che la sinistra interna ponga a breve la questione della segreteria; e qui si vedrà se Renzi è una meteora individuale o se esprime una quota significativa del Pd, che è ora posto davanti alla necessità di ripensare la propria natura e la propria parabola – per accettarle e andare avanti sulla linea Renzi, o per rifiutarle –.

D’altra parte, i partiti antisistema – Lega, Fratelli d’Italia e M5S – fiutano il sangue e chiedono a gran voce elezioni anticipate, ma, a parte Grillo che vuole votare subito con l’Italicum un po’ modificato, non necessariamente credono davvero a ciò che dicono: fintanto che il M5S non accederà all’ipotesi di alleanze politiche di governo, in Italia non ci sarà stabilità politica se non nella formula della solidarietà nazionale fra Pd e centrodestra (o una sua parte), e Berlusconi dovrebbe essere non favorevole a lasciare a Salvini la gestione del centrodestra in chiave antisistema; e quindi ha bisogno di tempo, come anche Alfano (le cui ansie di elezioni anticipate paiono più che altro apotropaiche), mentre il leader della Lega cerca in realtà la forzatura prima ancora sulle primarie del centrodestra che non sulle elezioni politiche. La sinistra, infine, deve decidersi – se mai vi riuscirà – fra le due ipotesi che la interpellano: puntare su un nuovo centro-sinistra, cioè collaborare col Pd (eventualmente) de-renzizzato, o proporsi come coerente forza anti-sistema e competere su questo terreno col M5S.

Buona parte delle soluzioni dipenderanno anche dalla legge elettorale che si riuscirà a fare; ma sembra chiaro che molte forze politiche (non tutte) hanno bisogno di tempo. E forse ne ha bisogno l’Italia, che dopo le dimissioni in Tv di Renzi (non certo un modello di correttezza formale) deve dotarsi di un governo non purchessia ma anzi molto solido e determinato (la maggioranza di governo c’è ancora) capace di non sprecare i tre anni e mezzo di legislatura già trascorsi e – dismettendo ogni velleità di riforma della Costituzione e senza aggravare la crisi politica con una nuova campagna elettorale dopo quella, devastante, referendaria – di disinnescare l’attuale sciagurata legge elettorale (l’Italicum, la «legge perfetta» di Renzi), e di affrontare la durezza delle condizioni che l’Europa si prepara di nuovo ad avanzare dopo la breve tregua elettorale concessa al premier, e ora a Padoan. Un governo che prepari l’Italia – dandole il tempo di respirare – a prendere, alla scadenza della legislatura, le necessarie grandi decisioni sul proprio futuro.

 

“Imperfetto perfettismo”: le riforme costituzionali nell’Italia del secondo dopoguerra. Intervista a Carlo Galli

Intervista con Fausto Pietrancosta

Lo storico del pensiero politico Carlo Galli nell’intervista rilasciata a «Diacronie. Studi di Storia contemporanea» il 30 luglio 2016, partendo dall’esame degli esiti dell’ultima revisione del testo costituzionale, ripercorre le fasi e le caratteristiche fondamentali del dibattito sulle riforme istituzionali nel secondo dopoguerra. L’analisi delle ideologie e dell’evoluzione del pensiero politico rappresentano così l’occasione per un approfondimento degli assetti del potere in Italia alla luce degli eventi storici degli ultimi decenni.

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In che modo ritiene si inserisca la legge di revisione costituzionale (cosiddetta Riforma Boschi), approvata in via definitiva dal Parlamento ad inizio del 2016 e che a breve sarà sottoposta a referendum popolare confermativo, nel contesto politico nazionale e in che modo crede abbia influito l’attuale conformazione del sistema partitico italiano sulle scelte con essa compiute?

La legge di revisione costituzionale e la legge elettorale che la completa nascono da un input del Capo dello Stato all’inizio della legislatura, e sono state portate avanti, con modalità diverse, tanto da Enrico Letta quanto da Matteo Renzi. Quest’ultimo ne ha fatto la propria legittimazione politica, e ha pensato a due leggi che, combinate, lo conservassero al potere senza significativi contrappesi. È stato spinto a ciò dai risultati delle elezioni europee del 2014, molto favorevoli al Pd (ma anche molto caduchi, come si è visto in seguito). L’idea di fondo è di stabilizzare a ogni costo la politica italiana attraverso un’ingegneria costituzionale ed elettorale che trasformi il tripolarismo uscito dalle elezioni del 2013 in un bipolarismo al momento decisivo del voto (il ballottaggio) e in un monopolio del potere per chi risulta vincitore. Da quando si è capito che ad avvantaggiarsi del sistema sarebbero stati i “grillini”, stiamo assistendo a una serie di tentativi di smontare l’impianto della legge elettorale, e di superare il divieto delle alleanze (da sempre definite inciuci), intorno a cui è costruita. Dal punto di vista dei principali effetti sistemici, la revisione costituzionale dà un nuovo impulso al centralismo statale a scapito delle autonomie regionali, e una maggiore forza all’esecutivo a scapito del legislativo e dei poteri di garanzia. Infatti una delle più rilevanti novità della revisione costituzionale, cioè l’eliminazione dal circuito della fiducia del Senato (nel quale i governi hanno spesso maggioranze risicate in virtù della sua elezione su base regionale), rende ancora più stretto il rapporto fra il governo e l’unica Camera politica, nella quale una maggioranza gonfiata artificialmente dalla legge elettorale (se questa non verrà cambiata) garantisce che ogni iniziativa governativa troverà rapida legittimazione legale.

Pur nella diversità dei punti di partenza e del momento storico è possibile rintracciare delle analogie tra il dibattito sull’ordinamento istituzionale all’interno dei partiti di oggi e quello animato dai membri dell’Assemblea costituente fra il 1946 e il 1947? E in caso quali differenze riesce a ravvisare?

Premesso che una revisione costituzionale condotta ex art. 138 Cost. non può essere confusa con l’esercizio di un potere costituente, non trovo nessuna analogia fra l’oggi e il passato. Il dibattito attuale è stanco, ripetitivo, mediatico, ideologico e condotto per slogan. Non è all’altezza nemmeno formale della solennità richiesta a un atto costituente. La revisione costituzionale è di iniziativa governativa, ed è stata portata avanti con gravi forzature della prassi parlamentare. Oggi, in generale, l’Italia non si mette in gioco con la stessa drammaticità di allora. Ciò che allora era una necessità nazionale oggi è solo una posta della lotta politica: la lotta di Matteo Renzi contro tutti (che gli è sfuggita di mano).

Che ruolo hanno avuto a suo parere le dinamiche sociali ed economiche, ma anche il contesto geo-politico internazionale e, nello specifico, europeo sulle scelte istituzionali compiute dai membri della Costituente? Analogamente, volendo stabilire una forma di comparazione, in che modo le stesse dinamiche e il contesto internazionale odierni hanno influito sul dibattito sulle riforme alla base dell’attuale legge di revisione del testo costituzionale?

L’opera dei costituenti risente della sconfitta militare e politica dell’Italia fascista, e della volontà di dire addio per sempre alla dittatura. È dunque figlia della Seconda guerra mondiale, ma non della guerra fredda. Infatti la rottura dell’alleanza governativa tra democristiani e comunisti, nel marzo 1947, non mise fine ai lavori della Costituente che proseguirono costruttivamente fino al dicembre. La nostra Costituzione è frutto di una collaborazione fra sinistra e cattolici che si manifesta chiaramente con la scelta istituzionale democratica e con la decisione per un’economia capitalistica a rilevante componente pubblica e a forte responsabilità sociale. Oggi gli assunti di fondo che guidano la revisione costituzionale sono coerenti con le esigenze basiche dell’ideologia neoliberista (nel caso europeo, ordo-liberista), che alla politica chiede essenzialmente capacità di decisione e governabilità, con un netto sacrificio della partecipazione e della rappresentanza.

A suo parere è possibile tracciare un percorso più o meno lineare che partendo dal testo costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948, passando per le varie modifiche organiche tentate o compiute (commissioni bicamerali delle legislature IX, XI e XIII e riforme del 2001 e del 2005), possa pervenire all’attuale ultima riforma approvata dal Parlamento motivandone e chiarendone le caratteristiche della discussione e le formule definite?

Da quando le autentiche forze propulsive della prima repubblica, cioè i partiti, hanno smesso di svolgere il loro ruolo politico, cioè dalla metà degli anni Settanta e soprattutto dopo la morte di Aldo Moro, hanno coltivato la speranza di potere rimettere in carreggiata la politica nazionale riformando non tanto se stesse quanto le istituzioni, alle quali sono state attribuite colpe non loro. Così si è assistito dal 1982 in poi a una serie interminabile di tentativi di riforma – alcuni riusciti, altri falliti o bocciati dai cittadini – tutti orientati con varie strategie al rafforzamento dell’esecutivo e alla ridefinizione, oggetto a sua volta di periodiche revisioni, dei rapporti fra Stato e regioni.

Indro Montanelli in una famosa intervista rilasciata nel corso degli anni Novanta parlò del differente punto di partenza del lavoro dei costituenti tedeschi rispetto a quelli italiani nella redazione della legge fondamentale della Repubblica, sottolineandone la scelta a favore del rafforzamento del ruolo dell’esecutivo come risposta al «caos della Repubblica di Weimar» nel primo caso e, al contrario, la scelta di una forma esasperata di parlamentarismo in grado di condizionare e limitare ogni forma di azione dell’esecutivo quale origine dei mali del sistema istituzionale italiano nel secondo. Quanto ritiene ci sia di vero in questa analisi e quanto ritiene che questa eventuale consapevolezza abbia condizionato il dibattito sulle riforme costituzionali nei decenni sino alle ultime modifiche introdotte?

Il Grundgesetz tedesco non è particolarmente caratterizzato da un forte esecutivo quanto piuttosto da uno scrupoloso senso della legalità costituzionale e della legittimità democratica dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che il valore cardine della Germania postbellica è la stabilità sociale, economica, istituzionale – ottenuta con una combinazione di legge elettorale, federalismo, ordoliberalismo –. D’altra parte il sistema delineato dalla Costituzione italiana non è un «esasperato parlamentarismo» ma un «normale» parlamentarismo, in piena linea con la tradizione politica (italiana e prima ancora sabauda) fino dai tempi dello Statuto Albertino, che pure formalmente non lo prevedeva.

Bicameralismo paritario, Senato delle autonomie ed elettività della Camera alta sono stati già nel 1946-1947 temi oggetto di acceso dibattito tra le forze politiche. Come interpreta la soluzione istituzionale allora definita e come giudica la modifica dell’assetto parlamentare approvata a riguardo nell’ultima riforma rispetto alla scelta iniziale?

L’assetto istituzionale del Parlamento previsto dalla Carta del 1948 è un bicameralismo paritario, ma non perfetto. Il Senato è eletto su base regionale, il che ne differenzia, anche profondamente, la composizione rispetto alla Camera. L’età a cui si accede all’elettorato attivo e passivo è diversa. La durata era settennale (fu modificata nel 1953). Certo, rango e ruolo erano e sono uguali fra Camera e Senato; il che è stato recentemente un grave problema dal punto di vista della possibilità di formare al Senato la medesima maggioranza politica della Camera, e ha quindi creato un frequente deficit di governabilità. Ma il bicameralismo paritario, benché discutibile, non è, di per sé, motivo reale di inefficienza del processo legislativo; la quale, quando c’è, nasce dalla debolezza, dalla divisione e dalla contraddittorietà dei partiti. Oggi, si sarebbe potuto ipotizzare o l’abolizione del Senato (e l’elezione della Camera con il sistema proporzionale e una soglia di sbarramento) o un Senato di garanzia, eletto dai cittadini ma escluso dalla fiducia, incaricato tra l’altro di preparare leggi organiche (codici) in rapporto con la Camera politica. Sarebbero state soluzioni più efficaci, più rispondenti a un’esigenza reale del Paese, e quindi soluzioni anche più comprensibili di quella, pasticciatissima e incoerente, che è stata adottata (come si giustifica il mandato libero dei senatori di fronte alla loro elezione di secondo grado, e al fatto che rappresentano le «istituzioni territoriali» e non la volontà del popolo?).

La revisione del Titolo V adottata con l’ultima riforma del testo costituzionale è stata vista da molti come una sorta di arretramento rispetto al percorso di rafforzamento delle autonomie regionali in Italia, iniziato nel corso degli anni Settanta e consolidato con la riforma costituzionale del 2001, con un ritorno di molte competenze a livello centrale. Possiamo inquadrare le scelte compiute come effetto della consapevolezza del fallimento dell’esperienza regionalista in italia? In tal senso possiamo rintracciare dei punti di contatto nel dibattito istituzionale sulle autonomie locali tra il ceto politico presente in Assemblea costituente e quello attuale?

La riforma del Titolo V attuata dal centrosinistra nel 2001 non ha funzionato. Era un esito della stagione del «federalismo» italiano, che è stato praticato tanto a sinistra quanto a destra e che si è rivelato uno dei molti tentativi, sostanzialmente falliti, di rispondere con l’ingegneria costituzionale alla crisi della politica. L’assetto regionalistico della Repubblica, attivato solo nel 1970, e rafforzato appunto nel 2001, non ha dato buona prova di sé, sia per motivi legati a fenomeni di corruzione sia, assai di più, per l’alta conflittualità che ha contrassegnato, generando molte inefficienze, i rapporti tra Stato e regioni sulle materie concorrenti. Se non è fallita, l’esperienza regionalista in Italia ha certamente avuto un (relativo) successo solo in alcune aree.

Gli inevitabili riflessi della riforma Boschi sul funzionamento e le modalità di elezione degli organi costituzionali di garanzia come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale o le modifiche delle forme di controllo ed emendazione popolare come il referendum sembrerebbero andare nella direzione di uno spostamento dei rapporti di potere a vantaggio dell’esecutivo, favorendo allo stesso tempo un rapporto quasi diretto e trilaterale tra partito di maggioranza alla Camera (tenuto conto degli effetti del disposto del cosiddetto Italicum) esecutivo e corpo elettorale, ricalcando formule e prassi iper-maggioritarie in vigore in altre democrazie occidentali. Non ritiene ciò segni una rottura rispetto al solco tracciato dai costituenti nel 1946/1947? E in che modo crede abbiano inciso su tale evoluzione istituzionale gli avvenimenti degli ultimi trent’anni e in particolare quelli che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica?

Se si dovesse realizzare, il combinarsi reciproco della revisione costituzionale e della nuova legge elettorale super-maggioritaria implicherebbe non solo un significativo spostamento dei rapporti fra i poteri dello Stato, ma una trasformazione qualitativa della repubblica, che da democrazia parlamentare dei partiti diventerebbe una democrazia d’investitura rafforzata. Il sistema politico ruoterebbe infatti intorno al leader del partito uscito vincitore dalle elezioni, anche con percentuali molto basse di suffragi, calcolate per di più su una base elettorale che da parte sua si restringe continuamente. Esecutivo, legislativo, organi di garanzia, perfino la deliberazione dello stato di guerra, sarebbero a disposizione, piena o quasi piena, del vincitore, senza significativi contrappesi istituzionali. La rappresentanza sarebbe quasi interamente sacrificata alla governabilità. I partiti non sarebbero altro che effimere formazioni elettorali al servizio del Capo; quelli soccombenti non avrebbero ruolo politico, e i loro elettori sarebbero collocati in una condizione di forte disuguaglianza rispetto ai vincitori. In generale, la vita politica sarebbe non solo impoverita (si vota per meno istituzioni), ma sarebbe anche irrigidita in una brutale semplificazione plebiscitaria celebrata ogni cinque anni. La complessità e la ricchezza della politica sarebbero votate a scomparire. L’esatto contrario dell’idea di una società aperta, dinamica, dialettica, partecipativa a più livelli, disegnata dai costituenti; di una società, cioè, che non relega la politica in un angolo, e che non la delega al Capo, ma che attraverso i partiti di massa la vive democraticamente come propria dimensione normale. Il combinarsi delle due riforme risulta insomma funzionale all’idea di politica  – meramente neutralizzante e amministrativa, ma all’occorrenza anche emergenziale – del neoliberismo e delle sue varianti europee. E di fatto costituzionalizza e razionalizza le tendenze e le prassi politiche – largamente difformi dallo spirito della Costituzione – già da tempo in atto, nell’assunto che ad esse non vi sia alternativa. Ancora una volta, tutto deve cambiare perché tutto resti com’è.

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L’intervista è stata pubblicata in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», N. 27, 3, 2016.

Cambiare tutto per non cambiare niente

Da quando ha scoperto la possibilità di una vittoria al ballottaggio del M5S, il Pd ha cominciato a trovare qualche capello nella minestra dell’Italicum, dapprima proclamata squisitissima. Per di più la sinistra interna collega il proprio impegno per il Sì al referendum a modifiche della legge elettorale. E senza l’apporto dei bersaniani e dei cuperliani è improbabile che vinca il Sì; e anche le elezioni politiche divengono per il Pd ancora più un terno al lotto.

Per ora il Pd fa melina, com’è successo mercoledì alla Camera. Ma prima o poi dovrà fare una proposta su cui cercare l’accordo di altri partiti, dato che una forzatura del governo con una nuova fiducia pare da escludersi.

Si deve mettere in conto, fin d’ora, che Renzi non può modificare l’Italicum nella sua parte ideologica: non può cioè rovesciare l’assunto anti-parlamentare che il governo si formi nelle urne, e non nelle Camere, grazie a un voto dato al Capo di un partito che non ha la maggioranza dei voti popolari, e che la ottiene, grazie a un artificio, nel Palazzo. Renzi non acconsentirà mai alla logica della democrazia parlamentare, secondo la quale i governi nascono da trattative fra partiti all’interno delle istituzioni rappresentative: lo ha detto molte volte, ed è il caso di credergli, una volta tanto, poiché non è uomo che possa sopportare di dover mediare con altre volontà politiche autonome. Renzi potrà forse concedere qualcosa sulle preferenze, sulle candidature multiple, sui capilista bloccati (tutte cose che interessano molto i politici di professione), ma non concederà nulla sul premio di maggioranza – che questo scatti con o senza ballottaggio, che sia conferito alle liste o alle coalizioni pre-elettorali –. I politici di professione potrebbero accontentarsi, i cittadini no, dato che è proprio per questa via che la democrazia parlamentare si trasforma in premierato, o in «democrazia d’investitura rafforzata», senza contrappesi.

Questa trasformazione della forma di governo nasce dal «combinato disposto» delle due riforme – quella elettorale e quella costituzionale –, che è innegabile perché l’Italicum è già legge: quindi esiste già la chiave, o il grimaldello, che si adatta perfettamente alla serratura, cioè alla Costituzione riformata. E questa infatti prevede l’esclusione del Senato dal circuito della fiducia, così da garantire il governo da ogni sorpresa, mentre intanto gode della maggioranza (fittizia) alla Camera, ridotta a organo di veloce ratifica delle decisioni dell’esecutivo. Del resto, se non vi fosse una forte interferenza fra le due riforme la Corte costituzionale non avrebbe rinviato la pronuncia sulla legge elettorale: il rinvio nasce dal fatto che entrambe le riforme riguardano in modi diversi la medesima materia – il cambiamento della forma di governo – e che una decisione giudiziaria su una di esse interferisce col referendum sull’altra. La Consulta, insomma, smentisce le tesi renziane della estraneità fra le due riforme.

Ma al di là dei tecnicismi, il giudizio politico su queste è che si tratta di uno dei più grandi atti di gattopardismo della storia della Repubblica. La logica che vi è implicita è infatti che tutto deve cambiare (e, appunto, le due riforme, insieme, cambiano la forma di governo) perché tutto resti com’è: ovvero perché permanga, rafforzato, l’attuale dominio dell’esecutivo sul Parlamento, e del Capo sul partito. Un dominio – ora garantito dal Porcellum e in futuro dall’Italicum, comunque questo venga modificato, e dal nuovo ruolo del Senato – che comporta l’affermarsi definitivo del plebiscitarismo e della passività politica dei cittadini. È contro questa prospettiva, non sanabile da modificazioni di dettaglio, che il «ritorno alla Costituzione» del 1948 sarebbe un programma politico alternativo, civico e progressista.

 

 

L’articolo è stato pubblicato in «il Fatto Quotidiano», il 27 settembre 2016.

Metamorfosi

Non le favole di Ovidio, né l’incubo di Kafka, né la straziante malinconia di Richard Strauss. Si tratta in realtà della nostra legge elettorale, unica al mondo: come la pietra filosofale, genera metamorfosi perché sa operare molte trasformazioni – intenzionali e non intenzionali –. Ma a differenza di quella, ciò che tocca non diventa oro.

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1. La prima trasformazione è che la minoranza diventa maggioranza, o con un premio (meglio definirlo di minoranza) o con un ballottaggio. E non è una trasformazione da poco: la quantità non trapassa in qualità gradatamente, ma con un salto, con un miracolo; resta se stessa (minoranza) e al contempo diviene altro da sé (maggioranza). Vi è grande differenza tra questa legge premiale e l’effetto maggioritario dei collegi uninominali: mentre questi esprimono la volontà di un corpo elettorale già organicamente modellato in se stesso (in collegi uninominali, appunto) in modo tale da produrre (non necessariamente, certo) una maggioranza, l’Italicum prevede invece una secca aggiunta di seggi rispetto al risultato ottenuto col proporzionale.

2. Ciò risponde all’esigenza che la maggioranza si produca necessariamente – sulla base dell’assioma, ovviamente indimostrato (e accettato nell’ambito bersaniano prima ancora che in quello renziano), che la sera delle elezioni gli italiani hanno il diritto di sapere chi governa –; questa (pseudo) esigenza è l’origine della seconda trasformazione prodotta da questa legge. La trasformazione della mediazione in immediatezza, della politica da processo (che implica tempo, costruzione di coalizioni, o di alleanze e di programmi) in spot e in blitz; la virtù politica non è più la prudenza ma la velocità, non la pazienza ma l’impazienza (anche come ‘insofferenza’). Questa legge accarezza così la pulsione popolare all’antipolitica, benché proclami di volerla contrastare, proprio perché riduce la politica al minimo indispensabile, a una parentesi elettorale dal risultato comprensibile, semplice e garantito; l’obiettivo (non detto) è che sia possibile dimenticarsene al più presto, e lasciarne l’esercizio al ceto politico eletto – non nel senso di ‘scelto’ ma nel senso di ‘votato’ –.

3. Rientra in questa logica anche il fatto che la possibilità di scelta da parte dell’elettore sia ridotta, e che molti deputati saranno frutto di una scelta verticale dei partiti, ratificata dall’elettorato. Che i deputati siano (per lo più) trasformati in nominati ha lati positivi (solo così possono entrare in Parlamento i membri delle élites non politiche) e negativi (lo strapotere delle segreterie dei partiti si perpetua). Si deve dire, però, che questa trasformazione è di rilievo minore rispetto a quelle che seguono, riguardanti il quadro politico e il ruolo del Parlamento nel sistema politico.

4. La quarta trasformazione si realizza quando vi è un vincitore al primo turno. Nelle condizioni attuali, solo il Pd è in grado di superare il 40% dei voti espressi (ma quanti saranno, questi, rispetto all’intero corpo elettorale? Sarà vero, insomma, che gli aspetti di impazienza contenuti nella legge riavvicineranno, sia pure cursoriamente, i cittadini alla politica?); l’abbassamento delle soglie d’ingresso e il premio alla lista creeranno una situazione in cui un grande partito della nazione (un partito pigliatutto) regnerà indisturbato in un panorama di arboscelli (partiti del 15-20%, antisistema come la Lega e il M5S, ma anche Fi) o di arbusti non apparentabili (come rischia di essere il campo della sinistra extra-Pd). Il bipolarismo (mantra della seconda Repubblica e del primo Italicum) è trasformato in monopartitismo, nello stile della prima Repubblica. Con la differenza fondamentale che la nuova Dc non opererà alcuna mediazione nei territori (dove già ora si presenta spesso come ‘partito in franchising’, come sigla a disposizione dei più diversi gruppi d’interesse e delle più diverse formazioni locali, anche impresentabili), e che al centro ricompone l’unità politica non grazie a una variegata classe dirigente ma grazie a un Capo e alla sua capacità di dialogo mediatico con i cittadini.

5. Se il vincitore non si determina al primo turno, avremo poi un’altra trasformazione, la quinta: ovvero, il secondo turno si trasforma in ballottaggio. Ciò che ha un senso circoscritto e quindi sobriamente politico quando si svolge all’interno di un singolo collegio, si trasforma su scala nazionale in un plebiscito, o in un duello all’ok Corral, in una sfida fra due leader. L’intensificazione della politica si dà insieme alla sua semplificazione spettacolare e alla sua verticalizzazione.

6. In entrambi i casi (primo turno o ballottaggio) avrà luogo la sesta trasformazione (in realtà duplice), che investe il partito vincitore, il quale da poco più che comitato elettorale verrà trasformato in quasi solitario dominus della Camera. Ma la sua natura inconsistente sotto il profilo identitario e ideologico, la sua ondivaga collocazione sociale, nonché la modalità di composizione delle liste, faranno al tempo stesso di questo ‘padrone’ del legislativo un ‘servitore’ del vero Capo della politica italiana, cioè del presidente del Consiglio, il leader della lista vittoriosa (che il Capo dello Stato non potrà non incaricare di formare il governo).

7. Tutto ciò nasce dalla settima trasformazione – la prima, da un punto di vista logico – realizzata dall’Italicum: la legge elettorale non è più una legge neutra (non che lo fosse il Porcellum; erano però neutri tanto il proporzionale quanto il Mattarellum) ma supremamente politica (in parallelo, la riforma costituzionale politicizza le istituzioni, che divengono la posta in palio delle elezioni, mentre dovrebbero essere l’arena neutrale in cui agiscono i soggetti politici; mentre la riforma della Pa introduce lo spoil system nelle alte fasce della burocrazia). Questa trasformazione è stata resa manifesta quando sulla legge elettorale il governo ha posto la questione di fiducia, con una mossa che ha due soli precedenti: la legge Acerbo (1923), e la cosiddetta “legge truffa” (1953), che meritano una considerazione ravvicinata.

La prima (legge 18 dicembre 1923, n. 2444) fu approvata alla Camera il 21 luglio 1923, dopo la posizione della questione di fiducia (al governo Mussolini la Camera aveva rifiutato l’anno prima la delega in materia elettorale). Lo scoglio più grande per il governo fu il superamento dell’opposizione dei popolari, proporzionalisti, che avvenne grazie a una spaccatura fra destra e sinistra del Ppi, alla quale non fu estraneo l’allontanamento di don Sturzo dal partito, avallato dal Vaticano. Al Senato la legge fu approvata il 14 novembre. La legge intendeva superare la frammentazione politica nata dall’introduzione del proporzionale, nel 1919, e prevedeva un sistema maggioritario plurinominale in un collegio unico nazionale, suddiviso in sei circoscrizioni nelle quali ciascuna lista presentava candidati che potevano essere scelti con le preferenze. La lista vincitrice, che avesse conseguito almeno il 25% dei voti validi, avrebbe ottenuto 2/3 dei 535 seggi, pari a 356; mentre gli altri 179 sarebbero stati divisi tra le altre liste, col sistema proporzionale. La “legge Acerbo” fu applicata solo nelle elezioni del 6 aprile 1924, che – con innumerevoli violenze e brogli – vide l’affermazione nettissima del “listone”, la Lista Nazionale in cui insieme al PNF era confluita la destra nazionalista, liberale e cattolica, mentre le altre forze politiche non formarono un cartello elettorale alternativo.

La cosiddetta “legge truffa”, poi, si differenziava dalla legge Acerbo, e anche dall’Italicum, perché prevedeva, in un impianto proporzionale, un premio di maggioranza alla Camera, per accedere al quale un partito o una coalizione dovevano ottenere il 50% più uno dei voti validi; in tal caso, avrebbero avuto diritto al 65% dei seggi. Alla Camera la legge fu proposta da Scelba e fu discussa dall’inizio di dicembre 1952 al 21 gennaio 1953, fra l’ostruzionismo delle minoranze di destra e di sinistra. Durante l’approvazione De Gasperi – che voleva servirsi della legge per le elezioni imminenti – pose la fiducia sulla parte non ancora esaminata; al momento della votazione l’opposizione lasciò l’aula. Al Senato la fiducia fu posta fin da subito, e a causa di essa si dimisero due presidenti, Paratore e Gasparotto, finché il nuovo presidente, Ruini, riaprì la seduta durante la sospensione dei lavori della domenica delle Palme (29 marzo) del 1953, quando in un inverosimile tumulto scatenato dal Pci la legge fu approvata. Il presidente Einaudi la promulgò il 31 marzo come legge n. 148/1953. Alle elezioni del 7 giugno le forze centriste apparentate ottennero il 49,8% dei suffragi: per circa 54.000 voti il meccanismo previsto dalla legge non scattò. Il 31 luglio 1954 la legge fu abrogata, lasciando dietro di sé uno strascico di gravissima conflittualità politica.

Naturalmente, l’Italicum è assai diverso dalla legge Acerbo perché prevede una soglia più alta perché scatti il premio, per l’entità di questo, oltre che per numerose altre tecnicità; e perché il suo intento esplicito non è di instaurare un regime, ma garantire la governabilità. Ed è diverso anche dalla “legge truffa”, perché non richiede, per assegnare il premio, il 50% più uno dei voti. Ma ha in comune con queste leggi l’idea che l’elezione sia trasformabile dal governo, attraverso una legge, da espressione della sovranità popolare a variabile di una tattica politica che la trascende, al fine di realizzare la stabilità politica: le esigenze di Mussolini erano di dare legittimità formale alla sua presa del potere e di stringere alleanze organiche con le forze reazionarie, mentre De Gasperi e Scelba volevano blindare il centrismo per non dovere aprire né alla destra, come invece avvenne sporadicamente nella seconda e nella terza legislatura, né alla sinistra, come avvenne nella quarta con i governi di centrosinistra. La “legge truffa”, così, avrebbe alterato, ove applicata, il corso storico della politica italiana.

In un contesto assai diverso, anche l’Italicum è una legge molto divisiva (a essa è stata sacrificata anche l’unità del Pd, oltre che l’alleanza con Fi) e radicalmente ‘di sistema’, in quanto plasma – per quanto può una legge elettorale – il potere legislativo, e (in sinergia con la riforma costituzionale) l’intero quadro politico, nell’interesse dell’esecutivo e della sua strategia politica.

8. Questo interesse è l’ottava trasformazione in cui la legge elettorale è coinvolta (insieme alla legge di riforma della costituzione), e ne esprime il significato politico. Il combinato disposto di queste due riforme consegna l’intero sistema politico al vincitore delle elezioni: si tratta quindi della trasformazione della democrazia parlamentare in un premierato che, essendo di fatto privo di contrappesi politici, è in realtà una “democrazia d’investitura rafforzata”: infatti, il Senato riformato, anche dopo l’introduzione dell’elezione dei cittadini, è politicamente inesistente; il potere del Capo dello Stato è una variabile che dipende dalla personalità di un singolo; la Corte Costituzionale è un contrappeso solo giudiziario.

Nessuna analogia è possibile fra il potere di questo Capo e il pur rilevante peso politico dei leader dei Paesi anglofoni, che è bilanciato politicamente: in Inghilterra il Primo ministro primeggia in un partito che ha autonoma consistenza e che non trae certo dal Capo la sua natura né la sua presa sulla società; negli Usa, poi, il presidente è in pratica eletto direttamente dal popolo, in parallelo rispetto a un parlamento – che in una delle due Camere, il Senato, esprime l’articolazione federale della Nazione – che lungi dall’esserne subalterno fronteggia direttamente il potere presidenziale.

9. La natura parlamentare della repubblica – formalmente conservata – esce vulnerata dal combinarsi di questa legge elettorale con la riforma costituzionale: scomparso politicamente il Senato, una sola Camera, Montecitorio, sarà legata mani e piedi all’esecutivo – dapprima, al suo formarsi, in virtù delle dinamiche della legge elettorale, che produrrà moltissimi ‘nominati’; in seguito, nell’esercizio delle sue funzioni, in virtù dell’obbligo di supportare il ‘suo’ governo, al quale è legata dalla fiducia, revocando la quale quasi sicuramente si suicida, facendo terminare la legislatura –. Il rapporto fra parlamento e governo (e il suo Capo) ricalca il modello del ‘Sindaco d’Italia’, appena mascherato: la stabilità (la governabilità) – che è l’obiettivo politico principale della legge e che fa premio sulla rappresentatività – si trasforma in rigidità del sistema. Sarà rischiosissimo per la Camera esercitare la prerogativa sovrana, che formalmente le rimane, di far cadere il ‘suo’ governo e di esprimerne un altro. Perché ciò possa avvenire sarebbe necessaria non certo una modifica del quadro di alleanze, resa impraticabile dalla circostanza che il partito vincitore ha il 55% dei seggi, ma addirittura una spaccatura di esso, o almeno una congiura di palazzo che scalzi il leader vincitore delle elezioni.

Nel nuovo modello politico che ci si prepara, il cambio di governo, a legislatura in corso, è una patologia e non una fisiologia. Così come è patologico che il governo incontri nella Camera una volontà sovrana che resiste alla sua.

***

Fisiologici sono invece, nell’intento del legislatore, il grande conflitto elettorale da cui esce investito (o plebiscitato) il leader, e la seguente stabilità politica, garantita dal partito della nazione, la velocità della decisione del governo, la certezza della ratifica parlamentare: insomma, la semplificazione della politica. Non rientrano insomma in questo nuovo modello politico la complessità e la politicità della società, la conflittualità fra interessi contrapposti, la dialettica fra le istituzioni e all’interno della Camera politica. Da una parte la legge elettorale (combinata con la riforma costituzionale) è iperpolitica (attraverso uno spettacolare scontro elettorale realizza una grande concentrazione di potere nel leader vincitore), dall’altra è spoliticizzante (non vuole vedere né rappresentare la complessità e la contraddittorietà della società, che viene per di così messa ai margini – con un lieve miglioramento, da questo punto di vista, rispetto al primo Italicum che addirittura la cancellava –).

La politica perde quindi spazio in larghezza orizzontale e ne acquista in verticalità; si abbrevia e si velocizza nel tempo, trasformandosi da processo in decisione; e si fa più pop (nel migliore dei casi; nel peggiore, populista) e meno popolare, più intensa ma meno partecipata; più rigida e meno elastica; più piegata verso l’assertività (non diciamo l’autoritarismo) che verso il dialogo politico (non di facciata) fra soggetti diversi. La coalizione fra partiti e il confronto aperto con le parti sociali sono sostituiti dal comando democratico. Resta per ora non chiaro se questa trasformazione sia un inseguimento (o un accorto fiancheggiamento) dei processi economici o se riesca a dare alla politica una nuova efficacia ordinativa; mentre è certo che le vecchie classi dirigenti hanno la punizione delle loro colpe, delle loro omissioni e cecità; che gli interessi forti interni e internazionali sono più garantiti dalla instabilità politica e dai conflitti sociali (percepiti come un rischio inaccettabile); che la democrazia è trasformata profondamente, certo senza essere abolita.

La radicalità di questa complessiva metamorfosi, attraverso queste trasformazioni – una radicalità che vale bene l’azzardo della fiducia posta sulla materia elettorale – potrebbe, forse, essere migliorata o almeno attutita dalla revisione della riforma del Senato, se questo fosse portato a essere Camera elettiva delle garanzie – cioè a essere un vero contropotere –. Ma proprio questa prospettiva rende quella revisione un’ipotesi da perseguire con forza, ma anche altamente improbabile.

L’articolo è stato pubblicato in ideecontroluce.it il 13 maggio 2015, e in www.centroriformastato.it il 18 maggio 2015.

Guerra e popolo nella nuova Costituzione

ph-59

  1. Premesse storiche e teoriche

Il tema della deliberazione dello stato di guerra, di cui all’art. 78 Cost., concerne una questione di principio, al tempo stesso rara e rilevante.

È rara di fatto, perché non riguarda né la lotta al terrorismo né la partecipazione del Paese a missioni militari internazionali, né eventuali misure interne straordinarie di sicurezza, e neppure la pronta risposta operativa ad attacchi subiti dal nostro Paese; ipotesi tutte affidate – e non è qui il caso di esprimere giudizi in merito – o ad atti del governo legittimati o legittimabili da voti del Parlamento, o da decreti legge che richiedono la conversione.

Da un punto di vista storico, non si è mai fatto ricorso all’art. 78, né per la lotta all’eversione interna, per la quale si utilizzò la legge ordinaria – Legge Reale (1975, rivista nel 1977), e legge Pisanu (2005) –, né per la partecipazione dell’Italia a missioni di combattimento in ambito Nato (il contributo dell’Italia all’operazione Allied Force contro la Serbia nel 1999 fu deciso senza una votazione in Parlamento).

La guerra dalla seconda metà del XX secolo ha infatti cambiato forma, e si manifesta con assoluta prevalenza o come missioni di intervento umanitario rivolte alla protezione di popolazioni in situazioni di conflitti interni, o come operazioni asimmetriche, anti-guerriglia e anti-terrorismo; circostanze, queste, che rendono impossibile la dichiarazione di guerra la quale, con la sua formalità e ritualità, implica invece, necessariamente, un rapporto paritario (benché di ostilità) fra Stati legittimi e sovrani, che tali si riconoscono l’un l’altro.

È poi una questione rara di diritto, perché secondo lo spirito dell’art. 11 Cost. l’Italia può intraprendere guerre, in senso proprio, soltanto se queste siano difensive.

A questo proposito è da notare che (ex art. 11, comma 2, Cost.) l’Italia fa parte, come Stato sovrano in posizione di parità con gli altri soci, di un’alleanza militare di difesa collettiva (la Nato) il cui Trattato istitutivo all’art. 5 non prevede, qualora intervenga il casus foederis (cioè un’aggressione subita da uno Stato membro), un automatico ingresso in guerra del Paese (come invece richiedeva l’art. 3 del Patto d’acciaio, la cui natura era totalitaria e rivolta principalmente all’offesa) ma l’obbligo di assistenza fino eventualmente al ricorso alla forza, conservando ciascun contraente la scelta delle modalità di questa assistenza. Anche ammesso in via ipotetica che l’Italia possa entrare formalmente in guerra in virtù della propria appartenenza alla Nato, nell’ambito dell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, non vi è costretta in modo automatico dal Trattato atlantico: la decisione se ricorrere allo jus ad bellum, e con quali modalità farlo, è del tutto sua.

Benché si tratti di una questione quasi solo di principio, che ha poche probabilità di presentarsi realmente, la deliberazione dello stato di guerra è nondimeno una questione rilevante in senso formale e contemporaneamente esistenziale. Infatti, è la più alta manifestazione della sovranità popolare, in quanto implica l’eccezionale e deliberata esposizione dell’intera popolazione a immense distruzioni e a pericoli mortali. E quindi richiede una decisione democratica pubblica e formale, cioè solenne, e riconducibile, per via mediata, alla maggioranza reale del popolo. Non solo si esige il principio di rappresentanza, quindi, ma anche la reale rappresentatività delle istituzioni decidenti.

Ed è rilevante, infine, in senso giuridico, perché la deliberazione parlamentare sullo stato di guerra comporta, secondo l’art. 78 Cost., potenziali modifiche dell’equilibrio costituzionale interno, e del regime dei diritti politici (e forse civili): l’articolo prevede infatti l’attribuzione al governo dei “poteri necessari” per la guerra, che restano indeterminati (il che non è rassicurante), mentre l’art. 60 Cost. rende possibile la proroga, con legge, della durata delle Camere, cioè il rinvio delle elezioni, in caso di guerra (per tacere dell’entrata in vigore del cpmg, le cui sentenze possono non essere ricorribili in Cassazione – ex art. 111 Cost,, comma 2 ).

  1. La tesi

Sul tema della guerra la Costituzione repubblicana introduce due fortissime innovazioni: la prima è che la guerra è ripudiata (art. 11, comma 1) in quanto esercizio sovrano dello jus ad bellum, cioè in quanto normale opzione di gestione degli affari esteri del Paese, e permane quindi, implicitamente, solo come guerra difensiva o derivante dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali di carattere difensivo. La seconda è che, grazie all’art. 78 Cost., la guerra diventa affare di popolo (attraverso il Parlamento) e non più del solo re, anche in quanto titolare del potere esecutivo, com’era secondo l’art. 5 dello Statuto Albertino, che implicitamente unificava deliberazione e dichiarazione di guerra in capo al monarca (non rilevano, qui, le pur importanti evoluzioni della pratica costituzionale al riguardo, di fatto intervenute durante la lunga vigenza dello Statuto). Nulla vale l’obiezione che la guerra sia di pertinenza dell’esecutivo in quanto momento della   politica estera del Paese, che di per sé sarebbe prerogativa del governo: ipotesi del tutto priva di fondamento logico e costituzionale, come appare dalla lettera e dallo spirito dell’art. 78 Cost.

Nella Costituzione repubblicana, a proposito della guerra, il governo è infatti menzionato (art. 78) come destinatario dei poteri di guerra che gli vengono attribuiti dal Parlamento, e non riveste quindi una esplicita funzione propositiva; l’attore centrale e decisivo della deliberazione formale della guerra è il Parlamento, rappresentante politico della sovranità del popolo; l’atto della dichiarazione, seguente alla deliberazione, è affidato (art. 87 Cost.) al Presidente della repubblica, che rappresenta simbolicamente, anche verso l’esterno, l’unità della nazione – ma, benché eletto con maggioranza parlamentare qualificata, non rappresenta la volontà sovrana del popolo, né la può supplire –. La condotta della guerra è infine di pertinenza del governo.

Quindi che la deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento avvenga a maggioranza semplice, secondo quanto è implicito nel testo originario dell’art. 78, non deriva dalla volontà del costituente di ricondurre la guerra alla maggioranza che ha fiduciato il governo; si tratta infatti di una maggioranza parlamentare che, pur coincidendovi numericamente, ha una finalità diversa (appunto, deliberare sulla guerra) da quella che sorregge l’esecutivo. Piuttosto, il dettato costituzionale è da riferirsi all’esigenza democratica che a deliberare sulla guerra debba essere una maggioranza della rappresentanza politica del popolo, per via mediata potenzialmente riferibile alla sua maggioranza reale.

Infatti, le leggi elettorali sono implicite nella Costituzione – ne fanno parte in senso materiale –, e non vi è dubbio che nella nostra fosse implicito, nel momento in cui nacque, un sistema proporzionale privo di aperte correzioni maggioritarie. Per di più, nel 1946 la partecipazione elettorale si era dimostrata altissima (89%), e non vi erano motivi per pensare che non lo sarebbe rimasta, come in effetti per molti anni avvenne. Era quindi sicuramente intento dei costituenti che la deliberazione dello stato di guerra fosse presa dalla rappresentanza popolare (il Parlamento, composto da Camera e Senato) caratterizzata da una specifica rappresentatività.

Oggi invece si va verso l’adozione di una legge elettorale che sacrifica parzialmente la rappresentatività alla governabilità: con il 40% dei voti espressi, per di più in un contesto di crescente disaffezione partecipativa, si potrà legittimamente governare, grazie a un cospicuo premio di maggioranza (che può portare il vincitore fino al 55% dei seggi alla Camera). Che l’esercizio in sicurezza dell’attività di governo, per implementare il programma elettorale, da parte della forza politica che ottiene la maggioranza relativa nel Paese sia nell’attuale fase storica un’esigenza molto presente – un’esigenza sulla quale non si vuole qui esprimere un giudizio in via generale – appare inoltre manifesto anche da disposizioni della stessa legge di riforma costituzionale, in cui è evidente l’aumento di peso del ruolo del governo (ad esempio, il c.d. “voto a data certa”). Un’esigenza che per essere soddisfatta esige un prezzo: ovvero che il circuito della fiducia fra maggioranza parlamentare e governo – che, come si è visto, è in ogni caso estraneo in quanto tale alla deliberazione dello stato di guerra – non sia necessariamente rappresentativo della maggioranza dei cittadini. Se formalmente votata dal Parlamento, e se contenuta entro limiti ragionevoli (come da sentenza della Corte Costituzionale n. 1, 2014), tale diminuzione di rappresentatività della maggioranza parlamentare può essere accettata in via di principio.

Ma proprio per questi motivi la legge elettorale prossima ventura comporta problematiche costituzionali a cui, almeno in parte, si è cercato preventivamente di fare fronte: infatti, per eleggere alcuni organi di garanzia fra cui il Capo dello Stato – che rappresenta l’unità della nazione, e che deve essere l’equilibratore dell’intera macchina politica, e il custode e garante della Costituzione – il testo riformato prevede, giustamente, un innalzamento del quorum richiesto dalla Carta nella sua redazione originaria per non fare del Presidente, e di altri organi di garanzia, l’espressione della maggioranza di governo.

Ebbene, per analogia anche la deliberazione dello stato di guerra esige ratione materiae, ossia per la sua eccezionalità e per la sua rilevanza esistenziale per l’intero popolo, appunto ciò che l’emendamento proposto si ripromette di ottenere: e cioè che la guerra sia decisa da una maggioranza parlamentare – della sola Camera, giustamente, perché solo questa rappresenta, nella Costituzione riformata, la sovranità popolare – diversa nei fini e più larga nei numeri, ossia dotata di maggiore rappresentatività, rispetto a quella che sorregge il governo; precisamente, da una maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera, corrispondente a circa la maggioranza semplice dei cittadini che hanno votato. Ovviamente, se il governo gode, alla Camera, di una maggioranza dei due terzi l’intero ragionamento resta valido in linea di principio ma ai fini pratici ogni questione è superata.

Se quella sulla guerra è una decisione eccezionale ed esistenziale, ciò significa che nel ragionare di essa nel contesto della Costituzione riformata e della legge elettorale imminente si devono certamente accettare il principio di rappresentanza (l’istituzione che decide è la Camera, ovvero la decisione non è affidata all’immediatezza di un plebiscito) e il principio di maggioranza (l’istituzione rappresentativa decide a maggioranza), ma ci si deve anche interrogare sulla rappresentatività empirica del decisore. Senza che venga in alcun modo messo in discussione il principio inderogabile della libertà del mandato parlamentare, che non è coinvolto in questo ragionamento, è politicamente evidente che nel caso della guerra non ci si può chiudere nella logica formale delle istituzioni e del loro funzionamento normale, ma si deve prevedere, a livello di norma costituzionale, un riferimento alla realtà materiale dei diritti e dei beni dei cittadini, per essere certi che, in questo caso peculiare, queste istanze vengano rappresentate all’interno delle istituzioni nel più alto grado e nella pienezza delle modalità. Da qui la richiesta non solo che il quorum sia aggravato ma anche che venga calcolato sugli aventi diritto, e non solo sui deputati presenti in Aula, per far sì che il riferimento (mediato) alla maggioranza dei cittadini sia non solo potenziale (come è se si calcolano solo i presenti) ma verosimile e attuale.

Il fine dell’emendamento è quindi di conservare intatto, ribadendolo e rafforzandolo, lo spirito originario della Costituzione, ovvero che la deliberazione sulla guerra non sia in capo alla maggioranza di governo – che vi è estranea in linea di principio, e che per di più sarà presto una maggioranza artificialmente corretta – ma a una maggioranza del Parlamento che sia rappresentativa della maggioranza reale dei cittadini.

Ai costituenti parve, verosimilmente, di avere sufficientemente solennizzato e democratizzato la deliberazione dello stato di guerra con l’attribuirla integralmente alla rappresentanza del popolo e alla sua interna maggioranza, e quindi mediatamente e potenzialmente alla maggioranza reale dei cittadini. Con il sistema elettorale che ci apprestiamo a introdurre ciò, invece, non sarà più vero: e allora la scelta fra le due maggioranze (quella formale all’interno del Parlamento e quella reale del Paese) dovrà andare, nel caso eccezionale della guerra, senz’altro a favore dell’opzione più democratica, cioè della maggioranza parlamentare doppiamente qualificata (nel quorum e nel riferimento agli aventi diritto), che più si approssima a quella empirica e reale.

In caso contrario, la guerra potrebbe essere deliberata dalla maggioranza parlamentare semplice dei presenti, ovvero in pratica dalla maggioranza di governo, che è l’espressione (legittima, certo) di una minoranza reale nel Paese; e ciò comporterebbe uno squilibrio di potere enorme a favore dell’esecutivo: chi vince le elezioni potrebbe non solo governare nell’ordinario, cioè realizzare il proprio programma elettorale, ma avrebbe a priori anche la certezza di poter dichiarare guerra all’esterno, e comprimere i diritti all’interno, coinvolgendo in una scelta straordinaria ed esistenzialmente gravissima la totalità dei cittadini.

  1. Due argomenti pratico-politici

Un’avversa considerazione potrebbe essere che già oggi, con il Parlamento eletto attraverso la legge Calderoli, la deliberazione dello stato di guerra è potenzialmente alla portata di una forza minoritaria nel Paese che ottenga artificialmente una maggioranza parlamentare. Ma ciò è da una parte impreciso, perché la presenza del Senato paritario (destinato a scomparire) può modificare, e di fatto oggi modifica, questa condizione, e dall’altra è appunto un ottimo motivo perché, nell’occasione della più ampia riforma della Costituzione, si ponga rimedio al vulnus che a suo tempo si è involontariamente generato con l’introduzione di leggi elettorali difformi rispetto a quella implicita nel testo originario della Carta.

Una seconda osservazione, a favore, è che l’attuale alta volatilità delle forze politiche e delle loro fortune elettorali sconsiglia di affidare la deliberazione sullo stato di guerra a una maggioranza parlamentare non realmente rappresentativa della maggioranza del Paese reale. Il rischio che per questa via lo jus ad bellum, con ciò che ne segue anche sul piano interno, finisca in cattive mani sarà remoto, ma non è inesistente, e ciò basta perché ci si cauteli, come si può e finché si è in tempo, sottraendo quel diritto alla guerra a chi artificialmente consegua la maggioranza assoluta alla Camera, e attribuendolo a una maggioranza qualificata.

  1. Conclusione

L’emendamento di cui si propone l’approvazione all’Assemblea non pare quindi né illogico né ideologico né imprudente. Si tratta di riconoscere – accanto alle ragioni del buon funzionamento dell’esecutivo, e al rispetto del principio di maggioranza all’interno della Camera – anche le ragioni della eccezionalità della guerra e di comprendere che tale riconoscimento significa oggi tutelare lo spirito democratico della Costituzione; e che, invece, considerare la questione della guerra in modo formalistico, senza elevare il quorum e senza riferirlo alla totalità dei componenti, è farne surrettiziamente un fatto normale (da gestire all’interno dell’ordinario deficit di rappresentatività che si è scelto di accettare) e non un fatto straordinario (meritevole di essere trattato con attenzione non solo al funzionamento formale delle istituzioni ma anche alla concretezza della vita e dei diritti dei cittadini); in fondo, un atto di governo e non un fatto di popolo.

Infine, se sul tema della guerra si rinunciasse a prevedere una più ampia rappresentatività del decisore sarebbe contraddetta la civiltà giuridica democratica che informa la Costituzione, la quale altro non è, a sua volta, se non il distillato teorico e pratico, passato attraverso le più dure prove della storia, di quel sapere illuministico, supremamente moderno, che faceva dire a Kant, in Per la pace perpetua: “in uno Stato a costituzione repubblicana la decisione di intraprendere o no la guerra può avvenire soltanto sulla base dell’assenso dei cittadini”.

Questo testo, pubblicato in ideecontroluce.itillustra le ragioni di un emendamento all’art. 78 della Costituzione sulla deliberazione dello stato di guerra, presentato da Carlo Galli e da altri deputati di Pd, Sel, M5S, e volto a far salire a due terzi dei componenti della Camera il quorum necessario alla deliberazione. 

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