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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Intervista a Carlo Galli: nuova edizione spagnola del classico «Genealogia della politica»

Intervista con Gerardo Muñoz

 

 

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Professor Galli, the Spanish edition Genealogía de la política (Buenos Aires, unipe, 2018), a classic of contemporary political thought, has just been released in Argentina after twenty years. We should not forget that Argentina has always been a fruitful territory for the reception of Carl Schmitt’s work. Perhaps my first question is commonplace but necessary: how do you expect readers in Spanish to read your classic study?

Come ci ha dimostrato il compianto Jorge Dotti, la recezione di Schmitt in Argentina è stata imponente e pervasiva, e si è intrecciata con la riflessione filosofica, giuridica e politica sullo Stato e sul suo destino. Ho fiducia che il mio libro, grazie alla traduzione spagnola, possa interessare gli specialisti di Carl Schmitt – giovani e maturi – che sono numerosi e agguerriti, non solo in Argentina ma anche in Europa: dopo tutto, la Spagna stessa ha un lungo e fecondo rapporto intellettuale con Schmitt, che, come ci ha mostrato da ultimo Miguel Saralegui, può anche esser definito «pensatore spagnolo».

This edition comes out in a timely moment, that is, in the wake of the centenary of the Weimar Republic (1919-2019); a moment that Weber already in 1919 referred as a point of entry into a ‘polar night‘. Does Schmitt’s confrontation in the Weimar ‘moment’ still speak to our present?

Schmitt è stato il più grande interprete della Costituzione di Weimar, in un’epoca in cui non mancavano certo i grandissimi costituzionalisti. La sua Dottrina della costituzione è una diagnosi geniale della situazione storica concreta in cui i concetti politici della modernità si trovano a operare. Ed è stato anche il più acuto interprete (nel Custode della Costituzione e in Legalità e legittimità) della rovina di Weimar, causata da uno sfasamento gigantesco fra spirito e strumenti del compromesso democratico weimariano, da una parte, e, dall’altra, la polarizzazione radicalissima in cui la crisi economica aveva gettato il popolo e il sistema politico tedesco. Una democrazia senza baricentro politico funzionante, senza capacità di analizzare le proprie dinamiche e di reagire attivamente, è alla mercé di ogni crisi e di ogni minaccia. Questo è stato vero a Weimar fra il 1930 e il 1932 ed è vero in Europa anche oggi, al di là dello specifico modo autoritario che Schmitt aveva prefigurato (la dittatura commissaria del presidente del Reich ex art. 48). Certamente, oggi  le capacità dei sistemi democratici di gestire le crisi sono molto migliorate da allora; il neoliberismo ha molti mezzi per difendersi.  Ma anche oggi un sistema politico debole o incapace di analizzare le vere cause dei problemi (in Europa, il nesso  fra l’incepparsi del neoliberismo e  il dominio ordoliberista dell’euro) non può far fronte a crisi economiche e sociali radicali.

Weimar signaled the weakness of parliamentary democracy of a ‘belated nation’, and the rise of presidentialism. Schmitt never ceased reflecting on executive power in the fabric of democracies. As new presidential authoritarianism is developing in the West, is Schmitt’s political reflection proved right (presidentialism as a counter-force to Market domination)?

Siamo di fronte, oggi, a due debolezze: quella del parlamentarismo, che è vecchia di cento anni, e quella del mercato, che è vecchia di dieci anni (in riferimento all’Europa, quanto meno). La soluzione del presidenzialismo autoritario, del rafforzamento degli esecutivi per vie decisionistiche e personalistiche, sta avanzando: ma ho l’impressione che sia una risposta solo superficiale alla crisi dell’impianto neoliberista delle nostre società: che cambi molto a livello politico (e non sempre nella direzione giusta) perché non cambi nulla a livello dei rapporti di potere nella società, nei rapporti di produzione e nelle tutele giuridiche del lavoro. Insomma, ho l’impressione che la spinta a destra “anti-sistema” sia l’ultima risorsa del “sistema”. Da Schmitt abbiamo imparato che la politica non esige solo ordine ma anche energia, ovvero che non c’è ordine senza energia; e io credo che l’energia per affermare un nuovo ordine non possa essere monopolizzata da un capo autoritario che si colloca in un rapporto mediatico-plebiscitario con le masse: la proiezione verticale dell’energia, della lotta, deve partire dal basso, e giungere in alto, al vertice politico, attraverso i partiti, o in ogni caso attraverso soggetti collettivi forti, situati e determinati, non “vuoti”. Senza soggetti politici collettivi non c’è democrazia. Nel ricostruire soggetti di massa c’è l’inizio della soluzione del problema – certo, anche le istituzioni vanno rinnovate –, ma anche la sfida più grande.

Schmitt as a great thinker of sovereignty would have been interested in our present political transformation. Are we in a ‘Polanyi moment’, as you have characterized it recently?

Come sostengo nel mio ultimo libro – Sovranità (Bologna, il Mulino, 2019) – e come è ormai opinione diffusa, noi siamo oggi in un «momento Polanyi». Abbiamo conosciuto l’invadenza del mercato, e il fallimento delle sue pretese di autoregolazione che in realtà hanno prodotto distruzione della ricchezza pubblica e disuguaglianze abissali di quelle private, così che il legame sociale è saltato, compromettendo la stessa democrazia e gettando gli individui nell’insicurezza economica ed esistenziale (il soggetto attivo e ricco d’energia presupposto e promesso del neoliberismo si è rivelato pura ideologia). E abbiamo conosciuto la risposta difensiva della società, che sta chiedendo – anche se confusamente, perché è ancora impregnata di ideologia neoliberista e individualistica – più sicurezza, più Stato, più regolazione politica per arginare il potere immenso delle forze economiche private e corporate, che non ha più una dimensione socialmente costruttiva e ordinativa. Il dramma è che oggi, come negli anni Trenta, questa richiesta di sicurezza, di freno al capitale senza freni e senza limiti, è intercettata dalla destra, mentre la sinistra – che esprime di fatto le minoranze che nell’attuale sistema vivono bene –  la nega, la irride, la giudica “fascista”. E la destra dà, come si è detto, risposte solo parziali, inadeguate. Propone sì una politica “forte”, ma contro i deboli e contro i diritti democratici; non certo contro le potenze economiche. Propone sì “ordine” – che è un concetto positivo – ma un ordine esteriore, superficiale, che lascia intatto, o che tocca solo marginalmente, il disordine e l’ingiustizia sociale.

The interpretations of Schmitt’s juridical thought have flourished tremendously in recent years. There is Schmitt the Catholic, Schmitt the concrete Crown-Jurist during National Socialism, Schmitt the ‘Leftist Antagonist’, as well as a reactionary counter-revolutionary Schmitt. Your strong reading, however, favors a thesis of a Schmitt that thinks the ‘origin‘(arche) of the political. Is this reading capable of giving us, in turn, the ‘most original’ of Carl Schmitt’s thought?

L’attuale enorme fortuna mondiale di Schmitt ha almeno due rami, quello angloamericano e quello “latino”, che rispondono a due modi differenti di vedere lo stesso problema: la crisi del liberalismo e della  liberaldemocrazia, che pure sembravano trionfanti sulle alternative di destra e  di sinistra. In diversi contesti politici e istituzionali, in diverse tradizioni politiche, e quindi con accenti diversi e con impegni disciplinari diversi, si cerca in Schmitt un’alternativa alle tradizioni politiche occidentali del XIX e del XX secolo. Ma questa alternativa non è tanto ideologica (Schmitt è, da questo punto di vista, un pensatore apertamente reazionario) quanto metodologica: la grandezza di Schmitt sta nella genealogia, cioè nella sua idea che per capire la politica si deve comprendere l’origine concreta di un concreto assetto di potere e di sapere. E si deve capire che questa origine non è un fondamento stabile, ma un’energia, uno squilibrio, un conflitto, che stanno dentro ogni ordine, che lo relativizzano ma anche lo tengono vivo; la concretezza, in Schmitt, viaggia sempre insieme al nichilismo. La scoperta teorica della «origine della politica» ha poi come contropartita una pratica che può essere tanto rivoluzionaria (attivare nel conflitto una nuova origine: le rivoluzioni, il potere costituente) ma anche la «politica dell’origine», cioè la difesa extra-legale, decisionistica, di un assetto politico esistente, attraverso il richiamo alla sua legittimità originaria come fattore stabilizzante contro i nemici interni (una stabilizzazione attraverso l’esclusione, quindi). Potere costituente rivoluzionario e «sistema dei presidi» sono entrambi presenti, necessariamente, in Schmitt. Questo giurista opera la più radicale de-costruzione storica e genealogica dello Stato: infatti è presente in lui oltre che la difesa autoritaria dello Stato anche il tentativo (in epoca nazista) di andare oltre lo Stato, di cui ha dimostrato la storicità e la relatività. Ed è anche il più duro difensore dello Stato: come tale, tra l’altro, è oggi grandemente apprezzato in Cina, il “terzo ramo” della sua fortuna, che sia pure a rimorchio della letteratura scientifica americana, lo utilizza per legittimare gli aspetti autoritari del sistema politico comunista.

Following up on the previous question on the ‘appropriations of Schmitt’ for ideological projects. What is your opinion of Left-Schmittianism? Is that a project too limited? I am thinking here of left Schmittianism in certain populist political theories…

Ci si può appropriare di Schmitt a scopi ideologici: egli stesso ha legato il proprio pensiero a ideologie (una di esse, nefasta). Ma la sua importanza sta nella genealogia. Sotto il profilo pratico, è importante la sottolineatura della necessità che la politica sia energia prima che istituzione, conflitto prima (e durante) l’ordine. Ciò può essere accettato anche da sinistra. Ma ci si deve intendere sul radicamento e sulla serietà di questo conflitto, e sulla intensità di questa energia. Non sono favorevole al “populismo” se questo è un insieme di significanti vuoti, se è una “protesta”, se il popolo non si determina (e si divide) concretamente in classe (lavoratrice, subalterna, oppressa); e non sono favorevole alla “democrazia agonistica” se con questo termine si indica una pratica di disobbedienza civile o di scomposti riots. Non le moltitudini ma la sovranità è ciò che è pensato da Schmitt, che è un pensatore radicale e strutturale: addomesticarlo o utilizzarlo metaforicamente è inutile. La sua forza è che mette di fronte alla politica intesa come aut aut; e ci dice che prima o poi l’ aut aut si presenta; e ci sfida a individuarlo qui e ora. Non è un pensatore della norma, della quotidianità, né del processo dialettico. Non è un benpensante né può essere arruolato nell’opposizione mondialista al capitale mondialista.

In Genealogía de la política there is a strong reading that favors ‘spatiality’. The notion of space was also important for Schmitt, which he linked to the Roman Catholic Church (Rome as raum). How important that we pay attention what Schmitt has to say about space for our epochal transformation?

Schmitt è il grande nemico dell’universalismo: tecnico, morale, giuridico, economico. Per lui, l’universalismo è una interessata negazione della politica; è potestas indirecta. Lo spazio liscio (il mare) non ha qualità politica: l’ordine politico esige il nomos, il porre confini in terra, il prendere per delimitare. L’ordine è monistico-dualistico all’interno, e pluralistico all’esterno. L’ordine esige confini e sovranità, e cioè il nemico reale, concreto; non il nemico-criminale, il pirata, il nemico dell’umanità. Il rapporto di Schmitt con la Chiesa cattolica, poi, è complesso: da una parte c’è il rifiuto dell’universalismo inteso come potestas indirecta; dall’altra c’è l’esaltazione per l’ordine che essa realizza con la complexio oppositorum, che però è da lui attribuita esclusivamente alla Chiesa mentre lo Stato ne è costitutivamente incapace (e infatti si fonda sulla decisione-esclusione-delimitazione); dall’altra ancora c’è l’apprezzamento per il radicamento dell’universale cattolico nella concretezza dei «luoghi» (a differenza del protestantesimo). Ma a quest’ultimo proposito Schmitt dà più peso a «Roma» che al cattolicesimo, esibendosi in una funambolica identificazione fra Roma e Raum, che ha solo valore metaforico. Ma certamente in generale per Schmitt la politica si dà nello spazio, sia come forma sia come conflitto: nello spazio dello Stato o dell’Impero (ovvero del Grande Spazio).

The crisis of technico-economical domination during the twentieth century was countered by Schmitt’s thought with a strong and contradictory (complexio oppositorum) notion of political. The political was to be understood as a restraining force (Katechon). However, is not the political also today ruined, lacking legitimacy, always already fallen to techne? Are we in a post-Katechon epoch?

Io non identificherei il «politico» con la complexio oppositorum: la complexio è una modalità di ordine politico che non ha bisogno del «politico» (inteso come rapporto amico-nemico) perché si fonda sull’auctoritas in senso forte, che però nella modernità non è a disposizione dello Stato. Il «politico» è al tempo stesso concretezza e conflitto reale; è il modo immediato dell’esistenza politica moderna e non è di per sé un katechon, perché il katechon è una forma (e una forza) che  trattiene appunto il conflitto. Ma certamente il «politico» è un conflitto che che provoca la decisione, che tende alla forma, pur senza mai poterla compiutamente raggiungere;  è una concreta e cosciente parzialità. E quindi è katechon di fronte al conflitto assoluto, insensato, meccanico, moralizzato, che si genera nel mondo universalistico della tecnica; a questo conflitto Schmitt oppone il partigiano, portatore di un conflitto concreto. Il conflitto (indeterminato) si frena col conflitto (determinato), insomma. In ciò Schmitt è analogo a Clausewitz, che analizza la guerra reale, non quella assoluta. In ogni caso, oggi siamo certamente in un’epoca che per certi versi è post-katechontica, in cui cioè il conflitto è slegato dal suolo e dai confini (si pensi al terrorismo). E tuttavia è anche vero che oggi si va configurando nel pianeta un nuovo ordine spaziale, fatto dall’equilibrio precario fra Grandi spazi semi-sovrani – o di grandi e medi Stati in competizione con le grandi imprese multinazionali, oltre che tra loro stessi –, in un’epoca che è ormai post-globale. E che perciò torna a essere politica.

Finally, Prof. Galli, as you yourself have written in Guerra Globale(2000), conflict and civil wars have intensified in our times, something that Schmitt understood very well in his later writings, but that now have become a spatial and concrete operation of governing anarchy. Is Schmitt’s thought still the conceptual horizon to grasp our problems, or do we need to move beyond Schmitt?

Io credo che si debba andare «con Schmitt oltre Schmitt». Cioè che si debba rinunciare al peso reazionario della sua ideologia, e che lo si debba ambientare in un’epoca precisa, la crisi tedesca degli anni Venti, la tragedia degli anni Trenta,  e la crisi europea degli anni Quaranta. Credo quindi che da Schmitt non si debbano trarre «leggi» né «regolarità» eterne della politica. Credo però anche che, dal punto di vista intellettuale, la sua genealogia sia un acquisto permanente del nostro modo di pensare la politica; Schmitt ci ha insegnato a pensare concretamente, a interpretare la politica in modo serio e drammatico, a non cercarvi fondamenti e  stabilità, pur nella consapevolezza che l’ordine è indispensabile; e anzi a leggere nel tempo del disordine e dell’anarchia i segni dell’ordine possibile (per il quale va spesa energia, a partire da un conflitto reale). Ci ha insegnato a non credere alle soluzioni facili e semplici, tecniche o morali o “narrative”, delle questioni politiche. A pensare agli ordini come realtà necessarie e al tempo stesso contingenti. A pensare alla politica come energia e come istituzione. E non credo che di questo insegnamento ci dobbiamo o ci possiamo liberare, benché oggi si viva in un contesto politico interno e internazionale molto mutato rispetto a  quello in cui viveva e scriveva Schmitt. Il suo pensiero è parte fondamentale  di ogni pensiero critico, che voglia lasciarsi alle spalle il normativismo, il funzionalismo, e il neoliberismo.

 

Intervista pubblicata il 2 maggio 2019 in «Cuarto Poder» e in «The Clinic»; e in «Política común», Volume 13, 2019.

 

Stato, Grande Spazio, Nomos

ph-46

Stato, Grande Spazio, Nomos (Adelphi, 2015, pp. 528, € 60) raccoglie, selezionati e tradotti da Giovanni Gurisatti, alcuni importanti saggi che Carl Schmitt pubblicò dal 1927 al 1978, precedentemente accolti in due importanti antologie tedesche − una del 1996, l’altra del 2005. Vi compaiono alcuni dei lavori più celebri del giurista: tra gli altri, la prima versione di Il concetto di ‘politico’ (quella in cui il ‘politico’, il rapporto amico/nemico, è interpretato come un ambito specifico, mentre di lì a poco diventerà, ancora più radicalmente, il grado estremo d’intensità del conflitto); la quarta edizione, del 1941, dell’opuscolo su L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale (in cui venne aggiunto, tra l’altro, un capitolo contenente una polemica anti-ebraica contro Kelsen; per questo libro Schmitt corse il rischio di finire imputato a Norimberga come complice della guerra d’aggressione nazista verso l’Urss); il densissimo saggio del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943), che anticipa il grande libro del 1950 su Il Nomos della Terra; il testo del 1952 su L’Unità del mondo, in cui la guerra fredda è interpretata non come scontro duale fra Usa e Urss ma come una tensione interna ad un unico campo teorico e pratico, cioè la Terra dominata dalla tecnica; un’originale interpretazione di Clausewitz come pensatore politico (1967); e infine il canto del cigno di Schmitt, La rivoluzione legale mondiale (1978), un articolo che si conclude con un dittatore che in punto di morte, invitato dal sacerdote a perdonare i nemici, risponde “non ne ho: li ho ammazzati tutti” (ed è, per Schmitt, la metafora dei poteri che utilizzano il loro monopolio del diritto per spazzare via legalmente il nemico politico come criminale e nemico dell’umanità).

Molti di questi testi sono già noti al lettore italiano, ma spesso in traduzioni parziali e incomplete, oppure molto datate (degli anni del fascismo), oppure ancora collocati in sedi raggiungibili solo dagli specialisti; da oggi, invece, sono disponibili a un pubblico più vasto, per un supplemento d’informazione e di riflessione sul lascito intellettuale, sempre sconcertante, di uno studioso, Carl Schmitt, la cui fama continua a dilagare nel mondo: dall’originaria singolare fortuna italiana degli anni Settanta e Ottanta (tuttora fortissima) alla consistente attenzione francese, spagnola e sudamericana (sempre crescente), alla consacrazione nella sua patria tedesca (che, dapprima incredula e riluttante, lo ha poi legittimato inserendolo dagli anni Novanta nella potente macchina accademica delle dissertazioni dottorali), all’inondazione del mercato filosofico anglo-americano, fino all’elevazione, nella Cina comunista, a filosofo politico di regime (con particolare riguardo alla sua produzione autoritaria di epoca nazista; qualcosa di simile era già successo nella Corea del Sud).

Tutti (a destra e a sinistra) ormai vedono tutto, in Schmitt – con maggiore o minore fondatezza e acribia filologica, s’intende –. Autore della decostruzione e della teologia politica, dell’autorità e della ribellione partigiana, della decisione e della costituzione, dello Stato e del suo superamento, dell’ordine e del conflitto, Schmitt esibisce tanto una camaleontica versatilità spinta ben oltre i limiti dell’opportunismo (la sua adesione al nazismo fa scorrere fiumi d’inchiostro, ma non lo condanna alla infamia e alla damnatio memoriae come vorrebbero alcuni critici) quanto una ricchezza e molteplicità di pensiero che lo ha reso ormai un classico della politica, i cui libri sono imprescindibili come quelli, ad esempio, di Max Weber – benché il pensiero di Schmitt sia, ancor più di quello weberiano, coinvolto profondamente nella politica (di lui si diceva che, ascoltandolo, non si capiva se si dovesse invadere la Francia o darsi allo studio approfondito dello jus publicum europaeum) –.

Una parte di questa fortuna nasce dall’idea che Schmitt abbia la capacità di fornire chiavi interpretative del mondo contemporaneo, sia perché l’emergenza sarebbe il modo normale con cui funziona il sistema politico nel mondo neoliberista, sia perché il suo realismo politico sarebbe assai indicato a decifrare i limiti e le intrinseche contraddizioni dell’ideologia universalistica della globalizzazione anglosassone.

In realtà le cose sono più complesse. Schmitt è stato un formidabile pensatore novecentesco, impigliato esistenzialmente nella decostruzione delle aporie della modernità al tramonto, piuttosto che un autore post-moderno appaesato nel XXI secolo. E ciò proprio per il dato strutturale della onnipervasività dell’odierna economia capitalistica, e quindi del mutato ruolo dello Stato, che moltiplica sì le eccezioni, le forzature extraistituzionali, ma che al contempo rende difficile ipotizzare oggi una significativa vigenza della grande decisione sovrana. Certo, la critica schmittiana del potenziale discriminatorio implicito nell’universalismo ideologico che sorregge la politica internazionale – che non riconosce nemici politici ma solo ‘criminali’, ‘pirati’, nemici dell’umanità – è convincente e appropriata; ma la sua teoria dei Grandi Spazi, pensata sia come superamento della forma-Stato sia come antidoto all’astrattezza e all’estremismo dell’universalismo, non solo si scontrò a suo tempo con la dottrina nazista dello Spazio vitale (anch’esso illimitato e discriminatorio, e quindi lontano dalla concretezza a cui aspirava Schmitt), ma è resa oggi quanto meno dubbia dal prevalere della potenza di sradicamento del capitalismo rispetto a ogni politica di fissazione dell’ordinamento sul suolo, e di chiusura ordinativa dello spazio. Non a caso Schmitt è, come Heidegger, concentrato sulla critica della tecnica (marina, contrapposta alla terrestrità dello Stato e anche del partigiano) molto più che sulla critica dell’economia.

La verità è che Schmitt è ancora giurista, e quindi legato a quello Stato di cui pure attua la radicale destrutturazione, ovvero è orientato all’ordine – benché sia al contempo tragicamente consapevole della sua interna contraddittorietà e abissale infondatezza –. La sua capacità critica e analitica è grande, ma non va al di là dello svelamento e della decostruzione dei meccanismi con cui lo Stato nasce, agisce, crea il sistema mondiale degli Stati, e agonizza; oltre lo Stato – di cui ha lucidamente colto la contingenza storica – Schmitt sa bene che si deve andare, ma non sa come (soprattutto quando, nel dopoguerra, il pensiero dei Grandi Spazi non fu più immediatamente proponibile). La sua teoria del nomos (dell’ordine internazionale orientato) funziona retroattivamente, per spiegare (benché parzialmente) con potenti campiture splendori e miserie dell’età moderna e dello jus publicum europaeum; ma applicata al presente assume un ambiguo significato mitico, o nostalgico di perduti radicamenti.

Com’è giusto, Schmitt, il quale si è spinto fino a presagire la nuova rivoluzione spaziale, quella del web (da lui intravista nel trionfo del nuovo elemento, l’aria – come prevalenza del potere aereo, ma potremmo dire come potenza dell’etere, dello spazio virtuale –, che prende il sopravvento sulla terra e sul mare, protagonisti della modernità), non può pensare per noi. Proprio da chi ha sostenuto che la verità è vera una volta sola, all’interno di determinate configurazioni di potere, viene l’invito a noi, perché pensiamo la verità, l’ordine e il disordine, del nostro tempo. Congedandoci, per quanto possiamo, dal lungo congedo schmittiano dalla modernità. Procedendo con Schmitt oltre Schmitt.

L’articolo è stato pubblicato in «il manifesto» il 15 gennaio 2016, con il titolo L’ordine politico dei grandi spazi

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