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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Alto e basso – destra e sinistra

 

Alcune cose spiacevano particolarmente del contratto fra Lega M5s e del governo non nato. La carica di presidente del Consiglio conferita a un terzo, extra-politico, segnale di una difficoltà e di una diffidenza fra i due contraenti che sarebbe stata prodromo di instabilità e di scarsa autorevolezza dell’azione del governo. L’introduzione del mandato imperativo, in sé impossibile logicamente all’interno della sintassi della rappresentanza politica moderna – benché, certo, si possano inventare dispositivi regolamentari per rendere più “costoso” il passaggio da un gruppo parlamentare all’altro (posto che questo sia un vero problema) –. La discriminazione fra italiani e stranieri nel godimento di alcuni servizi pubblici. La reintroduzione dei voucher – ma si ricordi che il Pd li aveva a lungo difesi -. Le promesse bombastiche di rimpatriare mezzo milione di clandestini – impresa, se non altro, quasi impossibile da un punto di vista tecnico –.

Nonostante non vi sia nulla di più labile dei programmi e dei contratti, erano in ogni caso segni di una interpretazione angusta della fase drammatica che stiamo attraversando. Più ambiziosa, e ancora oggi sul campo, e pertanto degna di un supplemento di analisi, è invece l’idea che destra e sinistra sarebbero state sostituite, come linea di frattura dell’arena politica, dalla scissione fra alto e basso. Che è tesi di Salvini, ma anche dei cinquestelle, e che va decifrata, anziché essere accettata, anche se per essere deprecata come populismo o come sovranismo.

Non c’è dubbio che il cleavage politico attuale sia questo: la sovranità del popolo, che maggioritariamente contesta quei vincoli, perché troppo onerosi, contro le élites politiche economiche e intellettuali, che quei vincoli accettano, ritenendoli buoni in sé o in ogni caso migliori del destino che il Paese dovrebbe affrontare se li recidesse. Insomma, gli italiani hanno votato per la sicurezza e per la protezione rispetto alle gravi difficoltà economiche e sociali che da anni sperimentano. E hanno identificato, come rimedio, la riconquista della libertà da vincoli esterni, cioè della sovranità. Che del resto non è un valore negativo, essendo attribuita al popolo proprio dall’art. 1 della Costituzione; e che non è sinonimo di autoritarismo e di xenofobia, ma anzi, quando è esercitata democraticamente, di libertà e di autodeterminazione dei popoli.

Ora,  il “gran rifiuto” di Mattarella – si è trattato, da parte sua, dell’uso di una insindacabile prerogativa, e quindi l’impeachment è improponibile – è al tempo stesso una ghiotta occasione per Lega e M5S. Che (soprattutto la Lega) sembrano aver voluto farsi dire di no, insistendo sul nome di Savona, proprio per potere cavalcare una crisi resa ancora più acuta – così Salvini ha rotto, forse, con Berlusconi mentre i pentastellati, per non sentirsi giocati da Salvini ora rincarano la dose, restando sempre più prigionieri della rete leghista –.

In realtà, l’aut aut fra Italia ed euro – ovvero fra Italia e Germania – è una semplificazione per certi versi nuova: nessuno, neppure M5S e Lega, ha finora messo sul tavolo l’opzione dell’uscita dall’euro, ma solo la sua rinegoziazione. Ma è noto che se si vuole raggiungere il più alto grado di intensità di uno scontro si deve rinunciare a ogni sottigliezza. E tuttavia, questa semplificazione potrebbe ritorcersi contro M5S e Lega se gli italiani percepissero che la loro spregiudicata politica ha in sé il rischio, proprio se ha successo, di far loro perdere i risparmi.

Certo, l’Italia è a un bivio, e le sue istituzioni sono in crisi, bloccate: un potere di “riserva”, come quello presidenziale, è l’ultimo baluardo per fermare una politica avventuristica che, con la legittimazione popolare, ha espugnato le altre casematte dello Stato. È evidente che non si può andare avanti così, che è necessaria una riconciliazione fra ragione di Stato (chiamiamo così la fedeltà ai vincoli europei e atlantici) e ragione di popolo (chiamiamo così la protesta contro quei vincoli). Che, insomma, il conflitto fra due legittimità – quella del consenso elettorale e quella della continuità istituzionale – non può durare. Che un conflitto fra alto e basso non ha sbocchi democratici, comunque vada a finire.

E quindi si deve tentare un’altra interpretazione di questa fase politica. Leggerla, cioè, da sinistra, senza lasciare alla destra e ai populismi la protesta contro condizioni di vita che la maggioranza degli italiani giudica inaccettabili. Si tratta di spiegare ai cittadini che il problema non è l’identità e l’orgoglio nazionale da rivendicare, ma uscire dalla subalternità del lavoro – questa sì una minaccia alla coesione sociale e alla democrazia –, incorporata nelle logiche dell’euro. La sinistra dovrebbe saper criticare l’Europa ordoliberista con la medesima radicalità della destra politica, ma con migliori argomenti, leggendo questo conflitto come manifestazione della tendenziale incompatibilità fra la democrazia e la presente forma del capitalismo – e quindi è questo che va riformato, non le istituzioni –.

Insomma, la sinistra dovrebbe fare il contrario che giocare il popolo contro le istituzioni, o le istituzioni contro il popolo; dovrebbe usare le istituzioni per la finalità popolare e democratica per cui la Costituzione le ha pensate. Non si può reggere una democrazia solo con le prese di posizione del Capo dello Stato. È necessaria una profonda discontinuità, non un “muro”. È necessario convincersi che la democrazia esige una nuova alleanza fra le istituzioni e il popolo. E che il modo migliore per far vincere le prossime elezioni ai reazionari e ai populisti è non cambiare nulla, non analizzare le cause del loro successo, e limitarsi a demonizzarli.

Tutto ciò sarebbe il dovere della sinistra: riconoscere la gravità della situazione, e interpretarla con strumenti e valori che si sottraggano alla lettura di destra (ma anche alla lettura mainstream, con segno rovesciato), all’aut aut fra alto e basso, al derby fra lira ed euro, fra nazione e Europa. Con strumenti intellettuali che tolgano terreno all’idea che la politica democratica non sia padrona di sé, che vi sono argomenti, come i trattati europei e l’euro, che a essa sono sottratti whatever it takes (per citare Draghi), «costi quel che costi». E che affermino con forza che l’unica «grande decisione» irreversibile che sorregge la nostra vita associata è l’orientamento antifascista e democratico della Costituzione e delle libere istituzioni che essa disegna.

Eppure, manca un particolare del quadro. Dov’è una sinistra che abbia questa forza intellettuale e politica? Purtroppo, sembra che non ci sia. La sinistra non ha mai pesato tanto come oggi nella storia d’Italia: questa volta non come presenza, come partito della fermezza e del progresso; ma al contrario come assenza, come vuoto doloroso e desolante. Da colmare quanto prima, se possibile, per il bene della democrazia.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria online», n. 49, 1 giugno 2018, con il titolo Popolo, istituzioni e vuoto a sinistra.

Vero e falso per me pari sono. Le fake news e il mondo virtuale

In La menzogna in politica (1972), in commento alla pubblicazione dei Pentagon Papers, Hannah Arendt sottolineava che un evento ben reale come la guerra in Vietnam era in verità l’esito di un processo di «defattualizzazione». La politica dei vertici decisionali statunitensi, scollegata dalla realtà, dai fatti empirici, dagli stessi interessi concreti della superpotenza, le appariva determinata dalla volontà di creare un’immagine, un effetto ottico – nel caso specifico, che gli Usa fossero disposti a tutto per impedire al comunismo mondiale di vincere – a cui finirono per credere gli stessi decisori politici.

La posizione di Arendt si fonda sulla antitesi di verità e falsità, di reale e rappresentazione, di politica e di ideologia: i primi termini sono relazionali, storici, produzioni dell’umanità che agisce in comune; e i secondi sono invece espressione di una solitudine del sapere e del potere, della loro incapacità di confrontarsi col mondo e con la sua complessità; una solitudine che è lo sviluppo dell’estraneazione fra politica e teoria già presente, in forme diverse, negli arcana imperii del XVI e del XVII secolo, e nella propaganda ideologica totalitaria del XX secolo.

Per dipanare la questione delle fake news si può prendere il via da qui, per andare oltre. In primo luogo, definiamo questo nuovo termine del linguaggio pubblico come «notizia contraffatta, spazzatura, panzana, bufala, inventata a scopi di polemica o di odio, e diffusa con rapidità dai media e dal web» – il mezzo elettronico di propalazione fa parte della definizione, con la istantaneità, la onnipervasività, la facilità di diffusione e la impossibilità di porvi riparo, che al mezzo stesso ineriscono –. Appartengono alle fake news, a mero titolo di esempio, tanto la tesi sgangherata che Obama non sia nato negli Usa (e quindi non ne potesse essere il presidente) quanto la malvagia invenzione che un gruppo di islamici festeggiasse in un bar a Milano l’attentato di Manchester (per accreditare la tesi dell’odio implacabile dell’Islam verso l’Occidente). Le finalità delle fake news, in generale, hanno spesso a che fare con l’incremento dell’intensità di emozioni politiche, l’odio e la paura, la cui potenza è difficilmente sovrastimabile.

Le fake news di oggi sono differenti non solo rispetto al delirio del Pentagono negli anni Sessanta ma anche rispetto alle vecchie menzogne e alle disinformazioni della propaganda politica della guerra fredda. Infatti, piuttosto che una menzogna mirata, consapevolmente o non, a costruire un mondo raddoppiato, un artificio privo di contatti con la realtà (benché capace di agire su questa) oppure a screditare un avversario reale, la fake news si insedia parassitariamente all’interno di una dimensione che Arendt non poteva conoscere: quella del «virtuale». Che non è un mondo raddoppiato, sotto il quale stia una realtà inascoltata, ma un mondo unico, a una dimensione, costituito da flussi di notizie, di rappresentazioni, di narrazioni: una maschera senza volto, infinitamente cangiante, un logos fluido e al contempo reificato, manovrato incessantemente da centrali piccole e grandi che lo riproducono come unica dimensione d’esistenza dell’umanità. Il virtuale non si sovrappone al reale ma è una simil-realtà onnipervasiva, resa tecnicamente possibile dalla rivoluzione elettronica, dalla digitalizzazione della realtà, trasformata in una bolla mediatica in permanente ebollizione; un mondo incantato, popolato di spettri evanescenti, dall’ambiguo statuto ontologico, che vanno e vengono, appaiono e scompaiono, nelle nebbie dell’informazione e della disinformazione; una dimensione in cui non ha luogo la netta distinzione fra menzogna e verità, fra verosimile e inverosimile. Le fake news, insomma, sono sì menzogna, ma vengono fabbricate e propalate in un mondo virtuale che rende impossibile la distinzione fra reale e immaginario, e sono pertanto una menzogna di tipo nuovo, un’alterazione efficace di un’esistenza collettiva che è ormai tutta trasformata in un flusso indistinto, in una disorientante e cacofonica narrazione a molte voci. Rispetto a quella classica della maldicenza («calunniate, calunniate: qualche cosa resterà») le fake news esibiscono un’efficacia potenziata proprio dal fatto che il mondo virtuale ha perduto l’oggettività del vero e la soggettività del falso, perché tutto, lì, è narrazione, in una universale equivalenza e in-differenza che rendono impossibili comprensione, valutazione e giudizio. Il virtuale è il pensiero unico fattosi mondo, non tanto per l’omogeneità dei contenuti quanto per l’indifferenza ai contenuti.

L’efficacia delle fake news consiste nel lasciare un breve segno, nel produrre un fugace orientamento, uno spin; non certo nel cambiare il mondo, né nel criticarlo; è la verità ciò che libera e critica, mentre l’autore di fake news anche se a volte si crede un guerrigliero che mette un granello di sabbia negli ingranaggi del moloch della falsità virtuale, non fa che rafforzarla, che accettarne la legge di fondo: che non vi è Legge. La fake news – che sia sofisticata e professionale, oppure naif e rozza, scientifica o «fai da te» – è manipolazione della e nella manipolazione: la fake news lascia il mondo com’è, o lo peggiora, intossicandolo vieppiù; in ogni caso ha un’efficacia di tipo emozionale, non cognitivo: esprime ed eccita disagio, odio, fanatismo, sentimenti e risentimenti, in una biopolitica delle passioni ribollente e inerte, assai lontana da quella mirata e unidirezionale della propaganda totalitaria.

È quindi evidente che le fake news prevedono anche l’evanescenza della nozione di responsabilità: tanto da parte di chi le produce, che getta un sasso nello stagno e mai ne risponde, quanto da parte di chi ne è destinatario che spesso è ben lungi non solo dal potere esercitare critica e controlli, ma anche dall’immaginare che ciò debba essere fatto, e si affida piuttosto a un automatico riflesso di fiducia, o di neutrale passività, verso la rete, come un tempo verso la televisione – e, naturalmente, chi ne è vittima non ha difesa, nel mondo virtuale –. C’è qui un principio d’autorità di nuovo tipo: poiché non c’è più alcuna autorità, tutto quello che viaggia nei media è narrazione che si autoalimenta. È il mezzo (la virtualità elettronica) che dà al messaggio la patina della verosimiglianza in un oceano dove tutto equivale a tutto, e dove la stessa idea di un controllo a monte o di una responsabilità a valle è difficilmente concepibile oppure è vista come un’autoritaria ingerenza – questa sì illegittima e ingiustificata, perché del tutto allotria rispetto al virtuale – nella libertà della comunicazione. Una libertà che è piuttosto una gigantesca prigione, una sfera comunicativa che in realtà non è fatta di comunicazione, cioè di rapporto dialogico fra soggetti: piuttosto, quella comunicazione – tanto che abbia un andamento top down quanto che pretenda di assumere la direzione bottom up – è una mediazione immediata, abitata da comunicatori, tutti (tanto i   singoli quanto le grandi centrali di informazione, di disinformazione e di orientamento mainstream della opinione pubblica) risucchiati all’interno della bolla virtuale. E proprio per questo predominio del contesto la fake news può sì essere pensata come strategica rispetto a un fine, e quindi riconducibile al classico rapporto di causa ed effetto, ma è più interessante come espressione della fine dei fini, ovvero del nostro vivere immersi in un universo mediatico, come funzione di questo, e al contempo come manifestazione della tendenziale scomparsa dei fatti – o del loro occultamento –.

Il mondo virtuale non è quindi propriamente un regime di verità: è piuttosto la società aperta che implode su se stessa, che realizza nel massimo di visibilità e di trasparenza il massimo di opacità, è un regime di oscurità che attraverso l’eccesso e la dissonanza di news produce un impersonale «effetto Babele», di inclusione fino alla saturazione, un dominio in cui tutto è accolto e tutto è depotenziato: un dominio in cui vero e falso trascorrono l’uno nell’altro, inafferrabili. E in cui quindi anche la fake news, parola scritta sull’acqua o piuttosto sulle onde elettromagnetiche, ha in sé tanto la permanenza e la capacità di orientamento – infatti agisce lasciando una traccia, un sedimento –, quanto l’evanescenza, l’elusività, la non rintracciabilità.

Ma il virtuale destituisce di fondamento non solo la solida realtà, le distinzioni nette fra vero e falso, sì anche – sussumendole in un oceano di chiacchiere, pettegolezzi, stereotipi, confronti televisivi – cannibalizza la rappresentanza politica e l’opinione pubblica: astrazioni concrete ed efficaci, istituzionalizzate o fluide che siano, che la modernità politica ha escogitato per agire politicamente e per controllare il potere; astrazioni, certo, ma pubbliche, istituite, articolate e differenziate, al cui interno può darsi un vero conflitto fra diverse verità, o diverse menzogne, ascrivibili a settori della società, a parti politiche determinate. Da queste determinazioni e da questo conflitto nasceva la possibilità di distinguere, per confronto reciproco, per frizione di interessi e di valori, il vero dal falso; intesi, questi concetti, nelle uniche accezioni praticabili, cioè come saperi dotati di qualche permanenza pur nella loro contingenza, sottoponibili a critica, iscrivibili in una dialettica.

Il virtuale, invece, è l’espressione di una società – quella dei decenni del neoliberismo, dei suoi trionfi e delle sue crisi – che è stata disarticolata in una moltitudine di individui solitari, la cui comunità è, appunto, risolta nella virtualità, nella “amicizia” di facebook; di una società in cui le ragioni del conflitto sono inibite e non espresse, e si trasformano in esasperazione, risentimento, frustrazione, di cui nel virtuale si dà manifestazione non sublimata ma immediata e impotente; in cui la lotta politica si fa con le fake news e con le contro-fake news, in una rincorsa in cui tutti si atteggiano a vittime e tutti si comportano come sicari. Nel virtuale, insomma, si consuma l’impotenza della politica – che esige concretezza e verificabilità – e vengono a cortocircuito tanto il soggetto quanto l’oggetto e le loro relazioni significative. Il significato politico del mondo virtuale sta in questo suo sostituirsi alla politica; e in ciò – e solo in ciò – il virtuale è un potere reale. Che sia una delle facce del potere economico, che sia sorretto da un esplicito disegno di «poteri forti» o che sia uno sviluppo incontrollato di logiche e di tecnologie smaterializzanti iscritte nel DNA del neoliberismo e della rivoluzione elettronica, non è qui il caso di discutere: in ogni caso, il mondo virtuale è un ordine paradossale, fondato sull’indisciplina più che sulla disciplina. Un ordine che non indirizza da una parte piuttosto che da un’altra; piuttosto, agisce impedendo l’orientamento e il giudizio.

La scomparsa della realtà oggettiva, e della verità in senso ontologico e fondativo (realtà e verità sono tematiche che viaggiano affini e vicine), è, certamente, implicita nella modernità, l’epoca in cui non si può più dire, con Paolo (Rm 3, 4) «Dio è verace e ogni uomo è mentitore» proprio perché lo sforzo della modernità è costruire la verità come opera umana e non di accettarla come Oggetto esterno al soggetto. È profondamente iscritto nell’epoca moderna il passaggio dalla verità all’ordine artificiale, dalla realtà alla effettualità, dalla affermazione alla rappresentazione. Il vero, privato del suo ruolo di sostanza fondativa oggettiva, «è l’intero», ossia sono i processi storici dell’umanità – e la storia è l’unica realtà –, i progressi nei diversi saperi, le relazioni collaborative e conflittuali, genealogicamente ricostruite e criticate. Un vero tutto umano, risolto nel sapere costruttivo ma anche nel confronto, e quindi un vero relativo e in movimento; un vero che è essenzialmente critica.

È il vero moderno – non quello ontologico – la vittima del virtuale, che ne costituisce forse l’estremizzazione e certo il superamento in negativo; se nella modernità scompaiono il vero e il reale come oggetti e diventano soggetti in relazione, oggi nel virtuale è appunto la relazione e a scomparire: lì tutto coesiste immediatamente con tutto, perché tutto è indifferente. Adorno poteva dire, nell’età del totalitarismo e del tardo-capitalismo, «il tutto è falso»: della dimensione virtuale si può dire, per rimanere nell’ambito della filosofia classica tedesca, che è «la notte in cui tutte la vacche sono grigie». Ovvero, è appunto la dimensione della «post-verità», o meglio della «post-critica», della «a-criticità». L’ultima fase della modernità è così un’ulteriore complicazione della questione della menzogna, che diventa sempre più inafferrabile, e che ai suoi lemmi e dilemmi classici – verità, veridicità, autenticità, trasparenza, sincerità, rispetto di sé, degli altri, dell’oggetto – aggiunge ora la dimensione del falso-vero e del vero-falso: il virtuale, appunto.

All’incantesimo del virtuale, all’oscurantismo della trasparenza, ci si deve potere sottrarre con un nuovo illuministico disincanto. Si può in prima battuta dare credito alla via giudiziaria. Esistono leggi, vecchie e nuove, che pretendono di far valere, rispetto a esso e contro di esso, il reale; di perforare la bolla, insomma, e la sua autoreferenzialità. E che quindi si propongono di censurare le fake news, di rimuoverle, di rettificarle, di sanzionarle – a partire dall’art. 656 c.p. che vieta e punisce la diffusione di notizie false e tendenziose –. In realtà, il ritorno sulla terra, alla solida realtà, attraverso la via giudiziaria, è rarissimo e lentissimo, e se può in certi casi risarcire tardivamente persone offese non modifica l’efficacia, quale che sia, della fake news – o a volte la amplifica –.

Più radicalmente, da ogni parte giunge l’appello alla critica per aprire brecce nella nichilistica compattezza del virtuale. Infatti, la qualità di «falso» della fake news è solo all’apparenza determinante, mentre realmente decisiva è la sua appartenenza al mondo virtuale, alle sue ontologiche ambiguità. Il falso, all’interno del virtuale, è inafferrabile. E quindi non si può sensatamente lottare contro le fake news se non uscendo dalla stessa dimensione del virtuale, o facendola deperire; se non praticando un nuovo e più potente disincanto, volto al recupero della verità moderna: cioè praticando confronto e conflitto, relazionalità e criticità. Ovvero, uscendo dalla solitudine – che si vuole onnipotente ma che è impotente – del web, e ponendo le condizioni perché si ritrovino persone e cose, istituzioni e partecipazione; perché si riattivino la socialità e l’attività contro la passività e l’inerzia del virtuale.

Ma quale critica? Posta in essere da quali soggetti? Educati da quale scuola? Mossi da quale intento di autonomia? Interrelati fra loro in quali gruppi? Praticanti quale dialogicità? Come si vede, la riattivazione della critica implica cultura lungamente praticata, consistenza e articolazione della società, istituzioni educative non corrive verso gli imperativi dei tempi e verso le forme vitali dominanti. Condizioni esigenti, difficili, che si collocano fuori dal mondo virtuale, e che implicano un forte intervento della politica.

È la politica reale che si deve affermare contro la politica spettrale del virtuale; una politica fatta di poteri diretti, di responsabilità, di interessi che confliggono e si compongono in mutevoli equilibri, di visioni che non si chiudono in se stesse. Una politica che all’anonimato e all’impersonalità passiva del virtuale, al suo regime di post-verità e di a-criticità, alla mediazione immediata, oppone non una improbabile imparzialità o una chimerica oggettività ma una mediazione mediata, storicizzata, sottoposta a critica: una mediazione sociale e istituzionale costituita dal franco confronto fra tesi esplicitamente parziali, non un impossibile terreno solido ma la presenza delle persone, dei gruppi, degli interessi plurali, e il movimento intellettuale e sociale della critica. Ovvero, una democrazia matura e responsabile, portatrice di un nuovo umanesimo. Le cui caratteristiche categoriali siano la presenza concreta (dell’Io, dei gruppi, delle istituzioni), il movimento, il conflitto, il pluralismo, in aperta opposizione alla ribollente staticità e alla multiforme univocità del mondo virtuale. A tal fine non è sufficiente la franchezza della parrhesia individuale: il nuovo umanesimo passa attraverso la nuova criticità collettiva, attraverso la consapevolezza, eminentemente politica, che per criticare il falso si deve criticare l’intero che lo ospita.

Il saggio è stato pubblicato con il titolo Menzogna e verità: le fake news nel mondo virtuale in «Italianieuropei», n. 3, 2017, pp. 24-33

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