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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Postdemocrazia

La “nuova democrazia” di Renzi e le ragioni del No

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Il referendum sulla riforma costituzionale non va affrontato come se si trattasse solo di una tecnicalità, di una questione di merito; o meglio, il merito che vi è coinvolto va ben al di là della riforma del procedimento legislativo, della elezione e della composizione del Senato, della nuova definizione in senso centralistico del rapporto fra Stato e regioni.

E non va nemmeno affrontato come si trattasse solo di un plebiscito su Renzi; non perché il ruolo del presidente del Consiglio non sia decisivo, in questa fase politica, ma in primo luogo perché essere chiamati a dare un giudizio sulla persona è umiliante per i cittadini, costretti a rispondere a domande poste da altri, con modalità e tempi decisi da altri, con conseguente inversione, di fatto, del principio di sovranità popolare; in secondo luogo, quel giudizio può essere offuscato da altre iniziative personali dell’interessato, volte ad acquisire consenso, ed estranee alla materia politica centrale che è in gioco.

Sia chiaro: i giudizi di merito sulla riforma e sulla persona (politica) di Renzi non possono non essere negativi. La riforma – nei suoi contenuti e nelle modalità con cui è stata avanzata (dal governo) e votata dalle Camere – è infatti un pasticcio, offensivo della logica e della correttezza parlamentare (i regolamenti sono stati interpretati in modo «innovativo», ad esempio in occasione della sostituzione dei componenti Pd della prima commissione). Chi elegge il Senato? Perché i senatori hanno mandato libero benché non rappresentino la nazione? Quali sono le competenze del Senato rispetto alla Camera e al governo, e a quanti tipi di procedimento legislativo danno luogo? Sono, questi, solo alcuni dei quesiti che si possono porre, e che vedranno i giuristi costituzionalisti disputare a lungo.

La politica di Renzi, poi, è sorretta da una logica di avventura personale, condotta con abilità tattica, con accortezza e con temerarietà, e con grande capacità di sfruttare errori e debolezze altrui; è la logica di un occasionalismo pragmatico e spregiudicato, volto alla acquisizione e alla conservazione del potere attraverso l’uso di ogni espediente retorico, emotivo, polemico, demagogico purché superficiale, accattivante e «distraente». Una politica per tutte le stagioni, insomma; e il «cambio di stagione» è deciso solo da Renzi, sulla base del suo istinto e del suo interesse politico, con esclusione di ogni mediazione e di ogni dialogo o confronto (a cui è singolarmente negato). Una politica che cerca di navigare sopra i flutti della tempesta – della crisi economica, politica e sociale interminabile – con disinvoltura mista ad arroganza.

Ma dietro le apparenze brillanti e sfidanti, e le narrazioni volontaristiche e ottimistiche, si cela – com’è ovvio, per chi fa del proprio destino personale la bussola del proprio agire – un robustissimo senso della realtà, ovvero dei rapporti di potere interni e internazionali: realtà e rapporti accettati come dati, non criticati né problematizzati, rispetto ai quali la politica di Renzi è di accondiscendenza e di adesione, guarnita di occasionali e calcolate ribellioni su punti determinati (possibilmente di buon impatto mediatico) – un esempio è la invocata flessibilità rispetto ai parametri di Maastricht, alla quale non si accompagna per nulla un’inversione della politica economica del governo –. La «filosofia» del jobs act, della «buona scuola», e anche delle riforme elettorali e costituzionali è questa.

Insieme alla modifica della costituzione va infatti valutata anche la legge elettorale che ne è parte integrante – una legge già prossima a entrare in funzione –, e che è destinata a cadere se in autunno prevalessero i No (è infatti una legge solo per la Camera: se a seguito degli esiti del referendum il Senato restasse invariato, non si potrebbero certo eleggere i due rami del parlamento, con due funzioni identiche, con due leggi diversissime tra loro come l’Italicum per Montecitorio e il Consultellum su base regionale per palazzo Madama). La sostanza politica su cui saremo chiamati a pronunciarci è quindi il «combinato disposto» delle due riforme, ovvero, nel complesso, il modello di democrazia del nostro Paese.

Ora, la Costituzione vigente prevede una democrazia repubblicana centrata sulla mediazione partitica e parlamentare delle dialettiche politiche e sociali, e sulla partecipazione dei cittadini; la Costituzione futura sarà invece leaderistica e d’investitura; e la politica non sarà più, com’è pensata nella Carta, una dimensione reale (fisiologicamente conflittuale) sempre presente e circolante nella società, e come tale da rispettare, valorizzare, rappresentare, governare, ma sarà al contrario spenta e silente per cinque anni, tutta risucchiata nel vertice del potere – palazzo Chigi –, e si manifesterà solo alla data delle elezioni in una sarabanda mediatica, in un tripudio emotivo, in un fuoco artificiale di passioni scatenate dai media in proporzione alla capacità economica dei contendenti. I cittadini (che sempre meno numerosi andranno al voto perché si sentiranno sempre più estranei a questa politica) avranno la soddisfazione di sapere, la sera delle elezioni, chi li governerà – in pratica, si elegge il capo del governo, con una legge maggioritaria (due peculiarità solo italiane) –; poi, il silenzio: c’è chi pensa e lavora per loro, chi «ci mette la faccia» senza tante mediazioni con partiti e sindacati e regioni, per essere poi giudicato plebiscitariamente da un popolo spoliticizzato.

La posta in palio, insomma, non è solo la forma di governo – il passaggio dal parlamentarismo al premierato elettivo –; dal «combinato disposto» delle due riforme emergono risultati profondamente antipolitici (la spoliticizzazione e la passivizzazione della società) e al contempo iperpolitici (per la concentrazione di potere nel capo del governo). La minoranza (ragionevole o antisistema che sia) sarà impotente per tutta la legislatura, mentre chi vince si impadronisce del legislativo, dell’esecutivo, di buona parte degli organi di autogoverno del giudiziario, della Presidenza della repubblica, dello jus ad bellum, della Rai. È la «democrazia decidente». È la governabilità. È la voce del padrone che si sostituisce alla polifonia di una società politicamente pluralistica. È una «nuova democrazia».

Anche se si lasciano invariati i Principi fondamentali della Costituzione, la si può quindi innovare radicalmente agendo sul rapporto fra esecutivo e legislativo, fra cittadini e istituzioni, fra Stato e regioni. Per giudicare di una costituzione, infatti, ci si deve chiedere contro chi è orientata, e da quale energia politica è organizzata. Della Carta vigente si può dire che è rivolta contro il fascismo, e che esprime la dialettica politica dei partiti in cui si articola concretamente la società dell’Italia repubblicana. Della Carta futura (se tale sarà) si deve dire che ha per nemico la costituzione materiale e ideale della Prima repubblica, e i suoi soggetti (cioè appunto i partiti e i cittadini attivi), e che si afferma grazie all’energia politica dell’esecutivo, nel nome dei valori supremi della stabilità e della governabilità.

Il punto è che Renzi, nel suo «realismo politico», oggi altro non fa se non implementare la politica di «riforme» apertamente raccomandata dalle istituzioni sovranazionali che realmente ci governano (da Bruxelles e da Francoforte, oltre che da New York e da Washington): una politica volta sistematicamente ad aumentare il peso degli esecutivi e a verticalizzarne l’azione, con una svalutazione della mediazione politica, sociale e istituzionale parallela e consonante rispetto alla svalutazione del lavoro e alla depressione del pluralismo, della partecipazione e dei diritti sociali, che sono oggi richieste per governare le società del neoliberismo avanzato e sempre più affaticato. Una politica di «riforme» in realtà perseguita da destra e da sinistra fino dagli anni Ottanta del secolo scorso, con stili diversi ma con l’intento di assecondare – a spese del lavoro e della dimensione «pubblica» e partecipativa della politica – le esigenze del mondo nuovo dominato dal capitale e non più dai partiti e dallo Stato.

Contro quanto Renzi sostiene – cioè che solo lui ha riformato la Costituzione –, già si sono cimentati (con vario esito) nell’impresa Amato, Berlusconi e Monti (nel 2001, nel 2005, nel 2012); per non parlare delle riforme elettorali, che dal Mattarellum al Porcellum al Consultellum precedono degnamente l’Italicum. L’obiettivo di ciascuna era di instaurare una «nuova democrazia»: di volta in volta democrazia del federalismo, del premierato, dell’austerità. E anche la riforma di Renzi ha questo obiettivo di novità, declinato come rottamazione del «vecchio» e come ricerca di efficienza centralistica e decisionistica.

Ma sul tema del «nuovo» ci si deve capire: Renzi costituzionalizza la già avvenuta decomposizione dei principi e delle strutture della democrazia parlamentare dei partiti. Già oggi il parlamento è esautorato (anche per colpa propria) e non è certo un freno o un ostacolo all’agire dell’esecutivo; già oggi i partiti sono morti e sepolti (per loro primaria responsabilità, ma anche per furiose campagne mediatiche); già oggi la politica ruota attorno ai leader e alle loro capacità comunicative e non attorno ai programmi o alle identità; già oggi palazzo Chigi è il centro della politica nazionale. Quindi le riforme di Renzi sono altamente innovative rispetto alla lettera e allo spirito della Carta vigente; ma sono conservative rispetto allo stato presente delle cose, che vogliono erigere a sistema politico compiuto.

Innovative e conservative, spoliticizzanti e iperpolitiche, queste riforme in realtà vogliono rendere governabile una società che è squassata da povertà, paura, anomia, sfiducia, passività o pseudo-ribellismo. Governabile a qualsiasi costo – anche al costo di una legge elettorale folle e di una riforma costituzionale potenzialmente autoritaria –; ma non al costo di affrontare, con lo spirito democratico della Carta, le questioni strutturali – economiche, sociali, politiche, culturali – che generano l’ingovernabilità in Italia (e nelle altre società occidentali). Queste riforme sono l’ingessatura di un arto rotto, senza che la frattura venga ricomposta: il risultato sarà un arto bloccato e irrigidito nella sua posizione storta.

Fuori di metafora: la «nuova democrazia» che sarà l’esito di queste riforme sarà una «postdemocrazia» (un regime che della democrazia conserva solo le forme esteriori ma non la sostanza attiva e partecipativa del potere democratico) e, ancora meglio, una «pseudodemocrazia». Votare No al referendum è una delle ultime occasioni per impedire che si affermi questa «novità».

L’articolo è stato pubblicato in «MicroMega», n. 3, 2016. 

 

Democratizzare la democrazia

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Vediamo, per cominciare, di provare a definire che cosa è democrazia – quella di oggi, per non avviarci su strade troppo complesse –. Per democrazia noi abbiamo inteso un certo equilibrio fra alcune delle strutture e delle invenzioni più importanti e significative prodotte nell’età moderna. Queste invenzioni sono: lo Stato sovrano; il mercato e il capitalismo; le diverse forme della soggettività – il soggetto individuale, il popolo, i partiti –; la tecnoscienza.

Queste quattro invenzioni strettamente correlate fra di loro, ma non sempre sincrone nel loro procedere, hanno conosciuto forme di equilibrio – particolarmente per quanto riguarda il secondo dopoguerra – che possono essere così descritte: un profilo ideologico minimo di riconoscimento e accettazione dei ritrovati della modernità (perché ci sia democrazia non è pensabile che la cultura politica sia generalmente informata a posizioni antimoderne, tradizionaliste, teocratiche e via dicendo); alcuni assetti istituzionali specifici che comprendono certamente la statualità e la sovranità, ma anche un’articolazione di questa nei tre poteri classici oltre alla presenza dei partiti come trait d’union permanente e strutturato fra la società e le istituzioni.

Poi, perché ci sia democrazia, ci deve essere un determinato assetto del capitale. Dando per scontata la non avvenuta eliminazione del sistema capitalistico (la sconfitta storica del comunismo reale), e quindi parlando di liberaldemocrazie con un nucleo economico capitalistico, noi sappiamo che questo nucleo sicuramente non può determinare le priorità del sistema politico e sociale: il profitto non viene prima dei diritti.

Infine – fondamentale – pluralismo: non esiste democrazia se non c’è pluralismo culturale e sociale. Può esistere uno Stato di diritto senza pluralismo, ma democrazia vuol dire tutto quello che abbiamo detto finora più una società ricca di diversi, autonomi centri di potere sociale e di sapere intellettuale e scientifico. Per cui è necessaria una reale diversificazione della proprietà dei media; una reale libertà di insegnamento e di ricerca; insomma, diverse culture in concorrenza e in coesistenza; un sapere diffuso e partecipato, non reificato e non chiuso nei laboratori e nelle accademie (che devono esistere e funzionare, ma non come corpi separati e privatizzati).

Queste quattro invenzioni moderne, con questi equilibri, oggi non ci sono più. Noi assistiamo, sotto il profilo economico, a una esondazione delle priorità del capitalismo che ha sconfitto il lavoro – cioè il suo antagonista e al tempo stesso il suo fratello –, lo ha ridotto di entità e di importanza, con il conseguente aumento delle disuguaglianze economiche.

Per quanto riguarda le soggettività, si osserva che il soggetto moderno si è trasformato nel singolo individualistico; il popolo si è mutato in identità populistico-xenofoba, almeno come trend; e al contempo assistiamo alla sconfitta dei partiti. Che tutti ci stiamo interrogando sul «che fare?» nasce dal fatto che non esistono più le strutture ponte fra il sistema politico e la società – cioè i partiti –, e la sconfitta dei partiti ha molte cause, ma certamente in parte dovute a un’offensiva neoliberista (in parte a un interno disfacimento).

Per quanto riguarda lo Stato, c’è da segnalare una trasfigurazione profondissima. Mentre si riduce lo spazio del «pubblico» (le privatizzazioni, la sussidiarietà) lo Stato si distacca dalla società, e si trasforma da sistema della mediazione e della rappresentanza in sistema della decisione: le nostre «riforme» sono un esempio di questo processo. Anche il Parlamento – che propriamente è il luogo dove si rappresenta la sovranità del popolo, ma che realisticamente potrebbe essere una struttura intermedia fra la società e il governo – è gravemente indebolito nella sua funzione mediatrice (per la quale sono necessari i partiti).

Quindi: verticalizzazione, spostamento verso la decisione, erosione notevole dello Stato di diritto e spostamento del baricentro della politica verso l’eccezione – non verso la norma –, per non parlare della corruzione che è fenomeno gravissimo e che tuttavia è in realtà legato alla debolezza del sistema politico.

Infine, il pluralismo culturale nella società sta svanendo. In primo luogo, perché la società è debole, impoverita dalla crisi economica e dalla ritirata dello Stato dalla società. Non a caso, dentro la società si spengono invece che accendersi centri di sapere – basti pensare alle sorti degli istituti culturali –. In secondo luogo, perché il pensiero è ormai «unico»; o è tecnoscienza progressivamente sottratta allo spazio pubblico statale e confinata in istituzioni private e o simil-private «d’eccellenza»; o è intrattenimento e ideologia surrettizia, prodotta e veicolata da media che fanno parte in modo strutturale dell’establishment. La vecchia idea liberale secondo cui i Partiti, il Parlamento e la Press (la stampa), queste tre «P», costituivano l’essenza della democrazia non sta più in piedi. Oggi viviamo dentro una sorta di continuum triforme costituito, senza soluzione di continuità, dal potere economico-finanziario, ma anche padronale alla vecchia maniera; dal potere politico – indistinto, senza che vi sia più distanza fra esecutivo e legislativo –, che è il potere meno efficace; e dal potere mediatico, che conta molto perché controlla e detiene l’agenda del discorso politico e della politica. Ma il potere mediatico è nelle mani del potere economico, e il cerchio del continuum si chiude.

Dentro questo continuum quello che abbiamo definito «democrazia» permane – e io qui devo rendere omaggio a Colin Crouch – come fantasma, ovvero come «postdemocrazia», come apparenza di democrazia, come permanere di forme prive dei vecchi contenuti. Finora pochi – anche se stanno aumentando – in Occidente (in Russia e in Cina le cose stanno altrimenti) si concentrano nell’inventare una narrazione politica veramente alternativa alla modernità e ai suoi principi. Finora è stato sufficiente lasciare che si sviluppassero alcune derive che erano implicite in quei principi. Infatti, la distruzione semi-soft della democrazia – la scomparsa dei soggetti, il trionfo dell’utilitarismo in generale e in concreto dell’utilità dei pochi, la concentrazione del potere e della ricchezza – è uno sviluppo che in parte era scritto nelle origini del Moderno, almeno come possibilità, e in parte è frutto di una furiosa battaglia politica e culturale scatenata negli anni Settanta del Ventesimo secolo e vinta dai capitalisti con sconfitta totale e radicale – per ora – della sinistra e del mondo del lavoro. Alla determinazione relativizzante del «per ora» tengo parecchio, e per convinzione e per appartenenza politica. Ma insomma di sconfitta si dovrà ben parlare; si può mettere la cesura dove si vuole ma certo un «prima» e un «dopo» si distinguono con chiarezza.

Come se ne viene fuori? Come è stato complesso costruire quell’equilibrio fra parecchi principi e parecchi ingredienti della modernità, così ora dobbiamo evitare che la grande vittoria del capitalismo (e la sua crisi sopravvenuta) si riveli la via attraverso la quale tornano in gioco le posizioni della destra estrema e oltranzista. Infatti, su una società impoverita dallo sviluppo mancato del capitalismo  dallo sviluppo promesso e non realizzato , su questa società che non crede più né in se stessa né nella politica, si abbattono i frutti di una catastrofe geopolitica del Nord Africa, del Corno d’Africa, del Vicino oriente, del Medio oriente. Una catastrofe che è stata determinata – anch’essa – dalle politiche delle potenze occidentali e delle potenze regionali, che hanno destabilizzato equilibri precarissimi che erano nati poco dopo la fine della Prima guerra mondiale. Questa distruzione di equilibri produce l’arrivo in Europa di qualche centinaio di migliaia di disperati all’anno, che mettono sotto stress non solo l’Unione europea, ma le democrazie dentro gli Stati: sulla paglia infiammabile della povertà e della frustrazione si abbatte l’innesco incendiario della migrazione e del terrorismo, capaci di generare paure, isterie, xenofobie e in generale chiusura degli spazi democratici. Infatti, insieme ai migranti coatti ci sono i terroristi: si tratta di realtà e di fenomeni diversi, e che tuttavia non è facile tenere distinti davanti a un’opinione pubblica che è così duramente e giustamente colpita dall’emergere crescente di una instabilità strutturale tanto dell’assetto capitalistico, quanto della erosione della sicurezza democratica degli Stati europei.

In politica l’instabilità è un male. È un bene soltanto per i pochi geni rivoluzionari che sanno approfittarne per fare una rivoluzione e portare il mondo a un ordine nuovo. In assenza di questi personaggi – e ricordiamo che in ogni caso si tratta sempre di passaggi sanguinosi – il nostro problema è di ripristinare un equilibrio democratico che è stato squilibrato, prima dalla vittoria del capitalismo, poi dalla sua crisi, poi dalle catastrofi geopolitiche. Senza un nuovo equilibrio democratico, l’avranno vinta quanti, fuori d’Europa ma anche dentro, stanno già preparando nuove narrazioni e nuove politiche apertamente antidemocratiche, xenofobe, razziste, autoritarie: la istituzionalizzazione degli squilibri, delle ingiustizie, delle paure che costituiscono il panorama presente e futuro delle società europee.

Quindi, si deve cercare di riportare il capitale a un ruolo compatibile con gli interessi di tutti, cioè col bene comune – sconfiggendo le disuguaglianze e la stagnazione a cui portano le sue dinamiche ; si deve rafforzare lo Stato, non nella sua capacità di decisione eccezionale ma nella sua funzione di mediazione, di inclusione, di limitazione del privato esondante e di costruzione anche economica del «pubblico»; e si devono assolutamente reinventare i partiti, aperti alla società ma anche capaci, con la loro permanenza, di dare continuità a ciò che di effervescente ma anche di effimero si muove nella società, e di consentire così un vero dialogo fra politica e cittadini.

Abbiamo poi bisogno di riportare la società a un nuovo equilibrio pluralistico della cultura. Tutte le concentrazioni dei mezzi di comunicazione, che stanno oggi avvenendo, sono altrettanti attentati alla democrazia. Dunque, l’insegnamento e la ricerca pubblica vanno potenziati, non indeboliti. Pluralismo culturale, inoltre, vuol dire che non si possono lasciar morire gli istituti culturali presenti nel nostro Paese: sono un bene profondo e radicale, e non sono esornativi, ma sostanziali.

E dobbiamo re-imparare a far sì che le persone tornino a essere soggetti moderni, contraddistinti non dal narcisismo o dalla depressione, ma dalla autonomia. E a questo fine c’è solo la scuola, e i tempi sono lunghi: la «buona scuola» sarà quella che insegna l’autonomia non l’autoimprenditorialità. Senza dimenticare che non c’è buona scuola se non c’è buona società: infatti, autonomia vuol dire darsi la legge da se stessi, cioè essere talmente equilibrati da saper essere signori di se stessi. E questo obiettivo umanistico lo si può raggiungere (forse) solo se si realizzano le condizioni politiche, economiche, istituzionali e culturali che aiutano a non rimanere schiacciati nella paura quotidiana della povertà, della precarietà, e, oggi, anche degli attentati – insomma, il nostro obiettivo deve essere l’articolo 3 della Costituzione finalmente realizzato –. Il pluralismo culturale democratico, infine, implica la critica, cioè il sapere che non c’è un solo punto di vista (presunto “oggettivo”) da cui guardare la società, ma ce ne sono molti a seconda del luogo dove si è collocati nella società, e che vanno sostenuti perché il pluralismo è la nostra vera ricchezza.

Ri-democratizzare la democrazia è un’idea meravigliosa. È il nostro compito storico. Dobbiamo riuscirci prima che le forze della destra estrema tornino a dettare l’agenda degli Stati europei.

Relazione presentata al seminario Democratizzare la democrazia (Roma, Sala Aldo Moro, Camera dei deputati, 23 marzo 2016).

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