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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Movimento 5 Stelle

Primarie Pd

 

Alle primarie il Pd ha dato un flebile segno di vita. Nell’anno trascorso dalla sconfitta del 4 marzo 2018 il Pd  non ha fatto politica anche perché non ha avuto il coraggio di affrontare veramente la realtà – non ha mai svolto un’analisi del voto –, perché ha temuto che affrontandola si sarebbe spaccato. Infatti, dentro il partito democratico convivono linee interpretative della politica, della società, idee di Italia ed Europa, parecchio diverse. Ora, il  candidato che meno deve a Renzi, cioè Zingaretti, il quale più degli altri è accreditato di essere una persona di centro-sinistra e non di centro, non solo ha vinto, ma probabilmente è stato determinante, con la sua presenza, a far sì che il numero dei votanti diminuisse non di molto rispetto alle primarie del 2017 – le ultime vinte da Renzi, con 1 milione e ottocentomila partecipanti –. Il fatto che fra i candidati ci fosse Zingaretti, che bene o male è stato fatto passare come un momento di discontinuità – sia pure blanda – rispetto all’èra Renzi, ha fatto sì che gli italiani che hanno un orientamento di centro-sinistra si siano sentiti meno demotivati che in passato a partecipare alle primarie del Pd.

Però, resta ancora tutto da definire il contenuto di questa discontinuità, molto blanda: rispetto al rapporto fra l’Italia e l’Europa; rispetto al rapporto fra il Pd e i Cinquestelle, che è l’unico politicamente praticabile per un partito come il Pd, che – come gli altri partiti, del resto – si trova ad agire in un contesto proporzionale e non può avere una vocazione maggioritaria, perché non può pensare di prendere il 51 per cento dei voti, e non può pensare di affrontare le elezioni solo alleandosi con liste civiche. E dunque deve fare alleanze politiche presumibilmente prima, ma certissimamente dopo il voto. Le forze con cui allearsi non sono poi tante: o si condanna alla perenne opposizione o deve cominciare ad andare a capire qualche cosa dentro i Cinquestelle, i quali – da parte loro – sono abbastanza in crisi.

Su questo, lei ha detto poco fa «Il Pd ha dato un flebile segno di vita», cioè è vivo. Quanto, in realtà, l’esser vivo del Pd è direttamente proporzionale al malcontento di qualche elettore del Movimento Cinquestelle che prima votava Pd, poi è stato intercettato dal Movimento e ora, magari, torna a votare là dove aveva iniziato  a farlo?

Sì, non è del tutto errata l’ipotesi che una certa quota di elettori del Pd, che si era distaccata dal partito renziano per votare Cinquestelle, visto come si comportano i Cinquestelle al governo, cioè vista la loro insufficienza – diciamo così – , visto che c’era in campo Zingaretti, abbiano pensato di tornare a dare un voto a una candidatura che secondo loro può avere uno sviluppo un po’ più di sinistra rispetto al Pd centrista del passato. Ora il punto è che, se ciò è vero, Zingaretti deve alzare il profilo della sua asserita – più dagli altri che da lui, in realtà – discontinuità rispetto a Renzi. Adesso che ha vinto – e ha vinto molto e bene – ha il margine e la legittimità per porsi con una più forte discontinuità.

Nicola Zingaretti diceva per l’appunto che è l’uomo che meno deve a Renzi. Sono due uomini diversi ma uguali, secondo lei, dal punto di vista carismatico?

In realtà, se Zingaretti non vuole diventare come Martina, cioè l’ombra di Renzi, deve veramente prendere sul serio questa illusione di discontinuità che è stata creata intorno a lui, e cominciare a fare analisi politico-economico-sociali chiamando le cose con il loro nome, a fare dei mea culpa radicali, e a criticare le strutture fondamentali della nostra esistenza politica, a partire dal nostro rapporto con l’Europa.

Zingaretti ha superato il 65 per cento in regione. Anche questa regione si è dimostrata quindi pronta al cambiamento, alla rottura?

La regione Emilia-Romagna è da sempre, da quando è finita la Seconda guerra mondiale, schierata con il segretario del principale partito della sinistra o del centro-sinistra – in questo caso –, e non cambierà da questo punto di vista. È una regione governativa, pragmatica; è una regione che, essendo concentrata sulla produzione di beni e sulla produzione di una società civile coesa – quando ci riesce –, non ha voglia di entrare in conflitti con chicchessia, meno che mai col segretario del principale partito del centro-sinistra.

Mettersi al lavoro per lavorare ai contenuti.

Assolutamente sì. Pensiero, contenuti, strategia: è quello che ora il Pd deve fare, che finora non ha fatto; se non prenderà questa via, ciò costerà al Pd la perdita di questa chance che in un qualche modo con le primarie si apre; senza essere trionfalistici, probabilmente – ripeto – un segnale di esistenza in vita è stato dato. Una parte dell’Italia chiede che il Pd esista. È chiaro che una risposta va data.

 

 

Intervista realizzata da Maria Centuori per «Radio Città del Capo» il 5 marzo 2019.

«La sinistra non può diventare la ruota di scorta dei grillini»

Intervista con Silvia Bignami

«Se il Pd andasse a fare da ruota di scorta al Movimento 5 Stelle morirebbe». Chiusa l’esperienza in Parlamento, prima col Pd e poi con Si ed Mdp, il politologo Carlo Galli torna ad insegnare. Guarda da lontano la politica, ma non esita a bocciare il dialogo tra dem e pentastellati ipotizzato dalla vicepresidente della Regione Elisabetta Gualmini. E pensando alle regionali del 2019 scuote la testa: «Se i numeri sono quelli delle politiche, il Pd ha già perso».

Galli, come legge il voto?
«I cittadini hanno votato in modo inequivocabile contro Renzi, Berlusconi, D’Alema e Bersani. In pratica contro tutti coloro che a qualche titolo sono stati coinvolti nella gestione del potere e di una situazione che gli elettori reputano di grave crisi. Hanno premiato Lega e M5S, che non hanno avuto responsabilità di governo. Per questo mettere insieme perdenti e vincitori è molto complicato».

E come si fa a fare il governo?
Il M5S cerca il Pd.
«Intanto un governo c’è. Gentiloni è in carica e il Def lo farà probabilmente lui. Poi certo, bisognerà farne un altro. Vedo che i dirigenti 5 Stelle sono diventati molto dorotei. Ma se fanno un accordo col Pd, io mi chiedo: come potranno far accettare ai loro elettori quest’alleanza? Gli elettori M5S, ex Pd, e sono molti, vogliono forse una politica di sinistra, ma al massimo ipotizzano per il Pd un ruolo subalterno. E poi, gli elettori non ex-Pd, che hanno votato M5S per odio al Pd, come prenderanno una collaborazione col vecchio nemico? Se non si pongono queste questioni, vuol dire che a nessuno interessa davvero che le cose cambino. E a meno che non arrivi una super-ripresa economica, al prossimo giro la Lega vince da sola».

Quindi al M5S l’accordo non converrebbe. E al Pd?
«Il Pd che fa la ruota di scorta al M5S diventa come Alfano per Renzi.
Indispensabile ma anche insignificante, e votato a sicura scomparsa».

E un appoggio esterno?
«Credo che anche questo sarebbe un problema enorme per il Pd… Read more

 

 

L’intervista, pubblicata l’11 marzo 2018  in «la Repubblica. Cronaca di Bologna», continua in «la Repubblica.it».

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