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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Marx

Per i duecento anni di Marx

Questa riflessione su Marx deriva dal libro di Carlo Galli, Marx eretico, di prossima pubblicazione per la casa editrice il Mulino, Bologna.

 

 

Marx è un autore di metà Ottocento, che del proprio tempo condivide alcune idee di fondo: una concezione eroica della politica, in cui agiscono soggetti collettivi come la nazione e la classe; una proiezione al futuro, come fiducia nella possibile apertura di nuovi orizzonti dell’umanità; una robusta ammirazione per la potenza della scienza e della tecnica, per lo sviluppo economico che ne scaturisce, e per la forza espansiva sprigionata dalla civiltà industriale; una propensione a pensare in termini di sistema, per fronteggiare adeguatamente l’emergere della dimensione totale delle relazioni sociali e per individuarne «leggi» organiche di sviluppo. Quello di Marx è il pensiero forte di una personalità dotata, com’egli diceva di sé, di «aspirazioni universali». Che Marx veda con acutezza la contraddittorietà, l’ideologicità, la conflittualità e la parzialità dell’intera società moderna, non toglie che egli sia estraneo a nostalgie pre-moderne, a sensibilità post-moderne, a prospettive catastrofiche.

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La sua adesione alla modernità è, certo, un’adesione «critica». E non della «critica critica», impotente e subalterna, della sinistra hegeliana, contro cui si accanisce il sarcasmo distruttivo del giovane Marx, ma della «critica spietata di tutto ciò che esiste», la critica dialettica, la dialettica utilizzata come arma («le armi della critica» e perfino «la critica delle armi») e non come conciliazione.

Una critica a Dio, allo Stato, alla filosofia di Hegel che lo porta al «nuovo materialismo», al «solido terreno della realtà»; ma questa realtà è una contraddizione strutturale che ha la sua origine nei rapporti economici di produzione, e che ha la sua principale manifestazione nello sfruttamento, nell’estrazione di plusvalore (di profitto capitalistico) dal lavoro salariato, e nella estraneazione dell’uomo da se stesso e dal proprio lavoro.

L’obiettivo di Marx non è la società senza lavoro, ma la restituzione dell’umanità a sé, a partire dall’estraneazione presente. Il comunismo, la libera e razionale «cooperazione» dei produttori, è appunto il rapporto immediato fra uomo ed esistenza, è «l’effettiva soppressione della proprietà privata e la reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo». È «umanesimo positivo». Ma non è un progetto campato in aria, né un ideale vuoto e declamatorio; è il frutto di un’azione politica che non si perde in sogni, in utopie, e che non indugia in opportunismi ma anzi affronta apertamente quel conflitto di classe, quella guerra permanente fra capitale e lavoro salariato che struttura la società. Marx corregge la nozione di valore-lavoro, già presente nell’economia politica classica, per far emergere che nella produzione di merci è incorporato un rapporto sociale: un rapporto di espropriazione di plusvalore, prodotto socialmente e appropriato privatamente. L’obiettivo politico quindi è di espropriare gli espropriatori, di rifare la società a partire dall’ «abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente», di abolire la contraddizione tra la ricchezza della produzione e la povertà della società, quella contraddizione che ha reso il proletariato talmente misero che non ha nulla da perdere se non le proprie catene, e di instaurare la «dittatura del proletariato», guida verso la realizzazione della libertà di tutti.

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Marx non ha scoperto per primo la lotta di classe, ma ha decifrato per primo il generarsi della politica nell’economia. Che la teoria del valore-lavoro sia da tempo rifiutata dagli economisti non toglie che la grandezza di Marx stia nell’avere mostrato ciò che anche oggi è sotto gli occhi di tutti, e cioè che l’economia capitalistica è un gigantesco processo di valorizzazione a vantaggio dei profitti e non dei salari, percorso da contraddizioni, dislivelli di potere, conflitti asimmetrici, che in essa si genera un dominio sociale e politico che coinvolge tutta la vita dell’uomo.

Marx coglie la centralità e l’instabilità del rapporto moderno fra economia e politica perché dell’economia privilegia la contraddizione e la crisi, cioè la componente umana, sociale, politica, e non il lato meccanico, o quello specialistico, disciplinare. Perché vede l’economia debordare da se stessa, e investire tutto l’umano, in modalità disumane. Perché dimostra che il capitalismo è potentissimo e al tempo stesso insostenibile; che quella borghese è «una civiltà scellerata, fondata sull’asservimento del lavoro». Perché nel gioco astratto delle grandezze economiche presunte «oggettive» sa vedere la violenza di classe, strutturale; e analizzando la ricchezza delle nazioni sa retrocedere fino alla sua origine, alle «doglie che accompagnano il parto della ricchezza».

Ma Il Capitale non è solo uno squarcio di storia del capitalismo in Inghilterra. È anche la scoperta delle logiche, delle linee di tendenza che innervano il sistema produttivo tipico della modernità. E queste logiche sono la sussunzione del lavoro nel capitale, la parcellizzazione del lavoro, la cooperazione coatta in fabbrica, lo sviluppo verso la macchina mentre il soggetto ne diviene appendice, l’aumento della produttività del lavoro, il colonialismo, la finanziarizzazione dell’economia, l’espulsione del lavoro dal processo produttivo, il formarsi dell’esercito industriale di riserva, il calo tendenziale del saggio di profitto, l’espansione illimitata del capitale a danno degli stessi capitalisti come singoli individui proprietari, la globalizzazione, e su tutte queste logiche la illogicità suprema: di essere un sistema produttivo, una società che non può realizzare se non nel caos e nell’oppressione crescente – e che quindi non può non tradire – le potenzialità che suscita e che mette all’opera. Tutto ciò non è confinato al XIX secolo, ma dice qualcosa anche all’oggi: sia pure percorrendo vie tortuose e impreviste, con scarti improvvisi e «mosse del cavallo», le logiche del capitalismo non hanno deviato di molto da queste indicazioni.

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La scoperta delle contraddizioni del capitalismo non comporta che di esse sia possibile la soluzione che ne ipotizzava Marx, e non consente, in realtà, una analitica prefigurazione del mondo futuro. La «vecchia talpa» scava – le contraddizioni interne del capitalismo si manifestano –, la direzione e l’orizzonte le sono noti, ma non sa dove rivedrà la superficie e la luce del sole.

E in effetti la vicenda politica del comunismo reale è stata, dopo tutto, un fallimento, ma non direttamente imputabile al pensiero di Marx quanto piuttosto alle logiche dello Stato autoritario in cui si è incarnato. Marx non appartiene all’album di famiglia dei fondatori di tirannidi, di Stati di polizia. Semmai, egli è stato frainteso per motivi opposti. L’idea di fondo di Marx, la razionalizzabilità del mondo e la scomparsa del dominio, l’idea che un altro mondo è possibile a partire da questo, ha subito una lettura semplificata. La ragione e l’azione sono state saldate tra loro dal desiderio, dal bruciante impeto dell’assalto al cielo, dall’epica marcia del Quarto Stato per «conquistare la rossa primavera». Ciò che è prevalso è stato l’empito verso il futuro, l’impulso all’umanizzazione del disumano. L’insegnamento di Marx è stato interpretato e semplificato come speranza da milioni e milioni di uomini e donne che hanno fatto del marxismo una profezia messianica di rango globale. Il marxismo è stato abbracciato soprattutto come la risposta delle genti alla ingiustizia del mondo, della storia. Hanno agito in questo senso un bisogno di credere, una pretesa di dignità, un’ansia di riscatto che oggi non hanno ancora trovato un sostituto. Ma, certo, mentre si faceva «religione» il marxismo spianava la strada anche al dominio di «sacerdoti» tanto spietati quanto, alla fine, inetti.

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Leggere Marx dopo l’Ottantanove, dopo la fine del comunismo, significa avere attraversato gli anni dell’oblio, gli anni che hanno proposto Marx quale responsabile del comunismo reale e dei suoi errori ed orrori. E significa accettare che non esiste un soggetto eroico in grado di rovesciare il mondo, e che non è più praticabile la certezza su cui Marx si fonda: che ciascuna epoca pensa i problemi di cui ha la soluzione.

Marx da gettare alle ortiche, quindi? Proprio no. Senza Marx non si può organizzare una nuova teoria critica. La sua capacità di smascherare l’ideologia è un esorcismo contro l’egemonia del neoliberismo da cui derivano strutturali fratture e inceppamenti della società, disuguaglianze e ingiustizie, nonché paurosi dislivelli di potere fra ceti e fra aree del mondo. Certo, i fattori e le modalità dell’oppressione non stanno solo nella forma di produzione ma nelle molte contraddizioni, non sistematizzabili e non dialettizzabili, non tutte necessariamente di origine economica anche se a questa variamente accostabili, di cui è intessuta la vita delle società, delle persone e delle nazioni: le linee di frattura dell’inconscio, del genere e del colore, la scomparsa della soggettività (anche di quella operaia) nell’età dell’individualismo passivo, l’antagonismo sistemico fra capitalismo e ambiente, le coazioni proprie del ‘politico’, le pulsioni identitarie fondamentalistiche ed essenzialistiche che si manifestano in società decostruite e atomizzate. Il pensiero di Marx – nessun pensiero – può risolvere queste contraddizioni, ma, insieme ad altre linee critiche, può denunciare la scissione là dove il neoliberismo esige che non venga neppure menzionata, e dove gli stessi soggetti coinvolti stentano a prenderne coscienza.

Inoltre, anche il pensiero di Marx serve a incontrare energie di liberazione, a comprendere e suscitare lotte e alleanze che uniscano l’emancipazione dall’alienazione economica con altre emancipazioni. Serve a valorizzare lo spirito d’iniziativa politico, contro la passività; e ad assecondare le emergenze – ciò che non si lascia sommergere – contro il potere dell’eccezione divenuta norma. In Europa e fuori d’Europa.

Marx è l’ultima voce della filosofia tedesca che cerca di tenere insieme il movimento moderno della storia e della produzione globale – le loro contraddizioni e parzialità – con la liberazione umana universale. E oggi se è impraticabile l’obiettivo che egli si proponeva, di assumere il mondo nel pensiero e nell’azione come un sistema di scissione strutturato da un’unica contraddizione strategica, nondimeno egli resta un «classico», ancora operante almeno in quanto è sempre affacciato sulla denuncia e sulla ribellione. Il suo pensiero è oggi un elemento di ogni realismo critico.

Ancora oggetto di interpretazione nei contesti più svariati – dall’America Latina al mondo post-coloniale, dalla Cina (dove in parte è servito a organizzare lo Stato) all’Occidente (dove è servito a criticarlo) – e ancora associato a populismi e ad autoritarismi, a serpeggianti inquietudini e ad aperte ribellioni, ma anche a tentativi di nuove costruzioni statuali, Marx non è la fonte unica della verità, la sorgente della prassi corretta, la speranza dei veri credenti, la via maestra per risolvere le contraddizioni. È più un reagente che un agente, un precursore (in senso chimico) da associarsi ad altre sostanze, un detonatore più che una deflagrazione. Eppure, non è soltanto un brano di storia intellettuale europea, divenuto ormai patrimonio della civiltà del mondo intero: è un ingrediente indispensabile, anche se non esclusivo, per chiunque non accetti che il futuro sia del tutto in mano alle oligarchie economiche, e per chiunque creda che la parte maggioritaria della umanità possa riprendere l’iniziativa su se stessa, da se stessa.

 

Il testo è stato pubblicato in «Patria indipendente» il 18 maggio 2018

Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi

«Tutto ciò che è stabilito evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».

Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.

La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria Indipendente», l’8 marzo 2017.

Origine e declino dello spazio politico moderno

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Per trattare il tema del moderno spazio politico si deve prima comprendere che cosa significa «spazio» in politica e nel pensiero politico, e al tempo stesso si deve comprendere la nozione di «spazio implicito».

Queste idee sono state sviluppate in Carlo Galli, Political Spaces and Global War, Minneapolis, Minnesota University Press, 2010 (ed. or. Bologna, Il Mulino, 2001).

 

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A) Che cosa significa che lo spazio ha rilievo per la politica e per il pensiero politico?

1.Che lo spazio abbia rilievo per la politica significa non solo che il potere politico deve calcolare gli spazi del proprio esercizio e tenere conto delle dimensioni e delle distanze (si istituiscono così le differenze fra imperi e piccoli Stati, oppure fra climi e caratteri). Significa che esiste un rapporto concreto della politica con la geografia, del potere con i territori, o meglio – per quanto ci riguarda – del pensiero e delle istituzioni con il nesso natura/cultura, nella storia. Ma soprattutto significa che lo spazio è un paradigma o un quadro nascosto nel pensiero e nelle istituzioni politiche; che viene assunto e utilizzato in modo implicito e non sempre riflessivo.

2.Lo «spazio implicito» di cui si parla non è un inerte dato geografico, una passiva natura; è piuttosto il sistema delle differenze, delle distanze e delle vicinanze, delle sovra- e delle sotto-ordinazioni (non è solo a due dimensioni, quindi, ma a tre; anzi a quattro, se considerato in proiezione cronologica), consapevolmente o inconsapevolmente tracciate dai poteri formali e informali; è la struttura topologica dell’Essere a cui fa riferimento, consapevole o non, il pensiero politico. È uno spazio politico, fatto dalla politica o pensato e presupposto dalla politica. È uno spazio che è all’opera sia che il pensiero e le istituzioni politiche pensino apertamente lo spazio, sia che lo escludano dalla riflessione e che lo mettano tra parentesi. È uno spazio fatto di linee più o meno mobili di differenziazione, cioè di inclusione e di esclusione: grazie ad esse si è collocati dentro o fuori dai confini politici, dalla piena cittadinanza legale, ai margini o al centro di ambiti produttivi, di rotte, di traffici; vi sono linee (e spazi) di amicizia, del colore, di religione, di genere, di economia, di cultura, di buone o cattive maniere; di fuga e centripete, di costruzione e di frattura. E sono linee non metaforiche ma reali – non però naturali, ma storiche e politiche –. Lo spazio politico è difforme rispetto allo spazio fisico. Spazio, potere, differenza sono strettamente intrecciati: lo spazio politico è fatto di relazione fra diversi. Dunque, lo spazio non ha un’essenza ontologica, non è il sostituto dell’Essere, il fondamento del mondo (come può apparire in alcuni frammenti di Nietzsche preparatori allo Zarathustra 1883: «con solide spalle lo spazio si oppone al nulla; dove è spazio là c’è essere»); non ha in sé potere ordinativo (l’errore della vecchia geopolitica, e anche a tratti l’ambiguità di Schmitt in Der Nomos der Erde 1950); piuttosto, lo spazio è potere, è interpretazione e mobilitazione. Lo spazio diviene per noi prezioso, oggi, per decifrare il mondo dopo che il tempo – la storia come progresso – non è più una bussola affidabile: dentro/fuori, alto e basso, statico/nomade, spiegano di più che vecchio/nuovo (questa coppia è il modo in cui si presenta la politica, e va appunto ricodificata e decostruita, per coglierne la politicità intrinseca, in destra/sinistra – ma non è questo il nostro tema – e in dentro/fuori, alto/basso). Insomma, la politica è sempre spaziale, e lo spazio è sempre politico (Sassen, Territory, Authority, Rights 2006; S. Elden, The Birth of Territory 2013). Non viene prima lo spazio, né prima la politica: i due ambiti sono forse disciplinarmente distinti (il primo è di storia del pensiero, il secondo è di storia della geografia), ma di fatto convergono e vanno trattati da un pensiero metadisciplinare (filosofico) che ne colga l’interazione.

3.In età moderna, nello Stato moderno, il pensiero e le istituzioni, da un punto di vista formale, cercano di produrre uguaglianza, vicinanza, omogeneità (lo Stato); di eliminare lo spazio e di enfatizzare la dimensione del tempo (il progresso). Un’analisi ravvicinata del pensiero moderno mostra però che la differenza non è annullata ma semplicemente allontanata: è ammessa, o in ogni caso è riconosciuta, in una lontananza spaziale specifica, le colonie, il fuori. Lì c’è la meraviglia e l’orrore, la difformità e l’anomalia; lì il potere che agisce per linee di inclusione e di esclusione si lascia vedere. E viene, con diverse strategie intellettuali, identificato e giustificato, messo al servizio della grande uguaglianza, della ragione moderna, che così accetta e ammette di incorporare in sé la disuguaglianza.

4.Il nostro intento è appunto rileggere la spazialità implicita nella modernità a partire dal fatto che le linee di potere che istituiscono un ‘fuori’ in realtà lo portano ‘dentro’, nel senso che senza quel fuori il sistema di potere non funziona. E al tempo stesso il nostro intento è rileggere oggi il mondo globale – in cui tutto è ‘dentro’ – come percorso da innumerevoli linee di potere che operano inclusione a diversi livelli gerarchici o che tentano l’esclusione, e che insomma cercano di dare ordine funzionale, non statico, alle parti del globo, di formare aree omogenee (di scambio, di unità monetaria, di uniformità giuridica). Linee che a loro volta sono scavalcate e trasgredite da contropoteri, o sono comunque in difficoltà nel sostenersi e nell’affermarsi. Linee che sono o vogliono essere barriere, e linee che sono incontri e passaggi; che sono frontiere e fronti di battaglia. In generale, per leggere il potere che dà forma e figura (benché cangiante) al mondo si deve oggi interpretarlo come potere che, con le sue linee, crea e sottrae spazi, crea uguaglianze e differenze. Queste linee (questi spazi impliciti) possono essere lette tanto nella politica pratica – nel diritto, nell’economia, nella differenziazione sociale – quanto nell’ideologia, nel discorso pubblico, nei quadri concettuali che sorreggono le costituzioni materiali. Fare emergere gli spazi impliciti significa perciò decostruire e criticare.

B) I diversi significati di «spazio» nella storia del pensiero politico. Una breve rassegna.

Quali spazi impliciti sono ravvisabili nel pensiero politico e nelle istituzioni politiche? Possiamo distinguerli come segue, notando che dall’età moderna in poi – il punto di svolta è la scoperta dell’America, cioè l’allargamento dello spazio europeo, e la frattura interna dello spazio cristiano, che si voleva universale, cioè la Riforma – le varie spazialità implicite si susseguono per contrapposizione, secondo quanto appare, ma in realtà per sviluppo di alcuni caratteri impliciti nel modello precedente.

1.Lo spazio qualitativo, delle differenze naturali.

In vario modo, è lo spazio politico antico della polis e di Roma – benché la qualità della differenziazione fra civiltà e barbarie sia nei due casi sia molto diversa: naturale e giuridica.

2.Lo spazio agonistico in Machiavelli

Per Machiavelli lo spazio è un’arena, un’area di lotta civile e militare. La città e il territorio, interpretato dal principe, devono avere un rapporto con la virtù, cioè con il conflitto (sono quindi preferibili i “luoghi inameni”, che rafforzano la virtù: Discorsi I, 11; e lo spazio deve essere visto dal punto di vista della guerra sempre possibile: Discorsi III, 39 oltre che Principe 14).

3.Lo spazio cattolico del tomismo e della seconda scolastica.

Prosegue lo spazio universale cristiano medievale (ma in realtà era duale, poiché in conflitto con l’Islam). Il primo esempio è Vitoria De Indis. Si tratta di uno spazio non differenziato ontologicamente – tutti gli uomini sono Imago Dei e tutti possono autogovernarsi –. Le differenze di sviluppo e di conoscenza del Vangelo possono creare l’esigenza di un aiuto caritatevole verso i ‘selvaggi’ da parte delle potenze cristiane, che – inoltre – non devono essere impedite nei loro traffici e nella propagazione del cristianesimo. Lo spazio universale omogeneo e pieno di qualità (Imago Dei) conosce quindi linee di differenziazione teoricamente provvisorie. La posizione opposta, di differenziazione qualitativa e gerarchica fra Europa e America, è in Sepulveda Democrates alter 1547 (gli indigeni americani sono homuncoli); ma è una tesi diffusa fino al XVIII secolo (Gerbi, La disputa del nuovo mondo 2000).

4.Lo spazio utopico.

Collocato fuori dall’essere, trova posto nel dover essere; è un’isola in mezzo al mare, agli antipodi, lontana. È un universalismo estremo: si pone in modo indifferentemente astratto davanti a tutto il mondo reale, in ogni sua manifestazione. Esiste anche l’utopia interna che si veste da esterna, la critica da un punto di vista che si vuole tanto innocente da travestirsi da straniera (Montesquieu, Lettere persiane).

5.Lo spazio liscio universale vuoto del razionalismo moderno.

È uno spazio che preesiste alle cose, in cui le cose hanno un posto che viene ordinato e segmentato dalla politica.

i) È in primo luogo un universalismo operativo, nel senso che lo spazio si offre a ospitare il costrutto umano, l’artificio, l’immagine del mondo tracciata dalla tecnica (Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo 1938, in Sentieri interrotti 1950). La vera dimensione di questo spazio è il tempo progressivo: c’è progresso quando nello spazio omogeneo viene costruito un artificio, quando si passa dallo stato di natura allo Stato politico, dalla barbarie alla civiltà. Questo spazio universale è il diritto naturale soggettivo. Paradossalmente l’universalismo laico moderno si realizza in una pluralità di Stati particolari, ciascuno dei quali costruisce se stesso come universale vuoto, omogeneo, neutrale e giuridificato, per superare la frattura delle guerre di religione: è in questo spazio che i diritti naturali del singolo soggetto diventano diritti civili e politici, attraverso i dispositivi di cittadinanza e le lotte per l’inclusione che su di essa si sono sviluppate (Isin, Being political, 2002). Il passaggio dalla guerra alla pace, dall’anarchia all’ordine, dalla natura alla proprietà, è in linea di principio possibile ovunque, ma di fatto è avvenuto in Europa: l’America è la metafora dell’universalità indifferenziata naturale, contrapposta all’universalità differenziata civile e progredita (Locke, Secondo Trattato, cap. V Della proprietà: un tempo ovunque era America; analogo ruolo ha l’America in Hobbes Leviatano 13, con la differenza che il progresso per Hobbes è sempre minacciato e reversibile). La differenza fra America e Europa è quindi enorme, ma è transitoria, superabile. L’unica spazialità intrinseca al razionalismo moderno è imposta, è politica: è il rapporto, posto e creato dalla sovranità statale, fra interno/esterno, criminale/nemico, pace/guerra (fra soggetti diversi ma qualitativamente analoghi: hostes aequaliter iusti). Questo è l’asse categoriale di tutta la politica moderna, l’unico spazio (binario) che si ammette apertamente. Lo spazio omogeneo interno, e l’esterno abitato da spazi analoghi ma altri, alieni, stranieri.

ii) Eppure, in questa spazialità semplice e vuota ci sono, implicite, ben altre linee di potere politico differenziante. Lo sappiamo da Schmitt (Der Nomos der Erde), il quale ha dimostrato che la sovranità è solo europea e che è resa possibile da esercizi di potere non giuridificato in ambito marittimo ed extraeuropeo. Ma lo sappiamo da Locke, che afferma che l’America è conquistabile proprio perché non c’è proprietà, dato che non c’è lavoro – la conquista in quanto tale non fonda alcuna legittimità se il conquistato è uno Stato civile (Secondo Trattato, XVI Della conquista) ma se è scoperta e insediamento lavorativo in un contesto di abbandono è legittima –. Allo stesso modo dove non c’è territorio (in mare) è possibile condurre una guerra privata per difendere e riconquistare la propria proprietà (Grozio, De iure predae): la linea del potere passa quindi per il lavoro e la proprietà. La violenza illegittima si consuma comunemente fuori dall’Europa, attraverso l’occupazione, la colonizzazione, la valorizzazione commerciale, che non sono giustificate in quanto tali ma che sono riconosciute come un ponte, un passaggio, verso una piena integrazione dei ‘selvaggi’ nella civiltà giuridificata (Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto). Di fatto anche nel pensiero politico razionalistico c’è una eco civilizzata della terribile esportazione di violenza incontrollata e selvaggia verso gli spazi non europei (atlantici e asiatici – dalla tratta negriera alla pirateria alla devastazione del sud America alle terribili lotte fra portoghesi inglesi e olandesi per le Molucche, le isole delle spezie, su cui cfr. Milton, Nathaniel’s Nutmeg 1999) che è il vero motore dell’accumulazione capitalistica, in cui guerra e commercio si compenetrano a livello globale (contro il “dolce commercio”). Il capitalismo mondiale è la verità dello Stato europeo: le linee spaziali statali europee interno/esterno sono in realtà intersecate e alimentate dalle molteplici linee di potere extra-europee delle rotte oceaniche e dei commerci diseguali, delle guerre di sterminio (anche fra potenze europee, fuori d’Europa), dello schiavismo. L’esterno è il cuore dell’interno. L’universalismo capitalistico è generatore di infinite differenze non determinate ontologicamente dallo spazio fisico ma economicamente e politicamente dalla diversa collocazione nei regimi della produzione.

6.Lo spazio rivoluzionario, romantico e dialettico, fra natura e storia.

Lo spazio moderno che si pretende vuoto viene riempito di natura società e storia dalla nazione e dallo Stato borghese. In Sieyes le linee di potere sono interne (la divisione del lavoro, la lotta ai privilegi) ed esterne (la nazione rivoluzionaria in armi); in Ritter lo spazio non è più né solo politica né solo natura, ma storia; lo stesso vale per Hegel, secondo il quale (Filosofia del diritto §§ 244-7) lo spazio è sviluppato in senso progressivo da Oriente a Occidente, e ‘progresso’ significa complicazione: infatti lo spazio è anche, in parallelo, percorso da contraddizioni all’interno (la società civile) che riversa all’esterno (col colonialismo); il rapporto dentro/fuori si complica, il ‘fuori’ viene interpretato come condizione dell’esistenza del ‘dentro’. Lo spazio è risolto nel ‘prima’ e nel ‘poi’, nel tempo. In Marx ciò è chiarissimo: lo spazio interno (lo Stato) è percorso da concrete fratture di classe, più vere della vuota omogeneità della democrazia; e questa spazialità è resa possibile dalla spazialità, anch’essa differenziante e gerarchizzante, del capitalismo globale, storicamente determinato. Lo spazio è modificato dalla storia e dall’economia.

7.Lo spazio naturale quantitativo e differenziato del positivismo.

   Lo spazio è retto da leggi fisiche e antropologiche (quantitative), scientificamente conoscibili, che lo differenziano: The burden of the white man è gestire queste differenze, non superarle. Lo squilibrio economico e tecnico (reale) è politicizzato attraverso il ricorso a leggi naturali a cui la politica non può sottrarsi e da cui anzi è legittimata. Le differenze sono insuperabili (Kipling, East is East, and West is West, and never the twain shall meet) ma gerarchizzano, non separano le parti, gli spazi: colonialismo e razzismo entrano in gioco come attori primari del discorso politico. Insieme a essi agli inizi del secolo XX appare la geopolitica, cioè l’idea che sia lo spazio con le sue differenze interne e con le sue logiche immanenti a dettare le leggi della politica – il nesso fra spazio e potenza è governato da leggi fisiche e geografiche che la politica deve assecondare: ad esempio e il concetto di Hearthland di Mackinder, The geographical Pivot of History 1904 –.

8.Lo spazio invertito e differenziante dei totalitarismi.

L’inversione è rispetto alla statualità nella sua autodefinizione classica: all’interno c’è omogeneità e non uguaglianza, e soprattutto la differenza dentro/fuori è portata dentro: all’interno c’è il nemico, oggetto di guerra interna. Un altro rovesciamento (sempre rispetto all’autodefinizione della modernità) è che lo sterminio viene introdotto in Europa, mentre era praticato negli spazi extra-europei. L’elemento della differenziazione è nelle teorie tedesche e giapponesi dei “Grandi Spazi”, apertamente anti-universalistiche. Il globo è diviso in blocchi eterogenei e chiusi.

9.Lo Spazio planetario duale

Nasce nel secondo dopoguerra dalla grande spartizione del mondo fra Usa e Urss e dalla fine dell’eurocentrismo. È lo spazio del conflitto fra due universalismi agonistici: lo spazio tendenzialmente indifferenziato delle democrazie, dei diritti e del capitale, vs lo spazio tendenzialmente indifferenziato del socialismo. Due osservazioni. La prima è che alla divisione fra Est ovest si aggiunge in realtà anche quella fra Nord e Sud (al sud possono capitare cose che al nord non sono tollerate, come il conflitto armato fra i due mondi: un esempio è la guerra del Vietnam, un altro sono le guerre di liberazione coloniale, condotte dalla guerriglia come nel caso del Che, da eserciti regolari come nel caso dell’intervento di Cuba in Angola). La seconda osservazione è che proprio per il fatto che si tratta dello scontro fra due universalismi, è stato sostenuto che la vera spazialità implicita nell’epoca della Guerra fredda è l’Universale, cioè l’Uno e non il Due: l’unità del mondo è data dalla tecnica e dalla produzione industriale, che sono il vero presupposto comune tanto del capitalismo quanto del comunismo (Schmitt, L’unità del mondo 1951).

10.Lo spazio globale

È lo spazio implicito ed esplicito dell’unico vincitore della guerra fredda, la liberaldemocrazia e il capitalismo.

i) È uno spazio che secondo la sua autorappresentazione vuole essere liscio, senza ostacoli, in cui si possono muovere ed esportare merci e mercati, diritti e democrazia. Nessuna differenza qualitativa e di principio ha diritto di esistere. Né quella fra nazioni, né la differenza fra spazio interno e spazio esterno allo Stato: nemico e criminale quindi si equivalgono, e di conseguenza le guerre in senso proprio non ci sono più, sostituite da atti di protezione e di polizia. Il diritto governa il mondo, in linea di principio: il nomos della terra è la democrazia universale e i diritti umani su scala universale, è inoltre l’Onu col suo “dovere di protezione”, e infine è lo scambio universale, la lex mercatoria che oltrepassa le ‘striature’ dello spazio operate dagli Stati post-sovrani. Emblema di questo universalismo – erede estremistico di quello del razionalismo moderno – sono la rete (www) e la finanza; due forze che non solo affrontano lo spazio modernamente come se questo fosse a loro completa disposizione ma che, ancor più, tendono a trasformarlo da universale in virtuale, cioè a creare uno spazio che è esso stesso artificiale, sostitutivo di quello naturale e di quello della metafisica moderna centrato sul soggetto (Sloterdijk, Sfere, 1998-2004).

ii) Ma in verità quello globale è uno spazio paradossale, oltre che un tempo paradossale, per due motivi. Il primo è che ogni punto è immediatamente a contatto col tutto (il cosiddetto glocalismo): i filtri e le mediazioni di spazi intermedi non esistono, così che tutto può accadere ovunque in ogni momento, e ciò che accade in un punto ha istantaneamente conseguenze su ogni altro punto (ciò vale sia per il terrorismo sia per le operazioni finanziarie). Il secondo motivo è che si tratta in realtà di uno spazio discontinuo e gerarchico, benché le gerarchie non siano disposte in un ordine rigido e fisso: ci sono diverse posizioni e configurazioni nel sistema del capitalismo globale (le superpotenze – Usa, Cina, Ue che cercano di articolare Grandi Spazi concorrenziali, non chiusi ma aperti –, i BRICS, gli Stati che si affacciano alla scena mondiale, gli Stati falliti, l’Africa che è terreno di scontro fra Usa e Cina); ci sono le masse dei migranti espulsi dai confini statali crollati (Sassen, Expulsions 2014) e dispersi nel mondo come segno vivente di contraddizione e catturati in nuovi spazi di confine e di lotta (Mezzadra – Neilson, Border as method 2013); ci sono le nuove inquietanti guerre ‘da remoto’, con i droni che capovolgono il rapporto amico/nemico e annullano la spazialità che gli è implicita (G. Chamayou, Théorie du drone 2013).

C) Conclusioni

La globalizzazione produce uno spazio politico percorso da linee ben più complesse di quanto essa affermi. Il che ci porta, per il presente, a ipotizzare interpretazioni alternative del Globale, sia quanto alla sua genealogia (e qui hanno rilievo gli studi Atlantici, quelli Postcoloniali e la nuova geopolitica, ovvero gli approcci che mostrano quanto la centralità dell’Europa nel Moderno si sia costruita nel continuo confronto con gli elementi spaziali e antropologici non europei) sia quanto ai tipi di problemi che lascia da affrontare. Questi possono così essere sintetizzati: la ridefinizione del ruolo dello Stato post-sovrano nel contesto dei Grandi Spazi in cui si articola il capitale globale, la trasformazione del significato della cittadinanza, il rapporto fra stanzialità e nomadismo (più fecondo di quello fra Impero e moltitudini), il ruolo (e la differenza reciproca) dei bordi (edges), dei limiti (boundaries), dei confini (borders), delle frontiere (Frontiers). Si tratta infine di decostruire l’universalismo astratto della spazialità globale e di scoprire le molte linee di potere, vecchie e nuove, che lo costituiscono (quella di genere, incrociata con quella di religione, resta centrale), senza cadere tuttavia nella nostalgia delle frontiere, delle identità, degli spazi chiusi (su queste ultime si veda, invece, R. Debray, Éloge des frontières 2010). In questo programma di studi si mostra, per concludere, che la dimensione dello spazio è decisiva sia per la critica genealogica del Moderno sia per la critica politica del Globale. Una critica che consiste, operativamente, nel “cartografare il presente”.

Lezione magistrale tenuta il 7 novembre 2016 presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. 

 

 

 

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