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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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PCI

Sovranità e sovranismo

Intervista con Nicola Mirenzi

«Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista, dai più accesi mondialisti». Storico delle dottrine politiche all’Università di Bologna, interprete del pensiero moderno e contemporaneo, il professor Carlo Galli sostiene che, dopo il crollo del muro di Berlino, l’adesione entusiastica alla globalizzazione dei partiti ex comunisti, socialisti e laburisti europei li abbia “impiccati” a un modello che si è “sfasciato”, facendogli perdere il senso dell’orientamento: «La sovranità è un concetto talmente democratico che è richiamato nel primo articolo della nostra Costituzione. Oggi, invece, chiunque contesti la mondializzazione viene considerato un fascista. Storicamente, però, la sinistra ha, nei fatti, avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato: basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla Nato e, per molti anni, al Mercato comune europeo».

Secondo Galli, la notizia della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra è fortemente esagerata, e sabato, a Lecce, terrà una lectio magistralis – che anticipa ad HuffPost – per dimostrarlo: «Il diavolo per prima cosa nega che il diavolo esista. Così accade per la differenza tra destra e sinistra: la destra nega che esistano la destra e la sinistra. E la sinistra cade in questo tranello. Ci sarà sempre una differenza di potere tra chi controlla il capitale e chi dal capitale è controllato. Tra chi produce valore lavorando e chi di quel valore si appropria. Per questo la distinzione tra destra e sinistra non scomparirà mai, all’interno di questo paradigma economico e politico».

La contrapposizione tra popolo ed élite è falsa?

È vera, e si aggiunge alla tradizionale frattura tra destra e sinistra, attraversando entrambi i fronti. Ci sono movimenti cosiddetti populisti che, infatti, sono più di destra; e altri che sono più di sinistra.

Perché la sinistra è più in difficoltà allora?

Perché la sua pigrizia mentale le fa considerare la richiesta di protezione – che c’è nella società – come un istinto razzistico, o xenofobo.

Non ci sono queste pulsioni?

No, ci sono anche queste pulsioni nella società: ma è scellerato dare questo nome alle legittime richieste di sicurezza sociale che vengono da quelle persone le cui vite sono state sempre più esposte all’incertezza dalla crisi che è insita nel paradigma economico dominante.

Perché la sinistra non intercetta più queste domande?

Perché, soprattutto la sinistra italiana, ha smesso di analizzare la realtà: preferisce nascondersi dietro il vecchissimo copione dell’antifascismo moralistico e considerare più della metà dei cittadini italiani barbari che stanno assaltando le fondamenta della civiltà. Ma quello che sta accadendo – l’abbiamo visto alle elezioni del 4 marzo – non è una sventura inviataci dal cielo: è il prodotto di fenomeni che si sono verificati dentro la nostra società.

La destra è più capace di comprendere la realtà?

No, ma non ne ha bisogno, perché le basta essere spregiudicata. La destra politica riconosce e dà un nome alle inquietudini del nostro tempo, ma in realtà fornisce dei capri espiatori. Oggi sono gli immigrati, i complotti della finanza internazionale, il politicamente corretto. E se a volte la destra politica si spinge ad accusare il capitalismo finanziario, non giunge mai a una critica del capitalismo in quanto tale.

Perché il capitalismo dovrebbe essere considerato un nemico?

Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti.

A volte, però, gli Stati hanno meno forza delle multinazionali.

Ma spesso nemmeno provano a scontrarsi con questi colossi. Cedono preventivamente. Anche se non è detto che siano sempre destinati a perdere il duello.

Un’Europa più sovrana avrebbe più potere negoziale?

In teoria, sì.

E in pratica?

In pratica, nessuno Stato europeo ha veramente in agenda la costruzione di una sovranità europea. Anche perché la costruzione della sovranità è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli Stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, di detenere il monopolio della violenza, di individuare gli interessi strategici di una comunità.

Senza sangue l’Europa politica non nascerà mai?

È molto difficile che la formazione di una sovranità europea possa accadere senza conflitto; anzi, se si guarda alle carneficine che sono avvenute nella storia, è difficile augurarsi che ciò accada.

Eppure, il parlamento europeo ha condannato uno dei suoi membri, l’Ungheria di Viktor Orbán.

Orbán è un leader detestabile, degno erede della lunga tradizione autoritaria ungherese. Tuttavia, la condanna europea è controproducente, e perciò sbagliata. Ogni volta che un’entità sovranazionale ha giudicato e punito uno Stato – pensi alle sanzioni inferte dalla Società delle nazioni al regime fascista – non ha ottenuto altro risultato che compattare la nazione intorno al proprio capo. Anche nel caso del giudizio espresso dall’Onu sull’Italia («è un Paese razzista»), si deve evitare di cadere nel ridicolo.

Qualcuno l’ha mai accusata di essere un populista?

No, anzi sono stato spesso tacciato di élitismo. Ma le élites devono capire e guidare la società, non condannarla.

Nella scorsa legislatura è stato eletto con il Pd.

Ne sono uscito dopo due anni e mezzo per entrare prima nel gruppo di Sinistra italiana, poi di Articolo 1, dal momento che nel partito democratico è rimasto assai poco della tradizione di sinistra.

Lei, invece, che cosa conserva?

Il metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci, benché in modo non dogmatico e arricchendolo di altri apporti.

In che cosa consiste?

Nel comprendere i fenomeni politici e sociali e le loro contraddizioni senza dare giudizi morali, poiché la politica non si fa con i padrenostri.

L’intervista è stata pubblicata in «Huffingtonpost.it» il 13 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

La sconfitta del «sistema»

 

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.

A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobs act è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.

Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza. Un’impotenza di fondo, quindi, quella della sinistra, per sopperire alla quale si è fatto ricorso a temi laterali, come lo ius soli e perfino l’antifascismo, che in realtà svelano una concreta incapacità di entrare in empatia con gli italiani e con i loro problemi. Cosa che è riuscita, con la consueta abilità, alle destre e ai qualunquisti, che hanno immediatamente colto che il primo problema dell’Italia è la sicurezza – dove per «sicurezza» dobbiamo intendere le sicurezze esistenziali (cioè la sicurezza del lavoro, della sanità, del Welfare, oltre alla tutela delle libertà personali), una volta assicurate le quali c’è anche la capacità e l’attitudine all’accoglienza. Quella della sinistra è stata davvero una campagna elettorale di carattere moralistico. Naturalmente, quella dei qualunquisti e della destra è una «sicurezza» a sua volta parziale e propagandistica. Il che, ovviamente, non ha impedito che sui fallimenti della destra economica, che da decenni comanda in Europa e che è la portatrice del progetto neoliberista e ordoliberista dell’euro, si siano infilati, secondo un modello classico, la destra politica e i qualunquisti. La sinistra è rimasta a guardare, perché non è in grado di fare analisi politica, economica, strategica, delle dinamiche storiche contemporanee. E senza analisi non c’è linea politica.

Occorre, pertanto, avere chiaro che il problema teorico e politico di fondo è che la sinistra non sa che cosa vuole e che cosa vuole essere; a quale tipo di bisogno vuole rispondere. A ben vedere, oggi siamo davanti alla débâcle del ceto politico postcomunista, che ha dato origine al Pd senza però riuscire a fondare una prospettiva politica vincente, e che alla fine è stato sconfitto dall’altra componente, inizialmente minoritaria, dello stesso Pd – quella degli ex DC –. Ma anche questi, oggi, non riescono più a parlare agli italiani.

Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti. Oggi l’Italia chiede protezione, in modalità differenti, se non opposte, in relazione ai propri spazi sociopolitici. Il Sud, dove la società è fragile, chiede, con il M5S, un sostegno economico vitale, una vera rendita politica. Il Nord, dove la società è più forte, chiede, con la Lega, efficienza e lotta al degrado. Chiede ovunque più Stato, e un rinnovo radicale delle classi politiche ormai delegittimate, anche se in due direzioni diverse.

In realtà, il principale problema da porsi è se il modello economico che è entrato in crisi sia riformabile, o se invece abbia finito di produrre effetti positivi. Un sistema che – è bene ricordarlo – è stato almeno simbolicamente rifiutato nel Regno Unito, non certo orientato in senso europeo; che in Francia ancora funziona grazie al meccanismo elettorale, che è una sorta di ingessatura della società e che fa sì che il Presidente della Repubblica governi con nemmeno il 25 per cento dei consensi; e che in Germania costringe i due principali partiti, un tempo concorrenti – SPD, CDU-CSU –, alla Grosse Koalition, un taglio delle ali che ha un costo politico-sociale enorme (e che vedrà la crescita della destra antisistema).

Insomma, nei principali Paesi europei, con le ovvie differenze che li connotano, il sistema economico-politico vigente sta perdendo colpi. Tutti sanno che c’è un problema strutturale nell’Europa, e in generale nel neoliberismo, capace – quando ci riesce – di generare soltanto un’occupazione sempre più degradata, sempre meno pagata, sempre più precaria. Un sistema nel quale le disuguaglianze aumentano, e l’ascensore sociale è bloccato. Tutto ciò pone sfide radicali alle quali si può rispondere con i sermoni e con l’antifascismo – come nella recente campagna elettorale –; oppure – come io credo – con un vero antiliberismo, con analisi che spieghino perché mai gli italiani sono diventati “cattivi”. Dire che gli italiani si sono “incattiviti”, infatti, non è una analisi politologica; bisognerebbe capire la causa del fenomeno. Tutto ciò è stato presente in campagna elettorale? No, ma era presente nella testa degli italiani, e lo si è visto.

Ora il problema non è solo quello, pur grave, di formare il governo. Al riguardo sono già iniziate le minacce di Bruxelles, all’ombra delle quali si svolgono le trattative tra forze politiche che non hanno in realtà grandi spazi di manovra, perché tanto il M5S quanto la destra non potranno certo governare insieme a quel Pd contro il quale si sono espressi i loro elettori. Il problema è come si esce dalla trappola in cui siamo finiti senza che una nuova folle austerità finisca di distruggere la nostra società e di generare altra e più grave protesta. Quanto al Pd, o viene radicalmente rifondato o è destinato alla progressiva irrilevanza.

Brisighella, i comunisti nella terra dei preti

Non è un’operazione nostalgia quella di Visani e Baldi, un «come eravamo» carico di rimpianti. È una documentazione prosopografica – cioè compiuta attraverso la ricostruzione dei profili di alcune personalità – di una storia: quella di un paese, Brisighella, in cui, per una serie di circostanze storiche legate al forte insediamento cattolico (vi sono nati sette cardinali), il Pci, a differenza di quanto avvenne in quasi tutta l’Emilia-Romagna, fu a lungo all’opposizione – sia pure con percentuali elettorali molto alte – rispetto a una Dc particolarmente radicata. Attraverso ricordi personali, di familiari, di amici, il libro ricostruisce insomma numerose vicende umane e politiche, di lotta, di Resistenza, di militanza, e di amministrazione civica (dagli anni Settanta).

Emergono così dal passato figure e memorie di martiri torturati a morte (Luigi Fontana) e imprigionati (Amedeo Liverani, Luigi Bandini, Gildo Montevecchi) dal fascismo trionfante; di uccisi dal fascismo declinante durante la lotta di Liberazione (Renato Emaldi); di partigiani poi divenuti dirigenti politici e sindacali (Sesto Liverani, Aldo Gagliani, Mario Marabini, Sergio Laghi, Sante Moretti, Amos Piancastelli); storie di fede politica semplice, di militanza e a volte di eroismi senza protagonismo, di lavoro durissimo in una terra povera, di generosa disponibilità al volontariato per la costruzione di Case del Popolo e per la gestione delle Feste dell’Unità, di partecipazione alla vita del partito e del sindacato.

Nulla di diverso da quanto accadeva in tutta l’Emilia-Romagna, insomma, anche dove i rapporti di forza erano più favorevoli alla sinistra. Una storia di emancipazione faticosa, di trasformazione lenta di costumi e di stili di vita segnati inizialmente da passività e da tradizionalismo e poi modificati in senso progressivo appunto dalla maturazione politica e dalla presa di coscienza, dapprima pionieristiche e poi di massa, dal protagonismo individuale, familiare e collettivo, che la politica ha prodotto e assecondato – ovviamente, una trasformazione resa possibile, a livello più generale, dal contesto democratico nazionale e da un’economia che pur nelle sue storture e contraddizioni ha avuto anche effetti modernizzanti, oltre che dalla buona amministrazione gestita dalla sinistra a livello provinciale e regionale, ma anche da una Dc fortemente controllata dalla minoranza comunista, a livello comunale –.

Una storia locale che è anche uno specchio in chiave minore di una storia regionale e nazionale, quindi. E che si caratterizza non tanto per i contorni a volte folkloristici e neppure per i tratti di umana simpatia o di affettuosa vicinanza degli autori ai personaggi narrati – tratti nondimeno presenti, che danno sapore di autenticità al libro –, ma per una evidentissima compenetrazione di politica e vita, di percorsi individuali e di legami comunitari, di serietà esistenziale e di fiduciosa apertura sull’avvenire, di lotta per il progresso e di adesione alle radici di una collettività coesa e consapevole. Ciò che emerge, e che davvero suscita rispetto e commozione, è il compenetrarsi della politica con la vita, della forza di un’idea, di una organizzazione, di un progetto, con la spontaneità e con la quotidianità delle vicende individuali, familiari, sociali, e con la tenacia delle amicizie e delle vicinanze durate decenni.

Al di là dell’ammirazione per le persone e per la loro operosità, al di là del giudizio storico sulla capacità della sinistra di costruire una società cosciente di sé dove c’erano quasi solo miseria e ignoranza, al di là anche di ogni nostalgia per un passato in cui l’Italia, l’Emilia-Romagna e i suoi borghi, seppero crescere con un qualche senso comune, è di questo intrecciarsi di politica e vita che oggi sentiamo la mancanza, nello sbandamento dello pseudo-individualismo di massa, nell’universale subalternità a logiche e a potenze e a narrazioni che ci trascendono e ci impediscono (o lo vorrebbero fare) ogni protagonismo, ogni tentativo di costruire di nuovo il nostro destino individuale e collettivo. La mancanza, insomma, di una politica pienamente legittimata perché vissuta come parte integrante di un percorso di crescita di tutti e di ciascuno, che questo libro ci mostra nel passato non poi remotissimo, a Brisighella, e che non dobbiamo disperare di poter vedere all’opera anche nelle mutate circostanze del presente.

Claudio Visani – Viscardo Baldi, I comunisti nella terra dei preti. Storia e personaggi del Pci. Brisighella, 1921-1991, con una Prefazione di Vasco Errani e una Postfazione di Dianella Gagliani, Faenza, 2017, pp. 224, euro 15.

La recensione è stata pubblicata in «Strisciarossa» il 28 ottobre 2017

 

Difficoltà e prospettive della sinistra

Il nuovo soggetto politico che si forma a sinistra del Pd è nella condizione di «stato nascente», ovvero è indeterminato e aperto a molte soluzioni. L’altra caratteristica dello stato nascente, ovvero la ricchezza esplosiva d’energia, è invece assente.

Quindi, l’indeterminatezza si trasforma in difficoltà, in incertezze. Come si è già visto in altri recenti tentativi di far nascere soggettività politiche a sinistra, anche in questo caso – con un imbarazzante effetto di deja vu – non si riesce a decifrare ciò che avviene (la «fase») né ciò che si deve fare (la strategia, prima ancora che la «linea»).

All’apparenza, o meglio a un primo livello, la difficoltà sembra consistere nel dualismo fra la linea «Pisapia» e la linea «Mdp». Dove il primo elemento implicherebbe la «novità» (per quanto mediaticamente costruita) e il «campo largo», cioè l’uscita, almeno tentata, dal perimetro della sinistra tradizionale (posto che lo si possa ancora definire); mentre il secondo rinvierebbe all’organizzazione efficace sul territorio, a figure dirigenziali più sperimentate (o più logorate) come Bersani e D’Alema, e a una connotazione più centrata sul «ceto politico». La strategia in entrambi i casi è indicata come la «ricostituzione del centrosinistra» (con o senza trattino, a seconda che si pensi ad alleanze post-elettorali col Pd, o invece a costituirsi come autonomi e alternativi ad esso – cioè come il «vero» centrosinistra, dato che il Pd ha tradito la sua mission originaria – ).

Questo dualismo, ormai esplicitato con chiarezza, si è spinto fino all’ipotesi di preventivo scioglimento di Mdp nel nuovo contenitore «Insieme», ipotesi rinviata a tempi più maturi, ma non respinta, perché è chiaro che non si potrà andare alle elezioni, né da nessuna altra parte, con una federazione di sigle priva di progetto. Ad esso si aggiunge la difficoltà di rapporto con Sinistra italiana e col movimento di Falcone e Montanari, che forse potrebbero prestarsi a essere l’ala sinistra dell’eventuale nuovo soggetto unitario di centrosinistra, ma non sarebbero disposti ad allearsi con il Pd. Da qui discende la difficoltà di decidere o di prevedere se alle elezioni vi sarà una lista a sinistra del Pd, oppure due.

Ma a monte di queste difficoltà di tattica politica stanno difficoltà strategiche. Difficoltà a misurare bene la crisi del neoliberismo, aggravata dalle pastoie dell’ordoliberismo, che è una crisi della società intera, di tenuta del legame sociale e della lealtà democratica. Una crisi che ha distrutto, nel nostro Paese, l’intera sfera pubblica, privando l’Italia di dibattito intellettuale (reputato inutile o ridotto a mera chiacchiera televisiva) e di innovativa azione politica (di fatto impossibile o velleitaria). Difficoltà, inoltre, a misurare la crisi del Pd, cioè della prospettiva del neoliberismo liberal, del partito borderless a vocazione maggioritaria; una crisi irreversibile a cui si offre la prospettiva riparatoria del centrosinistra rinnovato, o del ritorno all’Ulivo.

Da questa difficoltà di analisi discendono le difficoltà strategiche, ovvero l’incapacità di decidere se si vogliono i voti degli elettori del Pd dissenzienti dal renzismo ormai divenuto una ossessiva vicenda personale – mentre il Pd che subisce ogni giorno smottamenti di ceto politico e che sta risultando privo di appeal se non presso chi ha qualche bene al sole e teme di perderlo – oppure i voti di chi detesta radicalmente il Pd e il sistema di potere che esso malamente sorregge, come un sistema impoverente ed escludente (e più si sostiene che in realtà il Pil va bene, e le esportazioni pure, più si attizza la rabbia dei cittadini sui quali questo miglioramento meramente statistico non ricade – cioè la rabbia della stragrande maggioranza degli italiani –).

E di lì discendono anche le difficoltà a definire l’orizzonte dell’impegno del nuovo soggetto politico, e a decidere se questo sia determinato dalle prossime elezioni e dall’obbligo di essere presenti in parlamento, oppure se si abbia una prospettiva di più lungo respiro, quella di impiantare in Italia una sinistra che sia forza di ricostruzione del Paese e della società su basi larghe e nuove rispetto al lungo ciclo distruttivo apertosi negli anni Ottanta.

A quelle difficoltà è da ricondurre anche la disputa se la nuova sinistra debba essere identitaria o di governo, dove il primo termine, solitamente usato in senso spregiativo, designa una presunta purezza ideologica (ma quale?) refrattaria a contaminazioni e ad alleanze, il secondo una disposizione a conciliarsi col mondo così com’è, razionalizzandolo con «riforme» – ed è ovvio che la sinistra che nasce dovrà essere tanto identitaria, ovvero certa di sé anche culturalmente, quanto capace di governare il Tutto muovendo da una Parte in alleanza con altre –.

La sinistra non sa decidere fra questi dilemmi – che i politici in generale non amano mai –, ma non può neppure sperare di evitarli esercitando l’antica doppiezza, o la complexio oppositorum, strategie praticabili da grandi partiti di massa come il PCI o la DC, ma non da una piccola forza quale essa è destinata a essere, nell’immediato. E non sa decidere perché sono vere entrambe le ipotesi di base dell’analisi della società, che cioè i cittadini vogliono discontinuità (chi ha perduto, nella grande crisi) ma anche sicurezza (chi ha ancora qualcosa, per poco che sia). Perché è vero tanto che l’attuale sistema economico è insostenibile e impoverente, quanto che nessuno ha idee radicalmente alternative o la forza di realizzarle. Perché è vero che gli esponenti del vecchio ceto politico che oggi si propongono come portatori di discontinuità sono fra i responsabili delle sconfitte storiche della sinistra, ma è anche vero che il nuovo ceto politico stenta a trovare in sé idee, energie e motivazioni (a parte Renzi, la cui personale ambizione è davvero notevole).

Questa incapacità di decidere si è manifestata anche nei rapporti con il governo, rispetto al quale i gruppi parlamentari di sinistra (a parte SI) si sono alternativamente collocati tanto con la maggioranza quanto con l’opposizione. Al di là degli evidenti motivi di tattica politica, questa indecisione rispecchia tutte le difficoltà che si sono enumerate.

Eppure, la decisione serve appunto a risolvere le situazioni che non presentano in se stesse una chiara linea evolutiva. È una scommessa, non sconsiderata, sul futuro. Di questa decisione – da parte di un ceto politico credibile e convincente perché convinto – c’è bisogno perché in essa sta l’unica energia politica che in questo momento aurorale si può mettere in campo. Tutti a sinistra, insomma, devono dismettere l’attitudine epigonale, da «ultimi giorni» e collaborare a un «nuovo inizio». Detto in altri termini, solo da una decisione chiara può nascere un messaggio chiaro agli elettori, senza il quale non è probabile che la sinistra nascitura sia un neonato vitale.

E non è per nulla sufficiente che la decisione sia l’esito obbligato del sistema elettorale proporzionale al momento voluto da Renzi: se oggi questo obbliga la sinistra a presentarsi sola alle elezioni, e quindi ad accentuare le distanze dal Pd, che cosa succederebbe se un ripensamento (propiziato da Prodi) portasse Renzi a impegnarsi per un nuovo sistema maggioritario che premiasse le coalizioni? Forse si andrebbe a un’alleanza pre-elettorale col Pd, e si definirebbe questa alleanza il «nuovo centro-sinistra»? Come è evidente, a sostenere la nascita del nuovo soggetto politico devono esistere motivazioni politico-culturali più forti che non la legge elettorale, motivazioni che nascono da analisi autonome e radicali, e da progetti ambiziosi e di lungo periodo. Nonché dal riconoscimento del sostanziale fallimento storico del centrosinistra, almeno nella sua veste di partito unico (il Pd) appaesato in un contesto bipolare – un fallimento che è tutt’uno con la crisi dell’ordine economico neoliberale e dell’assetto dei poteri e delle istituzioni nel nostro Paese –.

Dare risposta ai problemi veri del Paese (lavoro, PA, scuola, università, gestione del territorio, criminalità organizzata, immigrazione, crollo dello spirito civico) in un contesto di debolezza economica e sotto i vincoli dell’euro, non è una questione di spot, di bonus, di narrazioni; è un’impresa titanica che implica la ripoliticizzazione della società, la riculturalizzazione della politica, la ricostruzione della sfera pubblica, in un contesto, per di più, oggettivamente favorevole alla destra. Se non si ha questa consapevolezza, si resta nella subalternità o nel velleitarismo. Se la si ha, si può mettere mano a un disegno di spessore storico, sapendo che la cultura politica non si inventa dall’oggi al domani, e che lo stesso si deve dire del radicamento sociale, dei leader, delle classi dirigenti.

Niente fretta, quindi, o meglio, festina lente, «affrettati lentamente». La sfida elettorale non è la più importante, benché sia incombente; il ragionamento deve estendersi molto oltre di essa, senza governismi né isolamenti aprioristici. Soprattutto, la guerra di movimento elettorale non potrà essere per ora altro che guerriglia; ben più importante è rifondare le basi di una guerra di posizione di lungo periodo. Per rifare l’Italia da sinistra, e per dare agli italiani una protezione che passi non attraverso le ricette escludenti della destra ma che si fondi sul recupero dei diritti e della speranza, a partire dalle condizioni materiali di vita, di studio e di lavoro.

È chiaro che questo soggetto – in sintesi, un quarto polo che farà alleanze quando sarà abbastanza robusto per non essere subalterno – dovrà darsi presto, ma non affrettatamente, strutture democratiche e organizzazioni trasparenti, e che dovrà quanto prima smarcarsi dal governo e dalle sue politiche. Ma soprattutto dovrà dare l’impressione di volere esistere, di volere radicarsi nella società, di voler durare, di volere affrontare problemi veri con ambizione vera.

Sessant’anni fa, nell’anno che chiuse la seconda legislatura repubblicana, la DC si preparò alle elezioni con un governo di transizione, quello di Adone Zoli (galantuomo antifascista) e andò alla prova elettorale, in pieno miracolo economico, con lo slogan «progresso senza avventure», perché gli italiani non si spaventassero dei tentativi di apertura a sinistra, che infatti rimasero frustrati anche nel corso della terza legislatura. Oggi, il partito che regge il maggior peso del governo, nel mezzo di una crisi politica, civile, economica e sociale senza fine, pare impegnato in una sorta di «avventura senza progresso», in un tentativo di rivincita personale del grande sconfitto del 4 dicembre. La sinistra, che non ha voluto attingere all’energia che in quella circostanza si manifestò (certo non era solo un’energia di sinistra) dovrà ora inventarsene una, a partire dalle condizioni materiali del Paese e da un disegno ideale che le sappia interpretare; e ha quindi il compito di prospettare agli italiani, tanto l’«avventura» quanto il «progresso», ovvero, con il linguaggio di oggi, tanto la discontinuità quanto le nuove certezze, coniugando in sé, meglio di quanto sappia fare la destra, immaginazione e realismo.

 

Il suicidio delle sinistre

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La demolizione dei templi del neoliberismo, sconsacrati e delegittimati ma ancora torreggianti sulle nostre società e sulle nostre politiche, comincia dal pensiero critico, capace di risvegliare il mondo «dal sogno che esso sogna su se stesso». In questo caso, dall’economia eterodossa, declinata in chiave teorica e storica da Sergio Cesaratto – nelle sue Sei lezioni di economia. Conoscenza necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016 –, esponente di una posizione non keynesiana né pikettiana né «benicomunista», ma sraffiana, e quindi in ultima analisi compatibile con il marxismo. Nella sua opera di decostruzione delle logiche mainstream vengono travolti i fondamenti del neo-marginalismo dominante: ovvero, che il concetto chiave dell’economia è la curva di domanda di un bene; che esistono un tasso d’interesse naturale, un tasso di disoccupazione naturale, un salario naturale, e che devono essere lasciati affermarsi; che c’è equilibrio e armonia fra capitale e lavoro; che c’è relazione inversa fra salari e occupazione (e quindi che la piena occupazione esige moderazione salariale); che il sistema economico raggiunge da solo l’equilibrio della piena occupazione se non ci sono ostacoli alla flessibilità del mercato del lavoro; che il risparmio viene prima degli investimenti; che la moneta determina i prezzi; che il nemico da battere è l’inflazione e che a tal fine si devono implementare politiche deflattive e di austerità, e intanto si deve togliere il controllo della moneta alla politica e conferirlo a una banca indipendente che stabilizza il tasso d’inflazione.

A tutto ciò Cesaratto contrappone tesi classiche: che l’economia ha come oggetto la produzione di surplus e il conflitto per redistribuirne i vantaggi tra le parti che lo determinano (capitalisti e lavoratori), così che l’equilibrio distributivo è non naturale ma storico e politico, legato alle posizioni di forza dei contendenti; che la moneta ha una genesi endogena e non appartiene a un ambito distinto dall’economia reale; che il fattore critico dello sviluppo è la domanda aggregata; che l’inflazione è il frutto del conflitto redistributivo; che la disoccupazione involontaria è presente anche nello scenario di equilibrio marginalista; che lo Stato può e deve essere attore della produzione e della redistribuzione, utilizzando i suoi strumenti sovrani (politica economica, industriale, monetaria, di welfare) in vista dell’obiettivo della piena occupazione, questa sì capace di garantire la crescita.

Su un impianto teorico simile Aldo Barba e Massimo Pivetti (La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016), ricostruiscono, ancora più dettagliatamente di Cesaratto che pure ne discute ampiamente, la storia del dopoguerra, dei Trenta gloriosi e dei Trenta pietosi (che ormai sono in realtà Quaranta) – a separare i due periodi c’è la grande svolta dei tardi anni Settanta –. La prima fase è contraddistinta dal circolo virtuoso di una crescita trainata da politiche di tendenziale piena occupazione e di moderato stimolo della domanda, da un equilibrato protezionismo a livello internazionale (contrattato nel Gatt nell’ottica che le esportazioni siano trainate dalla crescita interna), dall’esercizio della sovranità economica dello Stato e dalla sua politica fiscale progressiva; una realtà di rafforzamento politico ed economico dei ceti lavoratori, determinata dall’esigenza post-bellica di aprire la società alle masse (attraverso lo Stato) e anche dall’esistenza dell’Urss come modello concorrenziale che rafforza le lotte popolari. La rottura di questo modello è stata dovuta essenzialmente all’inflazione e alla stagnazione derivanti dagli incrementi salariali strappati a partire dai tardi anni Sessanta e ancor più dagli choc petroliferi della metà degli anni Settanta, e soprattutto dalle risposte che sono state date agli squilibri della bilancia dei pagamenti che si sono da allora prodotti in modo sistematico. Sono state risposte neoliberiste, deflattive e antistatalistiche, poste in essere da precise decisioni politiche che hanno enfatizzato il nuovo rilievo del «vincolo esterno» e – anziché contrastarlo con strategie di sviluppo interno trainato dalla domanda, dalle nazionalizzazioni e dal controllo delle importazioni (com’era la proposta della sinistra laburista inglese di Tony Benn, e del project socialiste del governo Mauroy in Francia nel 1981-82) – ne hanno dato una gestione «ortodossa», fondata su austerità, deflazione, liberalizzazione dei movimenti di capitali, privatizzazioni, riduzione dei salari, compressione della contrattazione nazionale, disoccupazione di massa, traino dell’economia da parte delle esportazioni, limitazione della sovranità economica dello Stato (ridotto ad essere un azionista delle imprese un tempo pubbliche), deindustrializzazione dovuta alla delocalizzazione delle attività produttive più povere in Paesi a bassi salari, con una conseguente depressione del lavoro più grave di quella che sarebbe stata generata dall’inflazione.

La rottura del circuito virtuoso fra progresso economico e civile avvenne dapprima in Inghilterra a opera del laburista Callaghan e soprattutto, dopo il winter of discontent 1978-79, per mano della conservatrice Thatcher; ma in Francia fu opera della stessa sinistra, che con Fabius, Rocard, Delors, oltre che Mitterand (la «seconda sinistra»), rinnega il proprio programma elettorale e gioca la scommessa di cavalcare l’onda neoliberista perché la Francia non resti isolata in Europa. Il sogno è di innescare una crescita trainata dai profitti privati delle multinazionali francesi, e di sostituire il ruolo dello Stato, come regolatore dell’economia, con l’euro, come primo passo di una unificazione politica europea trainata dalla Francia (il rapporto Delors, su cui si costruirà Maastricht). In parallelo, la cultura scatena l’attacco all’Urss sulla base dei libri di Solženicyn e ne distrugge il mito con i noveaux philosophes, mentre la più avanzata filosofia con Derrida, Deleuze e Foucault elimina alla radice la possibilità di un’interpretazione dialettica e di classe della realtà; in parallelo, la Francia riscopre la sua antica vocazione tecnocratica con la fondazione Saint-Simon e con la interpretazione democratico-progressista della storia e della politica, che promuove con Furet e con Rosanvallon.

Sono state le intrinseche contraddizioni del neoliberismo – generatore di insostenibili disuguaglianze e di ingestibili incertezze, creatore di bolle e non di ricchezza, fallace nel suo presupposto che accettare la distribuzione naturale del reddito comporti la piena utilizzazione di capitale e lavoro, che quindi bassi salari generino piena occupazione – e anche la posizione della Germania, da sempre ostile nel suo egoistico mercantilismo ordoliberista, al keynesismo ma anche a un’Europa politica (come aveva previsto Hayek, un debolissimo federalismo è il quadro ottimale di un’unione monetaria non fiscale), a fare del neoliberismo e dell’euro (che avendo come obiettivo la lotta all’inflazione, cioè ai salari, costringe gli Stati alla deflazione interna competitiva) uno dei più gravi fattori di crisi economica, sociale e politica della storia europea, che ha trasformato la disoccupazione ciclica in strutturale; ma è stata la sinistra ad aprirgli la strada, deliberatamente. Nessuna inevitabilità del neoliberismo, nessuna stagnazione secolare dell’economia a giustificarne la crisi, come pure nessuna spiegazione demografica, e nessuna legge naturale (Piketty) a spiegazione della disuguaglianza generata dal capitalismo: le responsabilità sono precise, politiche, e sono a sinistra. Questa è la tesi di fondo che emerge dai due libri, duri atti d’accusa contro chi per gestire il potere ha definanziato la sanità, colpito le pensioni, aggravato la disoccupazione, indebolito i lavoratori e le loro associazioni, fatto gravare le tasse sui salari, privato lo Stato della sua sovranità economica, sacrificandola alla produzione di avanzi primari con i quali pagare il servizio del debito pubblico nominato in valuta straniera (l’euro), e ha imposto l’austerità per rispettare il vincolo esterno anziché aggredirlo con politiche di crescita, di controllo dei capitali e di moderato protezionismo. Quell’euro che, secondo Padoa-Schioppa citato da Cesaratto, ha il compito di insegnare la durezza del vivere alle recenti generazioni popolari che l’hanno dimenticata grazie allo Stato sociale e alla quasi piena occupazione.

Analoghe nettezza e radicalità emergono dalla valutazione delle migrazioni, e della risposta in termini di accoglienza indiscriminata che la sinistra ne dà in nome dell’estensione illimitata e incondizionata dell’ideologia dei diritti umani; Barba e Pivetti colgono sì l’origine dei movimenti di masse planetarie nel crollo dell’Urss, nell’indebolimento dei Paesi più poveri dovuto alle politiche del Washington consensus, e alle guerre – presentate inizialmente come «democratiche» – che devastano il Medio Oriente, ma mostrano anche che l’accoglienza senza filtri in Europa serve a costituire quell’esercito industriale di riserva la cui stessa esistenza indebolisce i lavoratori e ne abbassa tendenzialmente i salari.

In questo contesto la vicenda italiana, quale emerge tanto da Cesaratto quanto da Barba e Pivetti, è segnata dalla debolezza dei Trenta gloriosi: il miracolo economico si fonda più sull’esportazione che sulla domanda interna, ed è interrotto dalla «congiuntura» ai primi cenni di rivendicazioni operaie, prima che il centrosinistra vari la legge urbanistica; gli anni Sessanta sono costellati di occasioni sprecate, tanto che l’Italia vi perde il nucleare e l’elettronica; al ciclo di lotte aperto nel 1969 si risponde con la strategia delle tensione e con una spesa pubblica disordinata. La crisi petrolifera della metà dei Settanta genera uno squilibrio strutturale con l’estero – il «vincolo esterno», da allora centrale nella storia economica del Paese – a cui si scelse di rispondere non con il controllo dei capitali e delle importazioni, ma con politiche di tagli, deflazione, austerità. Alle quali diede determinante concorso il Pci di Berlinguer che – sotto la pressione del golpe in Cile e del terrorismo interno, e con l’obiettivo di acquisire l’ammissione all’area di governo, ovvero la piena legittimazione democratica – offrì al potere dominante la disponibilità operaia ai «sacrifici», cioè a politiche deflattive gravanti sul mondo del lavoro. Non solo così si apriva la strada alle più energiche mosse del neoliberismo (la sconfitta operaia alla Fiat nel 1980, il «divorzio» fra Bankitalia e Tesoro del 1981), non solo il Pci diveniva per tale via partito di governo senza essere nel governo, ma si consumava con quella scelta l’inizio della dissipazione della forza politica della sinistra. Una scelta che gli autori vedono meno determinata da oggettive circostanze soverchianti e più in continuità con la storica ossessione del Pci per interessi generali interclassisti della Nazione, di cui si è sempre proclamato arcigno custode, in prospettive sempre «organiche» e quindi sempre estraneo, in nome di un irraggiungibile «socialismo», ad una visione riformista e conflittualista della società e dell’economia. Giocano in questa attitudine, secondo gli autori, tanto Gramsci quanto Togliatti, cioè un vizio di fondo della sinistra e della sua cultura, ferma alla nozione gramsciana di «intellettuale organico» (non certo uno spirito critico, ma piuttosto un propagandista e un organizzatore del consenso) e subalterna di fatto, anche per scarsa dimestichezza con la teoria economica, alla linea laico-liberale di Croce e di Einaudi, e quindi mai neppure keynesiana (unica eccezione il Piano del lavoro del 1949-50, elaborato dalla Cgil di De Vittorio, che prevedeva che gli investimenti si autofinanziassero con la crescita economica da essi prodotta). Il Pci statalista in realtà puntava sull’introduzione delle regioni per quanto riguardava le chances di governo, e sulla piccola e media impresa per le strategie di sviluppo; la sua stessa impostazione antimonopolistica era in fondo liberale. La politica del Pd è quindi in sostanziale continuità con la storia della sinistra italiana.

Oggi, in un contesto in cui gli obiettivi di occupazione e crescita sono affidati ai mercati e soprattutto alla flessibilità del lavoro (da qui la centralità strategica del jobs act) e non certo allo Stato, in cui l’euro si sostiene grazie a Draghi che, sempre più contrastato dalla Germania, ha bloccato sotto un «sarcofago» di invenzioni finanziarie la materia «radioattiva» della moneta unica, che continua però a essere pericolosa e pronta a esplodere, al nostro Paese non si apre che la via di un continuo declino, o di un «incidente di percorso», come tale imprevedibile e ingestibile. Certo, l’Italia non è al momento padrona di se stessa, né in grado di progettare liberamente il proprio futuro – e in questo vicolo cieco brilla l’assenza di idee della politica, futilmente dedita a risse su temi inessenziali perché quelli essenziali le sono preclusi –.

Si tratta di due libri decisi e provocatori – nella loro scientificità – che ci restituiscono una visione e una narrazione coerente di un arco significativo della storia del dopoguerra. Questi economisti eterodossi – che non rappresentano tutto l’arco della opposizione al mainstream – hanno un respiro di serietà e di concretezza che ha un effetto benefico sulle menti: si spazzano via menzogne e fumisterie, e dietro le narrazioni della propaganda governativa si intravvedono i profili scoscesi della realtà storica materiale, dei suoi conflitti, delle decisioni che hanno favorito e sfavorito secondo linee di classe. Un bagno salutare di realismo, pur nelle asprezze comprensibili della polemica – non si tratta, in ogni caso, di libri faziosi, ma anzi piuttosto professorali, con qualche brillante soluzione espressiva di Cesaratto –.

Due libri con i quali una sinistra che voglia davvero essere critica, autonoma, alternativa, si deve misurare. Sia per la rivisitazione che si propone della storia della sinistra italiana – non nuova in sé, ma portata qui a un notevole grado di coerenza e di nettezza – sia per la luce gettata sull’Europa, la cui forma attuale viene fatta risalire a calcoli francesi di grandezza, frustrati dall’ordoliberalismo mercantilistico dei tedeschi. Sia per il ruolo economico e politico conferito allo Stato e ai corpi sociali intermedi (legati da un medesimo destino), tema altamente controverso e divisivo (in linea teorica e pratica) proprio a sinistra, sia infine per la valutazione delle politiche da tenere verso i migranti, anche queste in forte controtendenza rispetto al mood dominante in tutte le sinistre. Sia ovviamente, perché questi due libri costringono a fare entrare nella discussione politica più allargata il tema scivoloso e difficilissimo, ma ineludibile, dell’euro.

La sinistra che oggi gestisce l’Europa neoliberista, a cui presta sempre più stanche narrazioni e sempre più flebili esorcismi verso i «populismi» (ovvero verso le vittime della macchina europea), la sinistra della terza via, della flessibilità, dell’austerità, dell’innovazione a senso unico, del monetarismo e dei bonus ai cittadini, della esaltazione della «società del rischio», la sinistra che non vuole sentire parlare di sindacati, di partiti e di Stato, la sinistra che si è suicidata in cambio della gestione subalterna del potere, è fuori dal raggio della discussione che questi due libri possono accendere; ma anche la sinistra moralistica che ancora chiede «più Europa» e diritti umani illimitati, o anche quella antagonista e velleitaria che affida le proprie chances alla insurrezione generalizzata, si trovano qui di fronte una diversa ipotesi: una sinistra riformista in senso tradizionale, che sa riconoscere la conflittualità intrinseca della società, che prende parte per il lavoro, e che attraverso lo Stato lo vuole promuovere per salvare la società dal disastro in cui il neoliberismo l’ha condotta; e che lo vuol fare prima che la destra estrema facendo finta di salvare i poveri tolga a tutti la democrazia.

Naturalmente, vi sono possibili punti di discussione: il principale dei quali è l’impianto «novecentesco» dell’intera analisi. Il che di per sé non è indice di errore, ma certamente pone un interrogativo: quali sono gli spazi politici reali per recuperare un ruolo dello Stato in economia tanto incisivo da contrastare le scelte ormai quarantennali del neoliberismo? La radicalità e l’incisività della diagnosi non implicano forse, di per se stesse, una prognosi infausta, una sentenza di morte per l’azione politica che le voglia prendere sul serio? Detto in altro modo: come è possibile nella pratica riavvolgere il film della storia? Pur dandosi per scontato che il neoliberismo non è una «necessità» ma solo l’esito di atti politici precisi, esso ha tuttavia generato gigantesche conseguenze: come le si può superare e correggere? Come si può «fare il contrario» del neoliberismo? Si ribadisce che questa difficoltà non implica che l’analisi sia in sé scorretta: non ci si possono attendere dal medico solo risposte rassicuranti o compiacenti. Ma la difficoltà merita di esser sottolineata e affrontata: non tanto per cambiare la diagnosi, ma per escogitare, se possibile, una terapia adeguata. La sinistra deve essere realistica in tutti i sensi: sia nello svelamento degli errori, sia nel progettarne il rimedio.

Inoltre, merita una riflessione il lato filosofico dei due libri. In primo luogo, la critica radicale (non estremista) alla storia del Pci, ovvero l’accusa di a-criticità del suo impianto teorico, cioè del gramscismo e del togliattismo, e la sottolineatura del difficile rapporto del Partito con il pensiero critico non filosofico (in questo caso, economico) e la sua chiusura al «riformismo competitivo», non sono di per sé una novità, ma hanno implicazioni pratiche e strategiche: significano che oggi la sinistra non può più rivendicare la propria continuità con un passato anche remoto, e raccontarsi che questo sarebbe stato tradito solo in tempi relativamente recenti; anzi, comportano che la sinistra si debba proporre ormai come «altra» rispetto a buona parte della sua storia, remota e prossima – anche se non come «nuova» nel senso delle sinistre extraparlamentari degli anni Settanta –: una sinistra finalmente davvero «parte», benché non gruppuscolare. Una sfida non da poco: potrebbe sembrare che la sinistra per uscire dal vicolo cieco in cui l’ha condotta il proprio suicidio non possa esimersi dal liquidare il proprio passato, dall’uccidere l’immagine del proprio padre.

In secondo luogo, va discussa la liquidazione degli sviluppi del pensiero negativo in Francia. La cui derivazione da Nietzsche e da Heidegger è ovvia, il cui potenziale decostruttivo della narrazione marxiana è assodata, ma che costituisce oggi uno dei più influenti paradigmi della «teoria critica» contemporanea. Anche in questo caso, non è nuova l’accusa alla teoria critica francese di esercitare la propria radicalità in direzioni che negano la possibilità di individuare un punto determinato di spiegazione della realtà (il potere risolto nel gran mare del discorso e nelle pratiche di «governo», nel caso di Foucault; lo scavo nel «rovescio» del linguaggio, per mostrarne l’indeterminatezza intrinseca, nel caso di Derrida; la rinuncia alla soggettività in nome del «desiderio», nel caso di Deleuze), così da risultare assai poco critica, e da essere uno strumento di nascondimento, anziché di disvelamento, delle contraddizioni strategiche della realtà. Qui la posta in gioco si estende a una questione enorme: può esistere una sinistra, che non sia solo un insieme di vezzi intellettuali o di sentimentalismi, armata di pensiero non dialettico (di decostruzionismo, di decisionismo, di movimentismo), incapace di ragionare in termini di «negazione determinata»? Naturalmente la risposta non è pronta da qualche parte, e può uscire solo da una riflessione a più voci all’interno del campo della sinistra stessa, su quale pensiero sia adeguato a cogliere le domande, e a facilitare le risposte pratiche, sulla possibilità materiale di un nuovo umanesimo nell’epoca del trionfo della economia più antiumana.

Di motivi di discussione ce ne e sono abbastanza, si direbbe. Si tratta, piuttosto, di vedere se gli «animosi intelletti» che ancora si arrovellano nel pensare la politica, e magari provano anche a farla, abbiano la voglia di discutere seriamente le tesi avanzate dagli autori e, eventualmente, il coraggio di tentare un radicale ripensamento della prospettiva della sinistra; o se si preferisce, in realtà, il piccolo cabotaggio della politica quotidiana.

 

Per il centenario di Bulow

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Arrigo Boldrini era detto Bulow, come uno dei tre vincitori di Waterloo (insieme a Wellington e a Bluchner); in questo nome si esprime prima di tutto una fermezza profonda e meditata rivolta contro l’invasore.

La fermezza è una costante di Bulow. Dapprima in senso soggettivo, percepibile nel carattere sobrio riservato prudente serio capace. Concentrato in sé e al tempo stesso al servizio degli altri, egli è un eroe democratico, non un super-uomo dannunziano – egli era ben in grado, tra l’altro, di aver paura, e di vincerla: ed è questo il vero coraggio . Un eroe popolare, non aristocratico, se non nel senso dell’aristocrazia del costume e dello spirito. Insomma, una persona di cui si capiva e si sentiva che ci si poteva fidare, perché in grado di esercitare autocontrollo e, di conseguenza, di guidare gli altri. In questo senso, Bulow era dotato di autorità in senso personale: era autorevole – un’autorità riconosciuta anche dagli alleati, che hanno accolto e applicato il suo piano militare, grazie al quale Ravenna non ha patito distruzioni eccessive durante i giorni della liberazione . Se oggi possiamo vedere in San Vitale i mosaici di Giustiniano e Teodora (le forme supreme dell’autorità) lo dobbiamo alla sua autorità.

In senso oggettivo, poi, se passiamo dall’individuale al collettivo, la sua è la fermezza delle radici – le radici del popolo, s’intende –. Radici è una metafora, non è un termine politico. La locuzione esatta è “momento costituente”, “decisione innovatrice”. Non è vero, infatti, che la decisione può essere solo la prepotenza o la sbrigatività del comando: è anche la grande scelta, responsabile e coraggiosa, operata nel momento giusto, che di solito è il momento in cui non si sa e non si capisce, in cui si è incerti. Pochi, come Bulow, hanno compreso subito, dopo il 25 luglio, e si sono schierati, dando così inizio a un’egemonia, che in questo caso è la capacità di parlare al popolo, di guidarlo con il suo consenso, di esserne appunto il fondamento.

La prima grande avventura guerrigliera d’Italia, quella democratica e garibaldina, finisce nelle valli di Comacchio nel 1849  il Risorgimento fu essenzialmente conquista regia e opera di élites ; ma cent’anni dopo nasce in queste stesse zone un’altra guerriglia, a costituire un filo rosso e democratico della storia d’Italia, prima della Resistenza piuttosto povera di partecipazione popolare.

Si deve notare che ‘guerriglia’ è termine poco usato per la Resistenza; ma Bulow, cultore di storia militare, lo usava: in realtà, è perfetto, dal punto di vista storico e teorico. La guerriglia è infatti la lotta del debole contro il forte, dell’irregolare contro il regolare; ed è una lotta che ha nel popolo il suo baricentro. In questo senso Clausewitz il grande teorico della guerra, contemporaneo del ‘vero’ Bulow, ha scritto sulla guerriglia, riprendendo l’esperienza spagnola e prussiana contro Napoleone. Anzi, quella di Boldrini è la classica situazione della guerriglia vittoriosa, quella cioè che oltre all’appoggio del popolo, e ai ‘santuari’ in cui i partigiani si possono rifugiare (le valli), conosce anche l’appoggio di uno Stato straniero (nel caso specifico, l’Ottava armata inglese).

In particolare, l’appoggio del popolo è stato tale che, come si è osservato, non si può parlare, in questo caso, di guerra civile, perché il popolo non era diviso come appunto avviene nelle guerre civili ma era schierato da una parte sola, quella antifascista. È questo rapporto col popolo ad avere reso possibile la ‘pianurizzazione’ della lotta – la grande scelta strategica di Boldrini –; combattere in pianura anziché in montagna è concepibile solo con l’appoggio totale della popolazione. Un appoggio che nel corso della lotta non venne mai meno, perché nasceva dalla lunga opposizione al fascismo e alle sue politiche concrete, e che fu rafforzato dalla occupazione tedesca e dalla violenza repubblichina.

La fermezza delle radici di cui Bulow è figura emblematica è ben altra cosa, quindi, da un pur coraggioso gesto solitario. È la capacità, politica oltre che militare, di interpretare il popolo, di suscitare il suo potere costituente, ovvero di incarnare e interpretare l’autorità in senso politico, fondamento della libertà individuale e collettiva. A noi oggi è chiaro che la guerra partigiana era solo formalmente l’esercizio di un potere politico-militare delegato al CLN dal regno del Sud, e che sostanzialmente si è trattato invece dell’attivazione autonoma di un potere costituente popolare che è stato supremamente politico – persino al di là della consapevolezza soggettiva dei suoi protagonisti –, dell’emergere spontaneo di quella legittimità che in seguito ha trovato espressione formale e compiuta nell’Assemblea costituente e nella Costituzione repubblicana. Questo avvento del popolo in armi sulla scena politica, non solo militare, consente di respingere la tesi della ‘morte della patria’; fra il 25 luglio e l’8 settembre si è consumato semmai il collasso delle élites tradizionali e l’affermazione di élites nuove, alle quali Bulow appartiene.

Quelle élites nuove sono i partiti; il ‘partito nuovo’ di Togliatti che in quel momento è essenziale a evitare la distruzione del tessuto civile, e la Dc di Zaccagnini, il Tommaso Moro amico di Boldrini. Forze di parte, che a Roma ma anche nella lotta partigiana si caricano di un dovere e di un compito generale. A questa logica ricostruttiva aderisce Bulow, come si comprende da quanto egli nel suo diario testimonia degli incontri con Ercoli, e dalla stessa celebre frase, degli anni seguenti, in cui spiega che egli combatté non solo per chi stava dalla sua parte, ma “anche per chi non c’era, anche per chi era contro”.

Nasce insomma con Bulow, e con quelli come lui, una democrazia includente che ha radici solide nel popolo, e che nonostante abbia all’origine l’esclusione del nemico e delle ideologie più violente del secolo, non è mai la democrazia di una parte, di una fazione, ma anzi si fa carico di organizzare un’intera nazione, con le sue parti diverse che, anche se in lotta fra loro, sono però unite sui valori di fondo e sul metodo democratico.

Resistenza, e Bulow, come radice della democrazia, quindi. A una parte, a quella comunista, Bulow nondimeno restò fedele fino in fondo; in essa condusse una carriera politica importante benché non di primissimo piano, in ruoli di fiducia (a contatto con alcune aree del mondo militare) per i quali la serietà, l’autorevolezza e l’affidabilità erano d’obbligo. Una carriera in difesa, anche, della Resistenza come presidente dell’Anpi fino dagli anni difficili del dopoguerra in cui la lotta partigiana era attaccata e misconosciuta, a causa della divisione del mondo che aveva diviso anche il campo antifascista  benché legami e solidarietà personali nate nella Resistenza siano sopravvissute alle vicende politico-partitiche e abbiano costituito un importante filo rosso della storia della Repubblica .

E come radice vivente, come forza propulsiva della democrazia, Bulow in quanto presidente dell’Anpi si dimostrò non uomo di parte ma difensore di una concezione forte della democrazia, fatta di autorità e di libertà; difensore insomma  in sintonia con Pertini  di una concezione non museale ma politica della Resistenza. Come si vide negli anni della lotta al terrorismo, all’eversione, in cui rifiutò la benché minima legittimazione alle Brigate rosse, perché fosse chiaro alla Nazione che esse non erano la prosecuzione della Resistenza ma, in quanto nemiche delle istituzioni democratiche, erano il suo tradimento e la sua negazione.

Serietà, senso del dovere, senso della collettività; questi i segni di una vita spesa per gli altri. Senza fare santini e oleografie, Bulow ci sembra oggi, a cent’anni dalla nascita, un uomo capace di interpretare in modo esemplare un’idea e una pratica di cittadinanza repubblicana e democratica. La politica spettacolo, l’individualismo narcisistico, il cinismo, l’apatia e l’antipolitica non vinceranno, finché queste figure saranno degnamente ricordate, finché l’inquietudine di molti, l’insoddisfazione per la nostra democrazia sfigurata, potrà rispecchiarsi nella virtù sobria, coraggiosa, tenace e all’occorrenza severa, di Bulow, sintesi dello spirito della Resistenza, esempio di democrazia armata, in senso proprio e in senso metaforico.

Oggi abbiamo quindi un gran bisogno di rispecchiarci in lui come in un esempio della forza delle convinzioni e della lucidità per realizzarle – cioè della vera onestà (al di là di quella intesa in senso legale, certamente necessaria) della quale ha bisogno la politica –. Abbiamo bisogno, giovani e meno giovani, di conoscerlo meglio, e di vedere in lui un buon motivo per essere orgogliosi di essere italiani.

L’articolo è stato pubblicato in www.patriaindipendente.it il 16 ottobre 2015 con il titolo Arrigo Boldrini e l’idea della democrazia includente.

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