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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Spazio politico

Tesi sull’Europa

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1.L’Europa come costruzione unitaria o presunta tale ha natura ibrida e oscillante. Nasce fortemente politica (il federalismo di Spinelli prevedeva una superpotenza europea neutrale fra Usa e Urss) poi diviene economica (con la CECA del 1951) per riproporsi come politica (con il tentativo della CED, abortita nel 1954); la reazione è stata di nuovo economica e funzionalistica (il MEC del 1957) e lo sviluppo successivo è nuovamente politico-economico-tecnocratico (l’Europa di Maastricht del 1992 governata dagli eurocrati della Commissione e dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo, con il metodo intergovernativo), fino al Fiscal compact del 2012 che ha tolto sovranità agli Stati a favore di un trattato economico gestito da Bruxelles e interpretato autorevolmente dalla Germania. Questa oscillazione continua e la complessità contraddittoria della configurazione attuale spiega perché è impazzita la maionese europea, ovvero perché il calabrone si è accorto che non può volare (un tempo si diceva che l’Europa è come un calabrone, che per le leggi della fisica non potrebbe volare eppure vola ugualmente).

2.La possibile fine della Ue nella sua configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini: della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude (oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa dall’euro (che ha portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della stessa democrazia occidentale postbellica.

3.L’euro è un dispositivo deflattivo che obbliga gli Stati dell’area euro a passare dalle svalutazioni competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche e giuridiche del lavoro, e alla competizione sulle esportazioni, in una deriva neomercantilistica senza fine (ma, ovviamente, intrinsecamente limitata). Modellato su ipotesi francesi (culminanti nel memorandum Delors) in una pretesa di egemonia politica continentale della Francia in prospettiva post-statuale (e infatti non a caso la protesta francese contro l’Europa è oggi marcatamente statalista e protezionista/protettiva), l’euro è stato “occupato” dal marco tedesco e dall’ordoliberalismo sotteso (la «economia sociale di mercato altamente competitiva» citata dal trattato di Lisbona è appunto l’ordoliberalismo, con la sua teoria che il mercato e la società coincidono, e che lo Stato – ovvero, nel modello europeo, le istituzioni comunitarie – è garante del mercato). Il doppio cuore dell’Europa – la guida politica alla Francia, il traino economico alla Germania – ha qui l’origine dei suoi equivoci: la Francia ha un primato solo apparente, e la Germania traina soprattutto se stessa, le proprie esportazioni, e le economie incorporate in modo subalterno nel proprio spazio economico. La stessa Germania ha dovuto, peraltro, orientare l’ordoliberalismo verso il neoliberismo, abbandonando in parte le difese sociali dei lavoratori, con le riforme Schroeder-Hartz fra il 2003 e il 2005. Ne è nato un disagio sociale che sembra oggi orientarsi anche verso la SPD (che pure ne è stata a lungo responsabile).

4.Gli spazi politici in Europa (la questione centrale) sono multipli e intersecati. Vi sono gli spazi degli Stati, demarcati da muri fisici e giuridici; vi è lo spazio della NATO, che individua una frontiera calda a est, e che è a sua volta attraversato dalla tensione fra Paesi più oltranzisti in senso anti-russo (gli ex Stati-satellite dell’Urss) e Stati di più antica e moderata fedeltà atlantica (tra cui la Germania); vi è la frontiera fra area dell’euro e le aree di monete nazionali; e soprattutto vi sono i cleavages interni all’area euro – che non è un’area monetaria ottimale –, ovvero vi sono gli spread, e oltre a questi vi è la differenziazione cruciale fra Stati debitori e creditori; vi è poi uno spazio economico tedesco, il cuore dell’area dell’euro, che implica una macro-divisione del lavoro industriale e un’inclusione gerarchizzata di diverse economie nello spazio economico germanico. È decisivo capire che lo spazio economico tedesco e lo spazio politico tedesco non coincidono (molti Paesi inglobati di fatto nell’economia germanica hanno una politica estera lontana da quella tedesca): è questa mancata sovrapposizione a impedire l’affermarsi di un IV Reich, che peraltro neppure la Germania desidera. A questa complessità spaziale si aggiunga il fatto che la NATO ora non è più la priorità americana, e che gli Usa di Trump sembrano al riguardo un po’ più scettici (ma su questo punto è necessario attendere l’evoluzione degli eventi; probabilmente lo scopo statunitense è solo quello di far sostenere agli alleati un peso economico maggiore a quello attuale, e in ciò Trump è in linea con Obama).

5.È del tutto implausibile pensare che la Germania, anche in caso di vittoria socialdemocratica, possa avanzare verso l’assunzione di una maggiore responsabilità politica europea (ad esempio, accedendo a qualche forma di eurobond): anzi, la cancelliera Merkel verrà forse punita per il suo presunto lassismo verso la Grecia e verso i migranti. Del resto, la sua proposta di Europa a due velocità – qualunque cosa significhi – vuol dire proprio l’opposto di un’assunzione di maggiore responsabilità. In Europa convivono già diversi “regimi” su molteplici aspetti della politica internazionale; il punctum dolens è il regime dell’euro, che Draghi ha difeso come «irreversibile», richiamando così la Germania alle proprie responsabilità e implicitamente riproponendo la propria politica di Qe – che la Germania non gradisce, benché le porti sostanziosi vantaggi sulle intermediazioni, effettuate attraverso la BuBa –, che però non è in alcun modo risolutiva della crisi economica. In ogni caso, lo status quo benché complessivamente favorevole alla Germania presenta per quest’ultima qualche svantaggio: oltre al contenzioso politico con gli anelli deboli della catena dell’euro, anche l’inimicizia americana, motivata dal fatto che l’euro è mantenuto debole per facilitare le esportazioni tedesche (prevalentemente). Mentre un euro a due velocità – che nel segmento più forte verrebbe apprezzato rispetto all’attuale – risolverebbe qualche problema politico, non impedirebbe alla Germania (che ha grande fiducia nella propria base industriale) di continuare a esportare merci ad alto valore aggiunto e ad esercitare egemonia nel proprio spazio economico, e toglierebbe di mezzo alcune preoccupazioni di Trump. Insomma, un nuovo SME, benché non risolutivo, sarebbe probabilmente una boccata d’ossigeno per molti.

6.In Italia la UE è stata pensata come «vincolo esterno» per superare d’imperio le debolezze della nostra democrazia, e il nostro acceso europeismo è stato il sostituto compensativo della nostra scarsa efficacia politica sulla scena internazionale, diminuita ulteriormente da quando la fine del bipolarismo mondiale ci ha privato del pur modesto ruolo di mediatori, nel Mediterraneo, fra Occidente e mondo islamico. Il continuo acritico rilancio del nostro Paese sugli step successivi dell’integrazione europea – SME, euro, Fiscal compact – non è stato poi esente da aperti intenti punitivi: basti ricordare il sarcasmo di Monti sul posto fisso, da dimenticare perché «noioso», o gli auspici di Padoa-Schioppa sul fatto che l’euro avrebbe nuovamente insegnato ai giovani, a cui lo Stato sociale l’ha fatta dimenticare, la «durezza del vivere».

7.Impiccarci al «vincolo esterno» vuol quindi dire preservare una configurazione di spazi politici che vede la nostra sovranità compromessa dal nostro partecipare alla pluralità incontrollabile degli spazi politici europei. Anche quando eludiamo più o meno astutamente alcuni vincoli dell’euro, restiamo subalterni alle sue logiche economiche complessive, oltre che ai «guardiani dei trattati», più o meno benevoli o rigorosi – secondo i loro disegni. E soprattutto vuol dire privarci degli strumenti per invertire la nostra filosofia economica e politica, e quindi consegnare l’Italia alla protesta sociale causata dall’insostenibilità del modello economico.

8.Sono necessarie riforme che vadano in senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione, si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i veri problemi dell’Italia, non i vitalizi né le date dei congressi, che sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi). Le leggi elettorali, altro tema che appassiona il ceto politico, a loro volta, sono certo importanti; ma il pericolo più grave – l’Italicum – è stato sventato.

9.Lo strumento principale per questa rivoluzione, per questa discontinuità – o se si vuole, più semplicemente, per rimettere ordine in casa nostra, per ridare l’Italia agli italiani, nella democrazia e non nel populismo –, è lo Stato e la sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano in un nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in ciò dal constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino non è segnato), una via importante per la riduzione della complessità dell’indecifrabile spazio europeo. Il termine dispregiativo «sovranista» non significa nulla se non un rifiuto di approfondire l’analisi del presente, e quindi denota una subalternità di fatto ai poteri dominanti (e declinanti).

10.L’Europa va ridefinita come spazio di pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di «servizi» – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le «cornici» delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo. Sotto il profilo storico e intellettuale Europa e democrazia si coappartengono, benché la prima democrazia moderna sia nata in America; ma per altri versi si escludono, se ci si attende la democrazia da un blocco continentale unificato da trattati monetari e dall’egemonia riluttante della Germania: di fatto la democrazia in Europa vive insieme agli Stati, e alla loro collaborazione. Dire che l’euro è irreversibile è in fondo un atto di disperazione intellettuale e politica, o almeno di scarsa immaginazione: un atto anti-europeo, in fondo. Di irreversibile, a questo mondo, c’è solo l’entropia, un destino fisico; ma ciò che la storia ha fatto può essere cambiato, soprattutto se il cambiamento deve salvare le nostre società e le nostre democrazie. Ed è appunto la politica quella che, posto che se lo proponga, serve a cambiare le cose, mentre al contrario le profezie catastrofiche – minacciate a chi pretende di percorrere una via difforme dal mainstream elevato a destino – non si sono avverate. Questo ci sia di conforto e di stimolo al pensiero e all’azione.

 

Origine e declino dello spazio politico moderno

ph-14

Per trattare il tema del moderno spazio politico si deve prima comprendere che cosa significa «spazio» in politica e nel pensiero politico, e al tempo stesso si deve comprendere la nozione di «spazio implicito».

Queste idee sono state sviluppate in Carlo Galli, Political Spaces and Global War, Minneapolis, Minnesota University Press, 2010 (ed. or. Bologna, Il Mulino, 2001).

 

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A) Che cosa significa che lo spazio ha rilievo per la politica e per il pensiero politico?

1.Che lo spazio abbia rilievo per la politica significa non solo che il potere politico deve calcolare gli spazi del proprio esercizio e tenere conto delle dimensioni e delle distanze (si istituiscono così le differenze fra imperi e piccoli Stati, oppure fra climi e caratteri). Significa che esiste un rapporto concreto della politica con la geografia, del potere con i territori, o meglio – per quanto ci riguarda – del pensiero e delle istituzioni con il nesso natura/cultura, nella storia. Ma soprattutto significa che lo spazio è un paradigma o un quadro nascosto nel pensiero e nelle istituzioni politiche; che viene assunto e utilizzato in modo implicito e non sempre riflessivo.

2.Lo «spazio implicito» di cui si parla non è un inerte dato geografico, una passiva natura; è piuttosto il sistema delle differenze, delle distanze e delle vicinanze, delle sovra- e delle sotto-ordinazioni (non è solo a due dimensioni, quindi, ma a tre; anzi a quattro, se considerato in proiezione cronologica), consapevolmente o inconsapevolmente tracciate dai poteri formali e informali; è la struttura topologica dell’Essere a cui fa riferimento, consapevole o non, il pensiero politico. È uno spazio politico, fatto dalla politica o pensato e presupposto dalla politica. È uno spazio che è all’opera sia che il pensiero e le istituzioni politiche pensino apertamente lo spazio, sia che lo escludano dalla riflessione e che lo mettano tra parentesi. È uno spazio fatto di linee più o meno mobili di differenziazione, cioè di inclusione e di esclusione: grazie ad esse si è collocati dentro o fuori dai confini politici, dalla piena cittadinanza legale, ai margini o al centro di ambiti produttivi, di rotte, di traffici; vi sono linee (e spazi) di amicizia, del colore, di religione, di genere, di economia, di cultura, di buone o cattive maniere; di fuga e centripete, di costruzione e di frattura. E sono linee non metaforiche ma reali – non però naturali, ma storiche e politiche –. Lo spazio politico è difforme rispetto allo spazio fisico. Spazio, potere, differenza sono strettamente intrecciati: lo spazio politico è fatto di relazione fra diversi. Dunque, lo spazio non ha un’essenza ontologica, non è il sostituto dell’Essere, il fondamento del mondo (come può apparire in alcuni frammenti di Nietzsche preparatori allo Zarathustra 1883: «con solide spalle lo spazio si oppone al nulla; dove è spazio là c’è essere»); non ha in sé potere ordinativo (l’errore della vecchia geopolitica, e anche a tratti l’ambiguità di Schmitt in Der Nomos der Erde 1950); piuttosto, lo spazio è potere, è interpretazione e mobilitazione. Lo spazio diviene per noi prezioso, oggi, per decifrare il mondo dopo che il tempo – la storia come progresso – non è più una bussola affidabile: dentro/fuori, alto e basso, statico/nomade, spiegano di più che vecchio/nuovo (questa coppia è il modo in cui si presenta la politica, e va appunto ricodificata e decostruita, per coglierne la politicità intrinseca, in destra/sinistra – ma non è questo il nostro tema – e in dentro/fuori, alto/basso). Insomma, la politica è sempre spaziale, e lo spazio è sempre politico (Sassen, Territory, Authority, Rights 2006; S. Elden, The Birth of Territory 2013). Non viene prima lo spazio, né prima la politica: i due ambiti sono forse disciplinarmente distinti (il primo è di storia del pensiero, il secondo è di storia della geografia), ma di fatto convergono e vanno trattati da un pensiero metadisciplinare (filosofico) che ne colga l’interazione.

3.In età moderna, nello Stato moderno, il pensiero e le istituzioni, da un punto di vista formale, cercano di produrre uguaglianza, vicinanza, omogeneità (lo Stato); di eliminare lo spazio e di enfatizzare la dimensione del tempo (il progresso). Un’analisi ravvicinata del pensiero moderno mostra però che la differenza non è annullata ma semplicemente allontanata: è ammessa, o in ogni caso è riconosciuta, in una lontananza spaziale specifica, le colonie, il fuori. Lì c’è la meraviglia e l’orrore, la difformità e l’anomalia; lì il potere che agisce per linee di inclusione e di esclusione si lascia vedere. E viene, con diverse strategie intellettuali, identificato e giustificato, messo al servizio della grande uguaglianza, della ragione moderna, che così accetta e ammette di incorporare in sé la disuguaglianza.

4.Il nostro intento è appunto rileggere la spazialità implicita nella modernità a partire dal fatto che le linee di potere che istituiscono un ‘fuori’ in realtà lo portano ‘dentro’, nel senso che senza quel fuori il sistema di potere non funziona. E al tempo stesso il nostro intento è rileggere oggi il mondo globale – in cui tutto è ‘dentro’ – come percorso da innumerevoli linee di potere che operano inclusione a diversi livelli gerarchici o che tentano l’esclusione, e che insomma cercano di dare ordine funzionale, non statico, alle parti del globo, di formare aree omogenee (di scambio, di unità monetaria, di uniformità giuridica). Linee che a loro volta sono scavalcate e trasgredite da contropoteri, o sono comunque in difficoltà nel sostenersi e nell’affermarsi. Linee che sono o vogliono essere barriere, e linee che sono incontri e passaggi; che sono frontiere e fronti di battaglia. In generale, per leggere il potere che dà forma e figura (benché cangiante) al mondo si deve oggi interpretarlo come potere che, con le sue linee, crea e sottrae spazi, crea uguaglianze e differenze. Queste linee (questi spazi impliciti) possono essere lette tanto nella politica pratica – nel diritto, nell’economia, nella differenziazione sociale – quanto nell’ideologia, nel discorso pubblico, nei quadri concettuali che sorreggono le costituzioni materiali. Fare emergere gli spazi impliciti significa perciò decostruire e criticare.

B) I diversi significati di «spazio» nella storia del pensiero politico. Una breve rassegna.

Quali spazi impliciti sono ravvisabili nel pensiero politico e nelle istituzioni politiche? Possiamo distinguerli come segue, notando che dall’età moderna in poi – il punto di svolta è la scoperta dell’America, cioè l’allargamento dello spazio europeo, e la frattura interna dello spazio cristiano, che si voleva universale, cioè la Riforma – le varie spazialità implicite si susseguono per contrapposizione, secondo quanto appare, ma in realtà per sviluppo di alcuni caratteri impliciti nel modello precedente.

1.Lo spazio qualitativo, delle differenze naturali.

In vario modo, è lo spazio politico antico della polis e di Roma – benché la qualità della differenziazione fra civiltà e barbarie sia nei due casi sia molto diversa: naturale e giuridica.

2.Lo spazio agonistico in Machiavelli

Per Machiavelli lo spazio è un’arena, un’area di lotta civile e militare. La città e il territorio, interpretato dal principe, devono avere un rapporto con la virtù, cioè con il conflitto (sono quindi preferibili i “luoghi inameni”, che rafforzano la virtù: Discorsi I, 11; e lo spazio deve essere visto dal punto di vista della guerra sempre possibile: Discorsi III, 39 oltre che Principe 14).

3.Lo spazio cattolico del tomismo e della seconda scolastica.

Prosegue lo spazio universale cristiano medievale (ma in realtà era duale, poiché in conflitto con l’Islam). Il primo esempio è Vitoria De Indis. Si tratta di uno spazio non differenziato ontologicamente – tutti gli uomini sono Imago Dei e tutti possono autogovernarsi –. Le differenze di sviluppo e di conoscenza del Vangelo possono creare l’esigenza di un aiuto caritatevole verso i ‘selvaggi’ da parte delle potenze cristiane, che – inoltre – non devono essere impedite nei loro traffici e nella propagazione del cristianesimo. Lo spazio universale omogeneo e pieno di qualità (Imago Dei) conosce quindi linee di differenziazione teoricamente provvisorie. La posizione opposta, di differenziazione qualitativa e gerarchica fra Europa e America, è in Sepulveda Democrates alter 1547 (gli indigeni americani sono homuncoli); ma è una tesi diffusa fino al XVIII secolo (Gerbi, La disputa del nuovo mondo 2000).

4.Lo spazio utopico.

Collocato fuori dall’essere, trova posto nel dover essere; è un’isola in mezzo al mare, agli antipodi, lontana. È un universalismo estremo: si pone in modo indifferentemente astratto davanti a tutto il mondo reale, in ogni sua manifestazione. Esiste anche l’utopia interna che si veste da esterna, la critica da un punto di vista che si vuole tanto innocente da travestirsi da straniera (Montesquieu, Lettere persiane).

5.Lo spazio liscio universale vuoto del razionalismo moderno.

È uno spazio che preesiste alle cose, in cui le cose hanno un posto che viene ordinato e segmentato dalla politica.

i) È in primo luogo un universalismo operativo, nel senso che lo spazio si offre a ospitare il costrutto umano, l’artificio, l’immagine del mondo tracciata dalla tecnica (Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo 1938, in Sentieri interrotti 1950). La vera dimensione di questo spazio è il tempo progressivo: c’è progresso quando nello spazio omogeneo viene costruito un artificio, quando si passa dallo stato di natura allo Stato politico, dalla barbarie alla civiltà. Questo spazio universale è il diritto naturale soggettivo. Paradossalmente l’universalismo laico moderno si realizza in una pluralità di Stati particolari, ciascuno dei quali costruisce se stesso come universale vuoto, omogeneo, neutrale e giuridificato, per superare la frattura delle guerre di religione: è in questo spazio che i diritti naturali del singolo soggetto diventano diritti civili e politici, attraverso i dispositivi di cittadinanza e le lotte per l’inclusione che su di essa si sono sviluppate (Isin, Being political, 2002). Il passaggio dalla guerra alla pace, dall’anarchia all’ordine, dalla natura alla proprietà, è in linea di principio possibile ovunque, ma di fatto è avvenuto in Europa: l’America è la metafora dell’universalità indifferenziata naturale, contrapposta all’universalità differenziata civile e progredita (Locke, Secondo Trattato, cap. V Della proprietà: un tempo ovunque era America; analogo ruolo ha l’America in Hobbes Leviatano 13, con la differenza che il progresso per Hobbes è sempre minacciato e reversibile). La differenza fra America e Europa è quindi enorme, ma è transitoria, superabile. L’unica spazialità intrinseca al razionalismo moderno è imposta, è politica: è il rapporto, posto e creato dalla sovranità statale, fra interno/esterno, criminale/nemico, pace/guerra (fra soggetti diversi ma qualitativamente analoghi: hostes aequaliter iusti). Questo è l’asse categoriale di tutta la politica moderna, l’unico spazio (binario) che si ammette apertamente. Lo spazio omogeneo interno, e l’esterno abitato da spazi analoghi ma altri, alieni, stranieri.

ii) Eppure, in questa spazialità semplice e vuota ci sono, implicite, ben altre linee di potere politico differenziante. Lo sappiamo da Schmitt (Der Nomos der Erde), il quale ha dimostrato che la sovranità è solo europea e che è resa possibile da esercizi di potere non giuridificato in ambito marittimo ed extraeuropeo. Ma lo sappiamo da Locke, che afferma che l’America è conquistabile proprio perché non c’è proprietà, dato che non c’è lavoro – la conquista in quanto tale non fonda alcuna legittimità se il conquistato è uno Stato civile (Secondo Trattato, XVI Della conquista) ma se è scoperta e insediamento lavorativo in un contesto di abbandono è legittima –. Allo stesso modo dove non c’è territorio (in mare) è possibile condurre una guerra privata per difendere e riconquistare la propria proprietà (Grozio, De iure predae): la linea del potere passa quindi per il lavoro e la proprietà. La violenza illegittima si consuma comunemente fuori dall’Europa, attraverso l’occupazione, la colonizzazione, la valorizzazione commerciale, che non sono giustificate in quanto tali ma che sono riconosciute come un ponte, un passaggio, verso una piena integrazione dei ‘selvaggi’ nella civiltà giuridificata (Kant, Principi metafisici della dottrina del diritto). Di fatto anche nel pensiero politico razionalistico c’è una eco civilizzata della terribile esportazione di violenza incontrollata e selvaggia verso gli spazi non europei (atlantici e asiatici – dalla tratta negriera alla pirateria alla devastazione del sud America alle terribili lotte fra portoghesi inglesi e olandesi per le Molucche, le isole delle spezie, su cui cfr. Milton, Nathaniel’s Nutmeg 1999) che è il vero motore dell’accumulazione capitalistica, in cui guerra e commercio si compenetrano a livello globale (contro il “dolce commercio”). Il capitalismo mondiale è la verità dello Stato europeo: le linee spaziali statali europee interno/esterno sono in realtà intersecate e alimentate dalle molteplici linee di potere extra-europee delle rotte oceaniche e dei commerci diseguali, delle guerre di sterminio (anche fra potenze europee, fuori d’Europa), dello schiavismo. L’esterno è il cuore dell’interno. L’universalismo capitalistico è generatore di infinite differenze non determinate ontologicamente dallo spazio fisico ma economicamente e politicamente dalla diversa collocazione nei regimi della produzione.

6.Lo spazio rivoluzionario, romantico e dialettico, fra natura e storia.

Lo spazio moderno che si pretende vuoto viene riempito di natura società e storia dalla nazione e dallo Stato borghese. In Sieyes le linee di potere sono interne (la divisione del lavoro, la lotta ai privilegi) ed esterne (la nazione rivoluzionaria in armi); in Ritter lo spazio non è più né solo politica né solo natura, ma storia; lo stesso vale per Hegel, secondo il quale (Filosofia del diritto §§ 244-7) lo spazio è sviluppato in senso progressivo da Oriente a Occidente, e ‘progresso’ significa complicazione: infatti lo spazio è anche, in parallelo, percorso da contraddizioni all’interno (la società civile) che riversa all’esterno (col colonialismo); il rapporto dentro/fuori si complica, il ‘fuori’ viene interpretato come condizione dell’esistenza del ‘dentro’. Lo spazio è risolto nel ‘prima’ e nel ‘poi’, nel tempo. In Marx ciò è chiarissimo: lo spazio interno (lo Stato) è percorso da concrete fratture di classe, più vere della vuota omogeneità della democrazia; e questa spazialità è resa possibile dalla spazialità, anch’essa differenziante e gerarchizzante, del capitalismo globale, storicamente determinato. Lo spazio è modificato dalla storia e dall’economia.

7.Lo spazio naturale quantitativo e differenziato del positivismo.

   Lo spazio è retto da leggi fisiche e antropologiche (quantitative), scientificamente conoscibili, che lo differenziano: The burden of the white man è gestire queste differenze, non superarle. Lo squilibrio economico e tecnico (reale) è politicizzato attraverso il ricorso a leggi naturali a cui la politica non può sottrarsi e da cui anzi è legittimata. Le differenze sono insuperabili (Kipling, East is East, and West is West, and never the twain shall meet) ma gerarchizzano, non separano le parti, gli spazi: colonialismo e razzismo entrano in gioco come attori primari del discorso politico. Insieme a essi agli inizi del secolo XX appare la geopolitica, cioè l’idea che sia lo spazio con le sue differenze interne e con le sue logiche immanenti a dettare le leggi della politica – il nesso fra spazio e potenza è governato da leggi fisiche e geografiche che la politica deve assecondare: ad esempio e il concetto di Hearthland di Mackinder, The geographical Pivot of History 1904 –.

8.Lo spazio invertito e differenziante dei totalitarismi.

L’inversione è rispetto alla statualità nella sua autodefinizione classica: all’interno c’è omogeneità e non uguaglianza, e soprattutto la differenza dentro/fuori è portata dentro: all’interno c’è il nemico, oggetto di guerra interna. Un altro rovesciamento (sempre rispetto all’autodefinizione della modernità) è che lo sterminio viene introdotto in Europa, mentre era praticato negli spazi extra-europei. L’elemento della differenziazione è nelle teorie tedesche e giapponesi dei “Grandi Spazi”, apertamente anti-universalistiche. Il globo è diviso in blocchi eterogenei e chiusi.

9.Lo Spazio planetario duale

Nasce nel secondo dopoguerra dalla grande spartizione del mondo fra Usa e Urss e dalla fine dell’eurocentrismo. È lo spazio del conflitto fra due universalismi agonistici: lo spazio tendenzialmente indifferenziato delle democrazie, dei diritti e del capitale, vs lo spazio tendenzialmente indifferenziato del socialismo. Due osservazioni. La prima è che alla divisione fra Est ovest si aggiunge in realtà anche quella fra Nord e Sud (al sud possono capitare cose che al nord non sono tollerate, come il conflitto armato fra i due mondi: un esempio è la guerra del Vietnam, un altro sono le guerre di liberazione coloniale, condotte dalla guerriglia come nel caso del Che, da eserciti regolari come nel caso dell’intervento di Cuba in Angola). La seconda osservazione è che proprio per il fatto che si tratta dello scontro fra due universalismi, è stato sostenuto che la vera spazialità implicita nell’epoca della Guerra fredda è l’Universale, cioè l’Uno e non il Due: l’unità del mondo è data dalla tecnica e dalla produzione industriale, che sono il vero presupposto comune tanto del capitalismo quanto del comunismo (Schmitt, L’unità del mondo 1951).

10.Lo spazio globale

È lo spazio implicito ed esplicito dell’unico vincitore della guerra fredda, la liberaldemocrazia e il capitalismo.

i) È uno spazio che secondo la sua autorappresentazione vuole essere liscio, senza ostacoli, in cui si possono muovere ed esportare merci e mercati, diritti e democrazia. Nessuna differenza qualitativa e di principio ha diritto di esistere. Né quella fra nazioni, né la differenza fra spazio interno e spazio esterno allo Stato: nemico e criminale quindi si equivalgono, e di conseguenza le guerre in senso proprio non ci sono più, sostituite da atti di protezione e di polizia. Il diritto governa il mondo, in linea di principio: il nomos della terra è la democrazia universale e i diritti umani su scala universale, è inoltre l’Onu col suo “dovere di protezione”, e infine è lo scambio universale, la lex mercatoria che oltrepassa le ‘striature’ dello spazio operate dagli Stati post-sovrani. Emblema di questo universalismo – erede estremistico di quello del razionalismo moderno – sono la rete (www) e la finanza; due forze che non solo affrontano lo spazio modernamente come se questo fosse a loro completa disposizione ma che, ancor più, tendono a trasformarlo da universale in virtuale, cioè a creare uno spazio che è esso stesso artificiale, sostitutivo di quello naturale e di quello della metafisica moderna centrato sul soggetto (Sloterdijk, Sfere, 1998-2004).

ii) Ma in verità quello globale è uno spazio paradossale, oltre che un tempo paradossale, per due motivi. Il primo è che ogni punto è immediatamente a contatto col tutto (il cosiddetto glocalismo): i filtri e le mediazioni di spazi intermedi non esistono, così che tutto può accadere ovunque in ogni momento, e ciò che accade in un punto ha istantaneamente conseguenze su ogni altro punto (ciò vale sia per il terrorismo sia per le operazioni finanziarie). Il secondo motivo è che si tratta in realtà di uno spazio discontinuo e gerarchico, benché le gerarchie non siano disposte in un ordine rigido e fisso: ci sono diverse posizioni e configurazioni nel sistema del capitalismo globale (le superpotenze – Usa, Cina, Ue che cercano di articolare Grandi Spazi concorrenziali, non chiusi ma aperti –, i BRICS, gli Stati che si affacciano alla scena mondiale, gli Stati falliti, l’Africa che è terreno di scontro fra Usa e Cina); ci sono le masse dei migranti espulsi dai confini statali crollati (Sassen, Expulsions 2014) e dispersi nel mondo come segno vivente di contraddizione e catturati in nuovi spazi di confine e di lotta (Mezzadra – Neilson, Border as method 2013); ci sono le nuove inquietanti guerre ‘da remoto’, con i droni che capovolgono il rapporto amico/nemico e annullano la spazialità che gli è implicita (G. Chamayou, Théorie du drone 2013).

C) Conclusioni

La globalizzazione produce uno spazio politico percorso da linee ben più complesse di quanto essa affermi. Il che ci porta, per il presente, a ipotizzare interpretazioni alternative del Globale, sia quanto alla sua genealogia (e qui hanno rilievo gli studi Atlantici, quelli Postcoloniali e la nuova geopolitica, ovvero gli approcci che mostrano quanto la centralità dell’Europa nel Moderno si sia costruita nel continuo confronto con gli elementi spaziali e antropologici non europei) sia quanto ai tipi di problemi che lascia da affrontare. Questi possono così essere sintetizzati: la ridefinizione del ruolo dello Stato post-sovrano nel contesto dei Grandi Spazi in cui si articola il capitale globale, la trasformazione del significato della cittadinanza, il rapporto fra stanzialità e nomadismo (più fecondo di quello fra Impero e moltitudini), il ruolo (e la differenza reciproca) dei bordi (edges), dei limiti (boundaries), dei confini (borders), delle frontiere (Frontiers). Si tratta infine di decostruire l’universalismo astratto della spazialità globale e di scoprire le molte linee di potere, vecchie e nuove, che lo costituiscono (quella di genere, incrociata con quella di religione, resta centrale), senza cadere tuttavia nella nostalgia delle frontiere, delle identità, degli spazi chiusi (su queste ultime si veda, invece, R. Debray, Éloge des frontières 2010). In questo programma di studi si mostra, per concludere, che la dimensione dello spazio è decisiva sia per la critica genealogica del Moderno sia per la critica politica del Globale. Una critica che consiste, operativamente, nel “cartografare il presente”.

Lezione magistrale tenuta il 7 novembre 2016 presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. 

 

 

 

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