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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Intervista politico-filosofica

A cura di Gianluca Sacco

 

Dalla lettura del suo ultimo libro Sovranità, soprattutto dal capitolo finale, appare oggi, semplificando, che sovrana in Europa sia per lo più la Germania. Il sovranismo è invece, sempre secondo il suo testo, una specie di reazione agli aspetti potremmo dire tirannici di questa sovranità, ovvero l’euro, e in particolare l’ordo-liberalismo, una dottrina economica tedesca che, per dirla alla Foucault, «pone lo Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato». È corretta questa lettura? È l’ordo-liberalismo, secondo lei, il vero tiranno d’Europa?

L’ordo-liberalismo è una forma di pensiero economico particolarmente cogente e estremamente attenta a determinare e a preservare attraverso la politica le condizioni dell’equilibrio economico: la libera concorrenza e l’esclusione delle interpretazioni dell’economia in chiave conflittuale. L’ordo-liberalismo è l’economia sociale di mercato tedesca, a sua volta alla base del marco. Tutti sappiamo che l’euro è stato esemplato sul marco, e tutti sappiamo che l’euro ha nella propria costituzione delle regole di carattere strutturale; ci dicono che l’economia deve essere un’economia fondata sulla esportazione e non sulla domanda interna, che lo Stato deve avere i conti pubblici in ordine, che lo Stato non può essere il signore della moneta, che questa è una variabile indipendente. Ora tutti sanno che gli Stati dell’eurozona vi hanno aderito attraverso procedure democratiche che sono state in ogni caso legali, perché hanno coinvolto i governi e i parlamenti degli Stati membri. Quindi parlare di tirannide è improprio, almeno dal punto di vista tecnico. Ma detto questo, dobbiamo sottolineare altri aspetti.

Quali?

Innanzitutto dobbiamo dire che l’euro è un sistema monetario molto esigente. Inoltre, la cogenza di queste esigenze è esercitata con una considerevole discrezionalità: davanti alle regole dell’euro alcuni sono più uguali degli altri. E questo di solito viene giustificato con l’idea che quando un governo ha sentimenti anti-euro, e quindi è inaffidabile, contro quel governo la legge va applicata. Mentre quando un governo ha sentimenti pro-euro, quel governo è affidabile, e in questo caso la legge va interpretata. Naturalmente, sempre con grande misura: non ci sono mai gesti di grande generosità. Un’ulteriore sottolineatura è che in realtà le decisioni che si prendono al livello della Commissione  e del Consiglio – che non sono tecniche ma strategiche e quindi politiche – sono determinate dall’interesse di alcuni Stati molto forti. Il metodo intergovernativo oggi prevalente porta a questo. E noi, come Italia, non siamo tra quelli che ricevono benefici senza contropartite.

Ma l’euro ha prodotto dei benefici evidenti, come ribadisce anche Romano Prodi proprio in questo numero.

Se lei mi dice che l’euro ha prodotto benefici, io le rispondo che forse ne ha prodotti. I prezzi stabili sono un beneficio, certo. Ma fino a quando? Fino a che non diventano deflazione e strumento di dominio del capitale sul lavoro. Perché i prezzi stabili vogliono dire «moderazione salariale», non pagare molto gli operai. E i conti in ordine vuol dire che tutti gli anni in sede di legge di bilancio – e non a caso il capo dello Stato ha detto che questa deve essere condotta all’interno della governance economica europea – si devono tagliare decine di miliardi: e ne risentono i servizi sociali, e in ultima analisi la democrazia. Se i prezzi stabili sono stati comunque un vantaggio generato dall’euro, questo vantaggio è molto molto costoso.

In effetti appare ormai come una prassi degli ultimi Presidenti della Repubblica italiana anteporre una ragione economica a qualsiasi decisione politica, basti pensare alla tirannia dello spread durante la presidenza di Napolitano.

Quando si afferma che tutti gli Stati dell’Unione Europea e dell’eurozona sono Stati sovrani che hanno ceduto soltanto la sovranità monetaria, si dice tecnicamente il vero; ma conservare la sovranità di bilancio in queste condizioni  equivale ad avere una coperta sempre corta, da tirare da una parte e dall’altra. E questo sarà anche un diritto, ma non è un gran diritto.

Ecco su questo, mi permetto di prospettarle un altro punto di vista, quello di Romano Prodi, che di fronte alla domanda sulla tirannia dell’euro, ha spostato la questione da una prospettiva di politica interna all’Europa ad una più geo-politica, difendendo l’euro come un prezioso spazio conquistato tra giganti quali gli USA, la Russia e la Cina. In altri termini, dice Prodi, più che preoccuparci della tirannia dell’euro dobbiamo preoccuparci della tirannia del neoliberismo, e cioè delle multinazionali come Amazon, Google e compagnia bella.

L’euro nasce di fatto con la caduta del muro di Berlino (benché sia stato pensato prima, con la fine degli equilibri di Bretton Woods),  e con l’idea che nella fase di capitalismo globale è molto probabile che i singoli Stati storici d’Europa non abbiano la forza di contrastare i mostruosi poteri della globalizzazione. Il punto è che il lodevolissimo intento di contrastare lo strapotere delle corporations transnazionali non è raggiunto e implementato dal solo fatto che esiste l’euro. Perché poi i rapporti con le grandi corporations se li giocano i singoli Stati. Trattando in prima persona, sanzionando o condonando …

Dei piccoli condoni…

Piccoli condoni da decine di miliardi di euro… Ma è anche vero che l’idea di costituire una unità geo-politica-economica chiamata Europa per entrare nel grande gioco delle superpotenze, non mi pare sia sostenuta concretamente da un qualche politico di peso oggi al governo in Europa. Anzi, questa è un’idea che non può che essere invisa ai governanti dei singoli Stati europei, perché questi tendono a tenersi stretta la loro sovranità. I veri sovranisti sono gli Stati, come del resto è ovvio.

Prodi parla del ruolo politico europeo della Francia…

Certo, c’è stato il tentativo di Delors e poi di Giscard, ma – a parte il fatto che la Costituzione europea è stata battuta dai referendum del 2005 in Francia e in Olanda – i francesi hanno pensato all’Europa, nel migliore dei casi, come a una Francia allargata, con i diplomati ENA nei  posti chiave.

Cosa non diversa del resto sul lato delle grandi imprese, come dimostra l’ultimo accordo fusione FCA- Peugeot.

Certo. Ma tornando al tema di fondo della tirannia dell’euro, bisogna capire che se da una parte la costruzione dell’euro ha un contenuto fortemente politico, dovuto ai vincoli alle politiche degli Stati che pone di fatto, dall’altra parte occorre tenere bene a mente che questa costruzione non è di per sé politica: cioè l’euro non favorisce una politica federale e unitaria. Perché l’Europa lascia a ciascuno Stato sovrano l’onere di far fronte agli effetti dell’euro. Ciascuno Stato deve far fronte di tasca propria agli effetti socio-economici dell’euro. E ciò divide l’Europa.

In che cosa l’euro è diverso dal dollaro?

Il dollaro è la moneta di riferimento dell’economia internazionale, e  viene stampato ad libitum dagli USA, che sono una federazione il cui bilancio  vale circa un terzo del PIL del Paese.  L’euro non è la moneta di riferimento e nemmeno di riserva dell’economia internazionale; il bilancio della UE è ridicolo a fronte del suo PIL. Il 98% del PIL della UE è gestito dai singoli Stati sovrani della UE, e solo il 2% viene gestito a livello della UE. Detto altrimenti: dietro l’euro non c’è una politica, ma solo un sistema di diffidenze reciproche fra gli Stati, e continui compromessi sulla base della legge del più forte.

Quindi il problema è tra sovranità federale e sovranità dei singoli Stati?

Finché non si fa un’unione bancaria, fiscale e politica, finché non ci saranno partiti transnazionali, e un parlamento in grado di esercitare un potere legilsativo cogente come parte centrale di un potere sovrano europeo, l’euro sarà un problema almeno quanto è  una soluzione. Ma quello che sembra uscito dalla consapevolezza comune è che la creazione di soggetti politici unitari, cioè realmente sovrani (come dovrebbe esser l’Europa), non nascono a tavolino dai trattati. La sovranità, quando è già in essere, si esercita e si manifesta attraverso il diritto, ma per venire al mondo ha bisogno di un investimento di energia enorme. Fuor di metafora, le sovranità nascono da guerre di liberazione, da guerre civili, da rivoluzioni o collassi di sistemi istituzionali. Cioè nascono da cesure, dall’esercizio di potere costituente.

Sta dicendo che far nascere l’euro senza unità politica è stato un errore? Sbagliava dunque Kohl a dire a Prodi di aver pazienza, che Roma non si è fatta in un giorno solo.

Far nascere una sovranità politica europea attraverso le contrattazioni fra le sovranità dei singoli Stati dell’Unione è praticamente impossibile. Non è mai successo e non succederà. Pensi al caso della Germania: tutte le volte che è necessario la Corte costituzionale di Karlsruhe ricorda che l’insieme dei trattati europei è da considerare in una logica di sussidiarietà. Cioè la Germania aderisce alla Unione Europea nella misura in cui le istituzioni dell’Unione Europea fanno meglio, in modo più efficiente, ciò che la Costituzione tedesca vuole, ovvero produrre libertà e benessere per la Germania (il cosiddetto Lissabon-Urteil). Davanti a questo primato dello Stato e della statualità nessuno si scandalizza.

La predominanza della Corte costituzionale tedesca sui trattati europei mi permette di riprendere un capitolo del suo libro in cui indica tra i nemici della sovranità, oltre al capitale e al principio dell’utile, il razionalismo giuridico ovvero il tentativo di imbrigliare la naturale instabilità della politica nelle regole e nelle procedure giuridiche. Possiamo immaginare l’ordoliberalismo tedesco come il figlio naturale di questa visione ipergiuridica, che neutralizza di fatto sia l’economico sia la politica?

L’ordoliberalismo è una dottrina economica che più di altre fa affidamento sulla politica. Certo, il suo limite fondamentale è che reputa l’economia un sistema di equilibrio, cioè non vede lo squilibrio tra capitale e lavoro. Ma a parte questo, l’ordoliberalismo fa affidamento sulla politica, nel senso che la dà per scontata. E come poteva essere altrimenti se è un pensiero economico che è nato negli ultimi anni ’20 del secolo scorso quando non vi erano che Stati sovrani? C’era un’economia capitalistica che allo Stato tedesco chiedeva di essere uno Stato forte in grado di neutralizzare il conflitto sociale-economico interno, e di consentire all’economia di funzionare bene. L’ordoliberalismo alla politica ci crede, a modo suo. Ma il punto vero è che l’Europa si è data l’ordoliberalismo senza darsi l’ordo.

Ordo come ordine e come decisione politica di un ordine. Ci stiamo avvicinando alla definizione di sovranità?

Certo, la sovranità è prima di tutto un fatto politico e non un fatto giuridico. E dire fatto politico vuol dire che vi è qualche cosa della sovranità, alla origine della sovranità, che non è giuridificabile.

Nel suo testo lei ricostruisce la ‘giuridificazione della politica’ come un fenomeno storico originato proprio dal passaggio della sovranità dinastica ad una sovranità nazionale impersonale. Questo passaggio, lei continua, prende in Gran Bretagna le vie parlamentari –dando spazio alla rappresentazione del conflitto politico e quindi a una sovranità aperta alla sua origine non giuridificabile –, mentre in Germania si incardina nelle forme istituzionali dettate dalla cosiddetta Dottrina generale dello Stato (Allgemeine Staatslehre). Questa teoria, in pratica, non colloca la sovranità «nel principe o nel popolo (di cui teme la violenza intrinseca) ma in una zona intermedia che è il sistema giuridico, culminante nello Stato e nel suo potere sovrano». Tutto questo a scapito di una società civile che era quella che avrebbe dovuto di fatto esercitare la sovranità. La sovranità diviene cosi, attraverso le strade del diritto e delle procedure, la «competenza delle competenze» [p. 61]. Mi pare un passaggio storico chiave per comprendere l’immobilità politica e la governance tecnica dell’Europa di oggi.

Per spiegare la tirannia dell’ordo-liberalismo prenderei un esempio ancora più chiaro. Se è vero che il sogno di ogni economista è un’economia che gode di un primato non ostacolato, quello degli ordo-liberalisti è sostanzialmente diverso perché vogliono da una parte una società il più possibile spoliticizzata, mentre dall’altra sanno che per spoliticizzare la società è necessaria la politica, tutta racchiusa all’interno dello Stato. Per gli ordoliberalisti lo Stato deve essere sempre pronto a vigilare e tagliare i rami secchi della società, o meglio, i rami in cui si formano dei bubboni di politica. Vediamo come si è realizzato l’ordoliberalismo in Germania: lo Stato dopo la Seconda guerra mondiale è intervenuto mettendo fuori  legge i nazisti e i comunisti e immettendo i sindacati nei consigli di gestione delle grandi fabbriche. Cioè ha fatto tutto il possibile per ottenere e mantenere la pace sociale: la Germania si è garantita l’ordo prima del liberalismo. In Europa invece abbiamo fatto un’economia unica, una filosofia economica unica, ma ci siamo dimenticati di fare una politica unica, un ordo unico.

Cioè, chi ha pensato un ordoliberalismo tedesco da estendere a tutta l’Europa si è dimenticato di fare uno Stato federale unico, e ha lasciato che la politica la facessero tanti Stati diversi ma alla fine la sovranità la esercita lo Stato più forte, cioè la Germania.

Esattamente. Gli Stati avevano storie diverse, alcuni sono partiti bene, mentre altri hanno arrancato sin dall’inizio. Del resto è normale, se non fai alcuna redistribuzione delle ricchezze e non fai niente per aiutare i Paesi più deboli. L’Europa ordoliberale di stampo tedesco si è data un solo comando: «Hai firmato, vai avanti. Noi vogliamo risultati, non giustificazioni». Senza una unificazione politica dell’Europa, con l’euro si è corso un rischio politico enorme, che stiamo ancora pagando. Il rischio della divaricazione, delle fratture fra Stati all’interno dell’Europa, lungo linee di efficienza economica – misurata, questa, con i parametri di Maastricht e di Lisbona –.

Questo pseudo ordo ha indebolito tutto?

Certo, la mancanza di politica indebolisce lo stesso sogno ordoliberale, che ha bisogno di politica, che non può essere lasciata nelle mani di tanti piccoli feudatari, gli Stati nazionali. Perché l’euro funzioni davvero, deve essere la moneta di una federazione, che impone un minimo di uniformità legislativa, un minimo di redistribuzione della ricchezza, e una super banca centrale che fa da vero prestatore di ultima istanza.

Uno Stato federale come gli USA?

In linea di principio, sì. Ma la federazione americana implica che i singoli Stati dell’Unione non siano sovrani – la guerra civile è stata l’atto di decisione, al riguardo –. In Europa, invece, è praticamente impossibile togliere la sovranità alla Francia, alla Spagna, alla Germania, all’Italia o alla Polonia. Chi lo va a spiegare ai capi di questi Stati che sono solo degli amministratori, che le cose importanti le fa un centro politico sovranazionale, capace di determinare qual è l’interesse strategico dell’UE? Lei si immagina che cosa le risponderebbero?

Col cavolo…?

Ma certo! Chi è un soggetto politico sovrano? È un soggetto che in casi normali è signore di sé, all’interno, e in casi estremi per difendere con la forza il proprio interesse strategico è disposto anche a muovere la guerra. Questo l’Europa non può farlo perché nessuno dei suoi governanti è disposto a cedere alcun pezzo rilevante della sua sovranità: e quindi non ha unità interna, né capacità di politica strategica all’esterno. Gli USA invece, in quanto sono realmente uno Stato federale,  non accetteranno mai – ad esempio – che venga meno la libertà dei mari: un interesse strategico esterno, per il quale sono disposti anche al conflitto. Mentre all’interno, pur con tutte le articolazioni statali che ovviamente li costituiscono, non conoscono conflitti realmente politici fra gli Stati dell’Unione (dopo la guerra civile, naturalmente).

Questo lo sosteneva e dimostrava già Schmitt nel Nomos della terra.

E qual è, invece, l’interesse strategico di un’eventuale Europa unita? Chi lo potrebbe decidere? Dove, in quale sede, con quale cultura politica unitaria? Ribadisco, diventare una superpotenza, anche solo federale, vuol dire entrare davvero nel grande gioco della politica. Ma il grande gioco della politica ha costi enormi. Se sei una superpotenza devi mettere le mani in tutte le crisi del mondo, perché tutte le crisi ti interessano e ti minacciano. Allora devi avere un Pentagono europeo, devi avere i missili nucleari europei, devi avere le portaerei europee. È una cosa a cui nessuno è preparato, e che certo nessuno vuole – mentre qualcuno vorrebbe che le proprie armi diventassero le armi dell’Europa –. Le forze armate europee sono difficili da gestire a livello pratico: ma a livello del comando politico, chi le guida? La UE non può pensare a se stessa solo come a una alleanza militare fra Stati: deve (dovrebbe) essere in grado di esprimere una stabile volontà politica.

Questo stato di stallo, di stare nel mezzo, di un progetto a metà, cosa comporta?

Stare nel mezzo significa che ci si spacca.

***

L’indecisione sovrana e l’impraticabilità delle soluzioni politiche sembrano riportarci indietro al periodo di Weimar, con gli effetti devastanti del nazismo e delle guerre mondiali che tutti conosciamo. Il sovranismo appare come una richiesta di sovranità dal basso. C’è una similitudine tra questi due periodi? L’avanzare del sovranismo ci sta portando sulle soglie di un nuovo totalitarismo?

Non c’è alcun totalitarismo all’orizzonte. Quando lei si riferisce al periodo tra le due guerre, l’elemento di correttezza di questo paragone sta nel fatto che allora, come oggi, grandi pezzi delle società occidentali si rivolsero allo Stato o a partiti statalisti per difendersi ed essere difesi dalla violenza del capitalismo. È il cosiddetto ‘momento Polanyi’: quando una società si sente troppo insicura, avendo affidato il cuore della propria riproduzione materiale al privato e vede che il privato vacilla, che non è in grado di produrre ordine e di distribuire benessere, allora si affida allo Stato. In quel caso le società si affidarono a partiti e regimi totalitari e le cose andarono a finire molto male.

La situazione invece oggi le sembra diversa?

Senza dubbio. Oggi le società che protestano non si affidano a partiti totalitari. Oggi di partiti totalitari non ne vedo – in Italia; semmai in alcuni Stati dell’Europa orientale e nella ex- Germania dell’Est ci sono problemi –. Ci sono partiti che hanno una legittima capacità di criticare l’Europa, e per non restare alla tecnicità economica ricorrono anche a elementi identitari e li usano nella propaganda politica. Vi sono degli scimmiottamenti, stupidaggini, incapacità, incompetenze, finché si vuole, ma l’idea di fondo che queste forze politiche affermano di  contestare (ma su questo non vanno oltre il livello polemico) è proprio la soluzione ordo-liberalista in Europa e neoliberista nel mondo. Sono queste soluzioni a essere semmai qualcosa di simile a un nuovo totalitarismo.

Addirittura?

Soprattutto per la loro colonizzazione delle coscienze, e  per l’esclusione a priori di ogni alternativa. Mentre coloro che vivono il presente con angoscia chiedono che lo Stato torni ad avere l’ultima parola sulle questioni interne al proprio territorio, e dunque un reale potere protettivo e decisionale. A Taranto immagino che non ci siano più molti neoliberisti; semmai ci saranno più statalisti, ovvero molti che si attendono che lo Stato abbia più potere di una multinazionale o una corporation.

Certo che lo Stato dovrebbe avere più potere di una multinazionale. E come avrebbe dovuto reagire la  Grecia nel 2015 quando si vide costretta di fatto a non tener conto dell’esito del referendum che diceva di no alle condizioni di ristrutturazione del debito imposte sostanzialmente dal resto d’Europa e dalla Troika? Qui il problema non è solo al  livello privato-pubblico, multinazionale e Stato. Qui il problema mette in discussione il rapporto tra economia e democrazia. Un problema del resto che non sembra riguardare solo l’Europa. Basti pensare alla Cina, alla Russia, alla Turchia e all’Ungheria, lì dove il capitalismo sembra costringere la politica a prendere una strada sempre post- democratica, come la definisce Colin Crounch. Qual è lo stato dell’arte tra capitalismo e democrazia?

Questo è il tema di fondo del XX e del XXI secolo: il capitalismo è compatibile con la democrazia? Dopo che abbiamo capito che il fascismo non lo è, che il comunismo non lo è, adesso ci chiediamo: «Il capitalismo è compatibile con la democrazia?». Io rispondo che non sempre il capitalismo porta democrazia, e che non sempre è il contrario di essa. L’economia capitalistica, sia neoliberista sia ordo-liberalista, funziona anche senza democrazia. La democrazia è compito della politica, e non possiamo aspettarcela dall’ economia. La mia idea è che la richiesta di sovranità in questa fase è una richiesta di democrazia, non di antidemocrazia.

È per questo che lei dice, nella quarta di copertina, che oggi sovranità vuol dire democrazia?

Le multinazionali non hanno particolare interesse alla democrazia. La ditta che a Taranto fabbrica acciaio in giro per il mondo compera acciaierie e poi le chiude. Qualcuno dice che è una questione di proprietà privata, e che i privati fanno quello che vogliono. Ma non è così. La nostra Costituzione, all’articolo 42, orienta la proprietà privata verso una funzione sociale. Se lo Stato lo vuole può esercitare la sua sovranità anche in questa circostanza, con molte possibili opzioni.

Ma  l’Europa potrebbe obiettare che questo sarebbe un indebito aiuto di Stato?

E così torniamo a ciò che le avevo detto all’inizio della nostra chiacchierata: le leggi in Europa per alcuni si interpretano e per altri si applicano rigidamente. Basti pensare al favore che ricevono le banche tedesche esposte con i Länder, con il pretesto  che questi ultimi sono enti privati. L’Europa non è altro che il campo di tensioni in cui si esercitano i poteri sovrani dei singoli Stati. Il vero problema è che l’Italia è uno Stato debole, poco efficiente, forse povero, con poche risorse. Un condizione di relativa debolezza del nostro Paese, dai tempi della unificazione. Siamo nati senza capitali, e abbiamo avuto sempre bisogno degli stranieri:  inglesi, francesi, tedeschi, americani.

Però abbiamo avuto un momento, quello del cosiddetto «miracolo economico italiano», in cui le cose sembravano prendere un’altra direzione. Il tentativo di un’indipendenza energetica con l’intraprendenza di Mattei.

Si, ma quello è stato il momento in cui, per strano che possa sembrare, di sovranità ne avevamo di meno. Eravamo immersi nell’oceano keynesiano di Bretton Woods, nell’area d’influenza americana, e in quella fase storica dopo un’accumulazione a bassi salari è stato possibile lottare per ottenere una redistribuzione. Ma tenga presente che, finita la ricostruzione verso il 1950, l’inizio del miracolo economico coincide con il boom dell’esportazione resa possibile dall’instaurazione dei trattati di Roma del 1957. Il problema  vero è che, quando è caduto il muro di Berlino, gli USA – che pure hanno conservato la loro presa sull’Europa, imponendo l’ingresso nella NATO (e indirettamente nella UE) degli Stati dell’Europa orientale – hanno cambiato il loro rapporto con l’Europa: questa ha tentato allora di darsi un profilo politico autonomo, ma il fallimento di questa mossa strategica ha fatto riemergere le singole sovranità a lungo sopite. Negli anni ’70, quando ero un giovane studioso, nessuno si occupava del tema della sovranità, perché questa non era vista come un problema, e sembrava superata.

***

Tra gli anni ’70 e ’80 lei comincia appunto a interpretare il pensiero di Carl Schmitt, un giurista tedesco che si era formato proprio approfondendo la questione della sovranità a partire dalla sua definizione: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». So che lei condivide questa definizione ma ce la può illustrare?

Innanzitutto dobbiamo chiarire che cosa si intende per «stato d’eccezione», perché questo può portare a fraintendimenti. L’eccezione è un momento della sovranità che corrisponde al suo stato iniziale, alla sua origine. La rottura sovrana dell’ordinamento non è cosa di tutti i giorni: ma è una possibilità che non può essere del tutto rimossa, perché è originaria. Detto questo, occorre tenere a mente che la sovranità è l’essenza stessa della politica moderna che affronta e formalizza la realtà complessa e contraddittoria del vivere insieme. La sovranità è un concetto fondamentale della nostra vita associata, un concetto esistenziale perché è l’anima di un  soggetto politico che esiste nel mondo. E chiunque esiste ha a che fare con la morte: chi esiste porta con sé la morte, sa di poter morire. Questa condizione esistenziale, portata a livello politico, implica che lo Stato sovrano moderno  nasca per  la ricerca quotidiana della sicurezza e dell’ordine (oltre che della potenza); e implica anche che lo Stato sappia che la propria sicurezza è instabile, che nasce dal pericolo e che può quindi essere spezzata dall’eccezione, tanto da una crisi dirompente quanto da una decisione sovrana che per salvare l’ordine lo riconduce alla propria origine di crisi. La sovranità quindi è il potere politico che si misura coscientemente con la propria contingenza originaria ed esistenziale.

Quindi lei pensa la sovranità e la vita di uno Stato come quelle di un individuo?

L’equazione Stato=individuo ci aiuta a comprendere l’essenza e l’importanza della sovranità. Uno Stato sovrano è un individuo che sa di poter morire. Sa che è stato messo al mondo e sa di poter morire. Uno Stato sovrano non conduce la propria vita nella totale inconsapevolezza, come l’uomo più buono e pacifico del mondo non conduce la propria vita nella totale cecità davanti ai pericoli. Inoltre, per conservare questa equazione, che non ha nulla di organicistico, come l’individuo così anche lo Stato sa di esser venuto al mondo nel dolore (politicamente, nella violenza, nella crisi).

Mi sembra che lei stia evocando la categoria arendtiana della nascita come significato profondo dell’azione politica, che interrompe la serie continua causa-effetto.

Non precisamente, poiché la natalità in Arendt non è collegata allo Stato. L’elemento dell’esistenzialismo in politica noi lo abbiamo per due vie parallele: Schmitt e Heidegger. Poi vengono tutti i loro discepoli, e se vogliamo – all’origine di tutto c’è Nietzsche. Da questo lei capisce Foucault e Deleuze, come da Heidegger capisce Derrida. Come da Schmitt capisce Agamben.

L’equazione individuo-Stato rende evidente della sovranità la sua condizione esistenziale, un tema che, attraverso Heidegger, dominerà tutto il ’900. Ma l’esposizione al rischio della morte, e quindi di richiesta di sicurezza, diventa motore della sovranità già nella modernità, quando vengono meno i riferimenti classici e tradizionali per l’individuo.

Sì, è già nell’epoca moderna, in cui l’ordine politico non è più legittimato da fondamenti tradizionali, che la sovranità in prima approssimazione viene concepita come un corpo politico che si rappresenta (o si presenta) per esistere, per volere, per ordinarsi e per agire secondo i propri fini, che sono innanzitutto fini di pace interna che è l’obiettivo del patto di Hobbes, che dà vita al Leviatano. La sovranità moderna nasce come risposta alle guerre di religione. Liberare l’individuo dal potere diretto delle Chiese – privatizzare la religione – è l’impresa storica della sovranità.

Eppure Schmitt inquadra la sua definizione esistenziale di sovranità in un contesto teologico che sembra riportarci indietro, a prima della modernità. Perché è necessario inquadrare la sovranità all’interno della teologia politica? E perché lei arriva a coniare la locuzione «teologia politica critica»?

Sulla teologia politica come critica sto scrivendo un libro. Bisogna premettere che il concetto di  teologia politica entra nel dibattito teorico grazie al libro di Carl Schmitt del 1922, e non prima. Ciò premesso, teologia politica è un modo della critica, come esiste la critica attraverso la bio-politica e la critica dell’economia politica. La teologia politica dice sostanzialmente che non è vero che gli ordini politici sono tutti traducibili in ordini giuridici. Dietro ogni ordine, inteso come mediazione, c’è una immediatezza; dietro ogni ragione dispiegata c’è un elemento di non-ragione che ne è l’origine. La teologia politica è uno strumento intellettuale con cui puoi scavare dietro la giustificazione razionale del potere per scoprirvi un grumo non razionale. Molti grandi pensatori politici della modernità scoprono diversi ‘grumi’. Marx, per esempio, ha identificato l’interesse individuale, l’appropriazione privata del valore socialmente prodotto, l’espropriazione del proletario dal proprio lavoro, come l’origine del sistema di relazioni sociali chiamato capitalismo. Un biopolitico genealogico come Foucault ha detto che il potere è la produzione di soggetti  e, insieme, il loro assoggettamento (mai totale): del potere non importa l’origine, ma la funzione pervasiva. Con la teologia politica si può scoprire la grande decisione originaria che c’è dietro ogni potere, che di solito le stesse forme del potere cancellano perché non la vogliono esibire (in cinque anni di parlamento non ho mai sentito la parola neoliberismo).

E perché secondo lei non si fa riferimento all’origine storica della sovranità?

Perché discendere alle radici è troppo impegnativo e perturbante. Sia chiaro: non stiamo dicendo che il potere deve necessariamente essere folle o arbitrario. Ma la nostra stessa Costituzione può essere compresa in senso storico-politico solo se si tiene presente che nasce dalla Resistenza. La Costituzione, tra l’altro, comincia parlando proprio di sovranità. Non sarà un caso, no?

Cioè, lei dice che dovremmo non dimenticare le radici politiche di uno Stato, la fonte della sua sovranità per capirne il senso e la direzione. Mentre invece tendiamo a leggere la Costituzione e la sovranità con approccio prevalentemente, se non esclusivamente, giuridico e non politico. È questo il punto?

Esattamente. E, ancora peggio, tentiamo di fare a meno della nozione stessa di sovranità, sottomettendola all’economia globale.

È significativo il fatto che in politica non si parli dell’origine della sovranità ma si parli molto di valori, termine che Schmitt non amava molto (ne contestava la presenza anche dentro le costituzioni); e infatti scrisse un libretto La Tirannia dei valori che forse ci permette di esplicitare un altro significato di tirannia. Qual era l’intento  polemico di Schmitt?

La tesi di Schmitt, in quel libro, è che il valore è violento e polemico, perché il valore implica un disvalore, un male da combattere. Mentre invece per lui il rapporto amico-nemico non è il rapporto del bene assoluto contro il male assoluto, ma il rapporto tra due soggetti antagonisti, avversari, e quindi disposti anche a morire e a uccidere ma non a  svalorizzarsi. È una tesi anti Max Scheler e anti concilio Vaticano II. È il suo vecchio discorso contro i poteri discriminatori, cioè contro i poteri che affermano la propria bontà, e per contro la malvagità e l’inumanità degli avversari. In pratica è la polemica contro la criminalizzazione del nemico, contro il moralismo politico universalistico del mondo anglofono, contro la pace di Versailles, e contro la moralizzazione della politica. Se si fa moralizzazione della politica si trasformano i nemici in mostri.

La svalorizzazione dell’avversario fino all’annientamento è una delle forme del totalitarismo, e mi viene in mente che Hannah Arendt, nel suo celebre Sulle origini del totalitarismo, per descrivere questa nuova di forma di governo si serve del concetto di tirannia per distinguerne i tratti fino al punto di arrivare a sostenere che il totalitarismo ha una sua unicità e originalità. Afferma cioè che la tirannia si basa sulla paura, il totalitarismo invece sul terrore; se la prima è illegale, la seconda è in un certo senso meta-legale, cioè si pensa al di sopra della giustizia. Ma fondamentalmente si erge a giudice della storia accelerandola verso il fine dell’uomo perfetto, e quindi accelera la selezione naturale darwinista della razza, ovvero secondo il nazismo, quella ariana.

Questa è la polemica contro il costruttivismo, ovvero contro l’idea di  un intervento forte della politica, sulla base di una ideologia, per ridurre il mondo a immagine. Guardi, tutto ciò è contenuto in nuce nel saggio del 1938 di Heidegger Sull’epoca dell’immagine del mondo. L’idea di fondo di questo saggio è che la modernità sovrappone al mondo una immagine, lo traduce in concetti e in grafici. E da ciò deriva l’impianto di Arendt in Human Condition, l’idea che il totalitarismo (una parola che per inciso suggerirei di non usare più) è un’ipotesi costruttivistica: il mondo così com’è non va bene, e quindi va cambiato con grande violenza tecnica e ideologica.

Anch’io vorrei pensare come lei che il totalitarismo non può tornare, eppure la stessa Arendt insegna che l’antisemitismo non era un fenomeno affatto casuale nella costruzione e nell’affermazione del totalitarismo, anzi era un retaggio storico che aveva dei precisi risvolti socioeconomici nella società tedesca. Del resto molti pensatori tedeschi erano antisemiti.

L’antisemitismo, violentissimo in Lutero, è certamente presente, in alcuni piccoli passaggi, in Fichte, in Hegel, in Schopenhauer. Forse persino in Marx. Poi emerge forte in Heidegger e in Schmitt. Ma non è la molla del pensiero di questi autori, i quali non pensano ciò che pensano in quanto sono antisemiti. Semmai, accettano, in modo più o meno evidente, l’antisemitismo diffuso nell’ambiente. Ma lo accettano perché non credono che sia un crimine, come invece lo crediamo noi, oggi.

Sì, ma nel totalitarismo c’è un uso scientifico e strumentale dell’immagine, come ha cercato di dimostrare Walter Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dove parlava non a caso di ‘estetizzazione della politica’, che oggi sembra quanto mai attuale. Qual è il rapporto tra sovranità e comunicazione, e in particolare la comunicazione per immagini?

Io parlo del «triedro del potere», che io vedo costituito anche dal potere mediatico (oltre che dalla politica e dall’economia). Nella storia il potere mediatico è stato essenzialmente la parola del potere. Cioè quello che il potere diceva di se stesso.

Cioè lei la vede come narrazione, come capacità retorica, narrativa? Ma se il mezzo, diceva Mc Luhan, è già il contenuto, i nuovi media, già oltre la TV, quindi i social media, non stanno cambiando o quanto meno condizionando la sovranità?

Ma oggi non è cambiato il potere della parola che è poi la parola del potere, ciò che il potere dice di se stesso: la parola è pervasiva come mai lo è stata prima. Non è vero che il livello essenziale del potere è nel sistema mediatico, perché sotto c’è il sistema economico, e più sotto ancora c’è il sistema geopolitico. Però è vero che oggi il potere implica un dispendio di energie enorme, un impiego mostruoso di risorse retoriche, con una pervasività altissima. Basti pensare, per esempio, al fenomeno Greta Thunberg. Ai più è apparsa una ragazzina che fa tremare i potenti, e tutto il mondo è stato invitato a credere in quella bambina. Io, francamente,  vi ho visto la voce del potere. Tutto quello che attraverso di lei veniva detto era funzionale alle esigenze di una parte avanzata del sistema capitalistico mondiale, e alla preparazione delle coscienze delle masse a qualche nuovo sacrificio. Credo che si sia di fronte ad un salto qualitativo dello stesso capitalismo, come altri ne ha già fatti, un salto per esistere e prosperare. È stato un investimento di energia mediatica che in vita mia non avevo mai visto. Ciò non significa negare che esista una questione climatica e ambientale: anzi, significa che questa questione non va tratatta in questo modo spettacolare.

Ma in che modo, mi scusi, il capitalismo trarrebbe giovamento dall’esposizione mediatica del messaggio di Greta? Sta pensando alla green economy come nuovo modello capitalistico?

Appunto. E soprattutto a un  tentativo di far crescere il senso di colpa collettivo non tanto perché si realizzi un vero cambiamento del modello di sviluppo, che nessuno vuole in realtà, ma perché venga confermata la capacità del potere di generare conformismo, di convincere, influenzare, sottomettere acriticamente le masse. Una prova in grande stile dell’efficienza del sistema che genera le credenze più funzionali, mescolando scienza, paura, retorica della catastrofe, e appunto senso di colpa.  Oggi, è funzionale la credenza nel green; e ancora più funzionale, per il potere, è tenere i mezzi di comunicazione sempre affilati, le polveri sempre asciutte, saper suscitare e controllare emozioni politiche.

Quindi lei vede il rapporto tra sovranità e comunicazione come narrazione, come capacità e sfruttamento della persuasività della parola. Ma c’è anche il potere dell’immagine, una sorta di egemonia culturale, basti pensare agli Stati Uniti. È evidente che loro hanno costruito un pezzo di sovranità sul cosiddetto soft power, sulla pervasività delle immagini del cinema, sul cosiddetto immaginario americano. L’immagine, e non solo la parola, ha un potere non secondario. Se si pensa anche alle miriadi di immigrati dell’Est che dopo l’89 si riversavano verso l’Ovest attirati dalle immagini viste in TV. È in dubbio che la sovranità si estende attraverso l’immagine.

Questa sua domanda mi dà l’occasione di precisare due cose a mio avviso importanti. Non si deve confondere il potere con la sovranità. I media sono certamente un potere – e il «triedro del potere» è naturalmente potere –. Ma la sovranità è un tipo di potere diverso perché è diretto, responsabile benché non pienamente giuridificabile, né pienamente narrabile. Alla sovranità pertiene il caso di eccezione. Che vuole dire che anche se la sovranità consiste nel produrre un’immagine ben definita, cioè confini, caratteristiche, identità (anche solo a livello giuridico: la cittadinanza), tuttavia dentro la sovranità, alla sua origine, persiste un elemento non immaginabile. Detto in un altro modo, la sovranità è certamente un discorso, ma la sua origine è una afasia e una opacità. Torno a dire: la Costituzione italiana è un discorso, una mediazione di ordine alla cui origine c’è qualcosa che non è immaginabile, perché nessuno ha programmato quel che è successo – la guerra civile –; e grazie a Dio, ne siamo usciti bene, con una buona Costituzione, perché, intendiamoci, poteva andare diversamente.

***

Prima citava il filosofo Giorgio Agamben, di cui da poco è stato pubblicato l’insieme delle riflessioni riconducibili a Homo Sacer, un lavoro complesso che ruota intorno al concetto  di biopolitica, ma dove non è secondaria un’interpretazione della sovranità e dello stato d’eccezione. Sappiamo che vi siete incontrati di recente confrontandovi proprio su queste tematiche. Che cosa pensa di Agamben?

Io trovo Agamben uno studioso molto dotato,  il cui schema logico filosofico mi è abbastanza chiaro. Per lui la sovranità è l’operatore che decide il passaggio dal distinto all’indistinto. Lui ha in mente come luogo centrale della politica e dell’esperienza politica il lager. Che cos’è il lager? È la morte indistinta, indiscriminata e soprattutto mescolata alla vita: la morte penetrata nella vita a costituire la realtà spettrale dell’internato. E lui si domanda: qual è il dispositivo che fa sì che uno Stato liberale abitato da individui dei quali garantisce la vita, possa diventare invece un lager pieno di morti viventi? La risposta è: la sovranità. La sovranità regola il passaggio fra la vita e la morte, e oggi consiste per l’appunto nel far vivere o nel lasciar morire. Il che vuol dire che non esiste alcuna differenza ontologica tra liberalismo e totalitarismo, perché non esiste alcuna differenza ontologica in generale. Esiste soltanto un indistinto universo sul quale si abbattono decisioni sovrane che producono vita ma possono produrre anche morte.

Questo il tragico della politica. Per stare ancora su Arendt, stiamo parlando della banalità del male, cioè che in politica può succedere di tutto.

Qui c’è l’idea moderna che faccio anche mia, seppure con un’enfasi diversa, che l’ordine non è naturale, non è garantito, non è fondato. Sovranità è essere consapevoli di questo nichilismo, naturalmente per creare ordine. Agamben ci dice che il passaggio dal disordine all’ordine è possibile perché è possibile anche l’inverso, e cioè che il sovrano come può decidersi per l’ordine può anche consentire che le acque del disordine mettano in disordine l’intera comunità politica.

Quindi lei sottoscrive questa ramificazione schmittiana della teologia politica?

Sì. Se non altro per la mia passione della conoscenza.

Rimane diversa e più critica la sua posizione su Cacciari, invece?

Se in Agamben quello che si salva è il decisionismo, poiché la sovranità è la decisione, mi sembra che lo sforzo di Cacciari sia di declinare la sovranità in un altro modo, ovvero di pensare il potere come qualcosa che non è soggetto a decisione. Io capisco il suo percorso, e come ipotesi filosofica la trovo altamente giustificata, perché bisogna anche pensare al di là di questo terrificante nichilismo. Credo che su questa strada ci sia ancora molto da pensare.

Però Cacciari è un attento lettore di Schmitt e non sottovaluta la necessità tragica della decisione e della legge. Penso, all’esergo alla prima parte di Icone della legge: “E invece poni mente: che vi sia una Legge: ciò dovresti salutare quale miracolo! E che vi sia chi si ribella, non è che trita banalità” [A. Schönberg]. 

Certo, ma era la fase decisionistica di Cacciari, a cui appartiene anche il suo grande libro Krisis. E tuttavia già allora la decisione era pensata all’interno di un frame non decisionistico, cioè nell’orizzonte di un rapporto, pure aporetico, con la Sostanza.

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Mi permetta di soffermarmi un attimo sul rapporto tra decisione e miracolo, perché a me sembra che lei nel solco di Schmitt ne veda l’analogia con lo stato d’eccezione, mentre Benjamin lo interpreta in una prospettiva diversa.

Certo, è opposta. Per Schmitt l’eccezione conferma l’ordine, sovvertendolo; per Benjamin lo smaschera, rovesciandolo.

Infatti, per Benjamin il miracolo è conferma di un ordine di senso redentivo che lo precede, ovvero la creazione. Il passato ci appella all’azione, a ristabilire la giustizia.

 Il passato per Benjamin è un cumulo di rovine.

Sì, ma sono rovine in controluce, che rimandano a un orizzonte in cui la giustizia è stata negata. In Benjamin il passato è pregno di senso che va riscattato e redento, significa natura come creazione testimoniato dalla lingua originaria e paradisiaca. Questa è l’ebraicità di Benjamin.

Il linguaggio primordiale in Benjamin è pregno di un senso che non si è mai realizzato.

Sì ma chiede realizzazione e giustizia.

Chiedere realizzazione nel caso di Benjamin vuol dire rompere il continuum, spaccare la storia…

Spaccare la storia come continuum, come falso stato d’eccezione che copre il vero stato d’eccezione della tesi VIII.

Che copre il fatto che la storia è storia dell’ingiustizia.

Appunto, storia dell’ingiustizia, si intende storia di una giustizia negata. Ecco, volevo giusto arrivare a questo punto. Il retroterra teologico ebraico di Benjamin è costituito appunto da pensatori come Scholem, Buber e Rosenzweig, per i quali la redenzione è da sempre inscritta nella legge; e il miracolo non è un’eccezione, una frattura, che rompe una legge naturale, alla quale mi sembra alluda lei nel paragonarla allo stato d’eccezione schmittiano, ma  piuttosto segno che conferma un ordine di senso superiore, provvidenziale, quale quello della legge ebraica, di cui parlava Cacciari in Icone della legge.

Nel saggio Per la critica della violenza si vede che l’enfasi è sul miracolo: ma il miracolo di Benjamin è la «violenza divina», qualcosa cioè che spacca il mondo. In Per la critica della violenza, opera del 1921, si trova la ricostruzione schmittiana, anzi, meglio, soreliana, del diritto umano come ingiustizia. I confini sono costruiti con i sacrifici umani, e a essi si contrappone il diritto divino che è la giustizia. Ora, questa contrapposizione torna nelle Tesi sulla storia, dove ricompare l’elemento messianico di Benjamin, e cioè che durante la rivoluzione bisogna sparare agli orologi, perché bisogna rompere il tempo. Ovvero, che esiste sempre un pertugio, un «tempo-ora» attraverso cui può scivolare il Messia a perturbare il mondo, a sovvertire la storia degli oppressi.

Ma proprio evocare l’interruzione del tempo degli orologi, e dunque mondano, per fissare un momento rivoluzionario, per testimoniare la possibilità di un tempo altro, in cui esiste un’altra giustizia, dove l’ingiustizia passata può essere redenta, rivela a mio avviso il senso della decisione in chiave miracolistica, come segno che rimanda oltre l’orizzonte di senso (quello della giustizia divina) e non come solo frattura e rivoluzione, ma rivoluzione per redimere e riscattare. In comune con Schmitt, dunque, Benjamin condividerebbe l’idea che si può e si deve interrompere un ordine: ma il primo non pone l’accento sull’ingiustizia e indirizza la decisione verso un ordine umano e mondano avendo come modello un’immagine di Dio di stampo cattolico, mentre il secondo un ordine divino ma inimmaginabile, come direbbe lei, che è quello della legge ebraica.

Da questo punto di vista l’umanesimo liberale e la teologia politica di Schmitt hanno in comune la pretesa che la storia abbia un volto, dell’uomo o di Dio (anche del Dio assente). La storia, per Benjamin, invece, come dice anche lei, non deve avere volto. Qui il testo fondamentale è il Frammento teologico politico, la cui tesi di fondo è che il profano deve rimanere profano, che la sua felicità sta nel tramontare. Ovvero, che la vita avvenga senza che vi si frapponga una forma. Infatti Dio può essere nominato in modo non blasfemo soltanto come infinitamente separato dal mondo.

Dunque in un’epoca come la nostra in cui la politica è fortemente condizionata dall’immagine, vale la pena approfondire una teologia politica così dif-fidente nei confronti di qualsiasi idolo che vuole farsi passare per  Dio, come quella ebraica?

Una teologia politica aniconica? È una buona idea. Però è un’idea sua. Segnalo nondimeno che anche un pensatore di origine ebraica come Levinas non ha saputo fare a meno della metafora del Volto.

Beh diciamo che è un’idea che vorrei approfondire prendendo a prestito il suo metodo critico. In sostanza rileggere la teologia politica di Benjamin sotto la luce della Stella di Rosenzweig, permetterebbe a  mio avviso di svelare il potere magico dell’immagine in politica.

Magari ci fosse un mondo senza immagini in questa fase politica.

Una teologia politica ebraica contribuirebbe a risignificare la modernità nell’orizzonte politico della sovranità. Ho notato, infatti, che lei nelle sue lezioni sulla teologia politica riconduce la modernità, intesa come allontanamento del sacro dal mondo, al cristianesimo come lo interpreta Hobbes e non all’ebraismo. Sergio Quinzio, nel suo Le radici ebraiche del moderno, tentò di dimostrare quanto la modernità dovesse proprio alla cultura ebraica e agli intellettuali ebrei degli ultimi secoli la sua origine.

Lei può anche aver ragione, ma il mio è un discorso storico. È chiaro che la modernità nasce da una neutralizzazione della carica politica del cristianesimo (che era sfociata nelle guerre civili di religione), e che a sua volta la critica della modernità razionalistica può passare attraverso una chiave ebraica o una  chiave di pensiero luterano secolarizzato (Hegel) o in chiave di pensiero hegeliano secolarizzato (Marx), o in chiave di pensiero negativo (Nietzsche).

Cioè lei afferma ciò alla luce delle tesi sostenute dagli stessi pensatori, quindi dal punto di vista della Storia delle dottrine politiche.

Esattamente. Senza cristianesimo non ci sarebbe stata la modernità, perché di fatto è stato il cristianesimo l’asse portante dell’Europa, ed è stato il cristianesimo ad avere in sé la possibilità di essere secolarizzato nella politica moderna. Mentre l’ebraismo è stato un elemento minore e parziale, ghettizzato, e le sue potenzialità non sono mai state sviluppate, se  non in chiave critica e molto tardi, nel XIX e nel XX secolo. In altre parole, i pensatori della modernità per così dire cristiana hanno visto nell’ebraismo più spesso l’antimodernità,  ovvero la matrice di una modernità ignara di se stessa e tutta concentrata soltanto sull’individualismo. Non hanno voluto vedere l’elemento di critica e di contestazione, che c’è nell’ebraismo, nei confronti della chiusura della modernità cristiana su se stessa. Più che fare la storia dell’Europa, gli ebrei e i loro pensatori hanno contribuito a porne in evidenza le contraddizioni, pagandole spesso sulla propria pelle.

***

Per avviarci alla conclusione, torniamo al tema di una sovranità capace di contrastare la deriva tirannica dell’ordoliberalismo europeo, perché la mia domanda è per una sorta di Carneade: chi era Herman Heller? Perché a suo avviso è lo studioso che ha dato della sovranità la definizione più lucida e ancora attuale.

Era un galantuomo e uno sconfitto. E non un Carneade. Le sue opere sono da tempo tradotte anche in Italia, e  su di lui c’è un’ottima bibliografia. Ai suoi tempi fu un aperto e rispettoso avversario di Schmitt (nel processo di Lipsia «Prussia contro il Reich», 1932)

Ma perché dovremmo ristudiarlo?

Perché quello che Heller dice sulla sovranità lo dice in termini hegeliani; ad esempio, critica Schmitt perché è occasionalista, contingentista, perché per lui la sovranità è un colpo di pistola. Il concetto di negativo, la decisione sul caso d’eccezione, è una negazione indeterminata. Mentre il concetto di negativo è stato trattato molto meglio da Hegel, che gli ha dato un’energia civile, non una energia incivile. Ovvero, Heller ha cercato di pensare politicamente la società e le sue contraddizioni; mentre Schmitt dispera di potere pensare politicamente la società, che per lui è quasi solo l’origine del disordine, di una contraddizione che può esser letta solo come un’eccezione che non  trova soluzione in sé.

Lei sintetizza la sovranità di Heller come un’«unità strutturata nella molteplicità, e giustificata attraverso il suo ruolo sociale» [p. 105]. Cioè lei sta dicendo, in chiave hegeliana, che l’Europa per avere una vera sovranità deve recuperare la società civile?

Sì, certo; e non la deve schiacciare sotto il peso dell’ordoliberalismo. Tenga conto che la società civile non è solo economia; la società civile è arte, cultura, centri sociali, centro di produzione di tutto ciò  che è oltre l’economia. Certo l’economia è dirimente, decisiva, però una società vera, una società capace di andare oltre la propria umiliazione economicistica, è una società che produce idee, che produce immagini di sé –  pur  senza crederci fino in fondo, per tutto ciò che abbiamo detto prima, altrimenti è idolatra –. Una società deve essere capace di produrre immagini, ipotesi di immagine; deve impegnarsi a credere che esista un fine, un suo dovere. Non soltanto a fare del PIL, che pure è indispensabile.

Allora è giunto il momento, proprio alla fine, di farle togliere, per dir così, almeno un sassolino dalla scarpa. Ovvero una domanda sugli intellettuali di sinistra e la sovranità: perché non se ne occupano?

Perché nessuno ha voglia di trattare il problema del rapporto tra capitalismo e democrazia in modi non grossolani. Invece è una questione che va assolutamente affrontata. Una possibile soluzione è: lasciamo che il capitalismo si mangi la democrazia. L’altra, ed è quella che auspico, è: troviamo il katechon, il freno alla potenza di questa; e il katechon per me è la sovranità. Non perché la sovranità sia un potere più forte, ma perché sovranità vuol dire permettere alla società di pensare a qualcosa d’altro oltre all’economia. Cioè impegnare la società a tirar fuori da se stessa risorse che altrimenti vengono mortificate dall’economia. Il capitalismo di oggi è l’estensione della forma economica ad ogni ambito dell’esistenza. Fra un po’ si pagherà anche per entrare in chiesa. E per invertire la rotta è necessaria molta politica comune, democratica, sovrana.

Cioè siamo di fronte a una fede economica totalizzante, qualcosa preconizzata da Benjamin nel frammento Capitalismo come religione?

Esattamente. L’estensione della forma economica ad ogni ambito della società è la morte della società. Abbiamo esteso questa forma economica alle città e le abbiamo fatte diventare dei palcoscenici per il turismo. Svuotate di ogni autenticità. Abbiamo fatto della forma economica la verità dell’Università, trasformandola in azienda (peraltro senza investimenti adeguati).  La sovranità serve a mettere un argine, un freno, a costringere o a consentire alla società di produrre qualcosa d’altro che plusvalore, che peraltro va a finire ormai nelle tasche di minoranze sempre più ristrette.

Pubblicata in «Leussein», Vol. XII

I veri rischi del nuovo governo

Se il diavolo (o un qualche messia, secondo i gusti di chi legge) non ci mette lo zampino, ovvero se i due “capi politici” non romperanno sul premier, se Mattarella non bloccherà la lista dei ministri, oppure ancora se la prospettiva di essere stato riabilitato non spingerà Berlusconi a tentare il colpo delle elezioni anticipate, avremo quindi un governo “populista” e “sovranista”, un unicum in Europa occidentale, una minaccia per la democrazia, per l’euro, per i conti pubblici, per la collocazione internazionale dell’Italia. Un governo privo di esperienza, di cultura politica, di una prospettiva per il Paese. Una sciagura apocalittica, decifrabile solo con l’ipotesi che gli italiani siano ammattiti, o ingannati per anni da media antisistema.

Tutti i centri di potere europei sono pronti, col fucile puntato, a inchiodare gli usurpatori al primo errore. Tutti i media dell’establishment fanno a gara nel delegittimare il governo non ancora nato, nel prevedere le terribili rappresaglie a cui lo sventurato Paese andrà incontro, nel ripercorrere sdegnati il mare di menzogne e di cambiamenti di rotta che i partiti di governo hanno ammannito agli italiani nei due mesi di trattative, stanati solo dalla mossa vincente di Mattarella.

Nessuno che ricordi la grande cultura politica e l’intemerata rettitudine di comportamento dell’ex segretario del Pd, il quale, reduce da mille promesse non mantenute, come analisi del risultato elettorale rilasciò un omerico «la ruota gira», e che, come commento al formarsi (forse) del nuovo governo, esclama «pop corn per tutti», a dimostrazione del fatto che il Pd (ancora suo) non ha alcuna strategia politica – dopo avere fallito il suo compito, di essere l’accompagnamento moderatamente liberal dell’ordoliberalismo europeo – se non sperare che «gli altri» si sbaglino, e gestire l’opposizione all’insegna del «tanto peggio tanto meglio».

Quanto al populismo e al sovranismo, inoltre, sarà forse ora di considerare che questi sono soltanto termini delegittimanti, privi di consistenza storica e politica. Nessuno che ricordi, a proposito del deprecato «sovranismo», che se l’alternativa all’autogoverno dei popoli (appunto, la sovranità) è un sistema di regole economiche, calate dall’alto sulle nazioni e sulle società, che vanno a vantaggio solo di alcuni Paesi e di alcune classi sociali, allora non c’è da meravigliarsi se i non-favoriti (la larghissima maggioranza) chiedono protezione allo Stato nazionale. Che non sarà il futuro, ma che è senz’altro destinato ad apparire migliore del presente, un’alternativa rassicurante per le nostre società disastrate – che i fautori dello status quo vogliono far passare per sane, felici, progredienti –.

In ogni caso, la sovranità non è solo quella xenofoba dei Paesi di Visegrád, ma, molto più, quella di grandi Paesi democratici come la Francia e la Germania, che non pare l’abbiano dismessa, né che abbiano cessato di perseguire, con robusta determinazione, i propri interessi nazionali, geoeconomici e geopolitici. Politica che all’Italia sarebbe a priori preclusa. Perché? Perché l’interdipendenza, la nuova regola aurea dell’esercizio della sovranità, è per noi, semplicemente, «dipendenza»?

Per quanto riguarda il «populismo», poi, la verità storica è che gli italiani hanno votato per protestare contro insicurezze reali, economiche e simboliche, determinate da pregresse decisioni politiche nazionali e internazionali, oggi presentate come irreversibili – peraltro, se davvero lo fossero, a ben poca cosa si ridurrebbe la nostra libera capacità di scelta democratica –; ed è altrettanto vero che non saranno gli anatemi e le prediche o le rappresaglie internazionali o dei «mercati» a fare disciplinatamente rientrare alla casa madre i voti andati in libera uscita. Questi non torneranno al Pd, evanescente e non più credibile, e non andranno a nessuna sinistra perché questa, al momento, non esiste come soggetto politico reale.

La verità è, semmai, che quello che nasce è un governo figlio e padre di molti compromessi e pasticci. Non solo fra i distinti programmi e i diversi elettorati dei due vincitori, ma anche fra questi e i poteri dell’establishment. Che sono stati tanto largamente blanditi da Di Maio che la base grillina, peraltro molto suscettibile e molto volatile, ne è stata assai delusa – e Di Maio, quindi, è quello che da un’avventura governativa rischia di più – . Poteri, inoltre, che sono rappresentati, per quanto concerne i vasti interessi berlusconiani, da Salvini. Così che il rischio maggiore è più l’opaca continuità, pur interrotta da qualche misura a effetto, che non l’avventuristica discontinuità.

Una continuità, un pasticcio, marcati inoltre dal fatto che Renzi e Berlusconi, stretti in un nuovo informale patto del Nazareno, sono protesi a conquistare le commissioni parlamentari di garanzia, che spettano alla opposizione. E che Berlusconi possa stare al tempo stesso al governo e anche all’opposizione – come cercò di fare con il governo Monti – è una ulteriore dimostrazione non solo della sua perdurante abilità nel massimizzare le sue non più così abbondanti risorse elettorali, ma anche della situazione tutt’altro che chiara che si viene creando, sia fra i vinti sia fra i vincitori del 4 marzo.

Il punto è che, quando non c’è la luce di un’idea politica, né la forza di una decisione democratica (le elezioni hanno sì mostrato che la maggioranza degli italiani è ostile all’establishment, ma questa ostilità si divide tra due forze politiche disuguali), non si può fare altro che procedere a tentoni, come i ciechi di Brueghel. E sperare che il sommarsi dei molti pasticci – sono questi i veri pericoli, non il populismo e il sovranismo – non ci porti tutti nel fosso.

Un versione ridotta di questo testo è in corso di pubblicazione in «La parola»

 

Vero e falso per me pari sono. Le fake news e il mondo virtuale

In La menzogna in politica (1972), in commento alla pubblicazione dei Pentagon Papers, Hannah Arendt sottolineava che un evento ben reale come la guerra in Vietnam era in verità l’esito di un processo di «defattualizzazione». La politica dei vertici decisionali statunitensi, scollegata dalla realtà, dai fatti empirici, dagli stessi interessi concreti della superpotenza, le appariva determinata dalla volontà di creare un’immagine, un effetto ottico – nel caso specifico, che gli Usa fossero disposti a tutto per impedire al comunismo mondiale di vincere – a cui finirono per credere gli stessi decisori politici.

La posizione di Arendt si fonda sulla antitesi di verità e falsità, di reale e rappresentazione, di politica e di ideologia: i primi termini sono relazionali, storici, produzioni dell’umanità che agisce in comune; e i secondi sono invece espressione di una solitudine del sapere e del potere, della loro incapacità di confrontarsi col mondo e con la sua complessità; una solitudine che è lo sviluppo dell’estraneazione fra politica e teoria già presente, in forme diverse, negli arcana imperii del XVI e del XVII secolo, e nella propaganda ideologica totalitaria del XX secolo.

Per dipanare la questione delle fake news si può prendere il via da qui, per andare oltre. In primo luogo, definiamo questo nuovo termine del linguaggio pubblico come «notizia contraffatta, spazzatura, panzana, bufala, inventata a scopi di polemica o di odio, e diffusa con rapidità dai media e dal web» – il mezzo elettronico di propalazione fa parte della definizione, con la istantaneità, la onnipervasività, la facilità di diffusione e la impossibilità di porvi riparo, che al mezzo stesso ineriscono –. Appartengono alle fake news, a mero titolo di esempio, tanto la tesi sgangherata che Obama non sia nato negli Usa (e quindi non ne potesse essere il presidente) quanto la malvagia invenzione che un gruppo di islamici festeggiasse in un bar a Milano l’attentato di Manchester (per accreditare la tesi dell’odio implacabile dell’Islam verso l’Occidente). Le finalità delle fake news, in generale, hanno spesso a che fare con l’incremento dell’intensità di emozioni politiche, l’odio e la paura, la cui potenza è difficilmente sovrastimabile.

Le fake news di oggi sono differenti non solo rispetto al delirio del Pentagono negli anni Sessanta ma anche rispetto alle vecchie menzogne e alle disinformazioni della propaganda politica della guerra fredda. Infatti, piuttosto che una menzogna mirata, consapevolmente o non, a costruire un mondo raddoppiato, un artificio privo di contatti con la realtà (benché capace di agire su questa) oppure a screditare un avversario reale, la fake news si insedia parassitariamente all’interno di una dimensione che Arendt non poteva conoscere: quella del «virtuale». Che non è un mondo raddoppiato, sotto il quale stia una realtà inascoltata, ma un mondo unico, a una dimensione, costituito da flussi di notizie, di rappresentazioni, di narrazioni: una maschera senza volto, infinitamente cangiante, un logos fluido e al contempo reificato, manovrato incessantemente da centrali piccole e grandi che lo riproducono come unica dimensione d’esistenza dell’umanità. Il virtuale non si sovrappone al reale ma è una simil-realtà onnipervasiva, resa tecnicamente possibile dalla rivoluzione elettronica, dalla digitalizzazione della realtà, trasformata in una bolla mediatica in permanente ebollizione; un mondo incantato, popolato di spettri evanescenti, dall’ambiguo statuto ontologico, che vanno e vengono, appaiono e scompaiono, nelle nebbie dell’informazione e della disinformazione; una dimensione in cui non ha luogo la netta distinzione fra menzogna e verità, fra verosimile e inverosimile. Le fake news, insomma, sono sì menzogna, ma vengono fabbricate e propalate in un mondo virtuale che rende impossibile la distinzione fra reale e immaginario, e sono pertanto una menzogna di tipo nuovo, un’alterazione efficace di un’esistenza collettiva che è ormai tutta trasformata in un flusso indistinto, in una disorientante e cacofonica narrazione a molte voci. Rispetto a quella classica della maldicenza («calunniate, calunniate: qualche cosa resterà») le fake news esibiscono un’efficacia potenziata proprio dal fatto che il mondo virtuale ha perduto l’oggettività del vero e la soggettività del falso, perché tutto, lì, è narrazione, in una universale equivalenza e in-differenza che rendono impossibili comprensione, valutazione e giudizio. Il virtuale è il pensiero unico fattosi mondo, non tanto per l’omogeneità dei contenuti quanto per l’indifferenza ai contenuti.

L’efficacia delle fake news consiste nel lasciare un breve segno, nel produrre un fugace orientamento, uno spin; non certo nel cambiare il mondo, né nel criticarlo; è la verità ciò che libera e critica, mentre l’autore di fake news anche se a volte si crede un guerrigliero che mette un granello di sabbia negli ingranaggi del moloch della falsità virtuale, non fa che rafforzarla, che accettarne la legge di fondo: che non vi è Legge. La fake news – che sia sofisticata e professionale, oppure naif e rozza, scientifica o «fai da te» – è manipolazione della e nella manipolazione: la fake news lascia il mondo com’è, o lo peggiora, intossicandolo vieppiù; in ogni caso ha un’efficacia di tipo emozionale, non cognitivo: esprime ed eccita disagio, odio, fanatismo, sentimenti e risentimenti, in una biopolitica delle passioni ribollente e inerte, assai lontana da quella mirata e unidirezionale della propaganda totalitaria.

È quindi evidente che le fake news prevedono anche l’evanescenza della nozione di responsabilità: tanto da parte di chi le produce, che getta un sasso nello stagno e mai ne risponde, quanto da parte di chi ne è destinatario che spesso è ben lungi non solo dal potere esercitare critica e controlli, ma anche dall’immaginare che ciò debba essere fatto, e si affida piuttosto a un automatico riflesso di fiducia, o di neutrale passività, verso la rete, come un tempo verso la televisione – e, naturalmente, chi ne è vittima non ha difesa, nel mondo virtuale –. C’è qui un principio d’autorità di nuovo tipo: poiché non c’è più alcuna autorità, tutto quello che viaggia nei media è narrazione che si autoalimenta. È il mezzo (la virtualità elettronica) che dà al messaggio la patina della verosimiglianza in un oceano dove tutto equivale a tutto, e dove la stessa idea di un controllo a monte o di una responsabilità a valle è difficilmente concepibile oppure è vista come un’autoritaria ingerenza – questa sì illegittima e ingiustificata, perché del tutto allotria rispetto al virtuale – nella libertà della comunicazione. Una libertà che è piuttosto una gigantesca prigione, una sfera comunicativa che in realtà non è fatta di comunicazione, cioè di rapporto dialogico fra soggetti: piuttosto, quella comunicazione – tanto che abbia un andamento top down quanto che pretenda di assumere la direzione bottom up – è una mediazione immediata, abitata da comunicatori, tutti (tanto i   singoli quanto le grandi centrali di informazione, di disinformazione e di orientamento mainstream della opinione pubblica) risucchiati all’interno della bolla virtuale. E proprio per questo predominio del contesto la fake news può sì essere pensata come strategica rispetto a un fine, e quindi riconducibile al classico rapporto di causa ed effetto, ma è più interessante come espressione della fine dei fini, ovvero del nostro vivere immersi in un universo mediatico, come funzione di questo, e al contempo come manifestazione della tendenziale scomparsa dei fatti – o del loro occultamento –.

Il mondo virtuale non è quindi propriamente un regime di verità: è piuttosto la società aperta che implode su se stessa, che realizza nel massimo di visibilità e di trasparenza il massimo di opacità, è un regime di oscurità che attraverso l’eccesso e la dissonanza di news produce un impersonale «effetto Babele», di inclusione fino alla saturazione, un dominio in cui tutto è accolto e tutto è depotenziato: un dominio in cui vero e falso trascorrono l’uno nell’altro, inafferrabili. E in cui quindi anche la fake news, parola scritta sull’acqua o piuttosto sulle onde elettromagnetiche, ha in sé tanto la permanenza e la capacità di orientamento – infatti agisce lasciando una traccia, un sedimento –, quanto l’evanescenza, l’elusività, la non rintracciabilità.

Ma il virtuale destituisce di fondamento non solo la solida realtà, le distinzioni nette fra vero e falso, sì anche – sussumendole in un oceano di chiacchiere, pettegolezzi, stereotipi, confronti televisivi – cannibalizza la rappresentanza politica e l’opinione pubblica: astrazioni concrete ed efficaci, istituzionalizzate o fluide che siano, che la modernità politica ha escogitato per agire politicamente e per controllare il potere; astrazioni, certo, ma pubbliche, istituite, articolate e differenziate, al cui interno può darsi un vero conflitto fra diverse verità, o diverse menzogne, ascrivibili a settori della società, a parti politiche determinate. Da queste determinazioni e da questo conflitto nasceva la possibilità di distinguere, per confronto reciproco, per frizione di interessi e di valori, il vero dal falso; intesi, questi concetti, nelle uniche accezioni praticabili, cioè come saperi dotati di qualche permanenza pur nella loro contingenza, sottoponibili a critica, iscrivibili in una dialettica.

Il virtuale, invece, è l’espressione di una società – quella dei decenni del neoliberismo, dei suoi trionfi e delle sue crisi – che è stata disarticolata in una moltitudine di individui solitari, la cui comunità è, appunto, risolta nella virtualità, nella “amicizia” di facebook; di una società in cui le ragioni del conflitto sono inibite e non espresse, e si trasformano in esasperazione, risentimento, frustrazione, di cui nel virtuale si dà manifestazione non sublimata ma immediata e impotente; in cui la lotta politica si fa con le fake news e con le contro-fake news, in una rincorsa in cui tutti si atteggiano a vittime e tutti si comportano come sicari. Nel virtuale, insomma, si consuma l’impotenza della politica – che esige concretezza e verificabilità – e vengono a cortocircuito tanto il soggetto quanto l’oggetto e le loro relazioni significative. Il significato politico del mondo virtuale sta in questo suo sostituirsi alla politica; e in ciò – e solo in ciò – il virtuale è un potere reale. Che sia una delle facce del potere economico, che sia sorretto da un esplicito disegno di «poteri forti» o che sia uno sviluppo incontrollato di logiche e di tecnologie smaterializzanti iscritte nel DNA del neoliberismo e della rivoluzione elettronica, non è qui il caso di discutere: in ogni caso, il mondo virtuale è un ordine paradossale, fondato sull’indisciplina più che sulla disciplina. Un ordine che non indirizza da una parte piuttosto che da un’altra; piuttosto, agisce impedendo l’orientamento e il giudizio.

La scomparsa della realtà oggettiva, e della verità in senso ontologico e fondativo (realtà e verità sono tematiche che viaggiano affini e vicine), è, certamente, implicita nella modernità, l’epoca in cui non si può più dire, con Paolo (Rm 3, 4) «Dio è verace e ogni uomo è mentitore» proprio perché lo sforzo della modernità è costruire la verità come opera umana e non di accettarla come Oggetto esterno al soggetto. È profondamente iscritto nell’epoca moderna il passaggio dalla verità all’ordine artificiale, dalla realtà alla effettualità, dalla affermazione alla rappresentazione. Il vero, privato del suo ruolo di sostanza fondativa oggettiva, «è l’intero», ossia sono i processi storici dell’umanità – e la storia è l’unica realtà –, i progressi nei diversi saperi, le relazioni collaborative e conflittuali, genealogicamente ricostruite e criticate. Un vero tutto umano, risolto nel sapere costruttivo ma anche nel confronto, e quindi un vero relativo e in movimento; un vero che è essenzialmente critica.

È il vero moderno – non quello ontologico – la vittima del virtuale, che ne costituisce forse l’estremizzazione e certo il superamento in negativo; se nella modernità scompaiono il vero e il reale come oggetti e diventano soggetti in relazione, oggi nel virtuale è appunto la relazione e a scomparire: lì tutto coesiste immediatamente con tutto, perché tutto è indifferente. Adorno poteva dire, nell’età del totalitarismo e del tardo-capitalismo, «il tutto è falso»: della dimensione virtuale si può dire, per rimanere nell’ambito della filosofia classica tedesca, che è «la notte in cui tutte la vacche sono grigie». Ovvero, è appunto la dimensione della «post-verità», o meglio della «post-critica», della «a-criticità». L’ultima fase della modernità è così un’ulteriore complicazione della questione della menzogna, che diventa sempre più inafferrabile, e che ai suoi lemmi e dilemmi classici – verità, veridicità, autenticità, trasparenza, sincerità, rispetto di sé, degli altri, dell’oggetto – aggiunge ora la dimensione del falso-vero e del vero-falso: il virtuale, appunto.

All’incantesimo del virtuale, all’oscurantismo della trasparenza, ci si deve potere sottrarre con un nuovo illuministico disincanto. Si può in prima battuta dare credito alla via giudiziaria. Esistono leggi, vecchie e nuove, che pretendono di far valere, rispetto a esso e contro di esso, il reale; di perforare la bolla, insomma, e la sua autoreferenzialità. E che quindi si propongono di censurare le fake news, di rimuoverle, di rettificarle, di sanzionarle – a partire dall’art. 656 c.p. che vieta e punisce la diffusione di notizie false e tendenziose –. In realtà, il ritorno sulla terra, alla solida realtà, attraverso la via giudiziaria, è rarissimo e lentissimo, e se può in certi casi risarcire tardivamente persone offese non modifica l’efficacia, quale che sia, della fake news – o a volte la amplifica –.

Più radicalmente, da ogni parte giunge l’appello alla critica per aprire brecce nella nichilistica compattezza del virtuale. Infatti, la qualità di «falso» della fake news è solo all’apparenza determinante, mentre realmente decisiva è la sua appartenenza al mondo virtuale, alle sue ontologiche ambiguità. Il falso, all’interno del virtuale, è inafferrabile. E quindi non si può sensatamente lottare contro le fake news se non uscendo dalla stessa dimensione del virtuale, o facendola deperire; se non praticando un nuovo e più potente disincanto, volto al recupero della verità moderna: cioè praticando confronto e conflitto, relazionalità e criticità. Ovvero, uscendo dalla solitudine – che si vuole onnipotente ma che è impotente – del web, e ponendo le condizioni perché si ritrovino persone e cose, istituzioni e partecipazione; perché si riattivino la socialità e l’attività contro la passività e l’inerzia del virtuale.

Ma quale critica? Posta in essere da quali soggetti? Educati da quale scuola? Mossi da quale intento di autonomia? Interrelati fra loro in quali gruppi? Praticanti quale dialogicità? Come si vede, la riattivazione della critica implica cultura lungamente praticata, consistenza e articolazione della società, istituzioni educative non corrive verso gli imperativi dei tempi e verso le forme vitali dominanti. Condizioni esigenti, difficili, che si collocano fuori dal mondo virtuale, e che implicano un forte intervento della politica.

È la politica reale che si deve affermare contro la politica spettrale del virtuale; una politica fatta di poteri diretti, di responsabilità, di interessi che confliggono e si compongono in mutevoli equilibri, di visioni che non si chiudono in se stesse. Una politica che all’anonimato e all’impersonalità passiva del virtuale, al suo regime di post-verità e di a-criticità, alla mediazione immediata, oppone non una improbabile imparzialità o una chimerica oggettività ma una mediazione mediata, storicizzata, sottoposta a critica: una mediazione sociale e istituzionale costituita dal franco confronto fra tesi esplicitamente parziali, non un impossibile terreno solido ma la presenza delle persone, dei gruppi, degli interessi plurali, e il movimento intellettuale e sociale della critica. Ovvero, una democrazia matura e responsabile, portatrice di un nuovo umanesimo. Le cui caratteristiche categoriali siano la presenza concreta (dell’Io, dei gruppi, delle istituzioni), il movimento, il conflitto, il pluralismo, in aperta opposizione alla ribollente staticità e alla multiforme univocità del mondo virtuale. A tal fine non è sufficiente la franchezza della parrhesia individuale: il nuovo umanesimo passa attraverso la nuova criticità collettiva, attraverso la consapevolezza, eminentemente politica, che per criticare il falso si deve criticare l’intero che lo ospita.

Il saggio è stato pubblicato con il titolo Menzogna e verità: le fake news nel mondo virtuale in «Italianieuropei», n. 3, 2017, pp. 24-33

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