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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Parlamento

Referendum costituzionale. Quali benefici?

 

La riforma del numero dei parlamentari non nasce da ansia riformatrice, ma dal malumore anti-casta degli italiani, raccolto da una forza politica – il M5S -, e da un’altra forza politica,  la Lega, per indurre i grillini a stipulare l’alleanza di governo con cui si è aperta la diciottesima legislatura, e accettato infine dal Pd che dopo aver votato contro tre volte lo ha fatto proprio per indurre  il M5S alla seconda alleanza, ossia per dar vita a un governo e non andare a quelle elezioni anticipate da cui si temeva potesse uscire vincitrice la destra.

Date le logiche politiche che hanno partorito questa riforma e questo referendum, è fin troppo prevedibile che in seguito al probabile esito di questo non inizierà alcuna stagione costituente, al contrario di quanto si sforzano di credere coloro che si sono schierati per il Sì. Forse una nuova legge elettorale verrà messa in cantiere – per salvare la faccia del Pd -, ma passerà molto tempo prima che venga approvata in via definitiva: del resto, l’assenza di una legge elettorale decente è un buon modo per non far finire la legislatura  con troppo anticipo. La riforma dei regolamenti delle due Camere, anch’essa indispensabile,  sarà un percorso ancora più accidentato e faticoso; per non parlare poi delle ulteriori riforme costituzionali che da alcuni sono avanzate a compimento di questa: abolizione dei collegi regionali per l’elezione dei senatori, parificazione dell’età per esercitare l’elettorato alla Camera e al Senato, passaggio al monocameralismo o al contrario differenziazione dei ruoli delle due Camere, revisione al ribasso del numero dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato. Un libro dei sogni, o un elenco di pretesti. In ogni caso, compiti troppo impegnativi, perché apportatori di ulteriori lacerazioni e difficoltà, per il governo Conte due.

Al di là di una boccata d’ossigeno per il governo – ma la partita vera si gioca alle elezioni regionali – quale sarà il beneficio per avere ridotto drasticamente il numero dei parlamentari? Un risparmio irrisorio per l’erario. E, poi, la soddisfazione dell’istinto anti-casta di larga parte della popolazione, nonché un momentaneo successo per il M5S. Ma ben presto i cittadini si accorgeranno che non uno solo dei problemi che affliggono il sistema politico e il sistema sociale è risolto dalla punizione del Parlamento; né sarà invertita la parabola del dissolvimento della capacità politica dei grillini.

Al passivo andrà invece registrata una difficoltà di funzionamento delle Camere, soprattutto del Senato, in relazione all’attività delle Commissioni.  E andrà computato al passivo anche il fatto che in questo Paese ci si dedica pressoché in permanenza alla riforma della Costituzione: in questo caso, poi, con una estemporaneità sconcertante. Senza un’idea, un disegno, un progetto. Quasi per vedere l’effetto che fa. La banalizzazione dell’attività costituente – che invece dovrebbe essere il più alto esercizio politico – è sintomo di un male ancora più grande: la fine del rispetto per la Costituzione è in realtà la fine del rispetto di un popolo per la qualità della propria esistenza politica. Più che il trionfo della potenza del popolo sulle istituzioni, questo referendum – salvo splendide sorprese – rischia di essere la dimostrazione del disinteresse, rassegnato e rancoroso, degli italiani verso la cosa pubblica.

A scanso di equivoci: gravi problemi ci sono. Ma non nascono dalla numerosità del Parlamento, quanto piuttosto da una crisi di lunga data del parlamentarismo. Per non parlare delle difficoltà di principio che ineriscono alla rappresentanza, negli ultimi decenni la funzione legislativa è passata di fatto all’esecutivo, che dimostra di non avere bisogno del parlamento, preferendo bypassarlo (la disintermediazione) e rivolgersi direttamente al popolo. La verticalizzazione della politica ha la meglio sulla discussione; l’immediatezza vince sulla mediazione (o, quanto meno, questa non si forma nelle aule parlamentari); la legittimità consiste nella mera efficacia dell’azione politica, e nella narrazione mediatica che l’accompagna, non nel consenso dell’istituzione in cui si rappresenta la volontà del popolo sovrano – nell’emergenza Covid, poi, queste dinamiche sono intensificate e accelerate -. Ma anche in precedenza l’energia politica non apparteneva tanto alle assemblee quanto ai partiti, che avevano popolato le due Camere di deputati obbedienti – almeno, però, meglio selezionati di quelli attuali -. Certo, la formazione della legge attraverso la libera discussione e il libero convincimento dei parlamentari è più un mito che una realtà storica; ma altrettanto certamente mai come ora il parlamento è stato lontano dal  cuore della politica.

Ora, dato che la presenza di un libero parlamento, efficiente e agguerrito, è ciò che distingue i sudditi dai cittadini, sarebbe stato logico chiedersi come restituire alle Camere autorevolezza e legittimità; come accendervi energia politica – il che potrà avvenire  per vie opposte, ma che si deve provare a fare coesistere, con il rafforzamento dell’identità politica dei partiti, e al contempo con l’innalzamento della qualità personale e dell’indipendenza intellettuale dei parlamentari -; insomma, ci si sarebbe dovuti preoccupare di come irrobustirlo, per irrobustire e rendere più trasparente la politica, per non arrendersi ai poteri opachi, extra-istituzionali, che in modo sempre più pervasivo controllano i corpi e le menti.

Senza questo intento, oggi assente, la riduzione del numero dei parlamentari è un ultimo sberleffo alle Camere, quasi a sancirne l’irrilevanza. E non si dica che la riduzione rafforza l’istituzione: le assemblee sono potenti non in quanto più o meno numerose, ma in quanto sono consapevoli del proprio ruolo e lottano per esercitarlo, e non perché dall’esterno se ne ampli o se ne riduca la consistenza numerica.

Il mantenimento dell’attuale numero dei parlamentari non risolve quasi nessun problema, di per sé – ma sarebbe il segno dell’inversione della deriva populista del Paese -; come non lo risolve la sua diminuzione, che anzi rischia di generare nuove difficoltà. Ciò di cui c’è bisogno, in realtà, è l’attenzione – del ceto politico e dei cittadini – non alla quantità dei deputati e dei senatori ma alla qualità della politica. Ma di questa attenzione, finora, non c’è traccia.

Pubblicato in «La rivista il Mulino» il 31 agosto 2020

La sovranità e lo scontro tra economia e politica

Intervista con Ivan Giovi

 

Professor Galli nel suo saggio Sovranità appare emblematica l’espressione «Sovranità è democrazia? Oggi sì»: quali sono le funzioni economiche, politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno esercizio della sovranità?

La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un Paese anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del Paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono  privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’Unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello  gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto «divorzio» fra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati. Lo Stato non è più signore della propria moneta. Una volta che si sia aderito all’euro non si può più  stampare moneta; possiamo unicamente emettere titoli di debito (entro una certa soglia) e in ogni caso quando emetti debito devi sperare che qualcuno te lo compri, i mercati. Questo incide sulla sovranità di bilancio: anche se formalmente lo Stato italiano è sovrano nel determinare il proprio bilancio, con tutte queste restrizioni di fatto non lo è; detto in altri termini, non ci sono mai abbastanza soldi. Che è una cosa strana, perché lo Stato  i soldi dovrebbe poterseli stampare, o procurare in proprio.

Perché tutto questo?

Questo è il passo più avanzato che è stato fatto verso una Unione europea che è un’ Unione a vari livelli: giuridici,  economici, culturali, ecc. sempre però tra Stati sovrani. La moneta unica è invece la proiezione del marco tedesco, fondata sulla sua medesima filosofia politico-economica:  l’economia sociale di mercato detta anche «Ordoliberalismo», andata al potere nella Germania federale nel secondo dopoguerra (alla quale Schroeder ha introdotto elementi di neoliberismo con le riforme del 2003-2004). La sua teoria di fondo è: l’economia di mercato è in equilibrio, a condizione che non intervengano fattori distorsivi della concorrenza. Tuttavia, è  necessario uno Stato forte, uno Stato gendarme, che deve garantire il buon funzionamento delle dinamiche di mercato – anche se nella realtà lo Stato tedesco è tra i più interventisti. Poi ci deve essere un forte legame tra la finanza e l’economia produttiva e un decentramento politico forte: i Laender infatti hanno grande autonomia. C’è poi una teoria di fondo che è la vecchia teoria organicistica tedesca: l’idea che la società sia un corpo unitario: su questo punto la cultura tedesca si distacca dal neoliberismo austriaco di Mises e Hayek. Il loro pensiero originario (il marginalismo)  è una  risposta alla teoria del valore-lavoro marxista: il prezzo delle merci non è determinato dal lavoro in esse contenuto ma dal libero gioco della domanda e dell’offerta, dalle scelte dei consumatori informati e razionali.

Lei fa riferimento a Menger, Walras Marshall, ecc?

Esattamente. Il neoliberismo deriva dal marginalismo e incrocia la linea austriaca con la linea monetarista di Chicago. E qui c’è un vero paradosso, perché questo paradigma liberista non è mai stato applicato fino a che il paradigma concorrente, quello keynesiano che aveva come obiettivo la sconfitta della disoccupazione, non è andato a pezzi. Era insomma un paradigma di riserva, basato sulla sconfitta dell’inflazione. Il secondo dopoguerra si strutturò invece su paradigmi grossomodo keynesiani, per dare una risposta alla disoccupazione e poi alle necessità della ricostruzione postbellica. Questo paradigma, incentrato sul ruolo del lavoro, prevede la possibilità dell’intervento statale nell’economia e la possibilità dei bilanci a deficit. Ma soprattutto, cosa più importante, conosce il conflitto intrinseco della società. È un paradigma che, oltre al lavoro e allo Stato, coinvolge anche il capitale e dà così vita al  compromesso socialdemocratico dei Trenta Gloriosi. Uno dei paradossi dei primi decenni della nostra  repubblica fu che l’interprete del paradigma keynesiano era la Dc, mentre il PCI aveva un’idea avara dell’economia e credeva che  il debito fosse qualcosa di spaventoso.

Concezione marxista del debito come colpa!

In ciò i comunisti italiani erano liberali ortodossi.  Il debito è disordine: se c’è debito c’è qualcosa che non va. Sta di fatto che il paradigma keynesiano va in crisi nei primi anni Settanta con la crisi del dollaro, che ha portato alla fine degli accordi di Bretton Woods. In parallelo c’è  anche una crisi politica degli stessi USA che perdono la guerra in Vietnam, per sostenere la quale hanno generato ed esportato inflazione. Arriviamo così alla stagflazione di metà anni Settanta , un tipo di crisi che nel modello keynesiano è intrattabile. È allora che  viene recuperato il paradigma neoliberista di riserva. I segnali sono questi: nel 1974 il premio Nobel ad Hayek e nel 1976 a Friedman, poi la Thatcher e Reagan vincono le elezioni nei loro rispettivi Paesi. Ed è così che il neoliberismo passa a diventare dominante. Il neoliberismo è sostanzialmente deflattivo, e va bene per sconfiggere l’inflazione. Ma ciò avviene colpendo i salari e la spesa pubblica. Il risultato è la grave sconfitta delle sinistre che ci capiscono poco, e pensano solamente a chiedere sacrifici ai lavoratori (le “riforme”). Sta qui anche la linea Berlinguer dell’austerità, e la grande sconfitta sulla scala mobile e sulla marcia dei quarantamila. Questo perché il modello sociale del neoliberismo è quello di una società amorfa, composta di individui solitari, senza corpi intermedi, partiti sindacati, ecc. Basta ricordare la famosa frase della Thatcher «There is no such thing as a society», la società è fatta di individui “imprenditori” che pensano solo alla massimizzazione della propria utilità individuale.

L’economia si pone come scienza regina, e ogni altra scienza deve servire a consentire all’economia di funzionare. Le  strutture economiche sono sottratte alla valutazione e alla critica; per usare ancora le parole della signora Thatcher «There is no alternative». La società è l’economia e viceversa: non vi è alcuno spazio nella società che si discosti dalla dinamica economica. Chi è vicino all’università se ne è accorto: a un certo punto siamo stati investiti da un modello aziendale, da un’ondata di valutazioni senza fine. Il sistema di valutazione in cui ci troviamo ha l’obbiettivo di non farti mai sentire al sicuro. Di renderci semi-flessibili, come gli altri lavoratori.

Ci deve sempre essere concorrenza, insomma.

Esatto. Come l’impresa è sempre sottoposta alla spietata legge del mercato, il professore è sottoposto alla legge della valutazione. La cui parola d’ordine è flessibilità e formazione continua. Ciò  è collegato alla interpretazione della società come «capitale umano». Il capitale va necessariamente impiegato, attivato, mobilitato. Si prepara così uno sviluppo delle università  verso il pensiero utile e non verso il pensiero critico.

Questo implica la scomparsa della politica come funzione sociale?

Ciò implica non la scomparsa della politica ma una ridefinizione dell’agenda della politica. L’economia teme la potenza della politica, teme che si imponga su di essa, nella forma comunista, corporativa, ecc. Il comando politico è visto come la mancanza di libertà, così come il grande nemico è anche il nemico socialdemocratico, le enormi macchine burocratiche dello Stato sociale. L’economia deve dettare l’agenda alla politica, ma questa non deve scomparire: deve prendere ordini e mettere in ordine.

Tutto questo in Italia si è configurato con il vincolo esterno?

In Italia  i ceti alto borghesi si sono disperati,  hanno pensato che il Paese fosse incontrollabile e che il ceto politico fosse incapace di governare. I processi (le elezioni ) e i soggetti democratici (i partiti) sono parsi inadeguati alle sfide che il neoliberismo doveva affrontare. Così si sono indeboliti i partiti, trasformati in soggetti poco strutturati, guidati non da élite politiche ma da leader acchiappavoti. E oggi si parla apertamente di ridurre la democrazia: le elezioni sono troppo frequenti, le proposte radicali vanno eliminate, insomma bisogna proporre agli elettori partiti sostanzialmente identici.

Quindi se il ceto politico è incapace, la cosa importante – l’economia  – va tenuta al sicuro con il «vincolo esterno», attaccandoci ai tedeschi egemoni in Europa. Dalle durezze e dalle contraddizioni del neoliberismo sono poi nati i movimenti di protesta, populisti e sovranisti, che chiedono che lo Stato ritrovi la sua sovranità, cioè comandi sull’economia e protegga la società. Anche se poi questi movimenti sovranisti mettono tutta la loro energia nella caccia al migrante e sono più neoliberisti addirittura dei loro avversari (ma è un particolare che pare sfuggire ai più).

Ovvio che il vincolo esterno, benché molto doloroso, non è l’unico nostro male; sicuramente  però non ci permette di curare tutti gli altri. Coloro che lo hanno adottato adesso dicono che chiaramente avrebbe dovuto seguire una unione politica, ma la costruzione di una unione politica implica anche la messa in comune dei debiti e questo nessuno lo vuole. Ogni Stato è sovranista. Soprattutto non esiste una sovranità che nasca a tavolino. La sovranità è una esplosione di energia politica, non è un trattato, che al massimo può suggellare una sconfitta o una vittoria. Se esistesse una sovranità europea sarebbe nata da movimenti lotte rivoluzioni, come tutte le sovranità, anche quelle federali.

In ogni caso, nella Ue (meglio, nell’eurozona)  ci sono Stati sovrani che hanno in comune la  moneta unica e che hanno l’obbligo di pagare i suoi costi di tasca propria in casa propria; se proprio qualcuno è in difficoltà gli vengono offerti dei prestiti a condizioni carissime, non tanto economicamente quanto politicamente.

Che è quello che sta succedendo adesso con il MES? Dove una parte politica insistentemente ne richiede utilizzo?

Chiaro! Ma qui il punto non è che il creditore rivuole i soldi indietro, ma proprio che siano prestati a debito! Se l’Europa fosse unita non sarebbe un debito: sarebbe quello che succede negli USA, creazione di moneta e redistribuzione alle aree che ne necessitano. Se l’Europa fosse unitaria si stamperebbe la propria moneta, ovvero la sua banca centrale, prestatrice di ultima istanza,  attuerebbe la «monetizzazione del debito», comperando i titoli di debito dei vari Stati.  Certo, in un’Europa politica (federale) sarebbero ancora più evidenti le egemonie di fatto, tedesca e  francese (ma contro questa circostanza non ci sono rimedi, tranne quello che anche l’Italia cresca e si rafforzi).

E non è quello che accade già?

No, è proprio questo il punto. I tedeschi non vogliono comandare in Europa. La Germania non  si sente coinvolta dai problemi italiani o francesi o greci, non ha alcuna intenzione di prendersi delle responsabilità aperte, anche se di fatto è il Paese più prospero economicamente ed ha un primato politico. La Germania cerca e ottiene potere indiretto, non diretto.

Una delle conseguenze del fatto che l’Europa non è politicamente unita (se lo fosse, sarebbe una superpotenza) ma frammentata (tranne che per la moneta) è che è debole (o non forte come potrebbe) davanti agli interessi di altre potenze come gli USA, la Russia e  la Cina.

Un’unione politica debole, e un’unione economica forte, quindi?

Sì. Ma attenzione. L’unione economica forte è strutturata attorno all’euro e al paradigma ordoliberista. E ciò  rallenta lo sviluppo economico, dato che l’Europa è ossessionata dal timore dell’inflazione e dalla coazione all’esportazione (mercantilismo): lo sviluppo non dipende dalla domanda interna. Prima della pandemia, la Ue era l’area del globo che cresceva di meno. Perché il suo sistema è una macchina politico-economica essenzialmente conservatrice, che cerca stabilità.

L’alternativa potrebbe essere di puntare a un sistema neoliberista puro (non ordoliberista), che è comunque insostenibile per la quantità enorme di rischio insito nel sistema, cosa che una società non può sopportare. Una società avanzata può sopportare unicamente un sistema socialdemocratico equilibrato.

In ogni caso, la Ue adottando l’euro  ha voluto creare una sorta di «fortezza» o di isola all’interno di un oceano neoliberista mondiale. Quella fortezza ha però al proprio interno una debolezza: moneta unica ma non sovranità unica. In tal modo o tutti diventiamo come la Germania azzerando gli spread (cosa impossibile) oppure  le divergenze aumentano e la Germania prevale sugli altri Paesi.

Ciò è dato dal fatto che l’euro è uno strumento squilibrato (non è un’area monetaria ottimale) e l’unico equilibrio possibile sarebbe quello che proviene dall’unità politica, anche federale.

Siamo di fronte ad un bivio perciò?

Sì. E il dilemma  si risolve con la politica, con la sovranità:  o quella di ciascun singolo Stato oppure quella della Ue finalmente divenuta federale.

Ma sia ben chiaro che nel nostro Paese i problemi non sono solo quelli derivanti dall’euro. L’euro ha reso evidenti problemi che esistevano da prima: abbiamo una giustizia e una pubblica amministrazione totalmente farraginose, e un sistema educativo e una sanità pubblica troppo disuguali sul territorio.

E forse vediamo anche adesso dopo trent’anni i problemi: prima tangentopoli e la crisi della politica, poi la crisi dei governi instabili e la crisi attuale della magistratura, scossoni che hanno mostrato come sia fragile il nostro sistema.

Appunto, anche se non avessimo la moneta unica avremmo bisogno di un sistema politico di grande saggezza, sapienza e serietà, che spendesse i soldi nella maniera e nel modo giusto. Ovviamente è meglio avere i soldi che non averli; ma soprattutto bisogna saperli spendere, evitando sprechi e clientelismi.

A cui si aggiungono le Regioni, che sono forse fattori di squilibrio piuttosto che di stabilità, rispecchiando le fragilità del nostro Stato e del nostro Governo.

Sicuramente l’Italia governata dai prefetti era più omogenea, anche le scuole erano più omogenee. Ma l’unità è stata una delle vittime del neoliberismo: flessibilità vuol dire anche diversificazione. Basti pensare alla riforma del Titolo V che fa dello Stato una parte della Repubblica: è chiaro che qui c’è un’idea di fondo di indebolimento del potere centrale, che è funzionale alle logiche neoliberistiche. Non a caso l’Europa immaginata dagli economisti (ma non dai politici) è un’ Europa senza Stati e fatta di macroregioni.

Le Regioni in Italia sono dei grossi centri di potere burocratico e clientelare, benché alcune siano centri di governo e programmazione reale del territorio; nel complesso, non sono certo l’esperimento istituzionale meglio riuscito della nostra storia. Secondo me il depauperamento delle funzioni delle provincie è stato un errore, motivato dal fatto che si diceva che ci sono troppi livelli di governo. Ma la Regione tende a comportarsi come un piccolo Stato, vi è un forte spirito di accentramento regionale, perfino in una regione policentrica come l’Emilia-Romagna. Vi sono poi regioni impresentabili, sia per colpa dell’istituto, sia perché in certi contesti (soprattutto in alcune zone del Sud) la società è devastata dalla malavita. Quelle sono, inoltre, società povere di relazioni, dove le persone non si fidano le une delle altre. Non c’è legame sociale: i legami sono solo clientelari e personali, e la produzione di ricchezza è scarsa e spesso finisce nelle mani sbagliate.

Questo è uno dei grandi problemi. Oggi della questione meridionale non si parla più perché si parla soltanto di quella settentrionale: ci si chiede  come facciamo a stare dentro il neoliberismo, come facciamo a stare in Europa. Ma non potremo mai starci se non risolviamo le nostre questioni interne. E la soluzione non è certamente il «liberi tutti», la libertà per ogni regione di fare quello che vuole. Oggi  il Paese ha bisogno di unità e non di pluralità divergente. Anche perché molte difficoltà vengono già lette in chiave di divisione: la Lega ha smesso i discorsi di divisione ma li ha fatti per decenni; e il meridione vive un eterno senso di rivincita verso il Nord. La traduzione dei problemi in rivalità interna è tipica ma anche sbagliata perché non li risolve. E non si può neppure dire che i problemi di sperequazione regionale vanno risolti a livello europeo. Ci sono sì i fondi europei per lo sviluppo delle aree depresse, ma se questi non vengono inseriti in una catena del valore diventano episodi incapaci di creare ricchezza.

Sfiducia e debolezza della società è ciò che rende il Sud ancora bisognoso di sostegno. Forse si è ragionato troppo in grande scala: la grande acciaieria, la grande industria, ecc.; forse se si cambia impostazione si possono ottenere migliori risultati. E questo  è ancora compito dello Stato, perché le Regioni sono troppo forti e al tempo stesso troppo deboli: propongono politiche a volte troppo accentrate ma hanno una forza economica e amministrativa troppo ridotta, spesso insufficiente.

Pubblicata in «Osservatorio globalizzazione» il 12 giugno 2020.

Il principio del ciclista

 

C’è una parola tedesca, un concetto, che spiega alcune cose dell’Italia ammalata, fra economia ed epidemia: Radfahrernatur, natura da ciclista. È l’attitudine ad assumere la postura di chi piega la testa in alto e preme coi piedi in basso. E spiega, se ben interpretato, alcuni comportamenti collettivi.

Abbiamo visto il presidente Conte in Parlamento: a dire nulla, a portare nulla di concreto – la mascherina faceva pensare che volesse annullarsi egli stesso –. Il suo potere verso l’Europa è nullo; la tenuta del suo gabinetto è un miracolo quotidiano; il suo controllo degli eventi tende a zero – se fosse sceso da un taxi, la battuta di Churchill su Attlee sarebbe stata perfetta –. Eppure, è lo stesso uomo che è in grado di nominare task force e commissioni in numero infinito, di firmare dpcm (atti amministrativi), di inviare a un Parlamento quasi sempre ammutolito decreti legge da cui escono le più gravi limitazioni dei diritti costituzionali che l’Italia abbia conosciuto da quando è una democrazia. Ciò che perde verso l’alto in autorevolezza lo recupera verso il basso in dominio – in pratica, gestisce un caso d’eccezione senza proclamarlo apertamente –.

A loro volta le élites scientifiche (non gli operatori sanitari sul campo, s’intende) da una parte non riescono a venire a capo della crisi pandemica, ma d’altra parte continuamente ammoniscono, inveiscono, si smentiscono, zittiscono i colleghi che prevedono un’estinzione spontanea del virus, profetizzano sventure se i loro diktat non sono ubbiditi. Diktat che non tengono conto dei diritti costituzionali dei cittadini, ovviamente, perché la logica scientifica argomenta solo in termini di oggettiva efficacia (presunta). Così si sentono, trasmessi da emittenti di Stato, pareri di isolamento e internamento di tutti gli infetti – previ coattivi esami clinici di tutta la popolazione –, in cui non si sa se prevale  l’assenza di buon senso e di realismo o la mancanza delle minime nozioni di diritto costituzionale. E quindi si vive, dovendo ciascuno di noi spiegare e dimostrare i propri movimenti, in un perenne e generalizzato clima di sospetto, di inversione dell’onere della prova; un clima che durerà quanto più è possibile perché il principio di precauzione deve prevalere su ogni altro (l’unico concorrente  è il principio di prestazione, le esigenze dell’economia produttiva).

E si discute – senza che ci si renda conto della enormità della cosa – di app, o bracciali da detenuto, da applicarsi  a tutta la popolazione, con pene per i riluttanti (la perdita della libertà personale, è stato detto – anche se poi la frase è stata parzialmente corretta –); al più, qualche anima bella si occupa della privacy, mentre altri rispondono che in Costituzione non è previsto un tale diritto. Sembra sfuggire l’idea che in gioco non ci sia tanto la privacy (che è un concetto privatistico) quanto la libertà (che è un concetto della sfera pubblica)  – ovvero il diritto di non essere considerati capi di bestiame, governati con logiche di utilità, marchiati, disinfettati, sterilizzati –. Mentre a troppo pochi sembra improponibile l’idea che a determinate fasce di popolazione (per età, ora; ma chi può escludere che i parametri cambino?) si possano applicare barriere, discriminazioni, reclusioni, obblighi di lasciapassare.

Ma, per consentire anche agli ultimi, ai normali cittadini, uno sfogo, una gratificazione, un po’ di senso di superiorità, si fa pubblico spettacolo della caccia all’uomo, con droni ed elicotteri, e si trasmette in tv (di Stato) l’inseguimento di pensionati intenti a passeggiate solitarie. Tuttavia, mentre si cerca di indirizzare verso qualche deviante la riprovazione di un’intera popolazione e di rendere tutti non solo destinatari passivi ma protagonisti della strategia della colpa (anche con le delazioni), si manda in realtà il messaggio che a tutti può toccare la colpa, che nessuno può uscire dalla logica dell’incolpare e dell’incorrere nella pena della colpa. Il «ciclista» non sfugge alla sofferenza: il potere lo si subisce anche quando si crede di esercitarlo. Quel «qualcuno» che tutti possono denunciare o inseguire è in realtà «ciascuno».

In questo contesto in cui tutti cercano di esercitare potere verso il basso mentre lo perdono verso l’alto (mentre, insomma, perdono l’autonomia) crescono il disordine e, insieme, il disciplinamento sociale: quando sono esercitati regolarmente i poteri sono inefficaci (che ne è della configurazione costituzionale della democrazia? E dei successi della ricerca scientifica?) mentre sono efficaci quando esercitano dominio.

Da tempo l’elettronica ha reso possibile il «capitalismo di controllo», la compra-vendita dei megadata che consentono agli algoritmi di tracciare e prevedere i nostri comportamenti economici; ora le finalità non sono più commerciali: ora la  politica stessa è controllo, e lo Stato è «Stato di sicurezza» – se possibile, da tutti introiettato e invocato –. E la prospettiva non è tanto l’emergenza quanto la permanenza: dall’Europa ci viene detto che dovremo accettare  limitazioni alle libertà fintanto che non verrà scoperto un vaccino: almeno due anni, quindi; e se il vaccino non si trovasse, com’è il caso dell’Aids? Passeremo tutta la vita con app,  mascherine, distanziamenti, patenti di buona salute e marchi di infettività?

La realtà è che il neoliberismo, cessata da tempo la sua fase euforica, alza ora il vessillo della sofferenza e  della disciplina. Anche nell’ambito economico, naturalmente: dietro le offerte presuntamente allettanti del Mes senza condizioni c’è il tentativo di  perpetuare il comando dell’ordoliberismo sulla nostra economia, con la riserva esplicita dell’obbligo del rispetto di ogni vincolo esistente e di quelli che sicuramente verranno, pena la troika. Nel frattempo, frazioni non irrilevanti del mondo intellettuale si sforzano di fare introiettare ai cittadini l’idea della minorità italiana, della colpa nazionale di un popolo di sconsiderati, di indebitati, di mancatori di parola, di cattivi pagatori: una  sorta di auto-razzismo che ci dovremmo auto-infliggere in una generalizzazione del  principio del ciclista in cui tutti subiamo potere per nostra colpa e tutti lo esercitiamo su tutti noi (non su qualche deviante, quindi, ma su ciascuno di noi, tutti devianti), aderendovi e legittimandolo in una universale confessione ed espiazione  del nostro peccato.

La pandemia si rivela così un’ottima occasione per accelerare i cambiamenti, del resto già in atto, del paradigma politico-economico-culturale: non è una vera cesura, ma uno svelamento di ciò che era implicito. Il passaggio in atto da una legittimazione attraverso il consenso democratico (che prevedeva almeno il dissenso) a una legittimazione attraverso la colpa introiettata e la pena auto-inflitta serve a ribadire in forme nuove la logica di dominio che pervade questo tempo. Alzare la testa e cessare di scaricare colpe e potere sui più deboli – cioè su noi stessi – sembra a questo punto l’unica ragionevole strategia possibile.

 

Pubblicato anche in «la fionda» il 22 aprile 2020

Le repubbliche monarchiche

 

«Non è certo un bene se si è molti al comando; uno sia il capo, uno soltanto il re, a cui dette il figlio di Crono scettro e leggi, perché regni sugli altri». Così, con le parole di Odisseo in assemblea, l’Iliade legittima la figura di Agamennone, re dell’Argolide e per l’occasione re dei re, comandante in capo dei Greci davanti a Troia. La figura del re appare già collegata da una parte a una identità collettiva, e dall’altra alla divinità; inoltre, emerge qui un’altra caratteristica dei re: il loro compito è di esercitare la giustizia, garantire le leggi. Ma, benché sia pastore di popoli, Agamennone non gode di un pieno potere politico. Anche questa è una caratteristica della regalità, la cui essenza sta nella funzione «pontificale» di unione fra l’umano e il divino. Una funzione che ha una connotazione religiosa prima che direttamente politica.

Le principali culture – quelle storiche e quelle «primitive», di Europa, Asia, Africa, America  – presentano, in modi diversi, questa costante: il re apre  un gruppo umano alla trascendenza, lo sottrae alla contingenza, ai pericoli, alla rovina; funziona (lo ha spiegato René Guénon) come un asse, un albero della vita che unisce cielo e terra, attorno al quale ruota una civiltà. Il re è interno ed esterno alla città, alla tribù, all’Impero: li incorpora in sé e li porta fuori di sé, li apre a leggi cosmiche, e così garantisce che le cose terrene procedano allo stesso ritmo delle cose celesti; grazie al re la giustizia è assicurata, i mostri del caos sono respinti sotto terra, i campi sono fecondi. Come ha scoperto Georges Dumézil, vi è una corrispondenza fra ordine celeste tripartito (gli dèi regnanti, gli dèi guerrieri, gli dèi della fecondità) e tripartizione mondana fra re-sacerdoti, custodi, produttori: il posto del re è il vertice, sporgente verso il cielo, di una società gerarchica, organizzata secondo ritmi naturali e divini di cui egli è il custode.

Il re – come negli scacchi – non è il pezzo più potente della politica, ma è il più importante: se è salvo, tutto è salvo; se va perduto, tutto è perduto. Quella che esercita è una funzione esistenziale e simbolica, in cui ha come concorrenti i sacerdoti, prima ancora che i poteri aristocratici. Una delle più grandi rivoluzioni che l’Occidente ha conosciuto è stata determinata dal cristianesimo, che ha chiarito che il re non è Dio, come pure era stato possibile credere (il caso del faraone egizio è ovvio; ma anche gli imperatori romani avevano percorso un lungo cammino su questa via; del resto, fino al 1945 l’imperatore del Giappone era considerato il diretto discendente della dea Amaterasu), e che non è neppure l’unico anello di congiunzione fra il cielo e la terra: questo ruolo, dopo essere stato di Cristo, è della sua Chiesa – e il dualismo fra re e Chiesa è stato una delle radici dell’Occidente –. Ciò non toglie che la Chiesa abbia anche legittimato il potere politico come proveniente da Dio: il re è tale per investitura divina,  che deve però essere riconosciuta dalla Chiesa. Per tutto il Medioevo, a partire da Carlo Magno, e fino alla prima età moderna, l’incoronazione del re era un sacramento, non a caso ripreso da un re ultrareazionario come Carlo X, che nel 1824 volle farsi incoronare a Reims secondo l’antico cerimoniale, per mettere in chiaro l’origine divina e non popolare della regalità. Al tempo stesso – ce lo ha insegnato Marc Bloch – i re erano taumaturghi: «Il re ti tocca, Dio ti guarisce» era la formula con cui esercitavano il loro potere di sanare i sudditi; mentre i giuristi  di epoca Tudor avevano teorizzato, lo ha mostrato Ernst Kantorowicz, che il corpo del monarca coincide col corpo stesso del Paese. E molto dopo Velázquez , nel suo quadro più famoso, Las meninas,  ci mostrerà che il re, anche se assente dalla scena, è l’indispensabile punto di vista che rende visibile il mondo. Il re forma il popolo e lo Stato, ma al tempo stesso è ad essi estraneo, superiore. Chi attenta al re deve essere non solo messo a morte ma squartato (come Damiens nel 1757), perché il venir meno del re fa venir meno l’esistenza stessa del corpo politico.

Certamente, nel corso della storia attorno al re si è coagulato anche un vero potere politico, culminato nell’assolutismo, cioè nella costruzione di un’idea di sovranità come potere supremo, che si pone come potere egemonico rispetto a tutti i poteri sociali (senza però distruggerli): gli aristocratici, i ceti borghesi, la stessa Chiesa. È questo il «potere divino dei re per grazia di Dio». Ma è evidente che in piena età moderna il disincanto del mondo, la nuova scienza, il nascente capitalismo, non consentivano al re di presentarsi come veramente divino. Quella formula voleva dire dire, lo ha sottolineato Otto Brunner, che il re era l’essenza politica dello Stato («lo Stato sono io», affermò Luigi XIV), che era il centro di un potere non derivato ma originario, e che ne rispondeva solo a  Dio; per questa via il re si è avviato a essere, con Federico II di Prussia, «il primo servitore dello Stato». A quel punto bastava un ultimo sforzo, per dirla con Sade, a rovesciare il punto di vista e collocare al posto del re il suo nuovo avversario: non più la Chiesa ma il popolo, la nazione, il fondamento nuovo di un potere che ha la propria rappresentanza politica nel Parlamento. Quell’ultimo sforzo era la rivoluzione, che non poteva non passare, in Francia (ma anche precedentemente in Inghilterra), attraverso il regicidio; e benché un grande controrivoluzionario come Maistre lo equiparasse al deicidio, è invece vero che  le repubbliche borghesi nacquero contro un re che ormai nella realtà aveva ben poco della regalità tradizionale.

Eppure, la regalità non è andata del tutto perduta; gli Stati nazionali non repubblicani hanno istituito diversi compromessi fra re e popolo, sulla base del principio che il re regna ma non governa, dato che il governo dipende dal Parlamento. Così, lo Statuto albertino parlava di un re «per grazia di Dio e volontà della nazione», la cui persona era «sacra e inviolabile»; il Reich bismarckiano vedeva nel re un potere reale, il «principio monarchico», che fronteggia con il  Parlamento, il luogo del potere del popolo; in Inghilterra il re ancora oggi può parlare del «mio governo» nel suo «discorso della Corona». Ma al di là del concreto potere politico che i re possono avere conservato nella storia contemporanea, resta vero  che il re è titolare, lo ha detto Benjamin Constant, di un «potere neutro», non direttamente politico, e continua a esercitare una rappresentanza simbolica della nazione, a essere fattore di equilibrio e di continuità; collega il presente, con le sue lotte e le sue divisioni, non al cielo ma a un passato che si esprime nella dinastia, alla tradizione in cui si riconosce la nazione intera, alla storia patria. Non più un ponte fra l’aldiquà e l’aldilà, quindi, ma fra la prosa quotidiana e i valori, supposti perenni, che orientano un destino collettivo. Certo, è subentrata una grande trasformazione: i re non incorporano più lo Stato, e semmai sono incorporati in esso: sono una delle sue istituzioni. Non sono in opposizione al popolo, alla democrazia, ma la integrano. Non sono più garanti di una giustizia che trae origine dalla trascendenza ma possono trascendere la giustizia con l’esercizio di una prerogativa che è loro rimasta: la concessione della grazia.

La funzione simbolica della regalità permane anche nelle repubbliche, ancora una volta in forme diversificate. La Francia –  il Paese che ha processato e sacrificato il re («non si regna impunemente», disse Saint-Just alla Convenzione accusando Luigi XVI, e cogliendo nella regalità solo la estraneità al popolo) – non si è data forse un Napoleone e un Luigi Filippo? Non ha avuto bisogno di divinizzare se stessa, nel culto della nazione repubblicana? Non ha forse costruito, con la Quinta repubblica di de Gaulle e con la sua successiva evoluzione, una sorta di monarchia elettiva, in cui il presidente ha sia potere reale (in politica estera, soprattutto) sia una intensa capacità di esercitare la rappresentanza simbolica del Paese? E gli Usa non hanno fatto del presidente qualcosa di simile a un re, che regna e governa al tempo stesso?

Anche la nostra Costituzione fa del presidente della Repubblica un organo dello Stato, e gli assegna una posizione politicamente neutra ma non puramente notarile – la custodia della Costituzione attraverso il richiamo ai suoi valori, al suo spirito e alla sua lettera, cioè a una sorta di tradizione democratica –. Inoltre, se la sua persona non è sacra e inviolabile, tuttavia entro certi limiti è sottratto alla legge penale (almeno secondo una parte della dottrina); se è irresponsabile, esercita tuttavia la moral suasion e nomina i senatori a vita; se ogni suo atto necessita della controfirma di un ministro, tuttavia rappresenta simbolicamente il Paese, all’interno e all’esterno.

Forse non rispondono del tutto a queste caratteristiche le superlaicizzate monarchie nordiche, o i deboli presidenti di repubbliche come la Germania e l’Austria; ma certamente le monarchie non sono soltanto occasioni di gossip, e coprono anzi un’esigenza della politica, presente anche nelle repubbliche. Che non è precisamente quella di individuare un leader forte o carismatico (questa è un’altra storia, che ha a che fare con l’evoluzione del potere politico e con la crisi dei Parlamenti), ma quella di mantenere aperto l’orizzonte della politica. Che è una dimensione multipla, complessa: ne fanno parte l’economia e la cultura, il potere istituito e le fedi religiose; e anche il bisogno di coltivare fonti di senso e di identità simbolica che vanno oltre l’esistenza quotidiana. Un bisogno che ha cercato soddisfazione nella regalità, e in ciò che oggi ne fa le veci.

Pubblicato in «Corriere della Sera – La Lettura», 3 novembre 2019

 

 

 

 

Chiarezza sulla sinistra

Intervista  con Pino Salerno

 

 

Cominciamo dall’Europa e dalla sua grande fibrillazione, dal 24 settembre tedesco al primo ottobre spagnolo fino al discorso di Macron (con il corollario delle prossime legislative austriache e il referendum farlocco del lombardo-veneto). Ne esce un quadro in cui la tecnoburocrazia di Bruxelles ha responsabilità notevoli, e l’Europa politica si dilania e non fornisce più risposte ai popoli. Qual è il tuo giudizio?

L’Europa non ama gli Stati, e nasce per superarli. Ma di fatto è dominata dagli Stati, ciascuno dei quali utilizza l’Europa e le sue istituzioni per aumentare la propria potenza. Questa è una prima contraddizione. La seconda è che il neoliberismo non ama lo Stato se non per le sue prestazioni penali, e cerca di avere a che fare più con la governance che con i governi. Ma l’Europa non è solo neoliberismo: è anche ordoliberalismo (l’euro), che implica invece un massiccio ricorso allo Stato in chiave di stabilizzatore e neutralizzatore dei conflitti. E questa è la seconda contraddizione. A ciò si aggiunga la terza contraddizione: che cioè lo Stato è sì centrale nell’attuale architettura dell’Europa ma è anche devastato da una crisi economica che tende a disgregarlo secondo linee di frattura di convenienza produttiva e finanziaria. Nel complesso, quindi, l’impulso neoliberista e la morsa della crisi vanno verso la rottura dello Stato per costruire, su basi etniche più o meno inventate, Stati più piccoli e più liberi dai vincoli di solidarietà fiscale che regnano in uno Stato tradizionale. Ma l’esigenza ordoliberista di stabilità e la diffidenza degli Stati europei verso le crisi politiche radicali vanno nella direzione di evitare ogni incentivo alla frantumazione e alla balcanizzazione dell’Europa. Per ora la linea della prudenza è di gran lunga prevalente.

In Democrazia senza popolo hai descritto l’esperienza parlamentare negli anni del renzismo. Come faremo a ricostruire l’Italia sulle mille macerie che hai narrato?

Le macerie ci sono, indubbiamente. Si è ormai affermato un modello economico che funziona solo con la completa subordinazione e privatizzazione del lavoro, e che quando produce nuova ricchezza non la redistribuisce ma la concentra su coloro che sono già ricchi. Un modello economico che produce deliberatamente disuguaglianza e degrado (poiché vieta l’intervento pubblico nell’economia in chiave anticiclica, e vieta anche gli investimenti nello Stato sociale), impoverimento e precarietà non occasionali ma strutturali, competizione ma non conflitti progressivi, abbassamento della qualità delle forme di vita e di produzione materiale intellettuale, con l’emersione di poche isole d’eccellenza, del tutto omologate al sistema. Ne conseguono oppressione e mortificazione generalizzate, crollo della lealtà repubblicana, allentamento del legame sociale, inimicizia universale di tutti verso tutti, individualismo passivo e rassegnato, crisi della democrazia, atteggiamenti anti-politici in realtà funzionali al mantenimento dello status quo o all’insorgenza di politiche di destra. La via per battere tutto ciò è in primo luogo riconoscere la situazione attuale con realismo, senza indulgere in ottimismi di maniera. In secondo luogo si deve affermare un rigoroso pensiero critico che instancabilmente denunci e riveli le contraddizioni insanabili del sistema, a partire dalla universale oppressione, dalla chiusura degli orizzonti vitali, che quasi tutti i cittadini sperimentano quotidianamente. In terzo luogo si deve dischiudere un universo realmente alternativo, che dia spazio e consistenza alla speranza di una democrazia fondata sul lavoro e non sul mercato, e alla fioritura di libere personalità e non di soggetti frustrati. In quarto luogo, non si deve avere fretta di governare: la costruzione di un pensiero pensante e non sloganistico, e di un soggetto sociale dotato di una qualche consistenza, viene prima. Dalle macerie si esce, se si esce, negli anni, non nelle settimane. La politica deve ritrovare il passo lungo e la progettualità, eludendo la trappola della comunicazione e della governamentalità.

Da qui la necessità di costruire un soggetto politico della sinistra, alternativo al Pd renziano, e alle politiche neoliberiste che esso ha prodotto. Tuttavia, dal primo luglio di piazza Santi Apostoli a oggi, l’impasse è purtroppo evidente. Quale futuro? Come riusciamo a contrastare il mainstream dell’informazione che vuole convincerci della fine della sinistra europea e della differenza con la destra? Una destra che ormai è sempre più radicalizzata verso posizioni xenofobe e razziste, e di conservazione di un’Europa intollerante e inospitale?

L’impasse della sinistra non è casuale. Essa si divide – e ormai sembra una divisione irreversibile – fra coloro che puntano a un nuovo centro-sinistra, a un nuovo Ulivo (sulla base del riconoscimento che il Pd di Renzi non è di centro-sinistra, ma che con un’alleanza a sinistra può cambiare) e coloro che vogliono costruire il quarto polo, non tanto di centro-sinistra ma di sinistra, per non allearsi mai con il Pd o eventualmente solo dopo le elezioni e solo dopo trattative sul programma di governo. Si tratta del dilemma della sinistra nell’età neoliberista: accettare la nuova forma del mondo per governarla (così si crede) allo scopo di mitigarne le asprezze, oppure fronteggiarla come un avversario che vuole trionfare sulle conquiste del lavoro e della democrazia? Le sinistre europee hanno seguito la prima via, facendosi battistrada del neoliberismo, per finire a questo subalterne e per essere scalzate dal ben più solido e convincente impianto governamentale delle forze di centro. In tal modo, le forze di sinistra non hanno neppure saputo intercettare il disagio e la protesta contro il sistema a cui esse stesse hanno dato più di una mano, e le hanno lasciate alle destre. Una sinistra che voglia rimediare a questi errori deve proporsi non tanto un generico superamento del capitalismo, ma di instaurare le condizioni politiche e sociali perché al capitalismo si affianchi, con un ruolo di riequilibrio e di governo, una politica certa di sé, ovvero consapevole del fatto che il capitalismo non crea ordine stabile, sviluppo umano, speranza collettiva.

Una siffatta sinistra deve essere guidata da politici credibili, nutrirsi di pensiero non mainstream, non accontentarsi di atteggiamenti liberal e recuperare la concretezza e la radicalità dell’analisi e della proposta. Deve non illudere i cittadini su di una facile uscita dalla situazione in cui siamo finiti come Italia e come Europa. Deve differenziarsi, rendersi riconoscibile, tanto più in un sistema elettorale proporzionale. Deve parlare senza mediazioni con le persone, non comunicare attraverso i media. Deve tornare non tanto fra la gente in senso generico quanto nei luoghi di lavoro e di formazione. Deve battere l’individualismo rassegnato e isterico a cui conduce il neoliberismo, con la prospettiva di una dimensione pubblica ricostruita. Deve insomma essere alternativa al presente stato di cose, e dare risposte ai bisogni reali dei cittadini, riassumibili nella sicurezza democratica. Ovvero la sicurezza dell’ordine pubblico, della civile convivenza; la sicurezza del posto di lavoro e sul posto di lavoro; la sicurezza sulla qualità della pubblica istruzione e della pubblica sanità; la sicurezza del territorio. Tutti obiettivi per perseguire i quali è indispensabile un nuovo investimento sullo Stato, troppo frettolosamente dato per morto, prima che sull’Europa (che resta una prospettiva utile se è gestita da Stati orientati a sinistra).

Ci deve essere, in sintesi, un motivo per cui un cittadino vota a sinistra, e la nuova sinistra glielo deve dire e dare, con un impegno pari a quello che animò i primi “apostoli” del socialismo a fine Ottocento. Nulla di meno è richiesto a chi voglia costruire una sinistra in un mondo che è governato dalla destra economica, e che scivola verso la destra politica. Altrimenti è meglio stare a casa. E qui voglio fare un’ultima osservazione: la mia non è una proposta di testimonianza, come si usa dire oggi, né una predilezione per i partitini. È una proposta di ricostruzione progettuale e di generosa apertura al rischio insito nella politica, che non si propone solo qualche guadagno tattico, ma che vuole pensare in grande e in avanti, o almeno si sforza di farlo. Ed è l’auspicio che dall’impasse finalmente si sia usciti, con radicalità e con serietà, senza esitazioni e senza estremismi.

Ingiustizie e disuguaglianze sociali: è davvero necessario governare per risolverle? Ovvero, Pisapia insiste sul centrosinistra “di governo”, discontinuo rispetto alle politiche renziane, ma evita di proporre come si governano i processi. Che ne pensi?

Sulla base di quanto ho appena detto, è chiaro che il semplice andare al governo non basta. Si rischia di non contare nulla e di avallare politiche in continuità col passato, di sposare tutte le «compatibilità» del sistema. È molto più importante insediarsi nella cultura e nella società con un lavoro di lunga lena e di ampie prospettive, che ricostruisca le persone, la società, lo Stato, la democrazia, l’Europa.

Renzi ha sostenuto che i suoi avversari sono i 5stelle e i populisti, mentre col Rosatellum costringe a coalizioni farlocche pronte a sfaldarsi il giorno dopo il voto. Zagrebelsky invita Mattarella a non firmare quella riforma elettorale a pochi mesi dal voto e indica, insieme a tanti giuristi, gli elementi di indubbia incostituzionalità presenti nel Rosatellum. Qual è l’antidoto, secondo te?

L’antidoto al Rosatellum è stato il Mattarellum o anche il Tedeschellum. Questa nuova brutta legge che martedì si inizia a votare alla Camera è buona per Renzi e per Berlusconi, dato che rende entrambi centrali nel costruire coalizioni, e al contempo spacca la sinistra e toglie qualche seggio ai cinquestelle (i quali in ogni caso, si sono tirati fuori dagli scenari post-elettorali, poiché non hanno e non vogliono avere capacità coalizionale). Ma una legge elettorale da sola non salva un Paese (al massimo lo condanna). Le coalizioni che emergeranno dalle elezioni saranno instabili, soprattutto quella di destra, lacerata tra Salvini e Berlusconi. Secondo quelli che saranno i risultati elettorali concreti, a oggi non prevedibili per la distanza che ancora ci separa dal voto, ci saranno rimescolamenti di carte in Parlamento. È su questi – sulla rottura della destra in particolare – che Renzi, ormai venuto a più miti consigli, punta per avere un ruolo nella politica di domani (e intanto si fa una legge che gli dà il controllo degli eletti, almeno per sette decimi). Francamente, si tratta di scenari tanto deprimenti quanto invece è esaltante adoperarsi per la ricostituzione di un orizzonte teorico e pratico di una sinistra non politicista, ma capace di pensare la politica in grande stile.

 

 

L’intervista è stata pubblicata in «www.jobsnews.it» l’8 ottobre 2017

Intervista sulla sinistra

Intervista con Francesco Nurra

 

 

Sembra che in Italia chi è interessato alla politica debba necessariamente affidarsi alla logica della leadership del cosiddetto «uomo solo al comando»? Quali sono secondo lei le cause politiche e storiche di questa scelta?

Bisogna sfatare la tesi che a sinistra non esista una tradizione di leadership forti e anche carismatiche. Da Gramsci a Togliatti a Berlinguer, solo per restare in Italia, abbiamo esempi dell’esatto contrario. Ciò a cui oggi assistiamo è in realtà il susseguirsi di tentativi di leadership prive degli altri fattori essenziali della politica: cioè prive di idee, di partiti organizzati, radicati e partecipati, e prive di ceti dirigenti sperimentati. Leadership solitarie, insomma, che si affidano a un rapporto immediato ed emotivo con una massa di cittadini disorganizzata e utilizzata soltanto nella fase del voto, e che non si confrontano con i gruppi dirigenti ma che si affidano alla collaborazione di un ristretto «seguito», ovvero a un «cerchio magico» di fedelissimi. Se ci chiediamo perché ciò avviene, non possiamo che rispondere che questa deriva leaderistica e personalistica è il più vistoso effetto della crisi dei partiti, innescata decenni fa nel nostro Paese tanto dalla mancanza di alternanza e dalla conseguente endemica corruzione quanto dall’affermarsi di mezzi di comunicazione (televisione e rete) che rendono la mediazione partitica obsoleta fornendo ai cittadini-spettatori l’illusione della democraticità e della partecipazione. Naturalmente noi sappiamo che appunto di illusioni si tratta, che quei nuovi mezzi di comunicazione sono di proprietà privata e che hanno come esito la manipolazione, la solitudine, la mancanza di confronto e di spirito critico; che assecondano e approfondiscono la scomparsa della dimensione pubblica; che la politica va fatta da persone in carne e ossa che si incontrano per ragionare e per deliberare, costituendo così la «pubblicità»; e che al potere economico, per sua natura oligarchico e non democratico, si può opporre solo un potere politico fatto di istituzioni democratiche e di partiti organizzati. E sappiamo anche che a questa prospettiva si oppongono i poteri che hanno contribuito, con i media da loro controllati, a screditare la politica istituita per consentire il mantenimento dello status quo in quanto presunto privo di alternative

Riguardo all’ultimo referendum costituzionale, lei ha affermato che si trattava unicamente di una formalizzazione delle pratiche già attuate in Parlamento; in altre parole, il ruolo del Parlamento è esautorato da prassi meramente incentrate sull’azione del governo a discapito di un Parlamento senza alcuna capacità di azione politica: si è insomma nel pieno di una oligarchia governativa. Le sembra che dopo il referendum del 4 dicembre sia cambiato qualcosa? Crede che chiunque vada al governo segua questa prassi ormai consolidata?

La crisi del Parlamento, l’istituzione centrale della moderna democrazia rappresentativa, precede addirittura la crisi dei partiti. Sono stati i partiti, nel secondo dopoguerra, a rivitalizzare il Parlamento che non aveva retto la sfida dell’ingresso delle masse in politica e che era stato completamente asservito dai regimi totalitari. E con la crisi dei partiti degli anni Ottanta anche il Parlamento ha conosciuto una nuova obsolescenza e una perdita di centralità politica a tutto vantaggio del governo. Si tratta di un trend comune all’Occidente, ma accentuatissimo in Italia, dove la critica al parlamentarismo è sempre stata forte, con l’eccezione parziale di una ventina d’anni nel secondo dopoguerra, in chiave tanto di qualunquismo plebeo quanto di efficientismo tecnocratico quanto di autoritarismo repubblicano-gaullista. E non a caso la nuova critica al Parlamento – implicita nelle riforme bocciate il 4 dicembre, che trasferivano anche formalmente tutto il potere al governo – riecheggia, per chi le conosca, queste tradizioni anti-parlamentari, a cui aggiunge nuova virulenza l’esasperazione dei cittadini per i presunti privilegi dei parlamentari. Una indignazione nel merito fuori posto, ma giustificata dal fatto che è a tutti evidente che il Parlamento non sta facendo ciò che dovrebbe: che non rivendica il ruolo (che gli spetta) di centro del sistema politico, e si lascia guidare dal governo (il quale è certamente di fiducia del Parlamento, ma a quest’ultimo, oggi, ha di fatto sottratto l’iniziativa legislativa) e da poteri extraparlamentari come come i «capi» di forze politiche (di partiti personali, in realtà) che dall’esterno del Parlamento pretendono di deciderne le sorti. Come si è visto nella recente vicenda della legge elettorale a cui solo il voto segreto ha potuto mettere un freno, pur senza che dal Parlamento sia partita una proposta alternativa al patto dei «quadrumviri». È chiaro che a un Parlamento così debole i cittadini non perdonando nulla, e che anzi ne mettono in discussione la legittimità.

Si parla spesso di un impoverimento della cultura dei parlamentari italiani. Lei ritiene che si possa parlare di un impoverimento culturale all’interno delle ultime legislature rispetto a quelle, ad esempio, della Prima repubblica? Come contrastare questa deriva?

L’impoverimento culturale dei parlamentari rispetto alla Prima repubblica è del tutto evidente: è sufficiente confrontare i discorsi parlamentari della Prima repubblica con quelli attuali. La povertà del linguaggio, le difficoltà argomentative, l’orizzonte storico e intellettuale ristretto, balzano agli occhi – sono pochissime le eccezioni –. Non solo tutta la società è più incolta – poiché la scuola trasmette forse nozioni ma certo non solide basi di pensiero critico –, ma si sono anche interrotti i tradizionali canali di formazione dell’alta cultura (quella che dovrebbe appartenere a un parlamentare, che non deve essere un professore ma che non può neppure essere uno studente fuoricorso o un chiacchierone da bar) e anche i canali di formazione dei ceti politici (scuole di partito, centri studi, cursus honorum giudiziosamente graduali). Il fatto è che l’attuale forma economica e l’attuale società non vogliono – e quindi non preparano – né ceti intellettuali critici e autorevoli né politici autonomi culturalmente: semmai, vogliono pochi «specialisti», tecnici affidabili che stiano al loro posto; e ne vogliono pochi, perché preferiscono avere a che fare con masse poco colte, immerse nel mondo virtuale e quindi prive di profondità storica, e facilmente aizzabili, con pochi slogan plebei, contro le élites (come dimenticare i «professoroni» di Renzi?).

Ritiene, Galli, che uno dei motivi di sconfitta dei partiti di sinistra risieda anche nel deficit organizzativo interno in merito alla politica di formazione stabile dei futuri quadri e dirigenti? Lo spostamento della formazione da funzione dell’organizzazione del partito a funzione culturale dello stesso può avere contribuito, oltre che a impoverire la qualità dei quadri, anche a rispostare sui ceti borghesi di sinistra piuttosto che sulle classi più umili l’orientamento dei partiti di sinistra?

La sinistra è stata sconfitta dalla Quarta rivoluzione del Novecento, il neoliberismo, perché dapprima non ha visto arrivare la nuova iniziativa capitalistica, la nuova forma sociale ed economica che avanzava, e perché non ha saputo valorizzare la posizione di forza raggiunta a metà degli anni Settanta (alla quale ha appunto reagito il capitale). E perché, in seguito, ha salutato come un evento positivo – non con realismo, quindi, ma con ingenuità unita a masochismo – il neoliberismo, la globalizzazione e lo pseudo-individualismo che l’ha accompagnata, e l’attacco al pensiero critico e al pensiero dialettico: e così ha accettato l’autorappresentazione ideologica del capitale nella sua nuova forma, illudendosi di correggerne le asprezze con la cosiddetta «terza via». In realtà, ha attivamente contribuito alla deregulation che, distruggendo l’equilibrio di Bretton Woods, ha minato il terreno che aveva reso possibile il «compromesso socialdemocratico», la maggiore conquista politica e sociale della sinistra in Occidente: la sinistra ha creduto che la globalizzazione capitalistica estendesse la platea del ceto medio creato dalle politiche keynesiane e non ha capito che l’obiettivo del neoliberismo era ed è distruggere il ceto medio, trasformandolo in una massa di indebitati insicuri (e lo stesso vale per gli strati superiori dei ceti operai). La sinistra ha assecondato l’individualizzazione della società, senza capire che per tale via passava una delle conquiste più importanti del neoliberismo: la scomparsa della dimensione pubblica. La sinistra ha fatto propria la critica neoliberista dei partiti e dei corpi intermedi, con un atteggiamento del tutto suicida. Insomma, la sinistra ha assecondato acriticamente lo spirito del tempo senza nemmeno capirlo, assumendo su di sé le compatibilità del capitale, elevando il mercato a regola e fondamento della società, e così ha perso il luogo, il modo, lo scopo della propria esistenza politica, non ha elaborato analisi sulle contraddizioni della nuova fase del capitalismo e anzi ha negato valore alle categorie intellettuali che potevano sostenere la critica al presente stato di cose. L’autodefinizione della sinistra, oggi, è ridotta a un timido riferimento a «valori» talmente generici da risultare politicamente inutili, e l’affermazione, peraltro sempre smentita nei fatti, che «sinistra è stare dalla parte degli ultimi» – tesi estranea alla tradizione della sinistra, che si è sempre posta il problema di capire i meccanismi strutturali che portano al formarsi di ceti che sono «deboli» pur essendo centrali nel sistema produttivo, e che si è sempre data la finalità di trasformarli in soggetti politici protagonisti della storia –.

Ritiene che le categorie gramsciane siano ancora valide per l’analisi della situazione attuale? Lei come spiegherebbe alcuni fenomeni odierni attraverso il pensiero di Gramsci? Se può, fornisca degli esempi.

Sono molte e assai variegate le categorie gramsciane. In generale, va ricordato che Gramsci pensava il suo tempo, ovvero la scelta del capitalismo di abbandonare il liberalismo e di darsi forme autoritarie – sotto la pressione di trasformazioni del regime di fabbrica (il fordismo), dell’avvento politico delle masse (il nazionalismo e il socialismo) e della grande crisi economica –. Davanti a queste grandi trasformazioni Gramsci ha capito che doveva competere con esse alla loro stessa altezza; che non doveva ritrarsi in una riserva indiana, politica e intellettuale; che doveva re-interpretare l’auto-interpretazione del capitalismo, ovvero doveva prendere sul serio il suo modo di produzione, la sua politica, la sua società , la sua storia, la sua cultura, per coglierne le contraddizioni determinate, e riscrivere così la storia da un punto di vista alternativo eppure concreto, non utopistico; che doveva anche riscrivere l’agenda della sinistra, puntando a fare uno Stato nuovo, democratico (a egemonia proletaria), e a uscire da ribellismi e mitologie rivoluzionarie. Pensiero e azione, volontà e progetto, storia e decisione, si uniscono in una prospettiva politica e filosofica originale, nata in una tragica sconfitta, dentro un carcere, eppure capace, già a meno di dieci anni dalla morte di Gramsci, di costituire una delle colonne portanti del primo Stato democratico della storia d’Italia. Gramsci pensava a una politica fortissima, capace di cambiare il mondo; non a rispettare le compatibilità del capitale (a conoscerle, sì). Fare paragoni con l’oggi è impietoso: Gramsci non si sarebbe sognato di pensare a un partito «leggero», a gruppi dirigenti improvvisati, alla sottovalutazione della cultura da parte dei dirigenti politici; non avrebbe mai abbracciato una interpretazione non conflittuale della società: pur nella sua prospettiva nazionalpopolare di ricostituzione di una società larga, pensava all’esigenza di un’egemonia che la orientasse, di una politica specifica che la guidasse. Pur non indulgendo alla critica della tecnica, non pensava che la politica dovesse cederle il passo. Tenere fermo tutto ciò in un’epoca diversa, la nostra, caratterizzata da un diverso impianto della produzione, nell’età non della meccanica e del fordismo ma dell’elettronica e del lavoro spezzettato, in una società non dei partiti ma degli individui (o presunti tali), nell’età della globalizzazione che ha cambiato il rapporto fra Stato ed economia, non è facile. E richiede imponenti supplementi d’analisi. Ma l’idea che la sinistra tragga senso dal proporsi come alternativa ai rapporti economici e politici attuali, sulla base di una soggettività collettiva impegnata in un’azione emancipativa, ovvero che la sinistra sia una ripoliticizzazione conflittuale della società e in prospettiva dello Stato, non può essere dismessa, pena l’adesione di fatto ai postulati del potere liberista (che cioè la società non esiste, che il mercato è il supremo regolatore delle nostre vite e che le sue compatibilità sono indiscutibili, che non c’è alternativa, che non c’è conflitto di classe, che la disuguaglianza è un bene, che la democrazia è un lusso tendenzialmente superfluo). Come si vede, se si accettano queste premesse la sinistra è da rifare.

Socialismo sono i lavoratori che si impadroniscono dei mezzi di produzione. Lo statalismo ha prodotto l’URSS. C’è un’alternativa?

Se la contraddizione centrale del capitalismo è l’appropriazione privata del plusvalore socialmente prodotto, e se quindi non si può dismettere la prospettiva di una «società regolata», diversa da quella giungla che è oggi la nostra società, ciò non implica che la soluzione sia l’economia di comando in stile sovietico, con quanto ne è conseguito sul piano politico. La politicizzazione della società, a partire dai rapporti economici, è il vero obiettivo, il che equivale a impedire all’economia di presentarsi come forza autonoma valida in ultima istanza per l’intera società, e di far valere incondizionatamente gli interessi privati che essa incorpora in sé. Si può rilanciare il conflitto sociale, che ha mille motivi di manifestarsi; si può allargare l’intervento economico dello Stato, per quanto riguarda sia gli investimenti sia la fiscalità volta alla redistribuzione (senza la quale la crescita del Pil, se c’è, non ha positivo rilievo sociale); lo Stato – che può essere democratizzato, sia pure a fatica, mentre il mercato in quanto tale non può esserlo – può orientare lo sviluppo in una direzione o in un’altra; ambiti significativi della società possono essere sottratti all’imperativo economico e indirizzati alla piena crescita umana (scuola, sanità, beni culturali e ambiente). Soprattutto si tratta di rivalutare la dimensione pubblica (statale o collettiva, ovvero attraverso partiti e movimenti) come orizzonte di sviluppo della civiltà, che è oggi immiserita nell’angustia di un individualismo patologico e ossessivo, che peraltro viene ogni giorno smentito dal prevalere di giganteschi poteri sulle persone reali. Un’impresa di liberazione dell’uomo dalle maglie del pensiero unico e dallo sfruttamento colonizzatorio di ogni spazio vitale, ossia un’impresa di esplicito riconoscimento e di realistico contrasto delle attuali forme di «reificazione attraverso la individualizzazione subalterna», con l’obiettivo finale che gli uomini e le donne vivano in una società di cui si riconoscano autori e protagonisti, e che non gravi su di essi come una oscura forza naturale: questa è la linea strategica della sinistra, oggi. Obiettivi umanistici, quindi, perseguiti con cultura critica, serietà organizzativa, tenacia strategica, conflittualità non occasionale. L’URSS, da parte sua, è parte di una storia di liberazione che si è presto impigliata nell’oppressione per cause storiche sia remote sia contingenti: col suo comunismo militarizzato è stata un mito, ma non è un destino. I tratti illiberali della sinistra sono in linea di principio accidentali, per quanto gravi e frequenti, e non derivano necessariamente dalla sua critica al liberalismo, che è una critica di superamento, non di negazione.

In quello che sembra un ritorno al protezionismo e a un’idea degli Stati-nazione e dei confini come perno dell’agire politico, quali proposte può avanzare la sinistra del XXI secolo all’interno di questo scenario? Esiste, secondo lei, uno spazio politico per la sinistra all’interno di questo contesto?

Sono un convinto statalista. Delle grandi costruzioni della modernità – oltre allo Stato, il mercato, il partito, la tecnoscienza – lo Stato è l’unica (insieme al partito, ma meglio di questo) che, con enorme fatica e non senza contraddizioni, può essere democratizzata. La sinistra è nata anche contro lo Stato, strumento di dominio e di oppressione dei ceti padronali; ma si è presto conciliata con lo Stato, che, una volta governato da partiti di sinistra, si è dimostrato una potente macchina di inclusione sociale degli strati deboli della popolazione e di produzione di maggiore uguaglianza sociale. Lo Stato non esaurisce la politica e non coincide con tutta la sfera pubblica; ma ne fa parte integrante, e la sua obsolescenza è molto più una interessata narrazione neoliberista che una verità assodata. Se è vero che il livello dell’azione politica è nelle periferie delle città, nei movimenti transnazionali e nelle istituzioni sovranazionali, è anche vero che se non può contare sul potere dello Stato, e anzi se lo ha contro, la sinistra non ha né presente né futuro. È solo grazie allo Stato, e al partito che ne controlla democraticamente i poteri (ma non quello giudiziario), che si può istituire un credibile argine al dilagare del potere economico e mediatico. Solo agendo sul potere politico-statale si può aprire una breccia nel conglomerato di politica, economia, narrazione, che è il blocco onni-inclusivo del potere contemporaneo. Ed è vero, infine, che anche la prospettiva politica più ardita (e improbabile) che possiamo intravedere, cioè gli Stati Uniti d’Europa, ha senso solo se esistono, appunto, gli Stati contraenti con la loro volontà politica. Ed è vero, per converso, che il globalismo di sinistra rischia di essere l’altra faccia del globalismo come è narrato dal capitale – che in realtà da parte sua, nonostante la propria proclamata autosufficienza, dello Stato si serve abbondantemente (e non potrebbe essere altrimenti) e sempre di più si servirà – naturalmente in una versione penale ed emergenziale da rifiutare in toto – proprio per il relativo raffreddarsi della globalizzazione e per l’emergere in essa di linee di conflitto politiche che vedono coinvolti sia Stati sia bande armate post o pre-statuali -.

Quali testi e autori consiglierebbe a chi volesse intraprendere lo studio della Storia delle dottrine politiche? Quali invece a chi voglia avvicinarsi a una politica di militanza? Se oggi lei fosse direttore di una scuola politica simile a Frattocchie, su quali autori indirizzerebbe l’attenzione dei suoi allievi?

Secondo una celebre affermazione di Engels, il movimento operaio è l’erede dell’illuminismo francese, dell’economia politica inglese, della filosofia classica tedesca. Cioè deve essere all’altezza dello sviluppo intellettuale più avanzato della modernità, per reinterpretarlo in chiave emancipatoria. Oggi, la sinistra – che essa coincida col movimento operaio o piuttosto con l’ansia di liberazione di strati più larghi e meno omogenei della società – ha il medesimo compito. E alla ricapitolazione critica della modernità deve aggiungere anche la prospettiva, tutta novecentesca, della sua decostruzione – ponendo la massima attenzione a non cadere nella trappola post-moderna, cioè nella perdita di ogni possibilità di prospettiva critica, e quindi stando più che attenta a evitare la subalterna accettazione acritica del presente -. Compito difficile, al limite dell’aporia, come del resto è ambiziosissimo l’obiettivo politico e intellettuale che la sinistra si deve porre. Detto questo, all’elenco di Engels non si può non aggiungere il marxismo occidentale, e il confronto critico con la linea nietzschiana e heideggeriana, come non possono essere trascurati i classici moderni della sociologia, della scienza politica, e della storiografia economica e politica. Si dirà che quanto ho detto implica corsi di studi equivalenti a un paio di lauree, in Filosofia e in Scienze politiche. Ed è vero. Ma è anche vero che docenti esperti e discenti motivati possono, con un percorso concentrato ripreso nel tempo, in quattro o cinque cicli, affrontare alcuni nodi strategici dello sviluppo intellettuale della modernità e delle prospettive della contemporaneità. E soprattutto è vero che la stessa istituzione di una seria scuola di partito (non dei surrogati mediatici che oggi sono proposti) significherebbe che è risultata vincente l’idea «rivoluzionaria» che la politica, oltre che un confronto ininterrotto con la contingenza, è anche la decifrazione del presente con strumenti intellettuali complessi – perché il presente è oscuro, ma non sottratto a priori alla fatica del concetto -. Questo approccio critico alla politica è appunto ciò che l’attuale sistema di potere vieta in ogni modo: poiché a questo divieto si è da tempo felicemente accodata anche la sinistra, prigioniera del tatticismo più pigro, del «presentismo» più cieco, del nuovismo più stucchevole, del plebeismo più ambiguo, invertire questo trend è il primo, indispensabile, passo emancipatorio. È anche attraverso questo metodo che si può dare forma al soggetto sociale e politico di sinistra, sottraendolo alla anomia intellettuale e al qualunquismo a cui oggi è facilmente indotto.

Se poniamo come dato di fatto il declino delle forme di partito tradizionale, quali sarebbero, secondo lei, le modalità di organizzazione più consone per la sinistra contemporanea?

Non esiste sinistra senza sfera pubblica; e non esiste sinistra che non si ponga in relazione forte con lo Stato. Non esiste sinistra che aderisca all’ideologia neoliberista della «società degli individui» e della «società liquida», che non veda le terribili e invincibili disuguaglianze che strutturano la società attuale in strati ancora più solidi delle vecchie classi; non esiste sinistra che aderisca all’ideologia della competizione e della valutazione, e della neutralità e inevitabilità del sistema capitalistico. Non esiste sinistra senza una reale, concreta, approfondita capacità di critica e senza una reale spinta ad affermare il proprio linguaggio e la propria lettura della realtà. Non esiste sinistra senza che sia dissipata la tesi che destra e sinistra non esistono più, sostituite dal cleavage sistema/antisistema, civiltà/barbarie. Non esiste, infine, sinistra senza che si acceda anche all’idea di partito organizzato che organizza parti di società, senza sospetti divieti preventivi, senza interessati anatemi, senza compiaciuti scetticismi. La crisi dei partiti è in parte reale e in parte, invece, indotta e narrata dal neoliberismo e dai media mainstream: la leadership solitaria che si rivolge mediaticamente a folle scomposte e occasionali non sarà mai di sinistra. Ciò non significa che i partiti esistenti non possano perire per inadeguatezza, e che nuove formazioni non possano prenderne il posto, come forse in qualche modo sta avvenendo in alcuni Paesi, fra i quali purtroppo non c’è ancora l’Italia. Detto questo, tutto quanto va nella direzione di ripoliticizzare la società è da salutare con favore: ed è necessario dialogare con tutti i soggetti che si formano nella società, al fine di mettere a frutto l’energia di tutti. Quindi partiti e movimenti, forme associative spontanee della società civile e sindacati, tutto è indispensabile per raggiungere l’obiettivo di spezzare solitudine e subalternità, e ricostituire la nervatura politica di una società non rassegnata.

L’intervista è in corso di pubblicazione in «http://www.sinistra21.it» 

Carlo Galli, un professore in Parlamento: «La politica di oggi? Senza cultura e senza immaginazione»

Intervista con Alessandro Franzi

«La politica italiana manca di immaginazione. Si basa soprattutto sui tatticismi, sui piccoli calcoli: ci sono le vecchie volpi che la sanno sempre lunga e pensano di sapere che cosa sta succedendo nella società. Ma poi vengono prese in contropiede dalla realtà». Carlo Galli, 66 anni, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, autore di numerosi studi sulla filosofia del potere, è abituato per formazione personale a misurare le parole. Ma dal 2013 Galli non è più solo un professore. È anche deputato di una delle legislature più tormentate della storia repubblicana. Eletto come indipendente nel Pd, è passato nel novembre 2015 nel gruppo di Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia e Libertà. Ora, sempre come indipendente, è entrato nel gruppo del Movimento Democratici e Progressisti, nato dopo la scissione del Pd. Così, oltre a misurare le parole, Galli ha potuto misurare da vicino anche i fatti, spesso meno nobili delle idee. In un libro, ha raccontato questi quattro anni da outsider in Parlamento. È intitolato Democrazia senza popolo, edito da Feltrinelli. Racconta da vicino ascese e cadute dei protagonisti dell’attuale stagione politica, da Bersani a Renzi, da Berlusconi a Salvini, da Monti a Grillo. Una stagione veloce più che riflessiva, fatta di slogan più che di pensiero, di emozione più che di ragione: tutto il contrario di quelli che sono i consueti riferimenti della vita accademica di un professore. Ma la vera rivoluzione (o involuzione) in atto, per Galli è un’altra: la democrazia rappresentativa mantiene la sua facciata, ma è sempre più svuotata di significato, sempre più preda di personalismi e populismi. Ed è la mancanza di pensiero che ha reso cieca e impotente la classe politica di fronte al “massacro” sociale portato dalle politiche neoliberiste. «È come – dice Galli a Linkiesta.it – se a un certo punto avessimo deciso che le grandi questioni erano risolte e che, quindi, bastasse far andare avanti la baracca. Non era così». In Italia, la rottura è coincisa, dice Galli, con la parabola di Matteo Renzi. È la post-democrazia. O forse una “pseudo-democrazia”.

Professore, ci dica intanto una cosa: si è pentito di aver fatto questo ‘salto’ in politica, come lo definisce nel libro?

No, non mi sono pentito, proprio perché l’ho fatto come un salto, come un atto non definitivo. Direi come un’esperienza a livello personale e un servizio per il Paese, se si dice ancora così. Quando mi sono candidato, sapevo bene che il mio mestiere era un altro. Ma ho imparato molto. Si impara sempre.

Quindi meglio chiamarla ancora professore, non deputato…

Sì, nonostante tutto parlo ancora da professore. E me lo fanno sempre notare.

Leggendo il suo libro, salta subito all’occhio una constatazione amara. Sembra che per far politica oggi non serva aver studiato o studiare, anzi il solo pensarlo diventa un impedimento. Ho capito bene?

Premettiamo che di questa cosa non sono contento. Poi, sì, ci sono stati tempi, nemmeno tanto remoti, in cui la politica italiana pur rimanendo autonoma è stata praticata da persone che avevano alle spalle una struttura culturale mediamente solida, insieme a un orizzonte ideale. Queste cose oggi sono fuori moda, sorprendono.

E perché?

Perché nel tempo la politica è stata colonizzata da logiche di tipo economico-gestionali. È come se a un certo punto della nostra esistenza, ma non sappiamo bene quando, avessimo deciso che le grandi questioni erano risolte e che, quindi, bastasse far andare avanti la baracca. Negarlo, dava la patente di stupido o di passatista. Ma i risultati si vedono: selezionare un personale politico senza immaginazione porta all’impoverimento della politica. La mancanza di immaginazione non consente di riconoscere e affrontare i problemi. E i problemi diventano così esplosivi. È quello che sta accadendo.

Nel libro c’è un’altra constatazione: la politica, l’agire politico non esiste più, esistono i personalismi.

Guardi, stiamo vivendo la fine della globalizzazione, la fine dell’euro, la fine probabilmente dello stesso concetto di democrazia che abbiamo conosciuto finora. Ma di fronte a tutto ciò in Italia non c’è un disegno politico.

Ma è possibile che la politica, non solo in Italia, stia rinascendo dal basso, fuori dal palazzo? I voti di protesta o il successo di formazioni anti-sistema potrebbero indicare questo, no?

Certo, la politica non muore. La politica c’è sempre, come la forza di gravità. Il potere e la voglia di contro-potere restano un’esigenza comune dell’umanità. Muoiono invece certi assetti istituzionali, certe forme di rappresentanza, come i partiti. Restano in piedi le istituzioni rappresentative, ma vengono svuotate delle loro funzioni. Ecco la democrazia senza popolo.

Che cosa sta accadendo?

Le società occidentali sono state massacrate dai modelli economici neoliberisti. Anche se stanno conoscendo una ripresa, dopo la lunga crisi, ormai sono considerati modelli economici antisociali. La società se ne è accorta: da qui nascono il disagio e la protesta popolare.

 Perché la politica, quel Parlamento di cui fa parte da quattro anni, non se n’è invece accorta?

Non ci sono più appunto i partiti, che una volta rappresentavano la società e mandavano impulsi al sistema politico.

C’entrerà anche quella mancanza di cultura di cui parlavamo prima, suppongo.

Come le dicevo, non c’è immaginazione, quella cultura sufficiente a decifrare la società. La politica si sta basando soprattutto sui tatticismi: succede generalmente che ci siano le vecchie volpi che la sanno sempre lunga e pensano di sapere che cosa sta succedendo nella società. Infatti, poi, vengono prese in contropiede.

Chi è stato preso più in contropiede in questa legislatura?

Bersani. Perché aveva una proposta socialdemocratica ma il Paese andava nella direzione della protesta. Il presidente Napolitano aveva chiesto al Pd di appoggiare il Governo Monti nel 2011, e il Pd l’ha pagata cara. Altro che vittoria mancata, Grillo stava crescendo di mese in mese ben prima delle elezioni del 2013. Poi, dopo Bersani, c’è stato il grande equivoco Renzi. Il quale faceva, sì, delle politiche liberiste spinte, ma all’inizio piaceva a tanti, perché aveva promesso di cambiare tutto. Solo che in seguito la gente si è accorta che voleva cambiare tutto non per farla stare meglio, ma per far funzionare meglio la macchina neoliberista. Per questo, la gente ha mandato al diavolo Renzi.

Usando il No alla riforma costituzionale, al referendum del 4 dicembre?

Esattamente. Nella testa di Renzi, il combinato disposto fra riforma delle Costituzione e riforma della legge elettorale avrebbe dovuto porre il sigillo a un sistema con un primo ministro onnipotente, il culmine dell’indebolimento delle istituzioni rappresentative. Solo che gli italiani si sono vendicati contro di lui per le promesse mancate.

Ecco, Renzi. Però nel 2014 diventarono tutti o quasi renziani, e per tre anni il governo guidato dal segretario del Pd ha avuto una maggioranza in Parlamento. Come mai?

Bisogna partire dall’inizio della legislatura, lo racconto nel mio libro. Furono mesi di disorientamento totale, le piazze erano inferocite. Non si trovava un presidente della Repubblica, tanto che poi si è dovuto rieleggere Napolitano. E non si trovava un capo del Governo, tanto che poi Napolitano ha nominato Letta. Nessuno si occupava dei parlamentari comuni. In quei mesi non c’era un principio d’ordine, non c’era una linea. Per questo Napolitano, anche se con scelte che possono essere discutibili, è stato indispensabile per non far crollare il sistema.

Renzi arrivò alla fine di quell’anno…

Il governo Letta era stato debole e anche sfortunato. Direi anche che era assai poco avvertito come un governo di sinistra. Aggiungendo a questo la condanna di Berlusconi, a quel punto Renzi, se veniva percepito dai cittadini come un rottamatore, dai parlamentari veniva percepito come quello che metteva a posto la coscienza collettiva. Renzi poteva dare un senso alla legislatura, le dava una legittimità politica, una continuità. Per questo i tanti bersaniani, che erano la maggioranza dei parlamentari Pd, diventarono renziani. Non renziani duri e puri, certo, ma uniti da un matrimonio di interessi, di solito il tipo di matrimonio che dura più a lungo. Del resto, Renzi ha avuto anche una qualità in più di altri.

Quale?

La forza mediatica.

Questo è innegabile.

Attenzione, però: la sua e quella delle forze economiche neoliberiste che hanno scommesso su di lui, lo hanno sostenuto e gli hanno dato spazio. Così c’è stato un momento in cui tutta la politica era nella testa di Renzi. Che è abile e pragmatico, ma non ha un disegno complessivo. Non è Napoleone.

Tutto questo fino alla caduta, al referendum. Fine della parabola?

No, no. Caduto, ma con calma. Perché Renzi ha ancora il predominio all’interno del Pd, anche se ora l’opposizione si muove allo scoperto. I bersaniani se ne sono andati perché Renzi, anche se non era questo il suo disegno, sta perseguendo la strada del proporzionale, per potersi alleare dopo le elezioni e tenere un partito a sua somiglianza.

E lei in tutto questo dove si colloca?

Io sono uscito nel 2015. Adesso sono anche formalmente un indipendente: non sono con Sinistra Italiana di Fratoianni ma sto nel gruppo di Scotto, che si è fuso con quello di Bersani nel Movimento Democratici e Progressisti.

Tante anime, a sinistra. Ce la si farà a ricongiungerle?

È plausibile che Renzi venga rieletto segretario, almeno se avrà abbastanza voti per non dover dipendere dal voto dell’Assemblea.

In Assemblea rischierebbe?

Io, lì, non ci scommetterei più un soldo. Comunque, con un Pd guidato ancora da Renzi penso che sia piuttosto complicato che questo movimento demo-progressista possa tornare insieme. Il destino di Renzi è di allearsi, dopo le elezioni, con Berlusconi. A meno che Berlusconi non vinca, visto che al momento il centrodestra, se unificato, è teoricamente il primo partito italiano.

Fra i suoi libri, ce n’è uno del 2010 sull’intramontata attualità dell’asse destra-sinistra: oggi lo riscriverebbe?

Sì, perché quella divisione c’è, solo che è nascosta.

Ovvero?

Quello che si vede è l’alternativa fra establishment e anti-establishment. Ma la proposta anti-establishment può essere sia di destra sia di sinistra. Uno che negli Stati Uniti avrebbe votato per Sanders può aver votato anche per Trump, salvo poi scoprire che Trump non è esterno all’establishment.

E quando crede che torneranno a differenziarsi, destra e sinistra?

La vera differenza è la critica al neoliberismo. Questo, oggi, è il vero discrimine. Certo, tutto viene coperto da un velo di odio e di rancore calato di fronte agli occhi dei cittadini: oggi chiunque sia contro l’establishment va bene. Quindi, destra-sinistra nell’immediato non emergono. Ma torneranno a emergere. E ci sarà bisogno di una proposta di sinistra che faccia la differenza e dia una risposta a chi ha subito il massacro sociale.

L’intervista è stata pubblicata in «Linkiesta.it» il 4 marzo 2017.

Porte girevoli

ph-19

Esiste un progetto di legge di mia iniziativa il cui titolo è Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa. Questo progetto di legge è stato approvato all’unanimità in sede legislativa dalla Commissione Difesa della Camera il 4 marzo 2015. In entrambi i casi il relatore è stato l’on. Giorgio Zanin (Pd). Assegnato al Senato, in Commissione Difesa, l’11 settembre 2015, da allora non è mai stato calendarizzato né discusso.

La modifica del codice militare interviene su un particolare conflitto d’interessi, differito nel tempo, consistente nel fatto che ufficiali e dirigenti civili, impegnati durante il servizio in attività di procurement militare, possono di fatto transitare, una volta in congedo, alle dipendenze delle medesime imprese del comparto Difesa alle quali fino a poco prima hanno commissionato ordinativi. È evidente che ciò può nuocere alla correttezza dell’amministrazione, istituendo un legame troppo stretto fra Difesa e imprese. Sono le cosiddette revolving doors (porte girevoli): l’interessato esce da una porta, cioè l’amministrazione della Difesa, per entrare nell’altra, cioè l’impresa che produce per la Difesa, un fenomeno che in vari modi è oggetto di attenzione e correzione negli ordinamenti di alcuni Paesi occidentali (non in tutti).

Indagini conoscitive della Commissione Difesa, svolte durante la XVI e la XVII legislatura, avevano auspicato un intervento legislativo sulla materia, anche ai fini di attestare e consolidare l’affidabilità del comparto nazionale della Difesa in sede europea. La «legge Galli» ha quindi previsto — sotto il controllo e le sanzioni dell’Autorità garante della concorrenza — un periodo di mora di tre anni tra l’abbandono del servizio e l’assunzione di incarichi ufficiali presso le imprese della Difesa.

La unanimità dei consensi delle forze politiche, e il via libera dallo stesso governo che ha consentito l’assegnazione alla sede legislativa in Commissione (circostanze entrambe non consuete per un provvedimento presentato da un deputato alla sua prima legislatura) testimoniano dell’equilibrio della norma, che non si presenta come punitiva e che anzi si pone l’obiettivo di affermare l’indipendenza e l’autonomia delle forze armate. Il dirottamento della legge su un binario morto, al Senato, dimostra il venir meno non tanto dell’urgenza del problema, né delle condizioni soggettive del proponente, quanto di un’aliquota della capacità del Parlamento di intervenire nelle questioni della Difesa.

Questo «insabbiamento» può infatti essere visto come una semplice «pigrizia» del Senato, ma è più verosimile che il governo e le forze politiche (probabilmente anche una parte di quelle di opposizione) nutrissero qualche segreta riserva quando apertamente davano il via libera alla legge, alla Camera, e si ripromettessero di bloccarla al Senato. Questo per la crescente tendenza dell’esecutivo (particolarmente dell’ambito militare) ad autonomizzarsi di fatto dal potere legislativo o a vederlo come un socio di minoranza nella gestione del potere. Del resto, le Camere vedono restringere il proprio peso politico anche a livello normativo: ad esempio, la legge sulle missioni militari all’estero accresce il ruolo del presidente del Consiglio affidandogli i decreti di copertura finanziaria (pur soggetti a parere obbligatorio delle Camere). Un trend politico al quale si può, forse, porre rimedio solo attraverso un nuovo protagonismo del Parlamento, del quale non si scorgono però le avvisaglie.

L’intervento è stato pubblicato in «MIL€X 2017. Primo rapporto annuale sulle spese militari italiane», pp. 75-76, a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane.

 

***

Modifiche al codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti di assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte di ufficiali delle Forze armate che cessano dal servizio e di dirigenti civili del Ministero della difesa.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. Al fine di assicurare una maggiore integrazione europea nel settore della difesa, nonché una maggiore efficienza nel controllo dell’operato nel settore del procurement militare e il conseguente rafforzamento delle capacità tecnologiche e industriali nazionali attraverso la previsione di regole che garantiscano la più ampia affidabilità del sistema militare e industriale italiano nelle procedure relative all’approvvigionamento, alla manutenzione e all’ammodernamento di materiali e sistemi d’armamento, dopo l’articolo 982 del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, sono inseriti i seguenti:

«Art. 982-bis. – (Incompatibilità riguardanti il personale militare che abbia rivestito incarichi nei settori della programmazione dei sistemi d’arma e del procurement militare). — 1. Il militare che lascia il servizio con il grado di generale di brigata, di divisione, di corpo d’armata e di generale o grado equivalente, per essere collocato in congedo, in congedo assoluto o in ausiliaria, e durante il servizio, negli ultimi quindici anni, è stato impiegato, indipendentemente dal grado rivestito, anche temporaneamente, in attività collegabili o riconducibili all’individuazione o alla definizione dei requisiti operativi dei sistemi d’arma ovvero alla pianificazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma, delle opere, dei mezzi e dei beni destinati alla difesa nazionale non può, nei tre anni successivi alla data della cessazione dal servizio permanente, ricoprire cariche né esercitare funzioni di presidente, amministratore, liquidatore, sindaco o componente dell’organo di controllo, revisore, direttore generale o centrale né assumere incarichi di consulenza con prestazioni di carattere continuativo o temporaneo presso società, imprese o enti operanti nel settore della difesa. Le disposizioni del primo periodo si applicano al personale ivi indicato anche qualora sia collocato in aspettativa o sospeso dall’impiego.

2. Ai fini del presente articolo, per società, imprese o enti operanti nel settore della difesa si intendono:

a) le società, le imprese o gli enti che forniscono sistemi d’arma complessi e prestazioni di integrazione dei medesimi;

b) le società, le imprese o gli enti che forniscono singoli apparati o sottosistemi dei sistemi d’arma di cui alla lettera a);

c) le società, le imprese o gli enti che producono componenti o prestano servizi per le società, imprese o enti di cui alla lettera a);

d) le società, le imprese o gli enti che operano nella manutenzione dei sistemi d’arma;

e) le società, le imprese o gli enti che prestano attività di consulenza alle società, imprese o enti di cui alle lettere a), b), c) e d).

3. Chiunque assume una delle cariche, funzioni o incarichi indicati al comma 1 in violazione del divieto ivi previsto è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra il doppio e il quadruplo del valore del compenso complessivo annuo previsto per la carica, la funzione o l’incarico.

4. All’accertamento della violazione conseguono la decadenza dalla carica o funzione e l’interdizione dalla prosecuzione del rapporto di lavoro o dell’incarico incompatibile.

Art. 982-ter. – (Poteri di vigilanza e sanzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in relazione alle incompatibilità di cui all’articolo 982-bis). — 1. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato accerta la sussistenza delle situazioni di incompatibilità di cui all’articolo 982-bis e vigila sul rispetto del divieto ivi previsto.

2. Qualora accerti la violazione del divieto previsto all’articolo 982-bis, l’Autorità:

a) applica la sanzione prevista al citato articolo 982-bis, comma 3;

b) dichiara la decadenza dalla carica o funzione ovvero ordina alla società, impresa o ente la cessazione del rapporto di lavoro o dell’incarico ai sensi del citato articolo 982-bis, comma 4.

3. In caso di inottemperanza all’ordine di cui al comma 2, lettera b), del presente articolo, si applica alla società, impresa o ente la sanzione prevista dall’articolo 15, comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287».

 

2. Le disposizioni di cui agli articoli 982-bis e 982-ter del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, introdotti dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche nei confronti dei dirigenti civili che abbiano assunto l’incarico di Segretario generale della difesa e Direttore nazionale degli armamenti o incarichi di direzione o controllo nelle Direzioni generali tecnico-amministrative del Ministero della difesa che operano nel settore del procurement militare.

 

3. Al personale di cui al comma 2 si applicano le sanzioni previste dai medesimi articoli 982-bis e 982-ter del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, introdotti dal comma 1 del presente articolo.

Guerra e popolo nella nuova Costituzione

ph-59

  1. Premesse storiche e teoriche

Il tema della deliberazione dello stato di guerra, di cui all’art. 78 Cost., concerne una questione di principio, al tempo stesso rara e rilevante.

È rara di fatto, perché non riguarda né la lotta al terrorismo né la partecipazione del Paese a missioni militari internazionali, né eventuali misure interne straordinarie di sicurezza, e neppure la pronta risposta operativa ad attacchi subiti dal nostro Paese; ipotesi tutte affidate – e non è qui il caso di esprimere giudizi in merito – o ad atti del governo legittimati o legittimabili da voti del Parlamento, o da decreti legge che richiedono la conversione.

Da un punto di vista storico, non si è mai fatto ricorso all’art. 78, né per la lotta all’eversione interna, per la quale si utilizzò la legge ordinaria – Legge Reale (1975, rivista nel 1977), e legge Pisanu (2005) –, né per la partecipazione dell’Italia a missioni di combattimento in ambito Nato (il contributo dell’Italia all’operazione Allied Force contro la Serbia nel 1999 fu deciso senza una votazione in Parlamento).

La guerra dalla seconda metà del XX secolo ha infatti cambiato forma, e si manifesta con assoluta prevalenza o come missioni di intervento umanitario rivolte alla protezione di popolazioni in situazioni di conflitti interni, o come operazioni asimmetriche, anti-guerriglia e anti-terrorismo; circostanze, queste, che rendono impossibile la dichiarazione di guerra la quale, con la sua formalità e ritualità, implica invece, necessariamente, un rapporto paritario (benché di ostilità) fra Stati legittimi e sovrani, che tali si riconoscono l’un l’altro.

È poi una questione rara di diritto, perché secondo lo spirito dell’art. 11 Cost. l’Italia può intraprendere guerre, in senso proprio, soltanto se queste siano difensive.

A questo proposito è da notare che (ex art. 11, comma 2, Cost.) l’Italia fa parte, come Stato sovrano in posizione di parità con gli altri soci, di un’alleanza militare di difesa collettiva (la Nato) il cui Trattato istitutivo all’art. 5 non prevede, qualora intervenga il casus foederis (cioè un’aggressione subita da uno Stato membro), un automatico ingresso in guerra del Paese (come invece richiedeva l’art. 3 del Patto d’acciaio, la cui natura era totalitaria e rivolta principalmente all’offesa) ma l’obbligo di assistenza fino eventualmente al ricorso alla forza, conservando ciascun contraente la scelta delle modalità di questa assistenza. Anche ammesso in via ipotetica che l’Italia possa entrare formalmente in guerra in virtù della propria appartenenza alla Nato, nell’ambito dell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, non vi è costretta in modo automatico dal Trattato atlantico: la decisione se ricorrere allo jus ad bellum, e con quali modalità farlo, è del tutto sua.

Benché si tratti di una questione quasi solo di principio, che ha poche probabilità di presentarsi realmente, la deliberazione dello stato di guerra è nondimeno una questione rilevante in senso formale e contemporaneamente esistenziale. Infatti, è la più alta manifestazione della sovranità popolare, in quanto implica l’eccezionale e deliberata esposizione dell’intera popolazione a immense distruzioni e a pericoli mortali. E quindi richiede una decisione democratica pubblica e formale, cioè solenne, e riconducibile, per via mediata, alla maggioranza reale del popolo. Non solo si esige il principio di rappresentanza, quindi, ma anche la reale rappresentatività delle istituzioni decidenti.

Ed è rilevante, infine, in senso giuridico, perché la deliberazione parlamentare sullo stato di guerra comporta, secondo l’art. 78 Cost., potenziali modifiche dell’equilibrio costituzionale interno, e del regime dei diritti politici (e forse civili): l’articolo prevede infatti l’attribuzione al governo dei “poteri necessari” per la guerra, che restano indeterminati (il che non è rassicurante), mentre l’art. 60 Cost. rende possibile la proroga, con legge, della durata delle Camere, cioè il rinvio delle elezioni, in caso di guerra (per tacere dell’entrata in vigore del cpmg, le cui sentenze possono non essere ricorribili in Cassazione – ex art. 111 Cost,, comma 2 ).

  1. La tesi

Sul tema della guerra la Costituzione repubblicana introduce due fortissime innovazioni: la prima è che la guerra è ripudiata (art. 11, comma 1) in quanto esercizio sovrano dello jus ad bellum, cioè in quanto normale opzione di gestione degli affari esteri del Paese, e permane quindi, implicitamente, solo come guerra difensiva o derivante dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali di carattere difensivo. La seconda è che, grazie all’art. 78 Cost., la guerra diventa affare di popolo (attraverso il Parlamento) e non più del solo re, anche in quanto titolare del potere esecutivo, com’era secondo l’art. 5 dello Statuto Albertino, che implicitamente unificava deliberazione e dichiarazione di guerra in capo al monarca (non rilevano, qui, le pur importanti evoluzioni della pratica costituzionale al riguardo, di fatto intervenute durante la lunga vigenza dello Statuto). Nulla vale l’obiezione che la guerra sia di pertinenza dell’esecutivo in quanto momento della   politica estera del Paese, che di per sé sarebbe prerogativa del governo: ipotesi del tutto priva di fondamento logico e costituzionale, come appare dalla lettera e dallo spirito dell’art. 78 Cost.

Nella Costituzione repubblicana, a proposito della guerra, il governo è infatti menzionato (art. 78) come destinatario dei poteri di guerra che gli vengono attribuiti dal Parlamento, e non riveste quindi una esplicita funzione propositiva; l’attore centrale e decisivo della deliberazione formale della guerra è il Parlamento, rappresentante politico della sovranità del popolo; l’atto della dichiarazione, seguente alla deliberazione, è affidato (art. 87 Cost.) al Presidente della repubblica, che rappresenta simbolicamente, anche verso l’esterno, l’unità della nazione – ma, benché eletto con maggioranza parlamentare qualificata, non rappresenta la volontà sovrana del popolo, né la può supplire –. La condotta della guerra è infine di pertinenza del governo.

Quindi che la deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento avvenga a maggioranza semplice, secondo quanto è implicito nel testo originario dell’art. 78, non deriva dalla volontà del costituente di ricondurre la guerra alla maggioranza che ha fiduciato il governo; si tratta infatti di una maggioranza parlamentare che, pur coincidendovi numericamente, ha una finalità diversa (appunto, deliberare sulla guerra) da quella che sorregge l’esecutivo. Piuttosto, il dettato costituzionale è da riferirsi all’esigenza democratica che a deliberare sulla guerra debba essere una maggioranza della rappresentanza politica del popolo, per via mediata potenzialmente riferibile alla sua maggioranza reale.

Infatti, le leggi elettorali sono implicite nella Costituzione – ne fanno parte in senso materiale –, e non vi è dubbio che nella nostra fosse implicito, nel momento in cui nacque, un sistema proporzionale privo di aperte correzioni maggioritarie. Per di più, nel 1946 la partecipazione elettorale si era dimostrata altissima (89%), e non vi erano motivi per pensare che non lo sarebbe rimasta, come in effetti per molti anni avvenne. Era quindi sicuramente intento dei costituenti che la deliberazione dello stato di guerra fosse presa dalla rappresentanza popolare (il Parlamento, composto da Camera e Senato) caratterizzata da una specifica rappresentatività.

Oggi invece si va verso l’adozione di una legge elettorale che sacrifica parzialmente la rappresentatività alla governabilità: con il 40% dei voti espressi, per di più in un contesto di crescente disaffezione partecipativa, si potrà legittimamente governare, grazie a un cospicuo premio di maggioranza (che può portare il vincitore fino al 55% dei seggi alla Camera). Che l’esercizio in sicurezza dell’attività di governo, per implementare il programma elettorale, da parte della forza politica che ottiene la maggioranza relativa nel Paese sia nell’attuale fase storica un’esigenza molto presente – un’esigenza sulla quale non si vuole qui esprimere un giudizio in via generale – appare inoltre manifesto anche da disposizioni della stessa legge di riforma costituzionale, in cui è evidente l’aumento di peso del ruolo del governo (ad esempio, il c.d. “voto a data certa”). Un’esigenza che per essere soddisfatta esige un prezzo: ovvero che il circuito della fiducia fra maggioranza parlamentare e governo – che, come si è visto, è in ogni caso estraneo in quanto tale alla deliberazione dello stato di guerra – non sia necessariamente rappresentativo della maggioranza dei cittadini. Se formalmente votata dal Parlamento, e se contenuta entro limiti ragionevoli (come da sentenza della Corte Costituzionale n. 1, 2014), tale diminuzione di rappresentatività della maggioranza parlamentare può essere accettata in via di principio.

Ma proprio per questi motivi la legge elettorale prossima ventura comporta problematiche costituzionali a cui, almeno in parte, si è cercato preventivamente di fare fronte: infatti, per eleggere alcuni organi di garanzia fra cui il Capo dello Stato – che rappresenta l’unità della nazione, e che deve essere l’equilibratore dell’intera macchina politica, e il custode e garante della Costituzione – il testo riformato prevede, giustamente, un innalzamento del quorum richiesto dalla Carta nella sua redazione originaria per non fare del Presidente, e di altri organi di garanzia, l’espressione della maggioranza di governo.

Ebbene, per analogia anche la deliberazione dello stato di guerra esige ratione materiae, ossia per la sua eccezionalità e per la sua rilevanza esistenziale per l’intero popolo, appunto ciò che l’emendamento proposto si ripromette di ottenere: e cioè che la guerra sia decisa da una maggioranza parlamentare – della sola Camera, giustamente, perché solo questa rappresenta, nella Costituzione riformata, la sovranità popolare – diversa nei fini e più larga nei numeri, ossia dotata di maggiore rappresentatività, rispetto a quella che sorregge il governo; precisamente, da una maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera, corrispondente a circa la maggioranza semplice dei cittadini che hanno votato. Ovviamente, se il governo gode, alla Camera, di una maggioranza dei due terzi l’intero ragionamento resta valido in linea di principio ma ai fini pratici ogni questione è superata.

Se quella sulla guerra è una decisione eccezionale ed esistenziale, ciò significa che nel ragionare di essa nel contesto della Costituzione riformata e della legge elettorale imminente si devono certamente accettare il principio di rappresentanza (l’istituzione che decide è la Camera, ovvero la decisione non è affidata all’immediatezza di un plebiscito) e il principio di maggioranza (l’istituzione rappresentativa decide a maggioranza), ma ci si deve anche interrogare sulla rappresentatività empirica del decisore. Senza che venga in alcun modo messo in discussione il principio inderogabile della libertà del mandato parlamentare, che non è coinvolto in questo ragionamento, è politicamente evidente che nel caso della guerra non ci si può chiudere nella logica formale delle istituzioni e del loro funzionamento normale, ma si deve prevedere, a livello di norma costituzionale, un riferimento alla realtà materiale dei diritti e dei beni dei cittadini, per essere certi che, in questo caso peculiare, queste istanze vengano rappresentate all’interno delle istituzioni nel più alto grado e nella pienezza delle modalità. Da qui la richiesta non solo che il quorum sia aggravato ma anche che venga calcolato sugli aventi diritto, e non solo sui deputati presenti in Aula, per far sì che il riferimento (mediato) alla maggioranza dei cittadini sia non solo potenziale (come è se si calcolano solo i presenti) ma verosimile e attuale.

Il fine dell’emendamento è quindi di conservare intatto, ribadendolo e rafforzandolo, lo spirito originario della Costituzione, ovvero che la deliberazione sulla guerra non sia in capo alla maggioranza di governo – che vi è estranea in linea di principio, e che per di più sarà presto una maggioranza artificialmente corretta – ma a una maggioranza del Parlamento che sia rappresentativa della maggioranza reale dei cittadini.

Ai costituenti parve, verosimilmente, di avere sufficientemente solennizzato e democratizzato la deliberazione dello stato di guerra con l’attribuirla integralmente alla rappresentanza del popolo e alla sua interna maggioranza, e quindi mediatamente e potenzialmente alla maggioranza reale dei cittadini. Con il sistema elettorale che ci apprestiamo a introdurre ciò, invece, non sarà più vero: e allora la scelta fra le due maggioranze (quella formale all’interno del Parlamento e quella reale del Paese) dovrà andare, nel caso eccezionale della guerra, senz’altro a favore dell’opzione più democratica, cioè della maggioranza parlamentare doppiamente qualificata (nel quorum e nel riferimento agli aventi diritto), che più si approssima a quella empirica e reale.

In caso contrario, la guerra potrebbe essere deliberata dalla maggioranza parlamentare semplice dei presenti, ovvero in pratica dalla maggioranza di governo, che è l’espressione (legittima, certo) di una minoranza reale nel Paese; e ciò comporterebbe uno squilibrio di potere enorme a favore dell’esecutivo: chi vince le elezioni potrebbe non solo governare nell’ordinario, cioè realizzare il proprio programma elettorale, ma avrebbe a priori anche la certezza di poter dichiarare guerra all’esterno, e comprimere i diritti all’interno, coinvolgendo in una scelta straordinaria ed esistenzialmente gravissima la totalità dei cittadini.

  1. Due argomenti pratico-politici

Un’avversa considerazione potrebbe essere che già oggi, con il Parlamento eletto attraverso la legge Calderoli, la deliberazione dello stato di guerra è potenzialmente alla portata di una forza minoritaria nel Paese che ottenga artificialmente una maggioranza parlamentare. Ma ciò è da una parte impreciso, perché la presenza del Senato paritario (destinato a scomparire) può modificare, e di fatto oggi modifica, questa condizione, e dall’altra è appunto un ottimo motivo perché, nell’occasione della più ampia riforma della Costituzione, si ponga rimedio al vulnus che a suo tempo si è involontariamente generato con l’introduzione di leggi elettorali difformi rispetto a quella implicita nel testo originario della Carta.

Una seconda osservazione, a favore, è che l’attuale alta volatilità delle forze politiche e delle loro fortune elettorali sconsiglia di affidare la deliberazione sullo stato di guerra a una maggioranza parlamentare non realmente rappresentativa della maggioranza del Paese reale. Il rischio che per questa via lo jus ad bellum, con ciò che ne segue anche sul piano interno, finisca in cattive mani sarà remoto, ma non è inesistente, e ciò basta perché ci si cauteli, come si può e finché si è in tempo, sottraendo quel diritto alla guerra a chi artificialmente consegua la maggioranza assoluta alla Camera, e attribuendolo a una maggioranza qualificata.

  1. Conclusione

L’emendamento di cui si propone l’approvazione all’Assemblea non pare quindi né illogico né ideologico né imprudente. Si tratta di riconoscere – accanto alle ragioni del buon funzionamento dell’esecutivo, e al rispetto del principio di maggioranza all’interno della Camera – anche le ragioni della eccezionalità della guerra e di comprendere che tale riconoscimento significa oggi tutelare lo spirito democratico della Costituzione; e che, invece, considerare la questione della guerra in modo formalistico, senza elevare il quorum e senza riferirlo alla totalità dei componenti, è farne surrettiziamente un fatto normale (da gestire all’interno dell’ordinario deficit di rappresentatività che si è scelto di accettare) e non un fatto straordinario (meritevole di essere trattato con attenzione non solo al funzionamento formale delle istituzioni ma anche alla concretezza della vita e dei diritti dei cittadini); in fondo, un atto di governo e non un fatto di popolo.

Infine, se sul tema della guerra si rinunciasse a prevedere una più ampia rappresentatività del decisore sarebbe contraddetta la civiltà giuridica democratica che informa la Costituzione, la quale altro non è, a sua volta, se non il distillato teorico e pratico, passato attraverso le più dure prove della storia, di quel sapere illuministico, supremamente moderno, che faceva dire a Kant, in Per la pace perpetua: “in uno Stato a costituzione repubblicana la decisione di intraprendere o no la guerra può avvenire soltanto sulla base dell’assenso dei cittadini”.

Questo testo, pubblicato in ideecontroluce.itillustra le ragioni di un emendamento all’art. 78 della Costituzione sulla deliberazione dello stato di guerra, presentato da Carlo Galli e da altri deputati di Pd, Sel, M5S, e volto a far salire a due terzi dei componenti della Camera il quorum necessario alla deliberazione. 

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