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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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A sinistra: da dove ripartire?

Intervista con Virgilio Carrara Sutour

Professor Galli, parlando della distanza della sinistra e del centro-sinistra dall’elettorato che vorrebbero rappresentare, del loro eterno dividersi e della conseguente incapacità a reagire a forze che si accaparrano elementi del loro discorso, da dove possiamo partire per ricercare le cause di questa condizione?

Il fatto di parlare, allo stesso titolo, di ‘sinistra’ e di ‘centro-sinistra’ costituisce in sé un indice di indeterminatezza su ciò che oggi la sinistra è.

Con ogni evidenza, il centro-sinistra si è posto come architrave dell’attuale sistema socio-politico ed economico. Ciò ha funzionato finché il sistema ha avuto un minimo di capacità produttiva, di ordine e benessere. Quando il sistema, nel 2008, è andato in crisi (benché le ragioni della crisi siano insite nella sua stessa natura), la politica italiana è stata sospesa: abbiamo avuto governi tecnici sorretti in Parlamento quasi da tutta l’Assemblea. In seguito, abbiamo avuto un centrosinistra – la fase renziana – che ha promosso una serie di riforme funzionali a un assetto tutt’altro che ‘di sinistra’.

Ossia?

Allo scopo di rendere il sistema sociale ed economico più funzionante, conservandone tutte le contraddizioni interne, alcune riforme sono state fatte (il ‘Jobs Act’, la ‘Buona Scuola’); altre sono fallite: la Costituzione. Di fatto, il centro-sinistra non ha saputo – questo è il punto – individuare e, men che mai, correggere le contraddizioni del sistema, che produce più disagio che benessere, più povertà che ricchezza. Inoltre, quando produce ricchezza, non la distribuisce equamente. Il sistema genera disuguaglianza crescente e priva i cittadini, soprattutto i giovani, di un ragionevole futuro.

Tutto questo non è stato approfondito e compreso dal centro-sinistra?

Non lo ha capito o non l’ha voluto capire. Alla prima occasione, non appena i cittadini hanno avuto l’opportunità di esprimersi con il voto, la loro scelta è andata contro l’architrave politico del sistema, cioè il PD, e contro il suo contraltare di destra, cioè il partito di Berlusconi. La sinistra – è ora di porre termine a questa confusione – non è il centro-sinistra.

Come può essere definita?

Come una forza di critica e di cambiamento, in senso democratico e progressista. Per ‘critica’ intendo una forza culturalmente dotata, capace di analizzare la società cogliendone il lato conflittuale, in vista o di un rovesciamento degli attuali rapporti di forza o, in ogni caso, di riforme strutturali dirette a imbrigliare la potenza del capitale, non a lasciarla correre indisturbata.

In Italia, una sinistra di questo tipo, di fatto, non c’è. Non c’è un Corbyn, per intenderci. La ragione principale è che, al di là del PD che non è di sinistra, la sinistra è poca cosa: culturalmente irrilevante e divisa al proprio interno – come dimostrano le tragicomiche vicende di LEU.

In ogni caso, tanto quando è architrave del sistema, tanto quando ne vuole essere critica, ovvero sia quando è centro-sinistra sia quando è sinistra, le forze di cui parliamo hanno assorbito fattori, elementi, suggestioni e punti di vista del sistema, in misura tale da non essere capaci di farlo funzionare, né di contrastarlo seriamente.

In che cosa si è tradotto, per la sinistra, questo processo di assorbimento?

Pensiamo soltanto che la sinistra ‘alternativa’ è, praticamente, tutta mondialista: su questo punto, che è decisivo, è perfettamente in sintonia con il neoliberismo. Detto altrimenti, la sinistra non ha alcuna consapevolezza dell’esigenza maturata dentro la società italiana – ma non solo qui – di difesa, di tutela rispetto ai fattori più perturbanti del nostro tempo: mercati e migrazioni. Volendo offrire a questo dato uno spessore storico, penso al Karl Polanyi di La grande trasformazione (1944): l’analisi della nascita dei fascismi come domanda delle società di essere tutelate rispetto a una precedente fase di liberismo estremo. In un dato momento, al predominio della funzione privata – che, tra l’altro, ha provocato gravissimi scompensi – le società oppongono la richiesta di un predominio della funzione pubblica, cioè dello Stato.

Naturalmente, con questo non intendo affermare che il fascismo sia stato veramente una tutela dalle dinamiche del capitalismo: ne è stata piuttosto una variante. Né intendo affermare che l’attuale fase politica sia analoga alla nascita dei fascismi europei. Le forze politiche che, avendola intercettata, stanno approfittando di questa fase, sono forze di destra, ma non sono fasciste, non avendo del fascismo alcuni assunti: la violenza politica come metodo, la guerra come finalità. Soprattutto, non hanno del fascismo il culto dello ‘Stato potente’.

Però ci sono elementi di violenza molto forti.

Sì, ma non sono elementi di violenza ‘sistematica’: la coincidenza tra politica e violenza, oggi, non è accettata da nessuno. Banalmente detto, chi afferma oggi che l’omicidio politico non sia un omicidio, ma una misura opportuna? Né la guerra è vista come finalità della politica, come invece era per il fascismo.

Una parte di questa violenza, però, è confluita nelle politiche securitarie alle quali si assistiamo in diverse realtà nazionali, compresa la nostra.

Appunto: mentre la fase fascista aveva sia una componente securitaria sia una componente di aggressività tanto interna quanto esterna, oggi invece prevale di gran lunga la semplice richiesta securitaria e solo in parte identitaria. Le società europee stanno chiedendo un ‘alt’ alle dinamiche economiche (che coniugano liberismo e austerità) imposte da Bruxelles e all’immigrazione. Queste sono le due grandi richieste, che però non vanno oltre: non sono prodromiche allo sviluppo di una ‘volontà di potenza’, anzi sono richieste molto piccolo-borghesi che non presentano niente di eroico e aggressivo.

Gli episodi di violenza contro i migranti non generano consenso. Nella peculiarità del caso italiano, ha invece prodotto dissenso, in un’opinione pubblica già esasperata dalla crisi, la palese incapacità dei Governi della XVII legislatura a gestire il flusso migratorio. La rabbia nei confronti dei migranti rappresenta un elemento accessorio rispetto alla gravissima crisi socio-economica che ha colto il Paese e dalla quale l’Italia non si è ripresa, a differenza di altri Stati europei – al di là del fatto che il modello economico contenuto nell’euro è un modello deflattivo, che non consente grandi sviluppi dell’economia.

Questa esigenza passiva di difesa nasce dai ceti più deboli della società, quelli che patiscono di più le logiche dell’euro. La crisi di quelle logiche non è stata ravvisata; oppure, se lo è stato, è stata derisa e negata dal centro-sinistra, ma anche dalla sinistra. Il primo fa parte dell’establishment e ha introiettato un unico ordine (politico, economico e sociale) possibile: quello vigente, che, secondo il principio thatcheriano del TINA (there is no alternative), dovrà risultare buono e giusto per chiunque.

La sinistra in senso proprio, in ogni caso numericamente priva di peso, non ha colto diverse caratteristiche della crisi.

Un esempio di questa miopia?

La sinistra chiede ancora più Europa, senza porsi il problema di ‘quale’ Europa si prospetti: aumentare il peso dell’Europa nel suo attuale assetto istituzionale ed economico porta palesemente ad aggravare la crisi, non a risolverla. Il chiedere, poi, un’apertura incondizionata dell’Italia ai diversi flussi migratori le aliena la stragrande maggioranza dei consensi degli italiani.

Il centro del consenso – lo dimostra la campagna di Salvini, a costo zero – sembra dipendere dalla questione migratoria, che diventa centrale o quantomeno equiparata a quella economica.

Abbiamo una richiesta di protezione su due fronti (economico e migratorio), che identificano fenomeni entrambi strutturali. La sinistra non riesce a mettere ordine in questo mare di problemi, mentre la destra li vede, perché più spregiudicata, più superficiale e più abile, offrendo protezione: tanto sul versante economico (ricordiamo la polemica anti-euro che c’era nella proposta della Lega), quanto su quello delle migrazioni. E gli italiani ci credono.

In tutto questo, dove si colloca il Movimento 5 Stelle?

I 5 Stelle sono un fenomeno che, prima o poi, da qualche parte deve ‘cadere’. Più facilmente – o, diciamo, ‘maggioritariamente’ – cade a destra, benché all’interno del Movimento molti voti e alcune intuizioni (che non vanno al di là delle intuizioni, cioè non diventano sistema di pensiero), un tempo, stessero a sinistra.

È molto probabile che l’offerta di protezione della destra contro il capitalismo e contro i flussi migratori sia, entro certi limiti, efficace nel secondo caso ma, al tempo stesso, che non riesca (o non voglia) fornire adeguata protezione rispetto alle logiche più dure del capitalismo. Non a caso, sotto il profilo economico, la vera richiesta della destra ha a che fare con le pensioni e non, ad esempio, con l’Articolo 18. Se si vuole proteggere la società dalle logiche del capitalismo, si deve rafforzare il potere dei lavoratori: il loro status giuridico, la loro capacità economica, il loro peso nelle lotte sindacali, puntando su un’economia fondata sulla domanda interna e non sull’esportazione. Tutte cose che la Lega non si sogna nemmeno lontanamente di fare. Mentre, probabilmente, è nelle corde della Lega aiutare il proprio elettorato ad andare in pensione presto, cosa che non è di per sé sconvolgente sotto il profilo politico – può esserlo, se mai, sotto quello dei conti.

Esiste il ‘nazionalismo’ leghista?

Una vera politica nazionalistica non costituisce un tratto distintivo della Lega, perché per fare nazionalismo ci vuole cultura: non basta dire che il presepe è più bello dell’albero di Natale, né che gli italiani sono cristiani anziché islamici. Per fare del nazionalismo bisogna essere in linea con la tradizione nazionale, cioè conoscere Dante, la storia italiana, la storia dell’arte… Ed esaltarla, il che – dico io – è in sé negativo, mentre conoscerla sarebbe un bene per tutti.

Sappiamo che, a destra, questa conoscenza non c’è; ma non c’è nemmeno a sinistra. Comunque sia, dissento fermamente da chi afferma che siamo di fronte a un’impennata del nazionalismo. Quale nazionalismo? Quando l’Europa era in preda ai nazionalismi – quelli che determinarono la Prima guerra mondiale – gli intellettuali erano almeno capaci di interpretare la cultura nazionale. Oggi chi lo fa? Siamo davanti a un’impennata di paura, molto più banalmente.

Si può spiegare questa paura con un’unica, grande causa?

La causa prima è l’insicurezza economica: in sostanza, l’individuo ha perduto il controllo sulla propria vita. Questo è il tema di fondo. Ti passa tutto sopra la testa a opera di poteri che non si riescono non solo a porre sotto controllo, ma nemmeno a individuare.

La democrazia è, in primis, retta dall’idea che la politica si trovi sotto il nostro controllo, ovvero che capiamo quello che succede perché siamo noi a farlo. In secondo luogo, la politica democratica è, almeno, trasparenza: anche se il potere è gestito dagli altri, dalle élites, siamo noi a legittimarle e a chiedere conto. L’impotenza davanti a forze non individuabili (che cosa sono i ‘mercati’? Chi sono i ‘migranti’? Da dove arrivano?) e la conseguente percezione di vivere in un contesto fuori controllo generano quel sentimento primordiale che è la paura.

La sinistra e il centro-sinistra hanno fatto di tutto: non per eliminare le cause della paura, ma per dire agli italiani che sono degli stupidi, dei selvaggi e dei barbari, se hanno paura: mi sembra assolutamente folle, anche sotto il semplice profilo del buon esito della propria proposta politica.

Cosa è mancato a quelle proposte?

Bisogna ascoltare le ragioni di chi ha paura, capire che cosa teme allo scopo di eliminarlo, non di opporvi prediche e buoni sentimenti. Parliamo di paure altamente giustificate, soprattutto quelle inerenti alla nostra condizione socio-economica. In una situazione di paura, i cittadini non si sono certo rivolti a Bruxelles per farsi difendere, né all’ONU. Si sono rivolti all’unica realtà istituzionale che conoscono, per la quale votano e che identifica la loro soggettività giuridica pubblica: lo Stato. Da qui nasce l’accusa di ‘sovranismo’: un’accusa sbagliata e concettualmente fallace, perché l’idea che esiste la sovranità popolare (ossia: sono i cittadini che comandano, non i mercati) è contenuta nella Costituzione e quindi non è un ‘ismo’, una tendenza di parte, ma è patrimonio di tutti.

Questi sono discorsi che stanno benissimo a sinistra. Tuttavia, per motivi di compromissione con il potere (il caso del centro-sinistra) o di incapacità culturale (la sinistra), essi non sono stati rilevati. Sono stati, invece, raccolti entusiasticamente dalla destra che vi ha fatto rientrare le sue scarse vedute e i suoi pregiudizi. Per cui la sinistra deve piangere se stessa per quanto sta succedendo in Italia: se Salvini vince le elezioni, non è colpa sua, ma di chi lo lascia vincere, dicendo ai cittadini che sono dei deficienti o dei barbari.

Secondo Lei la sinistra è in grado di rifondare un proprio discorso? Ci sono esempi storici che potrebbe recuperare?

L’Italia uscì dal fascismo attraverso una guerra, scatenata e persa dal fascismo, dentro la quale si è inserita la Resistenza. Poiché nessuno evidentemente auspica tragedie, occorrerà molta pazienza. Tranne che i rappresentanti dell’attuale Governo non commettano errori così gravi da alienarsi il proprio elettorato (quello che sperano in tanti), bisogna ricominciare da capo.

In che modo?

Smettendola di pensare che la sinistra debba avere più amici tra gli imprenditori che non tra i sindacalisti. Facendola finita con l’idea che centro-sinistra e sinistra siano la stessa cosa, e che non ci siano differenze di interessi all’interno della società, perché queste differenze ci sono. È giusto dire a una persona: ‘Non sei titolare di alcuna tutela perché il capitalismo vuole flessibilità’?

La sinistra non è nata per favorire il capitale e le sue ragioni, ma per analizzare la società da un punto di vista specifico, quello del lavoro e per organizzarne gli interessi e i valori. Concettualmente è facilissimo dire a qualcuno: ‘Faremo una legge perché tu possa essere licenziato, perché il capitalismo di oggi funziona così; ma non ti preoccupare, perché il capitalismo funziona tanto bene che, se ti licenzia un’impresa, il giorno dopo un’altra sarà pronta ad assumerti’. Affermare questo è facile, ma criminale: il capitalismo odierno funziona distruggendo il lavoro, non creandolo, perché non ne ha bisogno. E infatti, in ultima analisi, un’ipotesi come il reddito di cittadinanza va nella logica dell’attuale forma di capitalismo, che preferisce dare sussidi piuttosto che creare lavoro (se invece insieme al reddito di cittadinanza verrà creato vero lavoro, tanto meglio: staremo a vedere).

Non dico, allora, di fare la Rivoluzione di ottobre: l’obiettivo è riequilibrare, con un nuovo compromesso, le ragioni del capitale e quelle del lavoro. Niente di sconvolgente, ma certamente un cambio di paradigma. Più beni comuni, più potere al lavoro, più domanda interna, più mano pubblica nell’economia, più investimenti. Per cominciare, si dovranno organizzare gli interessi che si contrappongono naturalmente al capitale, senza inventarseli.

Come farlo, concretamente?

Iniziando a tornare sui luoghi di lavoro. Anziché alle assemblee di Confindustria, si deve andare alle assemblee sindacali.

Un metodo che fa appello a una ritrovata condizione di prossimità?

Assolutamente sì. Prima occorre l’analisi critica, quindi anche distanza: studiare i libri e le ricerche empiriche, a livello intellettuale. A livello di azione politica, poi, è questione di prossimità… Senza, però, entrare nella logica della politica fatta per via telematica, che è perdente. La politica funziona quando le persone si parlano: tutti ne abbiamo bisogno. Ma per parlarsi è necessaria la fiducia verso coloro che si propongono come politici. Temo che la sinistra, intesa anche come persone, oggi abbia perso la fiducia degli italiani.

Potrebbe citare, in proposito, un esempio recente di questo distanziamento?

Nel caso emblematico del crollo del ponte Morandi a Genova, penso che una sinistra (un centro-sinistra, in realtà) che continua orgogliosamente a rivendicare le privatizzazioni manchi di intelligenza politica. Le logiche del neo-liberismo sono state assorbite a tal punto dagli esponenti di questa sinistra, che paiono credere davvero che il privato perseguendo i propri interessi realizzi, attraverso la concorrenza, l’interesse collettivo. Quando cade un ponte costruito con denaro pubblico e dato in gestione a un privato (con i guadagni che ne derivano), la prima cosa da pensare non sarà: ‘Abbiamo fatto bene a fare le privatizzazioni’, bensì: ‘Forse c’è qualcosa di sbagliato nell’affidare un bene pubblico in mano ai privati’.

Dagli anni ’80, i pregiudizi filo-capitalistici hanno sostituito i dogmatismi marxisti. In tempi non così lontani, certe persone giuravano sulle parole di Karl Marx, che forse non avevano nemmeno letto…

Cosa ha significato, per la società italiana, il voto politico del 4 marzo 2018?

Il neoliberismo, assunto dal centro-sinistra a panacea di ogni male, spiana le società, disgregandole. Al momento di andare a votare, queste società si ribellano: si potrà gridare al cielo che sono ‘barbari’, ma intanto gli elettori hanno votato. Se solo penso che le fasce più avanzate del PD hanno come motto ‘discontinuità senza abiure’, e che sono convinte di prendere voti su questa base… In realtà l’unica loro speranza è che l’attuale Governo sia distrutto da qualche cosa: dallo spread, dalla magistratura, da una catastrofe. Certamente l’azione politica delle forze di opposizione non sarà capace di distruggerlo, per quanto Salvini e Di Maio non siano due Napoleoni della politica.

Bisogna tornare a essere, lo ripeto, keynesiani, pensando a un forte impegno della mano pubblica: un impegno di proprietà, di direzione e di controllo. Il capitalismo, da solo, è deleterio: non a caso, l’Italia del dopoguerra si è ripresa con un’economia mista, non solo capitalistica.

Il quadro attuale non fa troppo ben sperare su cambi di marcia in grado di ridefinire le scelte politiche e il voto alle prossime elezioni europee?

Non lo so perché, da qui ad allora, chi governa fa ancora in tempo a commettere errori fatali. Un passaggio fondamentale sarà capire che cosa succede davvero una volta varato il DEF, quando la manovra economica prenderà corpo. Anche qui è davvero penoso vedere che l’opposizione consiste nell’applaudire lo spread, o nel rimanere delusi quando questo non esplode, come invece gli economisti mainstream avevano profetizzato.

Il Governo si sta giocando tutto sul ‘Decreto sicurezza’ e sulla manovra economica. Se non ci sono fatti rovinosi e se il centro-sinistra non tira fuori qualcosa di meglio degli attuali candidati e programmi, faccio una facile profezia: al momento, se in tutto il Paese la Lega è data al 32%, nel Norditalia lo è al 48%. Questo significa che buona parte degli italiani è ‘barbara’, oppure che tutte le ragioni siano state lasciate alla destra, e che la cecità più assoluta ha colpito la sinistra.

L’unica risorsa che mi appare plausibile è una candidatura di Marco Minniti nel PD, con silenzio totale e definitivo di ogni altro personaggio, a partire da Renzi. Il PD ‘diventa’ il partito di Minniti, che fa sostanzialmente concorrenza a Salvini, senza esagerare: come mostra l’esito delle elezioni in Baviera, quando un partito di centro si mette a fare concorrenza agli estremisti perde un pezzo del proprio elettorato.

Una candidatura di Minniti in questi termini comporterebbe un cambio di sistema?

Non cambia il sistema, ma lo rafforza e lo razionalizza, soddisfacendo a uno dei due problemi sul tappeto. L’altro, quello economico, non è alla sua portata. Naturalmente, con la clausola del silenzio assoluto sulla ‘Buona Scuola’ o sul ‘Jobs Act’, e con il recupero di qualche parola di sinistra, come ‘sfruttamento’ o ‘sicurezza’.

In quali forme sarebbe declinata la sicurezza?

Sicurezza rispetto alle vicende economiche (accezione che non sarà usata) e rispetto al dilagare della criminalità – quella spicciola, che spaventa quotidianamente, e quella importante, che è poco all’attenzione di Salvini (a partire dalla lotta alla mafia). Si può tentare di spiazzare Salvini su terreni di quel genere. Se, al tempo stesso, le cose vanno molto male per il governo giallo-verde, allora, lo ripeto, uno spazio c’è. Altrimenti vedo nel PD un partito che sta fra il 15% e il 20%, e gli altri che alle europee crescono ancora. Se mai, si può immaginare che M5S e Lega entrino in rotta di collisione, ma tale è la loro voglia di governare che, anche se in linea teorica rappresentano mondi e – forse – interessi diversi, si sforzeranno di restare insieme il più a lungo possibile. I 5 Stelle sono famelici di potere; sono come un bambino in un negozio di dolciumi: non lo tiri più fuori. I 5 stelle dovranno arrivare al divorzio politico da Salvini, ma è probabile che aspettino il più a lungo possibile. E poi dovranno decidere che cosa fare da grandi. E non sarà facile.

 

L’intervista è stata pubblicata in «L’Indro» il 16 ottobre 2018

La colpa e il debito

 

Proviamo a ragionare partendo dai dati esistenti. L’articolo 81 della Costituzione, prima della riforma, diceva:

«Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

Sono poche righe, e sono scritte in lingua italiana. Il nuovo testo, approvato dalle Camere nell’aprile del 2012, recita:

«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale».

Questo testo non è scritto in italiano, ma in una lingua straniera, nemica. È la lingua di un trattato internazionale firmato da uno Stato (il nostro) che ha perduto una guerra; un testo ricattatorio firmato sub vi ac metu, sotto la pressione della violenza e della paura. Là c’è la lingua libera degli uomini liberi; qui c’è la lingua specialistica che ci è stata imposta. Perché? Che cosa è successo?

L’articolo 81 della Costituzione non recepisce il fiscal compact: costituzionalizza una serie di principi che stanno alla base della costruzione economica dell’Europa dopo il 1992, da Maastricht in poi, con l’obiettivo di uniformare le filosofie sociali, politiche ed economiche degli Stati che fanno parte dell’euro, perché queste filosofie e i loro esiti applicativi non divergano troppo. La divergenza si misura attraverso lo spread; se essa è eccessiva, l’euro potrebbe spaccarsi, tranne che non si arrivi prima con i «carri armati» – cosa che è stata fatta in Grecia e che è stata possibile per le dimensioni relativamente piccole dell’economia di quel Paese; con l’Italia non si può fare, data l’entità del nostro sistema economico-produttivo -. Quindi, la preoccupazione degli Stati europei che fanno parte dell’euro (ricordiamo sempre che parliamo di Stati) a che questa moneta comune non collassi ha portato a vari accordi per uniformare le logiche con cui sono costruiti i bilanci statali. Questo avveniva nel 2011, l’anno dello spread; della cacciata di Berlusconi; della intronizzazione di Monti; e della revisione dell’articolo 81, che viene portata a compimento nei primi mesi del 2012, poco prima che gli accordi intergovernativi a livello europeo che hanno dato origine all’articolo 81 fossero formalizzati nel cosiddetto fiscal compact. Detto in altre parole, il nuovo testo dell’articolo 81 non recepisce direttamente il fiscal compact, ma la filosofia sociale, politica ed economica di fondo che sta dietro tanto alla costruzione dell’euro in quanto tale, quanto agli accordi del 2011, quanto al trattato che viene definito fiscal compact del 2012. Oggi la questione è se costituzionalizzare anche il fiscal compact, modificando ulteriormente l’articolo 81, aggravandolo – prima ipotesi -; oppure – seconda ipotesi – non lo si costituzionalizza, ma lo si inserisce all’interno dei trattati costitutivi dell’Unione europea, poiché formalmente non ne fa parte (come dire: c’è l’Unione europea, e poi, a lato, è stato fatto un trattato chiamato fiscal compact); infine – terza ipotesi – non ci si pensa nemmeno.

Ma anche se non è costituzionalizzato, il fiscal compact è un trattato a cui l’Italia ha aderito. Vediamo che cosa dice. Formalmente è il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria approvato il 2 marzo 2012 da 25 degli allora 27 Stati membri dell’Unione europea, e non sottoscritto da Regno Unito e Repubblica ceca. Come la riforma del 2011 (quella che ha generato l’articolo 81 e che, sostanzialmente, rende automatiche delle sanzioni per chi viola i parametri fondamentali di Maastricht, il 3% di deficit annuo e il 60% di debito sul PIL), anche questo trattato internazionale è stato fortemente voluto dalla Germania. Esso perfeziona e aggrava i trattati del 2011, prevedendo l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio, che noi abbiamo già messo in Costituzione – e si badi bene che dal punto di vista della dottrina economica questa è solo una tesi fra le altre – riservandoci però di inserire, con deliberata scaltrezza, nel testo approvato non il concetto di «pareggio» ma quello di «equilibrio» di bilancio – il che naturalmente provoca l’orticaria dei super-ortodossi -. Poi, oltre all’obbligo del pareggio di bilancio, il fiscal compact impone che il deficit pubblico strutturale non superi lo 0,5% del PIL annuale (cioè, se proprio lo Stato deve spendere più di quello che guadagna la differenza può essere al massimo lo 0,5%). La disciplina di bilancio alla quale in Italia si è voluto dare valore costituzionale nasce dall’idea che il debito pubblico (cioè lo stock consolidato di deficit annuali dall’inizio dell’umanità a oggi che ci portiamo dietro) derivi dalla nostra – italiana, cattolica, mediterranea, meridionale – abitudine di fare come le cicale e non come le formiche. Per questa nostra «colpa» dobbiamo pertanto ridurre – sulla base di cifre scelte in maniera assai discrezionale dalle élites politico-economico-finanziarie dominanti in Europa – ogni anno un ventesimo del debito che eccede il 60% del PIL. Che – con un debito pubblico che ormai sfiora i 2.300 miliardi di euro – significa dover smaltire ogni anno una cifra esorbitante. Inoltre, mentre il trattato di Maastricht aveva stabilito che effettivamente si poteva fare ogni anno un deficit del 3%; adesso, invece, si può fare al massimo lo 0,5 % di deficit e si può avere un debito al massimo del 60% del PIL. Arrivati a questo punto è chiaro che il prezzo della costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio è la distruzione della società. In alternativa, il PIL del nostro Paese dovrebbe registrare una crescita tanto forte da abbattere i rapporti. Se noi, ad esempio, facessimo un PIL di 10.000 miliardi l’anno, come gli Stati Uniti, è chiaro che avere 1300 miliardi di debito sarebbe niente, un ottavo del PIL. Ma, poiché il nostro PIL viaggia sui 1800 miliardi l’anno, non ce la faremo mai. Il fiscal compact prevede, poi, delle correzioni automatiche, ovvero dei meccanismi automatici di correzione simili al cut off negli Stati Uniti. E, infine, il trattato del fiscal compact prevede l’obbligo di tenere almeno due vertici l’anno per tenerci sotto controllo.

La riforma dell’art. 81 è stata votata da un’amplissima maggioranza politica (con poche eccezioni) nella XVI legislatura. Nella XVII non ci siamo più andati attorno, ma io ricordo bene quanti, a sinistra, rivendicavano con orgoglio «Abbiamo fatto bene. Andava fatto». Vediamo se, almeno adesso, qualcuno arriverà a collegare lo sviscerato amore che oggi i cittadini portano allo Stato, alla democrazia e all’Europa alle conseguenze di quella decisione; a cogliere l’esistenza di un rapporto di causa-effetto, anche indiretto, fra questo trattato di pace, e il fatto che abbiamo la destra che arriva da tutte le parti, metà degli italiani che non va a votare e metà della metà che vota per partiti antisistema. È chiaro: davanti al fallimento della destra economica, che distrugge le società occidentali, interviene la destra politica, per il buon motivo che la sinistra pare non interessata a giocare. O, se proprio deve giocare, gioca con la destra economica. Questa è la realtà.

Ma intanto in questa campagna elettorale, che pareva orientata alla tematizzazione forte del rapporto Italia-Europa – che vuol dire Italia-Maastricht, Italia-euro, Italia-fiscal compact, e anche Italia-articolo 81 -, di fatto, si sta parlando di tutt’altro. E del tutto illusoriamente, perché – stando alle richieste della Commissione europea all’Italia, e da questa non ancora ottemperate, di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare che il bilancio 2018 sia in linea con il patto di stabilità – ci si attende, per marzo-aprile, una manovra correttiva che ci costerà quattro o cinque miliardi. Infatti, nonostante la riduzione concessaci dello sforzo strutturale richiesto, dallo 0,6% allo 0,3% del rapporto deficit/PIL, la correzione del deficit strutturale italiano, in legge di bilancio, risulterebbe nel 2018 pari solamente allo 0,1%. È molto probabile, quindi, che subito dopo le elezioni la Commissione torni alla carica con la richiesta di misure correttive. A questo va aggiunta la nuova legge di bilancio da approvare in autunno 2018, che sconta l’esigenza di non far scattare i meccanismi automatici di aggravamento dell’imposizione indiretta (cioè bisogna trovare altri 15 miliardi).

A questo punto, la domanda è: perché è successo tutto ciò? La risposta è che la realtà di oggi è il frutto avvelenato della globalizzazione in Occidente, maturato in Europa con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, voluta da Stati Uniti e Unione Sovietica, ma temuta dalla maggior parte degli Stati europei. Come sanno bene inglesi e francesi, una volta riunificata la Germania è un problema: perché è un Paese grande e molto civilizzato; perché è (o meglio era) un Paese stabile; perché è un Paese che si è dotato di una filosofia sociale, economica e politica che si chiama ordoliberalismo, conosciuta anche – in linguaggio politico – come «economia sociale di mercato», e – in linguaggio storico-accademico – come Scuola di Friburgo. A livello giornalistico si diceva, giustamente, che la Germania rappresentava un modello di capitalismo diverso dal resto del mondo: il cosiddetto «capitalismo renano». Si deve capire che in Europa non c’è il neoliberismo: c’è l’ordoliberismo, che è stata la risposta europea al neoliberismo, ovvero allo scatenamento della globalizzazione (prima di tutto finanziaria, ma anche fondata sulla delocalizzazione produttiva); alla immissione sul mercato mondiale del lavoro di trecento milioni almeno di cinesi, che lavoravano a un decimo del nostro costo del lavoro. La riunificazione tedesca allarmò le cancellerie di mezza Europa. Storicamente, infatti, la Germania non è mai stata un Paese del tutto occidentale, tranne, per forza di cose, dopo la Seconda guerra mondiale la Repubblica Federale Tedesca. È un Paese in bilico, proiettato molto a Est, che guarda con interesse alla Russia. Dopo la riunificazione delle due Germanie, qualcuno in Europa – e cioè inglesi e francesi, che ancora ricordano la storia -, temendo il ritorno della «solita» politica tedesca, oggi magari non in chiave di potenza aggressiva ma di semi-neutralismo, una politica potenzialmente lesiva degli interessi degli altri Stati del continente, ha pensato di tenere la Germania legata all’Europa tramite la moneta comune. Una possibilità sempre osteggiata dai tedeschi in nome della «sacralità» del marco, il frutto dell’ordoliberalismo, e infine da loro accettata solo perché la «nuova» moneta – l’euro – è stata congegnata per essere in tutto e per tutto – nei presupposti ideologici, nella tenuta dei conti, nel modello di società che viene previsto, nella stabilità politica come bene supremo – identica al marco. Per cui, quasi tutta Europa, Italia compresa, ha deciso di adottare il marco/euro. Una scelta costosa, ma non per tutti. Per i tedeschi, che l’hanno inventato, non lo è. Dopo il 1929, quando hanno visto i disastri del capitalismo selvaggio e anarchico, e dopo il 1933, quando hanno visto il nazismo, i tedeschi hanno capito che il cattivo capitalismo produce cattive crisi: il nazismo è una delle cattive possibili uscite dalla crisi del capitalismo. Cattive uscite dalla crisi del capitalismo, oltre al nazismo, sono, ça va sans dire, il socialismo, e «il piano». Insomma, l’ordoliberalismo nasce avendo come nemici il paleoliberismo, la pianificazione e il socialismo/comunismo.

In che cosa si differenzia dal neoliberismo? Il neoliberismo, che è neomarginalismo, è una filosofia politica, sociale ed economica a base essenzialmente individualistica (fondata su quel liberismo che Marx definiva «libera volpe in libero pollaio»): i soggetti che abitano la società sono delle macchine individualistiche calcolanti la massimizzazione dell’interesse e dell’utilità. La società è fatta di atomi in grado di calcolare gli effetti benefici o negativi delle interazioni che liberamente ciascuno di essi pone in essere con ciascun altro di essi. I soggetti sono tutti razionali, tutti informati, tutti miranti alla massimizzazione del proprio utile. Non c’è possibilità che le interazioni sfocino nell’anarchia; un ordine – un equilibrio – si forma sempre: è fatto di chi vince su chi perde, e non esiste ordine migliore. Ogni tentativo di governare politicamente le interazioni sociali produce, infatti, effetti peggiori che non lasciare essere le interazioni sociali. Questo è nella sua essenza il neoliberismo, nella formulazione di Hayek. Gli ordoliberisti hanno, come i neoliberisti, la più alta venerazione del mercato, e credono fermamente che dire mercato e dire società sia la stessa cosa. Ma, al contrario dei neoliberisti, non ammettono che la società sia fatta di individui, ma ritengono – in linea con la tradizione organicistica tedesca – che essa sia fatta di corpi (i corpi sociali, i corpi storici, i corpi economici). Una concezione che, però, non cade nel corporativismo, ma si proclama fieramente pluralista – di pluralismo economico, s’intende, non politico. In politica gli ordoliberisti credono nello Stato – . L’ordoliberalismo accetta l’equazione «mercato uguale società»; nega l’esistenza del conflitto di classe, che fornisce una lettura sbagliata della società; e afferma che il capitalismo funziona solo quando è rispettata la sua legge fondamentale: la concorrenza. Ma, poiché la concorrenza è fra imprenditori che hanno la tendenza a costituire cartelli o monopoli, per gli ordoliberisti è necessaria l’esistenza dello Stato allo scopo di impedire che il movimento del capitalismo si blocchi. Dunque, non uno Stato che interviene, che pianifica, che regola i prezzi; ma uno Stato che sanziona chi ferma la macchina capitalistica, la quale va pensata non come una contrattazione permanente fra individui, ma come un equilibrio dinamico di corpi. Politica economica mai; politica industriale mai. È il mercato che decide, le forze imprenditoriali e sindacali che decidono.

È dogma del neoliberismo e anche dell’ordoliberalismo quella che Schmitt chiama Unterscheidung, la distinzione fra economia e politica (in un testo del 1932 molto lodato dagli ordoliberisti). Naturalmente, questa distinzione è già un atto politico. Schmitt per primo sapeva che l’economia è in realtà piena di politica. E quindi la distinzione fra economia e politica è un atto politico, e lo Stato che non interviene in economia sta facendo politica. Quello che gli ordoliberisti vogliono è questo tipo di intervento/non intervento, e non l’intervento pianificatorio dell’esecutivo.

Conoscere l’ordoliberismo – le sue origini, finalità, implicazioni politico-ideologiche – è per noi oggi indispensabile, perché con esso ritorna lo Stato e, insieme, ricompare finalmente l’idea che la società è complessa. Esso afferma, infatti, che esiste una lettura (marxista) della società che vede in quella complessità l’esistenza di una contraddizione; una visione per gli ordoliberisti sbagliata, che deve essere eliminata. Come deve essere eliminata quella visione che afferma che al mondo esistono solo gli individui. Insomma, l’ordoliberismo è un sistema economico, politico, sociale, che taglia le ali estreme con due obiettivi che sembrano contradditori, e non lo sono: stabilità e dinamismo. Stabilità politica: eliminazione degli estremisti, poiché chi dà un’interpretazione conflittuale della società è un nemico della società. E dinamismo: l’economia deve girare, non si deve bloccare. Niente, nemmeno la libertà, deve bloccare il movimento della macchina capitalistica. Quindi, no alla libertà di sciopero; no al conflitto; no all’idea di costruire un’economia trainata dalla domanda interna e dalle relative rivendicazioni sindacali. L’economia tedesca, infatti, non è trainata dalla domanda interna ma dalle esportazioni; anzi, lo slogan è: “moderazione salariale”. I sindacati sono cooptati nei consigli delle grandi imprese – la Mitbestimmung -. In Germania ci potrebbero essere salari del doppio rispetto a quelli di adesso, ma se ci fossero salari doppi ci sarebbe l’altro nemico terribile: l’inflazione. La crescita dei prezzi messa in moto da salari più alti porterebbe all’aumento dell’inflazione. Insomma, i tedeschi detestano gli estremisti, l’instabilità politica e l’inflazione, perché le hanno conosciute. Sono, o meglio erano – quando erano davvero tedeschi -, estremisti per natura: quella che si chiamava deutsche Tiefe (la profondità tedesca), la capacità di andare alla radice, vuol dire essere estremisti. L’instabilità politica l’hanno inventata loro, praticamente, con la repubblica di Weimar. L’inflazione l’hanno conosciuta fino al 1923, non ha generato il nazismo (che nacque dalla disoccupazione di massa) ma ha trasmesso un’idea di disordine, di imprevedibilità dell’esistenza, che dopo due guerre mondiali perdute non vogliono più conoscere. Pertanto, dalla fine della Seconda guerra mondiale la politica tedesca è stata orientata al perseguimento della crescita economica, fondata sulle esportazioni e sulla stabilità garantita dal marco e dalla pace sociale. L’ordoliberalismo è nato, fra il 1932 e il 1940, grazie a intellettuali come Eucken, Röpke, Böhm, Müller-Armack, alcuni dei quali lavoravano nel ministero dell’economia nazista, pur non essendo nazisti ma semplicemente dei burocrati – del resto, l’economia nazista prima della guerra era un’economia all’ingrosso keynesiana, e durante la guerra era semplicemente un’economia di rapina (cioè rubavano tutto, compreso l’oro delle banche centrali) -. Poi, nel dopoguerra a impiantarlo nella realtà fu Erhard, il ministro dell’Economia nel governo di Adenauer.

Quando siamo entrati nell’euro abbiamo abbracciato questo universo, e ci siamo impegnati a pensare e a vivere come tedeschi avendo una storia e un sistema economico completamente diversi. A questo servono «le riforme»: a entrare pienamente nel mondo ordoliberale e a eliminare tutto ciò che blocca il dinamismo del capitalismo, come le letture estremistiche della società, che però in Italia sono scomparse da almeno quarant’anni, e come – e qui sta il punto – i diritti, quel paletto che stabilisce che cosa si può o non si può fare. Soffocare i diritti, quindi, non in nome del neoliberismo, ma dell’ordoliberismo, cioè di una severa disciplina di bilancio posta in essere da uno Stato occhiuto guardiano dei conti pubblici e nemico di chiunque si collochi all’interno della macchina capitalistica per bloccarne il funzionamento. Rinunciare alla spesa pubblica in deficit, alla politica economica, al traino della domanda interna. Rinunciare alla centralità del lavoro, pur costituzionalmente sancita, in nome della centralità del mercato (neoliberismo) e dei conti pubblici (ordoliberalismo).

Quando Gentiloni dice «siamo quelli che hanno avuto il tasso di esportazioni più alto di tutta l’Europa» sta affermando che un pezzo del sistema economico italiano è in grado di rispondere alle esigenze neomercantilistiche dell’ordoliberalismo: i soldi stanno fuori, e li si deve prendere secondo il principio beggar-thy-neighbour (impoverisci il tuo vicino) – ogni Mercedes venduta in Italia, ad esempio, sono soldi italiani che vanno in Germania -. Incidentalmente, tutto ciò smentisce le affermazioni che bollano le politiche di Trump come protezionistiche, e quelle di Angela Merkel come liberoscambiste. In verità, Germania e Cina hanno surplus enormi della rispettiva bilancia commerciale, perché in entrambi i Paesi impera l’idea che bisogna tenere basso il livello salariale all’interno, produrre bene, e vendere a caro prezzo all’esterno. E oggi gli Stati Uniti non paiono più disposti ad accettare un sistema di scambi che genera i surplus commerciali di Germania e Cina, a cui chiedono di aumentare la domanda interna e di non scaricare tutta la propria potenza economica sull’esportazione.

Queste sono oggi le questioni radicali in campo. Bisogna dire che i tedeschi, per rispondere efficacemente al dilagare della globalizzazione, hanno molto modificato il proprio ordoliberalismo, con le riforme Schröder-Hartz del 2003-2005, che hanno rimesso in moto l’economia tedesca (inventando, ad esempio, i mini-jobs, cioè lavori sottopagati). Con l’implementazione del Piano Hartz è stato di fatto introdotto nell’ordoliberalismo un sistema di ulteriore mortificazione del lavoro che ha un po’ scosso le fondamenta politiche del consenso, tanto che adesso per tenere in piedi il sistema i tre partiti che normalmente si facevano concorrenza – la bavarese Unione Cristiano-Sociale (CSU), l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) – sono costretti a governare insieme. Tutto questo è un problema: i tedeschi – che hanno visto funzionare l’ordoliberismo quando questo era immerso nel mare keynesiano del secondo dopoguerra – adesso che tutto il mondo è diventato neoliberista, cioè cattivo e affamato, hanno dovuto introdurre degli elementi destabilizzanti nel proprio sistema; il che produce gravi problemi. Perché, è bene ricordarlo, non c’è niente di peggio che una Germania instabile.

Due sono i modi per venire fuori da ciò: uscirne, ma non si riesce a calcolare i costi, politici oltre che economici; oppure pregare che il PIL cresca sempre (non all’1,5%, ma al 3,5% tutti gli anni), e che questo aumento del PIL non sia tutto a vantaggio dell’1% più ricco della popolazione. Mettendo insieme tutti questi se e ma, abbiamo i problemi politici del nostro Paese dei quali nessuno parla, o se ne parla poco perché non si sa come venirne fuori. E gli italiani, compresi i politici, preferiscono pensare al taglio delle tasse, o agli 80 euro (che sono una misura più neoliberista che ordoliberista, perché Renzi è così), o agli opposti estremismi, o agli scontrini: non c’è al momento una mezza idea su come venirne fuori. Sono tutte idee occasionali (come, ad esempio, sforare i parametri, disobbedire ai diktat, e poi vedere che cosa succede).

C’è un tasso di incertezza sulle questioni radicali che fa male, soprattutto perché il nostro futuro non appartiene a noi. Che politicamente vuol dire che, aderendo ai trattati istitutivi dell’Unione europea ed entrando nell’euro, abbiamo perso un importantissimo pezzo di sovranità, e il nostro futuro è appeso oggi alle reazioni che ai nostri comportamenti avranno i nostri partner. Confrontarsi col mondo è sempre stato necessario: ma oggi abbiamo rinunciato, come Stato, a molti gradi di libertà. Abbiamo abbracciato una visione ideologica nella quale il debito è colpa, Schuld: se lo fai, devi sapere che c’è qualcuno al quale devi chiedere permesso e che questo qualcuno te lo può anche negare. Di solito te lo concedono, ma è una limitazione grave. Anche perché i mercati hanno metodi di punizione severissimi: lo spread (va anche detto che in realtà credevamo che gli obblighi assunti si potessero aggirare: e infatti nella XVII legislatura abbiamo votato, a maggioranza assoluta, tutti gli anni la deroga all’equilibrio di bilancio, che lo stesso art. 81 prevede, come eccezione).

La Corte costituzionale tedesca ha affermato la supremazia della Costituzione tedesca sopra ogni altra fonte normativa. In Italia si accetta invece la demonizzazione del «sovranismo». Di fatto, la parola «sovranismo» non esiste: ci sono coloro i quali difendono il primato della Costituzione, che è stato l’atto sovrano per eccellenza; e coloro i quali dicono, invece, che la Costituzione è stata superata dalla globalizzazione. Una decisione va presa.

La cosa che dobbiamo sottolineare è che la decisione non è mai stata posta come tale davanti alla pubblica opinione, e non è mai stata discussa in Parlamento in modo esplicito, con qualcuno che spiegava tutte le conseguenze. La post-democrazia è questa: che il grosso della decisione è stata presa all’infuori dei canali istituzionali della democrazia, ma anche di quelli extraistituzionali fondamentali: la libera stampa, la pubblica opinione. Una delle tappe iniziali è stata fatta con una lettera: il cosiddetto «divorzio» fra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia è stato fatto con una lettera di Andreatta a Ciampi nel 1981. Poi, dopo si dice che il debito pubblico è raddoppiato negli anni Ottanta, perché tutti i politici compravano il consenso degli italiani con leggi di spesa. È vero, però il «divorzio» fra Tesoro e Banca d’Italia è stato fatto sulla base del principio fondamentale di tutti i liberismi di questo mondo – neo, vetero, paleo, ordo -: l’economia in generale, e l’economia monetaria in particolare, non devono avere il minimo rapporto con la politica; sono regni autonomi, santissimi, intoccabili. L’economia agli economisti o ai capitalisti; mai ai politici, che sono delinquenti, clientelari, pasticcioni. Quei pochi borghesi italiani che pensano hanno sempre teorizzato la necessità del «vincolo esterno», perché questo Paese non è capace di agire in termini europei, in termini moderni. Le plebi meridionali e i sindacalisti settentrionali congiurano contro la modernità. I comunisti e i democristiani sono uguali, pensano soltanto a pigliarsi i voti con le clientele, spendendo i soldi. Ci vuole il «vincolo esterno». E il «vincolo esterno» è l’euro; una panacea, per i suoi difensori; un male minore per quasi tutti: una piccola (?) riduzione dei diritti oggi, per evitare una tragedia domani. Un sacrificio che è un investimento per il futuro dei nostri figli, poiché noi abbiamo molto peccato.

E intanto, a furia di sacrifici, la società si trasforma in una giungla, e la democrazia si perde nella sfiducia generale, nel rancore, nella infelicità. E la politica non sa più che fare, e tira a campare. Finché non la riprendiamo nelle nostre mani.

 

 

Il testo deriva dall’intervento, rielaborato e corretto, tenuto da Carlo Galli il 3 febbraio 2018 a Ravenna, in occasione dell’incontro La colpa del debito. Articolo 81 della Costituzione e Europa, organizzato da CGIL Ravenna; Libertà e Giustizia. Circolo di Ravenna; Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, Bagnacavallo, Faenza; Coordinamento per la Democrazia Costituzionale della provincia di Ravenna.

 

 

 

 

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