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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Stato sociale

Seduzioni e delusioni del neoliberismo

 

Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.

Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore  e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.

Le conseguenze di ciò sono, oltre al deperimento e alla delegittimazione delle strutture pubbliche e dei corpi intermedi tradizionali (Stato, burocrazia, partiti, sindacati), l’estensione illimitata dell’area del mercato, a cui nessun ambito può pretendere di sottrarsi (l’arte, la cultura, l’istruzione, la scienza, la sanità, il turismo, il tempo libero, lo spettacolo, la politica, ne sono investite e assorbite, ne ricevono “valore”): insomma, l’universale mercificazione della vita di tutti. Questa estensione del mercato, la sovranità dell’economico e della sua auto-interpretazione come “equilibrio” e come progressivo nec plus ultra dell’umanità, ha come conseguenza l’iscrizione di tutta la vita, di tutte le vite, nel registro della concorrenza e della competizione, della prestazione e della valutazione – a opera di agenzie pubbliche e private, che assumono il peso determinante che un tempo spettava ai ministeri –. Non il conflitto, che è un fatto pubblico e sociale, e neppure la collaborazione, ma la competizione, che è un fatto privato, tiene ora il centro della scena.

Questa visione è stata abilmente introdotta nell’immaginario delle masse, con un’opera insigne di psico-politica;  vi ha fatto presa, vi si è radicata, perché è stata presentata nel momento della massima delegittimazione delle strutture di potere tradizionali: la caduta del comunismo in Russia e dintorni (con l’enorme eccezione della Cina, che si concilia col neoliberismo attraverso la nozione di autorità), e la crisi, in Occidente, dello Stato sociale (in realtà, del sistema di Bretton Woods) e delle forze politiche che l’hanno supportato (i partiti democratici del secondo dopoguerra). Questa visione neoliberista, insomma, è stata legittimata attraverso il ricorso a un’accezione emotiva, euforica ed energetica, della nozione di libertà individuale, declinata come ribellione contro l’autorità – appunto, partiti e sindacati, ma anche Stato ed élites tradizionali (i “professoroni”)  – e come potenziamento del singolo soggetto attraverso l’azione rivolta al successo, all’affermazione di sé. Una libertà che è deregulation su scala ridotta, analoga a quella che la politica perseguiva, negli anni Novanta, su scala mondiale. Tutti possono arricchirsi, tutti possono mettersi alla prova, tutti possono competere per migliorare la propria posizione sociale; e tutti lo fanno rimanendo «se stessi», liberandosi da ogni autorità, obbedendo solo ai propri istinti vitali, coltivando e amplificando i propri talenti: «anche tu puoi, se vuoi». Non il comando ma il libero contratto, sempre revocabile, è la figura chiave di questa società; non l’autorità ma la libertà; non il dovere ma il diritto soggettivo; non il governo e il diritto pubblico ma la governance privatistica a rete e la lex mercatoria, pattizia, elastica; non la stabilità dell’ordine ma il movimento, la circolazione, l’innovazione, l’intrapresa; non la nascita né gli studi, ma il successo (confuso col merito), l’aggressività, l’avidità: greed is good, il peccato capitale dell’avarizia è un bene. Dai garage della Silicon Valley escono i nuovi miliardari con il loro grido vittorioso (già sessantottino): stay fool, stay hungry, la sfida a non appagarsi mai. L’utile è legittimato dal sentimento, la speculazione dalla commozione.

Tutto ciò va oltre Mandeville: qui non si tratta di vizi privati e di pubbliche virtù, ma della nietzschiana trasvalutazione di tutti i valori, di una eroica volontà di potenza paradossalmente diffusa in tutto il corpo sociale, e applicata all’ambito (per Nietzsche spregevole) dell’utile, e divenuta, ancora più paradossalmente, norma collettiva. Dalla critica al normativismo razionalistico, dalla derisione del pensiero dialettico, dalla decostruzione del logos moderno e delle sue strutture politiche, in primis la sovranità, emergono – in chiave mondialista o liberista, benicomunista o ultraprivatistica – la medesima apologia dell’«oltre», il medesimo scuotimento dei fondamenti, la medesima «splendida aurora» della soggettività desiderante, il medesimo godimento in atto, il medesimo trionfo dell’immanenza, la medesima pretesa che le dinamiche sociali, spiegabili attraverso l’agire individuale, si autosostengano, che non debbano rinviare a null’altro che a se stesse. La partita si gioca tra “movimenti” globali, nella concorrenza tra il francescanesimo moltitudinario, da una parte, e il general intellect mercatista dall’altra, sulle teste di Stati e classi, scienze e autorità. Le prospettive politicamente confliggono, ma convergono nella critica del Vecchio, travolto dall’energia del Nuovo.

Al di là delle analogie e delle differenze rispetto alla prima grande ondata di movimenti del dopoguerra – la generazione del Sessantotto lottava per una  forma diffusa anarchica e rizomatica della libertà, ma nonostante le sue istanze libertarie e individualistiche fu capace di agire socialmente e di contestare la guerra in Vietnam – resta il fatto che la narrazione del neoliberismo fece presa perché apparve rivoluzionaria: la quarta rivoluzione del XX secolo dopo quelle comunista, fascista, e socialdemocratica. Una rivoluzione che prometteva l’immediata liberazione individuale: se si promuove la libertà contro l’autorità, l’espansione contro la costrizione, la potenza contro la diligenza, l’eccezionale contro il normale, la velocità contro la staticità, la trasgressione contro il conformismo, l’immanenza contro la trascendenza (o l’auto-trascendimento), la seduzione è garantita.

Nulla di tutto ciò si è rivelato vero, se non le sue esagerazioni e le sue contraddizioni, la sua negazione pratica nelle contraddizioni che si sono rivelate. A partire dal soggetto euforico, che si è rovesciato in soggetto impotente e impaurito, avendo ben presto sperimentato che il mare sconfinato delle opportunità è in realtà la selva aspra delle tribolazioni e delle lacerazioni; che i poteri economici dilatati su scala planetaria lo schiacciano come una nullità; che la centralità del consumatore è in verità la subalternità dell’individuo asservito a ogni manipolazione; che l’espansione anarchica dell’Io è prerogativa dei pochi che reggono il mondo, moltiplicando la mortificazione e la soggezione di innumerevoli Io, legati dalle  «catene del valore» che nel globo vincolano uomini e donne come propri strumenti, mai unificati in un diritto comune e in una coscienza comune ma anzi sempre parcellizzati, separati, divisi, posti in concorrenza gli uni contro gli altri;  che più si parla di privacy (concetto già in sé difensivo) più l’individuo è oggetto delle invasive costrizioni di apparati di potere pubblici e privati davanti ai quali è trasparente, e dai quali non può sfuggire.

Al livello pubblico, poi, lungi dall’estinguersi lo Stato si è rafforzato; non verso i pochi forti, naturalmente, ma verso i molti deboli, che ha disciplinato, sorvegliato e punito con tanta maggiore energia quanto più le contraddizioni del neoliberismo hanno mostrato che il sogno euforico del benessere diffuso aveva come controparte la povertà avanzante, la disuguaglianza, l’anomia sociale, il crollo della qualità della vita; lo Stato sempre più volentieri ha fatto ricorso all’eccezione contro la norma,  e sempre più spesso si è dato forme di governo spostate dalla democrazia alla tecnocrazia, centrate non sulla rappresentanza sovrana ma sulle agenzie non rappresentative che «mettono al sicuro» i fondamenti del sistema dall’invadenza della politica; e ha visto erodere sia la propria legittimità (non è più capace di ispirare civismo) sia  la propria sovranità – mentre la filosofia la decostruiva –, a fronte del potere dell’economia, della finanza e delle agenzie di rating. Nondimeno, le grandi sintesi politiche, i Grandi Stati, sono ancora in grado di determinare la politica internazionale, con le loro sovranità in concordia discors rispetto alle potenze economiche.

Al livello sociale, infine, la produzione, espunta dalla teoria, è rimasta centrale con tutte le sue contraddizioni: il lavoro è divenuto più incerto, povero, indifeso, scarso. E ciò o è giudicato senza rimedio, o vi si interviene a livello etico, con il capitalismo compassionevole, oppure con distribuzioni di sussidi; o ancora con lo scambio fatale fra diritti sociali (progressivamente negati) e diritti civili (tendenzialmente, anche se molto lentamente, concessi o allargati). Lo Stato sociale è finito sotto l’orizzonte; la critica strutturale dell’economia non esiste più; l’individuo è solo davanti e dentro il capitale, e deve sopperire con nuove emozioni private – dalla fidelizzazione all’azienda a qualsivoglia altro orgoglio identitario –, alla perdita di senso del suo agire. Inutile dire che a fornire tali emozioni provvede il sistema mediatico.

Infine, nella morsa dell’ordoliberismo tedesco – la matrice dell’euro –, quella che nel neoliberismo “austriaco” era libertà è diventata dovere, al kosmos spontaneo si è affiancata una severa visione statalistico-organicistica, l’euforia si è rovesciata in austerità, in espiazione, in disciplina, in paura, in autorità; ed è emerso che il nuovo paradigma economico altro non è se non una dottrina liberale deflativa, che prevede ogni anno tagli al bilancio dello Stato, spending review, compressione della domanda interna oltre che dei diritti sociali, orientamento del sistema economico alla esportazione.

Non siamo però di fronte all’universale schiavitù; la reazione a tutto ciò c’è stata. L’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione del bail-in, la legge Fornero, l’inoccupazione strutturale, le disuguaglianze crescenti e incolmabili fra ricchi e poveri, il sotto-finanziamento sistematico dei servizi pubblici, le insicurezze sociali ed esistenziali che da tutto ciò derivano, le prospettive di dover subire ogni anno manovre «lacrime e sangue» e di dovere affrontare un destino come quello della Grecia: tutto ciò non è stato controbilanciato dalla stabilità dei prezzi, dall’Erasmus, dai voli low cost, dal roaming europeo, dalla diffusione degli smartphone. Si è generato, piuttosto, in Italia, in Europa, in Occidente, un “momento Polanyi”, una mossa difensiva rispetto al dominio del capitale, una ricerca di protezione, anche nella forma dell’affidamento plebiscitario a un capo; una reazione che le sinistre di governo, le élites politiche di ieri, denigrano come “populismo” e delegittimano come “sovranismo”, ma che non analizzano nelle sue cause originarie e che si limitano a deplorare moralisticamente come “cattiveria”; un malessere che non hanno intercettato, che  hanno lasciato alle destre europee, e che ora definiscono “fascismo”.

Ma i sovranismi (termine privo di dignità teorica) non sono una declinazione aggiornata di un presunto «fascismo eterno». A parte le differenze sostanziali (il nesso tra violenza e politica, e tra guerra e politica, essenziale al fascismo, è pressoché assente nei partiti che hanno intercettato questo trend), vi è oggi un’altra divergenza rispetto ai processi degli anni Trenta a cui pensava Polanyi. La richiesta che gli Stati tornino ad appropriarsi della sovranità ha più il senso della tutela delle esistenze singole e familiari, dei piani di vita individuali, che non della ipertrofia del ‘politico’, della volontà di potenza nazionalistica. Ciò che si chiede è più uno Stato protettore che uno Stato militare, più uno Stato sociale con qualche tocco di “comunità” che uno Stato-Moloch, più un individualismo di massa che un nazionalismo identitario, per il quale mancano i presupposti culturali: il nazionalismo, infatti, implica una forte dimensione pubblica e una consapevolezza storica collettiva, che oggi francamente non è dato vedere. Il neo-liberismo ha lasciato il segno, almeno nelle percezioni esistenziali e negli immaginari collettivi: più che di identità nazionale si tratta oggi di protezione dei privati dal mercato dilagante e dall’austerità sempre incombente e, infine, del rifiuto della «società liquida» e delle sue solidissime, inscalfibili disuguaglianze.

L’orizzonte della protesta, insomma, resta sostanzialmente il medesimo – fatto salvo l’abbattimento, a volte grave, di alcuni tabù lessicali, ossia del «politicamente corretto» –; la reazione al neoliberismo è declinata in chiave non di conflitto sociale ma di invidia individuale, non di un nuovo paradigma economico ma di odio anticasta, non di critica dell’economia politica ma di libero sfogo di pulsioni securitarie (in parte giustificate, e in parte spinte fino alla xenofobia), non di ripresa dell’elaborazione critica ma di ulteriore svilimento della cultura “alta” in nome del plebeismo, non di giustizia ma di giustizialismo, non di coraggio ma di timore (legittimo, ma ingigantito ad arte dai governi). Domina ancora l’individualismo, benché mutilato, ferito, umiliato, deluso. Reazione, quindi; non vera ribellione; meno che mai rivoluzione. Il soggetto individuale non diviene collettivo; resta quello di prima: emotivo, ma animato da emozioni ben diverse. Un soggetto sedotto, abbandonato e ormai carico di timore e di rancore. Le molte ragioni dei singoli (parecchie buone, qualcuna cattiva) non diventano ragioni politiche collettive: siamo davanti, con valori in parte rovesciati, alla medesima pseudo-attività, e reale subalternità, alla medesima impotente solitudine, che caratterizzava il neoliberismo.

Il quale, da parte sua, a questa reazione, rabbiosa ma non alternativa, riesce ad adattarsi. È possibile che il sovranismo divenga, dopo tutto, una sorta di  “piano B” dei poteri dominanti, che passano dal mondialismo ideologico a un moderato territorialismo (con largo uso di capri espiatori) sulla base del principio «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»; ed è certo che il sovranismo è per ora una ricerca di protezione senza proiezione, senza un’idea di politica.

L’opposizione fra individualismo liberista e mondialista, da una parte, e sovranismo dall’altra è, insomma,  più di forma che di sostanza; più di mentalità che di struttura; e non è un’opposizione fra democrazia e antidemocrazia. La democrazia era di fatto divenuta post-democrazia già in età neoliberista: oggi, a (parziale) differenza di ieri, se ne vilipendono pubblicamente i resti. Il che, certo, è più grave, a livello ideologico; ma la costituzione materiale del nostro Paese, dell’Europa, del cosiddetto Occidente, va per la sua solita strada. Per provare a ridare vita e significato alla democrazia bisogna uscire dalla contrapposizione superficiale fra sovranisti e  europeisti (o mondialisti), rinunciare alle prediche moralistiche e dare inizio a un grande investimento culturale – critico, analitico e propositivo – paragonabile a quello che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso spianò la via alle truppe trionfanti del neoliberismo; il quale oggi cambia volto e retorica, ma non trova ancora avversari sufficientemente consapevoli e radicali.

Pubblicato in «Italianieuropei», 3/2019, pp. 75-82

 

Sovranità e sovranismo

Intervista con Nicola Mirenzi

«Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista, dai più accesi mondialisti». Storico delle dottrine politiche all’Università di Bologna, interprete del pensiero moderno e contemporaneo, il professor Carlo Galli sostiene che, dopo il crollo del muro di Berlino, l’adesione entusiastica alla globalizzazione dei partiti ex comunisti, socialisti e laburisti europei li abbia “impiccati” a un modello che si è “sfasciato”, facendogli perdere il senso dell’orientamento: «La sovranità è un concetto talmente democratico che è richiamato nel primo articolo della nostra Costituzione. Oggi, invece, chiunque contesti la mondializzazione viene considerato un fascista. Storicamente, però, la sinistra ha, nei fatti, avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato: basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla Nato e, per molti anni, al Mercato comune europeo».

Secondo Galli, la notizia della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra è fortemente esagerata, e sabato, a Lecce, terrà una lectio magistralis – che anticipa ad HuffPost – per dimostrarlo: «Il diavolo per prima cosa nega che il diavolo esista. Così accade per la differenza tra destra e sinistra: la destra nega che esistano la destra e la sinistra. E la sinistra cade in questo tranello. Ci sarà sempre una differenza di potere tra chi controlla il capitale e chi dal capitale è controllato. Tra chi produce valore lavorando e chi di quel valore si appropria. Per questo la distinzione tra destra e sinistra non scomparirà mai, all’interno di questo paradigma economico e politico».

La contrapposizione tra popolo ed élite è falsa?

È vera, e si aggiunge alla tradizionale frattura tra destra e sinistra, attraversando entrambi i fronti. Ci sono movimenti cosiddetti populisti che, infatti, sono più di destra; e altri che sono più di sinistra.

Perché la sinistra è più in difficoltà allora?

Perché la sua pigrizia mentale le fa considerare la richiesta di protezione – che c’è nella società – come un istinto razzistico, o xenofobo.

Non ci sono queste pulsioni?

No, ci sono anche queste pulsioni nella società: ma è scellerato dare questo nome alle legittime richieste di sicurezza sociale che vengono da quelle persone le cui vite sono state sempre più esposte all’incertezza dalla crisi che è insita nel paradigma economico dominante.

Perché la sinistra non intercetta più queste domande?

Perché, soprattutto la sinistra italiana, ha smesso di analizzare la realtà: preferisce nascondersi dietro il vecchissimo copione dell’antifascismo moralistico e considerare più della metà dei cittadini italiani barbari che stanno assaltando le fondamenta della civiltà. Ma quello che sta accadendo – l’abbiamo visto alle elezioni del 4 marzo – non è una sventura inviataci dal cielo: è il prodotto di fenomeni che si sono verificati dentro la nostra società.

La destra è più capace di comprendere la realtà?

No, ma non ne ha bisogno, perché le basta essere spregiudicata. La destra politica riconosce e dà un nome alle inquietudini del nostro tempo, ma in realtà fornisce dei capri espiatori. Oggi sono gli immigrati, i complotti della finanza internazionale, il politicamente corretto. E se a volte la destra politica si spinge ad accusare il capitalismo finanziario, non giunge mai a una critica del capitalismo in quanto tale.

Perché il capitalismo dovrebbe essere considerato un nemico?

Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti.

A volte, però, gli Stati hanno meno forza delle multinazionali.

Ma spesso nemmeno provano a scontrarsi con questi colossi. Cedono preventivamente. Anche se non è detto che siano sempre destinati a perdere il duello.

Un’Europa più sovrana avrebbe più potere negoziale?

In teoria, sì.

E in pratica?

In pratica, nessuno Stato europeo ha veramente in agenda la costruzione di una sovranità europea. Anche perché la costruzione della sovranità è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli Stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, di detenere il monopolio della violenza, di individuare gli interessi strategici di una comunità.

Senza sangue l’Europa politica non nascerà mai?

È molto difficile che la formazione di una sovranità europea possa accadere senza conflitto; anzi, se si guarda alle carneficine che sono avvenute nella storia, è difficile augurarsi che ciò accada.

Eppure, il parlamento europeo ha condannato uno dei suoi membri, l’Ungheria di Viktor Orbán.

Orbán è un leader detestabile, degno erede della lunga tradizione autoritaria ungherese. Tuttavia, la condanna europea è controproducente, e perciò sbagliata. Ogni volta che un’entità sovranazionale ha giudicato e punito uno Stato – pensi alle sanzioni inferte dalla Società delle nazioni al regime fascista – non ha ottenuto altro risultato che compattare la nazione intorno al proprio capo. Anche nel caso del giudizio espresso dall’Onu sull’Italia («è un Paese razzista»), si deve evitare di cadere nel ridicolo.

Qualcuno l’ha mai accusata di essere un populista?

No, anzi sono stato spesso tacciato di élitismo. Ma le élites devono capire e guidare la società, non condannarla.

Nella scorsa legislatura è stato eletto con il Pd.

Ne sono uscito dopo due anni e mezzo per entrare prima nel gruppo di Sinistra italiana, poi di Articolo 1, dal momento che nel partito democratico è rimasto assai poco della tradizione di sinistra.

Lei, invece, che cosa conserva?

Il metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci, benché in modo non dogmatico e arricchendolo di altri apporti.

In che cosa consiste?

Nel comprendere i fenomeni politici e sociali e le loro contraddizioni senza dare giudizi morali, poiché la politica non si fa con i padrenostri.

L’intervista è stata pubblicata in «Huffingtonpost.it» il 13 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

Sogni e realtà

 

Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni, non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».

Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica – al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica –; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».

Come lascia assai poco a sperare la decisione – che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” – di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica – o, se si vuole, “liberal” – della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.

In realtà, quindi, il sogno e l’antifascismo, che sembrano l’uno opposto all’altro, sono le due facce di una medesima mancanza di analisi radicale, di un pensiero pigro, stereotipato, privo di spessore storico, che impedisce al Pd di comprendere se stesso, il proprio ruolo, i propri errori (non quelli occasionali ma quelli strategici), un pensiero che procede per slogan e che non afferra la realtà; e che si espone al rischio o della inefficacia o di innescare una reale dinamica amico/nemico – a ciò infatti si giunge se si prende l’antifascismo sul serio –. Infine, questa politica infondata, inerte e al contempo pericolosa, è tatticamente un errore: non pare infatti utile a (ri)trovare voti e consenso l’attitudine a definire «fascisti», «barbari» e «nemici» i cittadini che hanno votato per i partiti di governo. Criminalizzare la maggioranza degli italiani non è una buona politica: è vittimismo arrogante e subalterno, che unisce la pretesa di superiorità morale alla implicita denuncia della impotenza della sinistra.

Soprattutto, una sinistra liberal che mette insieme il capitalismo più spregiudicato e le sue vittime, i licenziati e i licenziatori, che si prefigge uno schieramento «da Macron a Tsipras», non vede le proprie interne contraddizioni e le rigetta sul “nemico” fascista: il cleavage fascismo/antifascismo serve a occultare la vera natura del Pd, ovvero che questo è il partito dell’establishment, e che quindi è stato travolto dalla crisi di questo, e non solo è incapace di mettere in campo un’alternativa di pensiero e di azione, ma anche di rendersi conto della propria situazione storica reale.

Che è di essere un partito che difende il neoliberismo e l’ordoliberalismo quando questi sono in crisi – o meglio, quando producono crisi sempre più acute –; che resta attaccato alla Ue quando questa è ormai solo il cozzo delle sovranità e il teatro dell’egemonia tedesca attraverso l’euro; che scommette sulla liberaldemocrazia dopo avere contribuito a svuotarne il senso materiale – lo Stato sociale, l’allargamento del ceto medio, la ragionevole gestione delle disuguaglianze sociali, la sicurezza (a tutto tondo, cioè come garanzia della pienezza delle aspettative di vita) per la grande maggioranza dei cittadini –; che non sa vedere il cambiamento politico e culturale che stiamo vivendo. L’Occidente privo della presenza dell’America; l’Europa priva di progetti che non siano gli utili degli Stati (delle élites economiche e politiche che vi si sono insediate) e i sacrifici per i popoli; la globalizzazione “povera”, ovvero la sovranazionalità dell’economia e al contempo l’assenza, il fallimento, della società aperta; il liberalismo nutrito di privatizzazioni oligarchiche, divenuto liberismo senza persone e senza popolo, che per di più si meraviglia se il popolo lo abbandona in cerca di protezione – probabilmente illusoria – presso i “populisti”.

No. Proprio non si possono definire “barbari” quelli che non credono più alla civiltà “atlantica” del dopoguerra; questa non è crollata per l’irruzione dei popoli delle steppe, ma sta morendo di propria mano, per le proprie contraddizioni. Le cure tecnocratiche e rigoriste, dopo l’euforia della new economy, hanno ferito le società, rescisso il legame sociale, le appartenenze collettive (non diciamo la coscienza di classe), e consegnato i singoli alla rabbia e al rancore, alla paura e al confinamento entro i recinti egoistici della famiglia.

Chi non voglia inseguire ipotesi qualunquistiche e autoritarie – che sono più il sintomo che non la cura di questi mali – dovrà almeno riconoscere la verità; dovrà sapere da dove iniziare un nuovo corso culturale e politico; e non potrà fare opposizione con sermoni e prediche, con manifestazioni di piazza; chi come alternativa alla destra sa offrire solo l’elogio del vecchio mondo, o l’anatema delle nuove realtà che emergono, per quanto spiacevoli, pensando di esorcizzarle con qualche sdegnata narrazione, ignora che il grande passaggio storico in cui ci troviamo prenderà forma – dopo una fase di disorientamento, di comprensibile affannosa ricerca di protezione, dopo una lunga e ibrida transizione – grazie al combinarsi (come sempre è avvenuto) di idee e di interessi concreti: e che compito della sinistra è individuare gli interessi progressivi – cioè rivolti all’emancipazione dal bisogno dalla sofferenza dall’insicurezza –, e dare loro forza e idee. Soprattutto, l’idea che l’economia crea problemi che non sa risolvere, la cui soluzione sta nella politica “sovrana”. Ovvero nella politica capace di esprimere un comando legittimo davanti a cui anche la potenza dell’economia debba fermarsi. Gli Stati – e anche l’Europa sovrana, se mai ci sarà – non si governano con i padrenostri.

Finché la sinistra saprà opporre a Salvini soltanto i sogni e le speranze, il ribaltamento dei rapporti di forza resterà appunto un sogno – un informe, inconsapevole «sogno di una cosa» –. E Salvini la potrà lasciare sognare, e anzi augurarle «sogni d’oro». Si preoccuperà, invece, se e quando un leader di sinistra nuovo e credibile – portatore non di sogni ma di idee, nutrito di analisi cruda della realtà e non di edificanti narrazioni – saprà sfidarlo per dare all’Italia protezione dallo sfruttamento e non solo dai migranti.

 

 

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Sulla sinistra “rossobruna”

 

Nonostante la sua critica dello Stato come organo politico dei ceti dominanti, nonostante il suo internazionalismo, la sinistra in Occidente ha sviluppato la sua azione all’interno dello Stato: ha cercato di prendere il potere e di esercitarlo al livello dello Stato, ha investito nella legislazione statale innovativa, e nella difesa e promozione della cittadinanza statale per i ceti che ne erano tradizionalmente esclusi. Nella sinistra agiva l’impulso a considerare lo Stato come una struttura politica democratizzabile, sia pure a fatica; mentre le strutture sovranazionali erano per lei deficitarie di legittimazione popolare. La sinistra italiana, per esempio, fu ostile alla Nato (comprensibilmente) ma anche alla Comunità Europea. E in generale le sinistre difesero gelosamente le sovranità nazionali e si opposero a quelle che definivano le ingerenze dei Paesi occidentali nelle faccende interne degli Stati sovrani dell’Est, quando qualcuno protestava perché vi venivano calpestati i diritti umani. L’internazionalismo della sinistra rimase al livello di generica approvazione dell’esistenza dell’Onu, di più o meno platonica solidarietà per le lotte dei popoli oppressi, e di sempre più cauta collaborazione con i partiti comunisti fratelli. L’internazionalismo inteso come spostamento del potere fuori dai confini dello Stato, avversato dalle sinistre, fu invece praticato vittoriosamente dai capitalisti e dai finanzieri.

Caduta l’Urss, la sinistra aderì entusiasticamente al nuovo credo globale neoliberista e individualistico, e alla critica dello Stato (soprattutto dello Stato sociale) e della sovranità – oltre che dei sindacati e dei corpi intermedi – che esso comportava. L’idea dominante era che la sinistra di classe non era più ipotizzabile perché le classi non esistevano più, e perché vi era ormai una stretta comunanza d’interessi fra imprenditori e lavoratori. La giustizia sociale era un obiettivo raggiungibile solo se si lasciava che il mercato svolgesse la propria funzione di generare la crescita complessiva della società: la politica era solo un accompagnamento di processi di sviluppo in realtà autonomi. Gli inconvenienti del mercato si dovevano correggere nel mercato. Sono state le sinistre a introdurre il neoliberismo in Europa: Blair, Delors, Mitterand, Schroeder, Andreatta, D’Alema, Bersani. La sinistra storica divenne così un partito radicale di massa, schiacciato sulle logiche dell’establishment e sulla sua gestione, impegnato – senza esagerare – sui diritti umani e civili visti come sostitutivi dei diritti sociali. Una sinistra dei ceti abbienti e cosmopoliti, incapace di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti, le strutture produttive e le loro contraddizioni.

La critica alle storture, alle disuguaglianze, alla subalternità del lavoro, che invece si manifestarono nelle società occidentali soprattutto a partire dalla Grande crisi del 2008, e alla logica deflattiva dell’euro ordoliberista – con cui l’Europa volle giocare la propria partita nel mondo globale –, fu lasciata alle sinistre radicali (Tsipras, Corbin, Mélenchon, e negli Usa Sanders), generose ma anche confusionarie, e per ora minoritarie, e ai movimenti populisti e sovranisti spesso di destra, che oggi intercettano il bisogno di protezione e di sicurezza di gran parte dei cittadini. Che sono preoccupati per la propria precarietà economica, per il declassamento sociale e per i migranti, visti come problema di ordine pubblico ma anche come competitori per le scarsissime risorse che lo Stato destina all’assistenza e al welfare. Le destre politiche approfittano, come sempre, dei disastri provocati dalle destre economiche (e dalle sinistre che hanno dimenticato se stesse).

Mentre la sinistra deride e insulta gli avversari politici, grida al fascismo fuori tempo e fuori luogo (banalizzando una tragedia storica), e di fatto nega i problemi reali rispondendo alle ansie dei cittadini con prediche moralistiche e con la proposta di dare a Balotelli la maglia di capitano della nazionale, come segno anti-razzista, la destra politica e i populisti quei problemi li riconoscono e ne approfittano. Naturalmente, la interpretazione che ne danno è più che discutibile: i migranti e la casta (bersagli dei populisti e delle destre) non sono i principali responsabili della crisi e della disgregazione che ha colpito il Paese. Ma almeno queste forze anti-establishment porgono ascolto ai cittadini, che infatti li votano, mentre non votano le sinistre, che fanno sterile e superficiale pedagogia mainstream, e che ora scoprono con stupore di essere confinate nei quartieri alti, mentre nelle periferie degradate il proletariato e i ceti medi impoveriti – che ancora esistono, nonostante le analisi di sociologi non troppo perspicaci – votano destre e populisti.

In questo contesto, i sovranisti di sinistra (che non si possono definire “rosso-bruni”, che vuol dire “nazi-comunisti” – ed è un po’ troppo –) cercano di recuperare il tempo e lo spazio perduti dalle sinistre liberal e globaliste. Cercano insomma di sottrarre la protesta sociale alle destre, e tornano così allo Stato, nella consapevolezza che senza rimettere le mani su questo e sulla sovranità – che è un concetto democratico, presente nella nostra Costituzione, e che di per sé non implica per nulla xenofobia e autoritarismo – non ci si può aspettare alcuna soluzione dei nostri problemi, che non verrà certo da quelle potenze sovranazionali che li hanno creati (naturalmente, esistono forti responsabilità anche interne del nostro Paese, che andranno affrontate). Ovviamente è una strategia rischiosa, non garantita, forse anti-storica (ma lo Stato, in ogni caso, è ancora il protagonista della politica mondiale); e, altrettanto ovviamente, facendo ciò le sinistre sovraniste sposano, entro certi limiti, gli argomenti della destra, e ne condividono i nemici (la sinistra moderata – mondialista e europeista –, e il capitale globale). Ma se la sinistra sovranista sa fare il proprio mestiere riesce a distaccarsi chiaramente dalla destra politica perché è in grado di dimostrare che questa dà a problemi veri risposte parziali, illusorie e superficiali: la destra va sfidata non sui migranti, ma sulle politiche del lavoro; non sui vitalizi, ma sulla critica della forma attuale del capitalismo; non sull’euro, ma sulla capacità del Paese di non essere l’ultima ruota del traballante carro europeo; non sul nazionalismo, ma su un’idea non gerarchica di Europa. La sinistra sovranista – che è meglio definire radicale – ha il compito di dimostrare che destre e populismi sono l’altra faccia del neoliberismo e della globalizzazione che dicono di combattere; che sono apparentemente alternativi ma che in realtà ne sono subalterni.

Siamo alla fine del ciclo democratico e progressivo apertosi con la vittoria sul fascismo: una fine sopraggiunta dapprima nelle strutture economiche, e ora nel pensiero e nella pratica politica. In campo, duramente contrapposte ma complementari, ci sono establishment e anti-establishment: due destre, una economica (a cui è di fatto alleata la ex-sinistra liberal) e l’altra politica, l’una moderata e l’altra estrema. Lo spazio della sinistra non è accostarsi ai moderati, né mimare gli estremisti di destra, ma praticare la profondità, la radicalità dell’analisi; il suo compito è dimostrare che il cleavage destra/sinistra esiste ancora, ma è nascosto, e complesso. E che per il bene di tutti lo si deve fare riaffiorare.

 

 

L’Italia instabile e bloccata

L’Italia esce dalla XVII legislatura non meglio di come vi era entrata. Alcuni risultati macro-economici migliori (il Pil, gli occupati) non bastano a smentire questa affermazione: la crescita del Pil va a beneficio solo dei ricchi; gli occupati sono calcolati in modo ingannevole – basta un’ora di lavoro per essere definiti tali – e vanno ben distinti dai posti di lavoro, che sono in numero ben minore e, quelli nuovi, in maggioranza di cattiva qualità. La ripresa, modesta, è trainata dalle esportazioni e non dalla domanda interna: aumentano i poveri, aumentano gli emigrati, aumenta la sfiducia nell’oggi e nel domani. Gli incentivi alle assunzioni non hanno rilanciato l’economia; i bonus da 80 euro non hanno alimentato la domanda; le tutele crescenti restano una promessa e solo le tutele mancanti, l’abolizione dell’art. 18, sono una realtà. Come sono una realtà le crescenti disuguaglianze, economiche e sociali, riferite non solo ai redditi ma anche alle distanze generazionali, all’istruzione, al genere, al cleavage Nord-Sud, all’accesso alla sanità, alla speranza di vita.

Il nostro sistema economico non è ancora in grado di generare occupazione, benessere, ragionevole sicurezza materiale, fiducia nel presente e nel futuro. Questa performance insoddisfacente è dovuta a debolezze di lungo periodo che non si è riusciti a sanare – la Pubblica amministrazione irriformata, l’Università senza una precisa linea di sviluppo, il sistema politico disarticolato e privo di un principio d’ordine, le istituzioni in preda all’affanno –; e queste sono colpe dell’Italia. Ma non si dimentichi che il vincolo esterno dell’euro – voluto a suo tempo più dalla sinistra che dalla destra – esige alcune condizioni inderogabili: l’euro è una macchina deflattiva rivolta contro l’inflazione con cui si è chiuso il ciclo keynesiano; l’euro implica una lettura organicistica e non conflittualistica della società e dei rapporti economici; l’euro implica un’economia dell’offerta e dell’esportazione, non della domanda; l’euro richiede una grande moderazione salariale e una sottomissione di fatto del lavoro alle compatibilità del modello economico, che vuole il lavoro diviso (anche giuridicamente spezzettato), insicuro, flessibile – oltre che relativamente scarso –; l’euro vuole una politica forte il cui obiettivo è di garantire, attraverso la stabilità del sistema politico e attraverso rigide discipline di bilancio, l’irrevocabilità dei meccanismi economici sottostanti, con esclusione di politiche pubbliche non conformi, ossia anticicliche e di deficit spending. L’euro è un’idea e una pratica di società e di politica, oltre che di economia; è una grande decisione, che è stata presa con il Trattato di Maastricht e poi continuamente confermata fino a Lisbona: è stato il prezzo pagato per trattenere la Germania unificata saldamente legata all’Europa, e per dare a questa una chance di sopravvivere nell’economia globalizzata – mentre per la presenza politica dell’Europa sullo scenario mondiale non c’è al momento nulla da fare: gli interessi nazionali appaiono ancora determinanti –.

Tutto ciò serve a indicare il tema di fondo del momento politico; da una parte l’Italia è percorsa da uno sconforto che è anche uno scollamento fra politica (titolare del potere d’indirizzo del Paese) e buona parte dei cittadini (che non si sentono per nulla indirizzati verso il meglio), e su questo sconforto rabbioso e rassegnato si innescano fenomeni di protesta, di risentimento contro tutte le élites, di populismo, che hanno chiare declinazioni antisistema e anche antidemocratiche (l’incremento delle destre estreme è dovuto a quello che è percepito come il fallimento economico della democrazia, a cui si aggiunge la questione dei migranti); dall’altra nessuna forza che abbia qualche chance di esercitare un ruolo politico influente può davvero permettersi una vera radicale rottura con l’establishment economico italiano ed europeo. Tanto la Lega quanto il M5S hanno non a caso messo la sordina (senza però eliminarla del tutto) alla polemica anti-euro: la moneta unica è con tutta evidenza il moloch a cui nessuno osa davvero fare guerra, benché molti siano consapevoli dei suoi alti costi sociali. La polemica fra europeisti e sovranisti si depotenzia parecchio, quindi, proprio in vista delle elezioni, quando ci si sarebbe aspettato un suo rinfocolarsi – aspettativa sensata solo se l’opzione sovranista avesse qualche grado di praticabilità. Il che non è –.

Riappare quindi il cleavage destra/sinistra che a molti sembrava riassorbito all’interno dell’altro, Europa/Stato. Ma riappare a ben guardare anch’esso depotenziato: non è in gioco una scelta di civiltà, una decisione fra modelli di società, ma la gestione della decisione già presa, quella appunto a favore dell’euro e a ciò che esso implica; una gestione che certamente può presentare declinazioni differenti – come la maggiore o minore attenzione a temi non economici quali i diritti civili; oppure, nell’ambito economico, come il privilegiare politiche di incentivi diretti per le assunzioni nell’economia (Renzi), o politiche di investimenti pubblici (la sinistra), o politiche finalizzate alla crescita da cui deriverà poi maggiore occupazione (FI); oppure ancora come le più o meno credibili o estemporanee promesse di attenuazione della pressione fiscale (la destra) o di lotta all’evasione (la sinistra), o di implementazione del reddito di cittadinanza (M5S e FI) –; ma tutto ciò resta all’interno di ciò che per l’establishment è compatibile. In sostanza, destra e sinistra si contendono oggi il potere con l’identico scopo di proteggere, rassicurare, difendere i cittadini dagli effetti più duri di un sistema economico che resterà duro e generatore di disuguaglianze – magari da attenuare ma non certo da colmare –; cioè con lo scopo di apportare correttivi (maggiori o minori) ad alcune leggi sistemiche particolarmente odiate, come il jobs act, la buona scuola, la legge Fornero, e di negoziare con le autorità comunitarie deroghe agli obblighi di bilancio. I mezzi proposti sono diversi, ma identica è la consapevolezza che sui fini non si può più discutere, e maggioritaria è anche la fiducia che, con opportune riforme, il sistema economico possa non essere distruttivo di se stesso e della democrazia; e soprattutto identica è la speranza che la vitalità e la “civilizzabilità” dell’euro, il suo costituire il possibile fondamento di un ordinato vivere civile e di non essere moltiplicatore di contraddizioni e di angosce, sia percepito anche dai cittadini, che quindi passino in tempi brevi dalla sfiducia, ora conclamata, nella politica e nell’economia, alla fiducia (o, almeno, al timore del peggio davanti a offerte politiche troppo radicali).

E anche la richiesta di discontinuità, avanzata dalla sinistra, è più rivolta contro lo stile renziano, contro una politica troppo autosufficiente, divisiva e personalistica ai limiti dell’avventurismo, che non contro le logiche del sistema, di cui si tenta una ridefinizione in senso socialdemocratico – ma se un certo riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro è forse attuabile, se un’inversione di tenenza nelle politiche pubbliche è forse possibile, certo un deciso ritorno a Keynes e allo Stato sociale, in un solo Paese, è improbabile; e il superamento dell’orizzonte capitalistico è una mera utopia –. In realtà, tutte le forze d’opposizione – destra, M5S, LeU – sono attraversate ciascuna, più o meno visibilmente, da una frattura tra coloro che con le logiche del sistema, opportunamente riformate, vengono a patti e coloro che invece continuano a farsi portatori di una ribellione più profonda (per la sinistra ciò implica una divisione interna sui rapporti col Pd). Il che lascia supporre un dopo-elezioni all’insegna di probabili scissioni di quegli stessi cartelli elettorali che oggi agli elettori si presentano uniti. E ciò senza dubbio è nella logica di un sistema parlamentare, tanto più se proporzionale, ma certo non aumenterà la legittimazione del ceto politico agli occhi dei cittadini.

Si è detto che la grande crisi apertasi nel 2008 ha trasformato la politica-spettacolo in politica dell’identità, e i partiti elettorali pigliatutto in partiti di ascrizione, anche se non più attorno alle ideologie. In realtà è più corretto dire che la già esile trama del legame sociale si è strappata ancora più profondamente, e che la società si presenta ora come un agglomerato disomogeneo di gruppi poco comunicanti, a cui cercano di dare voce i partiti. Che quindi devono assecondare il pluralismo sociale, ma che certo non conferiscono identità politica ai diversi gruppi quanto piuttosto offrono loro un logo, uno slogan, un volto, per racimolare qualche voto. Il sistema politico è instabile e debole poiché lo è la società. E i partiti sono assertivi nel proclamare la propria presunta identità, anche con esagerate offerte propagandistiche, ma cauti nel prendere impegni perché consapevoli della propria debolezza a fronte della forza dei poteri che strutturano – o destrutturano – il Paese. Del resto, il peso della divisione sociale si è imposto come fattore politico reale quando il rozzo tentativo di supplire, attraverso l’artificio del ballottaggio, la stabilità politica assente è stato bocciato proprio dal confluire contro Renzi e il Pd di tutto il restante arco politico: non si è trattato di uno scontro fra due fronti, ma del rifiuto della riduzione al vecchio Due di quel Tre – la terza gamba è nata proprio grazie alla protesta larghissima degli italiani –. La riforma dell’Italicum, e della Costituzione, era troppo estranea a quello che ormai è diventato il Paese: non tanto perché negava delle identità politiche, che di fatto non ci sono, ma perché non rispettava divisioni ormai divenute strutturali, per sanare le quali ci vuole ben altro che una riforma elettorale. Ci vogliono risultati concreti (posto che siano mai possibili) di stabilizzazione sociale e di ricostituzione della fiducia – non solo proclamati dai vari Dulcamara in circolazione, ma reali, e soprattutto percepiti come reali dai cittadini –. Certo, una legge elettorale migliore del Rosatellum avrebbe aiutato, ma era obiettivamente difficile da realizzare.

Da ciò si comprende sia la duplicità della campagna elettorale – gridata e al contempo priva di idee realmente alternative – sia l’instabilità del quadro politico, che ha un’origine profonda nella sofferta struttura economica e sociale del Paese, sia l’esito prevedibilmente conservativo (un po’ più a destra, un po’ più a sinistra, secondo l’esito numerico) del test elettorale di marzo per quanto riguarda il modello economico che a differenza di quello politico non è, se non marginalmente, una variabile. Il che è certo nel caso di una vittoria netta della coalizione di destra, e anche nel caso delle larghe intese (o Grande Alleanza) – la vittoria di una inesistente coalizione di centrosinistra è fuori discussione –, mentre solo un’ipotesi di alleanza fra M5S e LeU (o Lega) potrebbe forse avere un valore di (scomposta) scossa sistemica, posto che queste formazioni non si spacchino davanti alla sfida di un governo di vero cambiamento (e in che direzione, poi, non è dato prevedere, poiché Lega e LeU non hanno certo la stessa valenza politica), che incontrerebbe in ogni caso ostacoli insuperabili a livello europeo.

Nel complesso, la riduzione del ventaglio delle prospettive politiche sembra evidente – un deficit di pensiero e di azione – e al contempo è certamente angosciosa, perché si fonda non sul raggiungimento di una prospettiva di sviluppo, ma solo sulla mancanza di alternative, teoriche e pratiche, a uno status quo al contempo instabile politicamente e socialmente, e bloccato economicamente – sia perché immaginato e proposto come privo di alternative, sia perché portatore di uno sviluppo di fatto insostenibile –. E non a caso con la legge «sblocca Italia», si è più che altro aumentata l’instabilità sociale perché si sono privilegiate le logiche economiche meno riguardose degli equilibri territoriali. Sbloccare l’economia dalle proprie interne coazioni per non distruggere la società è, del resto, un’esigenza non solo italiana: anche le magnifiche sorti dell’eurozona, con la crescita economica al 2,5%, è minacciata da una possibile bolla finanziaria per la liquidità generata dalla Bce, e in ogni caso si fonda sulla crescita della produttività e delle esportazioni, non su una prospettiva di maggiore equità sociale.

Con ogni evidenza non è questo un compito che l’Italia può addossarsi da sola: è però in suo potere cercare di recuperare – all’interno dei margini offerti dal sistema economico, e anche forzandoli per quanto si può –, la solidità del proprio impianto statuale, politico, amministrativo, scolastico, oltre che la stabilità della propria società, per potere godere di una crescita più energica di quanto ora non avvenga, e per potere da qui avere maggiori margini di ricostituzione della forza del lavoro e di giustizia sociale. Crescita economica per rendere possibile una crescita sociale grazie a una politica progressiva, quindi – sentiero stretto ma obbligato –, e anche per potere così esercitare un peso maggiore a livello europeo, per correggere lì i trend attuali, ora favorevoli solo ad alcuni Paesi; per modificare lì l’idea e la realtà dell’Europa. Infatti, il peso internazionale delle compagini statuali è ben lungi dal diminuire: la Ue è di fatto costituita da Stati, e l’accordo franco-tedesco, ormai giunto a maturazione, ci dice che quanto più gli Stati sono efficienti tanto più hanno la capacità di orientare le politiche comunitarie. E non è un caso che dalla ideazione e dalla formulazione di quell’accordo l’Italia sia stata esclusa, e le sia stato offerto un accordo-bis con la Francia; mentre un obiettivo che dovremmo porci è un sovranismo realistico, o meglio un neo-statalismo democratico, in vista di un europeismo non subalterno né velleitario.

Abbiamo insomma davanti a noi il compito di stare in questo tempo nel modo migliore, senza illusioni di radicale discontinuità, ma con la consapevolezza che qualcosa la politica può fare per sanare le ingiustizie più smaccate, le disuguaglianze più avvilenti, le inefficienze più clamorose; e che molto si deve lottare per evitare il rischio della decadenza economica, civile e culturale, e perfino del fallimento della democrazia. Rischi incombenti, che vanno nominati e guardati in faccia, da cui non ci solleveranno né le promesse degli imbonitori, né i melliflui canti delle sirene che dicono che tutto va bene, né le urla inarticolate delle arpie.

Sessant’anni fa, la campagna elettorale del 1958 fu impostata dalla Dc sul motto “progresso senza avventure”: era uno slogan conservativo, perché rassicurava l’elettorato che l’apertura a sinistra non sarebbe stata all’ordine del giorno ancora per un po’, e che il miracolo economico sarebbe stato rafforzato e non interrotto. Ma all’interno del sistema politico si agitavano alternative (non rivoluzionarie, certo, ma progressive), che maturarono nella legislatura successiva con i governi di centrosinistra. Oggi, semmai, con uno scatto che faccia uscire la campagna elettorale dalla miseria argomentativa in cui giace, si dovrebbe cercare di convincere l’elettorato che il regresso può essere fermato, e che la politica sa ancora non solo assecondare i trend economici ma anche governarli, con realismo ma senza timidezze, con idee e con energia. Che l’Italia può, senza avventure, tentare l’avventura di sincronizzare la politica, la società, l’economia; di stabilizzarsi (socialmente) e di sbloccarsi (economicamente) al tempo stesso.

 

L’articolo è stato pubblicato in «Appunti di cultura e politica», 1, 2018, pp. 29-33

Tesi sull’Europa

ph-18

1.L’Europa come costruzione unitaria o presunta tale ha natura ibrida e oscillante. Nasce fortemente politica (il federalismo di Spinelli prevedeva una superpotenza europea neutrale fra Usa e Urss) poi diviene economica (con la CECA del 1951) per riproporsi come politica (con il tentativo della CED, abortita nel 1954); la reazione è stata di nuovo economica e funzionalistica (il MEC del 1957) e lo sviluppo successivo è nuovamente politico-economico-tecnocratico (l’Europa di Maastricht del 1992 governata dagli eurocrati della Commissione e dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo, con il metodo intergovernativo), fino al Fiscal compact del 2012 che ha tolto sovranità agli Stati a favore di un trattato economico gestito da Bruxelles e interpretato autorevolmente dalla Germania. Questa oscillazione continua e la complessità contraddittoria della configurazione attuale spiega perché è impazzita la maionese europea, ovvero perché il calabrone si è accorto che non può volare (un tempo si diceva che l’Europa è come un calabrone, che per le leggi della fisica non potrebbe volare eppure vola ugualmente).

2.La possibile fine della Ue nella sua configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini: della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude (oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa dall’euro (che ha portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della stessa democrazia occidentale postbellica.

3.L’euro è un dispositivo deflattivo che obbliga gli Stati dell’area euro a passare dalle svalutazioni competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche e giuridiche del lavoro, e alla competizione sulle esportazioni, in una deriva neomercantilistica senza fine (ma, ovviamente, intrinsecamente limitata). Modellato su ipotesi francesi (culminanti nel memorandum Delors) in una pretesa di egemonia politica continentale della Francia in prospettiva post-statuale (e infatti non a caso la protesta francese contro l’Europa è oggi marcatamente statalista e protezionista/protettiva), l’euro è stato “occupato” dal marco tedesco e dall’ordoliberalismo sotteso (la «economia sociale di mercato altamente competitiva» citata dal trattato di Lisbona è appunto l’ordoliberalismo, con la sua teoria che il mercato e la società coincidono, e che lo Stato – ovvero, nel modello europeo, le istituzioni comunitarie – è garante del mercato). Il doppio cuore dell’Europa – la guida politica alla Francia, il traino economico alla Germania – ha qui l’origine dei suoi equivoci: la Francia ha un primato solo apparente, e la Germania traina soprattutto se stessa, le proprie esportazioni, e le economie incorporate in modo subalterno nel proprio spazio economico. La stessa Germania ha dovuto, peraltro, orientare l’ordoliberalismo verso il neoliberismo, abbandonando in parte le difese sociali dei lavoratori, con le riforme Schroeder-Hartz fra il 2003 e il 2005. Ne è nato un disagio sociale che sembra oggi orientarsi anche verso la SPD (che pure ne è stata a lungo responsabile).

4.Gli spazi politici in Europa (la questione centrale) sono multipli e intersecati. Vi sono gli spazi degli Stati, demarcati da muri fisici e giuridici; vi è lo spazio della NATO, che individua una frontiera calda a est, e che è a sua volta attraversato dalla tensione fra Paesi più oltranzisti in senso anti-russo (gli ex Stati-satellite dell’Urss) e Stati di più antica e moderata fedeltà atlantica (tra cui la Germania); vi è la frontiera fra area dell’euro e le aree di monete nazionali; e soprattutto vi sono i cleavages interni all’area euro – che non è un’area monetaria ottimale –, ovvero vi sono gli spread, e oltre a questi vi è la differenziazione cruciale fra Stati debitori e creditori; vi è poi uno spazio economico tedesco, il cuore dell’area dell’euro, che implica una macro-divisione del lavoro industriale e un’inclusione gerarchizzata di diverse economie nello spazio economico germanico. È decisivo capire che lo spazio economico tedesco e lo spazio politico tedesco non coincidono (molti Paesi inglobati di fatto nell’economia germanica hanno una politica estera lontana da quella tedesca): è questa mancata sovrapposizione a impedire l’affermarsi di un IV Reich, che peraltro neppure la Germania desidera. A questa complessità spaziale si aggiunga il fatto che la NATO ora non è più la priorità americana, e che gli Usa di Trump sembrano al riguardo un po’ più scettici (ma su questo punto è necessario attendere l’evoluzione degli eventi; probabilmente lo scopo statunitense è solo quello di far sostenere agli alleati un peso economico maggiore a quello attuale, e in ciò Trump è in linea con Obama).

5.È del tutto implausibile pensare che la Germania, anche in caso di vittoria socialdemocratica, possa avanzare verso l’assunzione di una maggiore responsabilità politica europea (ad esempio, accedendo a qualche forma di eurobond): anzi, la cancelliera Merkel verrà forse punita per il suo presunto lassismo verso la Grecia e verso i migranti. Del resto, la sua proposta di Europa a due velocità – qualunque cosa significhi – vuol dire proprio l’opposto di un’assunzione di maggiore responsabilità. In Europa convivono già diversi “regimi” su molteplici aspetti della politica internazionale; il punctum dolens è il regime dell’euro, che Draghi ha difeso come «irreversibile», richiamando così la Germania alle proprie responsabilità e implicitamente riproponendo la propria politica di Qe – che la Germania non gradisce, benché le porti sostanziosi vantaggi sulle intermediazioni, effettuate attraverso la BuBa –, che però non è in alcun modo risolutiva della crisi economica. In ogni caso, lo status quo benché complessivamente favorevole alla Germania presenta per quest’ultima qualche svantaggio: oltre al contenzioso politico con gli anelli deboli della catena dell’euro, anche l’inimicizia americana, motivata dal fatto che l’euro è mantenuto debole per facilitare le esportazioni tedesche (prevalentemente). Mentre un euro a due velocità – che nel segmento più forte verrebbe apprezzato rispetto all’attuale – risolverebbe qualche problema politico, non impedirebbe alla Germania (che ha grande fiducia nella propria base industriale) di continuare a esportare merci ad alto valore aggiunto e ad esercitare egemonia nel proprio spazio economico, e toglierebbe di mezzo alcune preoccupazioni di Trump. Insomma, un nuovo SME, benché non risolutivo, sarebbe probabilmente una boccata d’ossigeno per molti.

6.In Italia la UE è stata pensata come «vincolo esterno» per superare d’imperio le debolezze della nostra democrazia, e il nostro acceso europeismo è stato il sostituto compensativo della nostra scarsa efficacia politica sulla scena internazionale, diminuita ulteriormente da quando la fine del bipolarismo mondiale ci ha privato del pur modesto ruolo di mediatori, nel Mediterraneo, fra Occidente e mondo islamico. Il continuo acritico rilancio del nostro Paese sugli step successivi dell’integrazione europea – SME, euro, Fiscal compact – non è stato poi esente da aperti intenti punitivi: basti ricordare il sarcasmo di Monti sul posto fisso, da dimenticare perché «noioso», o gli auspici di Padoa-Schioppa sul fatto che l’euro avrebbe nuovamente insegnato ai giovani, a cui lo Stato sociale l’ha fatta dimenticare, la «durezza del vivere».

7.Impiccarci al «vincolo esterno» vuol quindi dire preservare una configurazione di spazi politici che vede la nostra sovranità compromessa dal nostro partecipare alla pluralità incontrollabile degli spazi politici europei. Anche quando eludiamo più o meno astutamente alcuni vincoli dell’euro, restiamo subalterni alle sue logiche economiche complessive, oltre che ai «guardiani dei trattati», più o meno benevoli o rigorosi – secondo i loro disegni. E soprattutto vuol dire privarci degli strumenti per invertire la nostra filosofia economica e politica, e quindi consegnare l’Italia alla protesta sociale causata dall’insostenibilità del modello economico.

8.Sono necessarie riforme che vadano in senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione, si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i veri problemi dell’Italia, non i vitalizi né le date dei congressi, che sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi). Le leggi elettorali, altro tema che appassiona il ceto politico, a loro volta, sono certo importanti; ma il pericolo più grave – l’Italicum – è stato sventato.

9.Lo strumento principale per questa rivoluzione, per questa discontinuità – o se si vuole, più semplicemente, per rimettere ordine in casa nostra, per ridare l’Italia agli italiani, nella democrazia e non nel populismo –, è lo Stato e la sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano in un nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in ciò dal constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino non è segnato), una via importante per la riduzione della complessità dell’indecifrabile spazio europeo. Il termine dispregiativo «sovranista» non significa nulla se non un rifiuto di approfondire l’analisi del presente, e quindi denota una subalternità di fatto ai poteri dominanti (e declinanti).

10.L’Europa va ridefinita come spazio di pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di «servizi» – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le «cornici» delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo. Sotto il profilo storico e intellettuale Europa e democrazia si coappartengono, benché la prima democrazia moderna sia nata in America; ma per altri versi si escludono, se ci si attende la democrazia da un blocco continentale unificato da trattati monetari e dall’egemonia riluttante della Germania: di fatto la democrazia in Europa vive insieme agli Stati, e alla loro collaborazione. Dire che l’euro è irreversibile è in fondo un atto di disperazione intellettuale e politica, o almeno di scarsa immaginazione: un atto anti-europeo, in fondo. Di irreversibile, a questo mondo, c’è solo l’entropia, un destino fisico; ma ciò che la storia ha fatto può essere cambiato, soprattutto se il cambiamento deve salvare le nostre società e le nostre democrazie. Ed è appunto la politica quella che, posto che se lo proponga, serve a cambiare le cose, mentre al contrario le profezie catastrofiche – minacciate a chi pretende di percorrere una via difforme dal mainstream elevato a destino – non si sono avverate. Questo ci sia di conforto e di stimolo al pensiero e all’azione.

 

Sui corpi sociali

 

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I corpi sociali possono essere o quelli territoriali, oppure le organizzazioni degli interessi, oppure ancora i partiti e i movimenti politici, oppure le formazioni one issue, o infine il terzo settore. Inserirli all’interno delle istituzioni di uno Stato moderno è un’impresa improba (più o meno, secondo i casi), e non solo perché alcuni non lo chiedono, e neppure perché quando lo si tenta (come nel caso delle istituzioni territoriali italiane nella Costituzione riformata, felicemente tramontata) lo si fa piuttosto male. Il motivo non è contingente ma sostanziale. L’essenza istituzionale della modernità è infatti duplice: in primo luogo, è centrale logicamente l’unità politica, la costruzione della sovranità; in secondo luogo, lo strumento di questa costruzione unitaria è prevalentemente la rappresentanza, che non può non essere a base individuale. Sono i singoli che votano, dotati di diritti, di opinioni, di ideologie, di interessi; i singoli come atomi, e non i gruppi.

Già non è stato semplice accettare i partiti all’interno dell’unità politica – le posizioni più radicalmente unitarie, o più democratiche, come in Rousseau, non li ammettono, in quanto «fazioni»; e perfino in Inghilterra, loro patria, i partiti vengono legittimati dalla filosofia politica e giuridica solo nella seconda metà del Settecento –; in ogni caso, oggi, la loro parabola, che ha toccato l’apogeo nei cent’anni che vanno dal 1890 al 1990, è ormai nella fase declinante. E quando pure hanno costituito il nerbo della politica sono stati «parti generali», ovvero hanno riprodotto in sé le medesime logiche unitarie dello Stato; e certamente hanno sempre preteso di risolvere e mediare in sé le ragioni dei corpi intermedi, stabili o volatili che siano, ai quali si lasciava piena cittadinanza nella sfera sociale ed economica, ma la cui rappresentanza politica passava attraverso il partito (il nesso fra Pci, Cgil, Cooperative, Arci, ecc. è emblematico; ma lo stesso si deve dire sul versante della Dc). Altro discorso è, evidentemente, quello che riguarda i movimenti politici extraparlamentari, i quali però o si sono parlamentarizzati o hanno vissuto, almeno finora, vite politiche intense ma brevi. Insomma, lo si ribadisce, la democrazia rappresenta agevolmente il pluralismo delle opinioni individuali, o delle opzioni ideologiche dei movimenti (se questi vi acconsentono) o dei partiti (e anche questi, non a caso, sono riferiti nell’articolo 49 al diritto soggettivo dei cittadini alla libera associazione), ma solo indirettamente riesce a rappresentare interessi collettivi e corpi sociali organizzati. Non a caso nella nostra costituzione il CNEL è risultato assai poco vitale.

Chi ha scommesso contro la rappresentanza individuale, e al tempo stesso contro i partiti, come il fascismo, ha dato con le corporazioni rappresentanza politica diretta ai corpi sociali, credendo di essere così più aderente alla realtà delle liberaldemocrazie; ma la violenza, l’autoritarismo, l’artificiosità, la rigidità della soluzione proposta l’hanno affossata e resa per sempre improponibile.

Di fatto, i corpi sociali intermedi hanno espresso la loro intrinseca politicità all’interno del compromesso fra Stato e partiti nella stagione «socialdemocratica», finché questa è stata viva e vitale; oppure hanno trovato e ancora trovano collocazione nelle architetture dell’ordoliberalismo tedesco, in cui banche e imprese, sindacati e associazioni datoriali si intrecciano in mille modi (fra i quali la cogestione o Mitbestimmung) in una cornice complessa fatta di rappresentanza partitica (Bundestag) e territoriale federale – riferita ai governi dei Länder e non alle assemblee (Bundesrat) –. La via tedesca valorizza istituzionalmente i corpi intermedi in un quadro organico di stabilità, di collaborazione e di efficienza, che risponde alla peculiare storia della Germania.

Una terza via consiste poi nel lasciare i corpi sociali sul libero mercato dell’influenza politica, organizzati in movimenti più o meno incisivi e visibili, o, nel caso degli interessi economici, in lobbies o in altre realtà che non desiderano essere rappresentate politicamente ma che cercano di influenzare direttamente i decisori politici. Una via «anglosassone», che finora non ha incontrato la sensibilità dell’opinione pubblica italiana, e che esige in ogni caso un’attenta legiferazione.

I problemi dell’Italia di oggi nascono appunto dal fatto che nessuno di questi paradigmi è ora vigente. Tramontato da tempo il modello vetero-corporativo, il modello partitico socialdemocratico non è più vigente per la scomparsa dei partiti, il modello tedesco è appunto lontanissimo dalla esperienza italiana, e così dicasi di quello lobbistico. Dopo la rivoluzione neoliberista degli anni Settanta e Ottanta (dovuta non solo all’innovazione tecnica dell’elettronica, né solo allo shock petrolifero, ma a un vero cambio di paradigma culturale, economico e politico, appunto il neoliberismo), dopo la costruzione dell’euro, impostata a Maastricht e perseguita per tutti gli anni Novanta (il cui esito è che lo Stato e le parti sociali sono stati privati del potere di determinare la politica economica e monetaria del Paese), il problema che si pone con particolare urgenza è come reagire alla tentata privatizzazione del lavoro e di tutta la materia economica, sottratta alla rilevanza pubblica e politica a cui invece la destina la Costituzione (che infatti fonda la Repubblica sul lavoro). E in parallelo come valorizzare la pur debole politicità che, rifluita fuori degli spenti partiti e delle fragili istituzioni, permea di sé i movimenti sociali più chiaramente politici, volti a ricostruire momenti di aggregazione, di partecipazione e di messa in rete di esperienze e di istanze.

Naturalmente, sarebbe importante riflettere da vicino sui corpi sociali più politicamente orientati (movimenti, partiti, ecc.): ciò richiede senza dubbio ben altro spazio; eppure, il lato politico e il lato economico della questione dei corpi sociali, benché distinti, hanno in comune la reazione, che pare necessaria, a una pretesa strategica del neoliberismo. La pretesa, cioè, che la società sia interamente omogenea e anzi mucillaginosa, composta – secondo la celebre affermazione della signora Thatcher – non da corpi complessi in dialettica ma da singoli individui o da famiglie. Un continuum, insomma, fatto di soggetti che si credono concorrenziali – ma in realtà ugualmente subalterni, misurabili, valutabili, valorizzabili o svalorizzabili dalle tre facce del nuovo potere unico (economico-finanziario, politico-leaderistico, mediatico-intellettuale) –; da singoli, quindi, soli e in quanto tali incapaci di identificare esistenzialmente e intellettualmente le strutture profonde del sociale, cioè le parti in cui la società si articola, e i loro conflitti. Insomma la pretesa, con ogni evidenza ideologica (ovvero falsa: basti pensare che il più visibile effetto del neoliberismo è la produzione di un tasso di disuguaglianza mai visto da quasi un secolo), che la società sia liquida; e che le parti di cui eventualmente si presenta composta non siano che caste e corporazioni, nidi di privilegi e di resistenze contro quel salutare cambiamento che la politica deve perseguire, disgregandole per tenere fluido, efficiente, flessibile il movimento della produzione e del mercato.

L’ideologia neoliberista, così, oggi distingue i corpi sociali fra quelli che vengono fatti emergere per essere liquidati – partiti, sindacati, caste, corporazioni – e quelli che invece restano sullo sfondo senza neppure essere nominati, le burocrazie, le tecnocrazie, le lobbies, i livelli opachi extranazionali dei poteri economici europei e planetari. Un’altra classe sono poi i corpi del terzo settore, che all’occorrenza possono essere utilizzati per realizzare la sussidiarietà – veto mantra antistatale dei nostri decenni –; e un’altra, infine, sono i movimenti politici e d’opinione, peraltro non incentivati dal potere, che alla partecipazione preferisce l’apatia politica.

Le soluzioni di alcuni di questi problemi italiani paiono essere le seguenti. Dapprima, il perseguimento di un modello anglosassone che lasci i corpi sociali misurarsi sul mercato dell’influenza politica, regolamentato da una legge sulle lobbies. Meglio che nulla, certo (e anzi ipotesi necessaria per le organizzazioni d’opinione); ma è una soluzione che non modifica i rapporti di potere diseguali che si sono formati fino a ora a livello economico.

Un’altra soluzione può consistere nella convergenza dei corpi e degli interessi sociali su azioni volte alla tenuta e alla coesione territoriale – una volta preclusa la loro capacità di agire a livello nazionale centrale –. La costruzione, la manutenzione e l’implementazione del capitale sociale, umano, imprenditoriale, cognitivo, nei luoghi in cui esso si trova, tuttavia, ha come contropartita l’ovvia constatazione che l’Italia, da questo punto di vista, è una realtà a macchia di leopardo. L’organicismo implicito in questa ipotesi sarebbe paradossalmente contraddetto dall’emergere di linee d’esclusione, da fratture nel corpo nazionale, da disuguaglianze crescenti.

Un’ulteriore soluzione teoricamente proponibile (e per me preferibile) è un nuovo compromesso socialdemocratico, a forte base partitica e statalistico-welfaristica: ipotesi difficile a realizzarsi, in realtà, perché implica l’esistenza di partiti dotati di una forza politica ora non immaginabile, e una presenza dello Stato, insieme a una sua capacità di spesa, che è per ora poco probabile nell’Europa ordoliberista in cui ci troviamo a vivere. Un’ipotesi, nondimeno, che la sinistra dovrebbe coltivare, per non lasciarla alla destra sovranista. A questa ultima ipotesi se ne collega un’altra, quasi come precondizione: che cioè si costituisca un «Partito del lavoro», capace di interrompere la narrazione neoliberista dell’individualismo e della privatizzazione dell’economia; un partito che porti alla luce le pluralità, le differenze, le contraddizioni che attraversano il corpo sociale, e che dia voce esplicitamente politica alla loro politicità implicita. Un partito che sia «parte» e che pertanto si contrapponga dialetticamente ad altre «parti», così che stia nel conflitto (del tutto fisiologico, in verità, all’interno delle democrazie) e non nell’organizzazione e nell’organicismo, la soluzione della questione dei corpi sociali. Una soluzione politica prima che istituzionale, quindi, non priva di efficacia, e soprattutto una soluzione non ipocritamente orientata a negare la possibilità del conflitto – una negazione che è in verità, di per sé, un atto ultra-conflittuale – ma anzi realistica e al contempo capace di portare la tensione alla giustizia all’interno di una società che ne ha molto bisogno e che, non imbattendosi ormai neppure nella parola, si consegna sempre più all’apatia rassegnata o alla rabbia estremistica.

Politica e visioni. Risposta a Toni Negri

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Con una foga polemica che a tratti non gli permette una lettura adeguata del mio testo (Molte fini, un nuovo inizio) e che lo porta, ad esempio, a fraintenderne l’apertura  rivolta contro il togliattismo deformato praticato da alcuni, ai nostri giorni, all’interno del Pd , Toni Negri mi accusa di lamentoso e indignato intellettualismo, di democraticismo, sinistrismo, politicismo, istituzionalismo, pedagogismo, goffaggine retorica e politica, cecità davanti alle dinamiche della storia e del capitalismo, e di rischiare di scivolare verso un nazionalismo “rosso-bruno”. E mi invita a studiare meglio le vicende del Pci a partire dagli anni Settanta, e a praticare la lettura di Deleuze.

C’è da chiedersi il motivo di tanto accanimento verso un documento che, affetto da queste irrimediabili carenze, dovrebbe essere abbandonato alla critica roditrice dei topi, e non mobilitare contro di sé le armi della critica, come se fosse l’epitome della metafisica moderna. Anche perché non esprime la posizione ufficiale di alcuna forza politica, né di alcun gruppo parlamentare, ma è solamente opera mia, di cui io solo porto la responsabilità.

Per tentare una risposta all’interrogativo c’è da notare in primo luogo − a livello politico immediato  una convergenza fra quanto di SI ha detto Matteo Renzi (cioè che si tratta di “delirio onirico”) e quanto sostiene Negri. A dimostrazione del fatto che contro un progetto di sinistra si mobilitano all’unisono tanto i poteri costituiti quanto le opposizioni più radicali.

Sotto il profilo filosofico, poi, c’è qui un conflitto fra due differenti orizzonti analitici: Negri in sostanza non ammette che alcuna categoria della teoria e della pratica politica moderna − soggetto, classe operaia, produzione di merce, emancipazione, progresso, riforma, partito, istituzioni, parlamentarismo  possa sopravvivere alla mobilitazione neoliberista, che le avrebbe azzerate (rottamate). Un’adeguata comprensione dell’oggi sarebbe possibile solo attraverso l’analisi di Deleuze, oltre che dello stesso Toni Negri, i quali ci informano che le società disciplinari (in cui erano appaesati lo Stato, il partito, il sindacato, la fabbrica fordista) sono ormai tramontate, che la forza lavoro è oggi qualificata non più dal tempo di vita speso nella valorizzazione ma nell’intelligenza e nella capacità di relazione, che il dominio è oggi caratterizzato da “modulazioni estensive di controllo su corpi biopolitici”, che il potere è oggi tanto massificante quanto individuante; che insomma si deve abbandonare l’idea moderna che esista un rapporto di mediazione razionale fra soggetto e oggetto, fra teoria e prassi, fra contingenza e finalità, che le istituzioni possano avere efficacia (idea che confesso di coltivare), e anche l’idea (a cui mai ho acceduto) che la politica consista nel perseguire quel “punto sublime” della storia in cui il Due si fa Uno, in cui ogni conflitto si assesta placato, e la rivoluzione dischiude le porte del mondo nuovo. Insomma, si tratta dell’alternativa fra la forma razionalistico-umanistica e il rizoma, fra i dispositivi di mediazione della modernità e la potenza dell’immediatezza che si dischiude nella contemporaneità, fra l’architettura istituzionale e la società liquida o il magma, fra cieco realismo e visione.

Sono le tesi avanzate da Negri, soprattutto da Impero in avanti, e ora riproposte con la presunzione che dai libri di successo derivi una politica di successo, che l’analisi teorica oltranzista individui necessariamente anche le forze e i movimenti dell’antagonismo sociale; che l’immanenza sia al tempo stesso la nuova dimensione non solo del capitalismo e dell’antagonismo moltitudinario ma anche la chiave della trasformazione reale del presente stato di cose (il che è falso, tranne che non si facciano passare per moltitudini, cioè si suppone per il proletariato mondiale, alcune ristrette minoranze dei centri sociali).

Questo euforico immanentismo, opposto da Negri alla tristezza e alla malinconia dell’intellettuale di sinistra che, schifato del mondo, gli vuole impartire lezioni di buone maniere democratiche (ancora assonanze con le tesi renziane sulla sinistra nemica della felicità, e sui professoroni “gufi”), conosce però due contraddizioni: lo Stato dà una parte è la presunta espressione di una trascendenza obsoleta e disfunzionale allo stesso capitale, ma d’altra parte è temuto da Negri come innalzatore di muri e rafforzatore di confini nello spazio europeo; in quest’ultimo, poi, si dovrebbe attuare, secondo lui, una verticalizzazione che dovrebbe dare una qualche coerenza (se non proprio una guida) ai movimenti. Immanenza verticale? Spontaneità guidata? Ritorno dell’auctoritas o della potestas indirecta? Aporie non piccole, in cui si incorre per non accedere alla nozione di forma, di rappresentanza, di costituzione, di sinistra democratica.

Se infine la polemica di Negri è rivolta verso il ruolo passivo delle “masse” che sarebbe implicito nel mio documento, sottolineo che lì si afferma al contrario che l’obiettivo strategico della sinistra dovrebbe essere ripoliticizzare la società, farne emergere le contraddizioni che la percorrono e che non hanno più la forza di esprimersi in modo produttivo e determinato (contraddizioni, peraltro, che non investono solo il proletariato ma la quasi totalità dei cittadini). È infatti questo l’esito dei dispositivi, delle logiche, delle strategie di individualizzazione di cui si serve il potere neoliberista: la privatizzazione mercatista dell’esistenza presentata come un guadagno mentre invece è una perdita, una sconfitta. A questa sconfitta si può tentare di reagire attraverso una strategia centrata sulla riqualificazione politica del ‘pubblico’ oppure con una linea centrata sul ‘comune’, sulla spontanea cooperazione sociale. Due risposte diverse, non c’è dubbio (benché nella concretezza della politica possano in certe circostanze trovare momenti di intersezione): l’una imperniata sulla contrapposizione autonoma al presente stato di cose, per riequilibrarlo, l’altra sulla pretesa immanente di esserne il “rovescio”. Due diverse visioni. Entrambe tuttavia segnate, questo è il punto, dal rischio proprio della politica, cioè dal fatto che questa non può essere dedotta da una teoria nè può essere vista emergere in atto dall’immanenza ma implica anche un salto, una discontinuità. La scommessa per uno Stato non certo miticamente neutro ma capace di politiche di sinistra, cioè per un potere politico che in alcune circostanze ha un relativo margine di autonomia dai poteri sociali, non è più azzardata o più ridicola della scommessa sulla potenza delle moltitudini e dei movimenti: anzi lo è meno. Poiché lo Stato − che mai fu neutro, ma semmai neutralizzatore, cioè portatore nelle sue istituzioni di un potere orientato  ha sì subito, nella sua forma welfaristica, una grave battuta d’arresto, ma nello scenario della globalizzazione capitalistica (così entusiasticamente abbracciata da Negri) la sua esistenza, come potere istituito, ancora pesa: almeno le dinamiche politiche internazionali lo testimoniano, oltre che la differenza fra le diverse politiche pubbliche e i diversi sistemi istituzionali (più o meno funzionali al potere del capitale, ovvero più o meno in grado di porvi un argine).

Inoltre, l’esigenza di uno Stato capace di organiche e strutturali politiche di sinistra è sottolineata da numerosi autorevolissimi economisti non mainstream ed è soprattutto sentita, sulla loro pelle, dai cittadini, e risponde all’umana esigenza di sicurezza esistenziale e di tutela dei diritti nel lavoro che è oggi massimamente conculcata; mentre quei movimenti emergenti nell’immanenza, senza forma e senza guida, meramente espressivi, sono più parte del problema che non della soluzione, o vivono solo nell’immaginario di Negri e dei suoi seguaci (mentre di un’autonomia del proletariato mondiale non vi è traccia, essendo questo, piuttosto, frammentato secondo linee identitarie nazionali, etniche, religiose  il che è tragico, ma vero ).

Per quanto ne so, la reazione o la resistenza all’ordine caotico del neoliberismo si manifestano, nei fatti, prevalentemente nel voto para-fascista o qualunquista, e nell’assenteismo  cioè in forme subalterne alla potenza che le suscita ; e dunque confesso di non riuscire proprio a vedere ciò a cui con tanta sicurezza si affida Negri, ovvero una coerente energia politica tutta esterna rispetto al perimetro delle istituzioni. Tranne che con “esterno” non si intendano appunto i giganteschi poteri economici transnazionali, che peraltro coerenti proprio non sono. Anche all’interno delle istituzioni, del resto, l’energia politica è quasi spenta, o si orienta (con diverse intensità nelle diverse realtà statali) verso politiche securitarie e a volte antidemocratiche, così che una politica di sinistra richiede, comunque sia, un enorme sforzo inventivo  nel senso letterale del termine .

Il mio riproporre la nozione di Costituzione (anche nel senso formale) non è formalismo; il mio constatare la debolezza e la sofferenza di coloro che sopportano il peso dei sistemi del neoliberismo nelle loro diverse varianti, non è una negazione della loro forza politica che esiste, certo, ma è potenziale, e va attivata sia dal basso sia dall’alto, sia dagli stessi protagonisti sociali  che non sono solo i movimenti  sia dai partiti, che vanno rivitalizzati, sia dalle istituzioni, che vanno riformate in senso opposto a quanto ora avviene. Se ciò è non una visione ma un abbaglio, che rende inattuale o patetica la mia proposta (che non vuol essere una semplice riedizione dello Stato sociale e della sua burocrazia, ma che non prescinde dalle finalità di quello), che cosa è mai la negriana “visione”? Un’immanenza virtuale? Una potenza narrata? Un’immaginazione onirica? È probabilmente una visione del mondo che perde il mondo, una troppo consequenziale deduzione dalla teoria di un mondo che è troppo simile al mondo del neoliberismo (cioè troppo “liscio”) e che al tempo stesso ne è troppo difforme, fino a essere un mondo che non c’è, perché quello che c’è è molto più complesso, pieno di ombre, di contraddizioni e di fratture (e anche più infelice  ma la potenza nasce appunto nella coscienza infelice, nella contraddizione in movimento ).

La verità è che la politica  fuori e dentro le istituzioni, immanente e autonoma, concreta e ideale  resta l’unica via per riequilibrare il rapporto fra capitale e lavoro, oggi squilibratissimo a favore del primo (e non per caso la politica è stata aggredita e screditata dal potere mediatico del capitalismo). E la verità è, ancora, che la politica procede dall’egemonia e dalle alleanze, dalla partecipazione e dal consenso, dalla decisione e dal conflitto  il new Deal fu appunto tutto questo , e non dalla necessità. E che richiede anche istituzioni, non mitiche ma orientate a un determinato fine sociale. E che senza un’analisi realistica delle forze, e del loro disporsi e manifestarsi, semplicemente si è sconfitti, come è accaduto alla socialdemocrazia ma anche alle varie esperienze politiche ispirate da Negri (in ogni caso, al contrario, non basta l’analisi per avere successo). Certo, si può sempre ritentare, imparando dagli errori del passato (dalla lezione degli antichi, che possiamo essere noi stessi, qualche decennio fa) e studiando meglio il presente (facendone esperienza). Ma non si può ogni volta pretendere di possedere la verità.

Quindi, per chiarezza: non sono certo io che contrappongo alto e basso, istituzioni e movimenti, mediazione e spontaneità, Stato e potenza: anzi, non credo alla loro meccanica (ideologica) reciproca esclusione ma alla loro cooperazione differenziata (mentre sono più scettico sulla cooperazione sociale e sul ‘comune’, vedendoli semmai come un obiettivo da attingere piuttosto che come una attuale forza politica). Mi limito a tentare di perseguire una politica che, scontando le immani trasformazioni sopravvenute dagli anni Settanta, ricerchi una nuova forma dell’intreccio, sempre inevitabile e insuperabile, fra istituzioni e ‘politico’, tra forma e movimento, fra ordine e conflitto. Una nuova forma che sia qualificabile come di sinistra, possibilmente. Un nuovo New Deal frutto tanto di politica quanto di visione.

Per concludere, Negri vuole segnare le distanze, estremizzando lo iato fra questi orizzonti e queste visioni e progetti, vuole esorcizzare lo spettro di Sinistra Italiana (che peraltro non si identifica, lo ripeto, col mio testo), e ne vuole annunciare il destino di certo fallimento, e magari compiacersene. Lo può ben fare, ovviamente. Come avrebbe potuto, se avesse voluto, interloquire più costruttivamente. In ogni caso, la diversità, la distanza intellettuale e strategica, fra queste opzioni, non è una scoperta di oggi, e fa parte della storia e della debolezza della sinistra.

Eppure, nonostante anatemi e fosche previsioni “rosso-brune” − derivate da un mio accenno alla questione della sovranità nazionale (che non è rivolta contro l’Europa politica federale che non c’è ma contro una Ue segnata profondamente e quasi egemonizzata dall’interesse nazionale tedesco) , sono troppo rispettoso delle posizioni altrui, benché non le condivida, per proporre inutili conciliazioni eclettiche (le alleanze tattiche − che non sono in mio potere − sembrano escluse dallo stesso intervento di Negri). A ciascuno la sua strada, quindi; a ciascuno le sue visioni, a ciascuno le sue concretezze. Ma, per favore, senza irate lezioni professorali. Queste sì fanno sorridere.

 L’articolo è stato pubblicato in ideecontroluce.it il 27 novembre 2015

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