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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Terza via

La sinistra deve ritrovare se stessa

Intervista con Francesco Postorino

Il titolo del suo ultimo libro recita: Democrazia senza popolo (Feltrinelli 2017). Com’è risaputo, anche la sinistra è senza popolo. Crede vi siano le condizioni per ricucirne il legame?

Si tratta in realtà di due questioni diverse. Fine della efficacia della rappresentanza politica (un tema vecchio di almeno centocinquanta anni) e fine dell’efficacia di una proposta politica (la sinistra come partito di massa che propone un profondo riequilibrio economico sociale e politico nelle società occidentali).

Le due questioni diventano una sola quando entrano in crisi i partiti, che davano energia politica ai parlamenti e al tempo stesso organizzavano bisogni e progetti di settori più o meno estesi delle società. La sinistra, oggi, non è più partito perché non è parte, perché non sa leggere e interpretare la parzialità della società e dei meccanismi economici che la determinano, perché è imbevuta dell’ideologia neoliberista (e ordoliberista) dell’unicità della società, dell’inesistenza di contraddizioni strategiche che l’attraversano e la strutturano. E quindi lascia il popolo, con le sue sofferenze, a imprenditori politici populisti.

Se l’espressione non la turba, perché ha deciso di «scendere in campo» nel febbraio del 2013?

Non sono «sceso in campo»! Sono stato candidato come intellettuale pubblico, vicino (allora) al Pd in un’ottica di superamento sia dell’esperienza di Berlusconi sia di quella di Monti, in nome di una nuova interpretazione socialdemocratica della mission del Pd; ma quel superamento si è subito rivelato impossibile sia per la sostanziale sconfitta elettorale del 2013 sia perché il Dna del Pd, largamente debitore della cultura politica ed economica del neoliberismo, ha prevalso, sia perché un abile imprenditore politico, Renzi, era disponibile a impadronirsi del partito accentuandone le caratteristiche leaderistiche e populistiche (in senso soft).

Non è semplice il ruolo dell’intellettuale nei Palazzi del potere. Pensa di aver saputo conciliare fin qui la calma del concetto con le passioni della contingenza, la dottrina del «professore» con l’esercizio pratico e sperimentale dell’attore politico?

Ha senza dubbio prevalso in me il tentativo di conservare una coerenza intellettuale, pur essendo più che consapevole della dimensione pratica della politica, che per essere efficace deve misurarsi con la realtà. Tuttavia, non può diventare, come ormai in larga parte è, pura tattica, cieca gestione dell’esistente, né essere solo lo strumento di personali ambizioni di potere.

Perché ha lasciato il Pd?

Non certo per opportunismo. Ma proprio perché si è progressivamente evidenziata, prima con Letta e poi con Renzi, la sua piena e irrimediabile vocazione a interpretare la politica secondo una cultura (in ogni caso, scarsa) e secondo analisi totalmente interne al punto di vista neoliberista, cioè secondo un asserito individualismo che è oggettivamente la consegna della società alle logiche del profitto e alle disuguaglianze più laceranti, pur ammantandosi dei panni del «partito della nazione». Il Pd, inoltre, si è fatto con Renzi esclusivo portatore di una politica di fatto plebiscitaria, cavalcando la insofferenza popolare verso i corpi intermedi, partiti e sindacati, e anche con qualche tratto antiparlamentare e anticulturale, come è emerso durante la terribile campagna referendaria – ma era già chiaro dal «jobs act» e della «buona scuola», a cui ho votato contro, come ho votato contro la legge elettorale e la riforma costituzionale.

I progressisti di oggi, a suo avviso, hanno le idee abbastanza chiare sui diritti civili e sono veri liberal, ma ciò «non è sufficiente a definire una posizione e un programma di sinistra». Che cosa servirebbe?

I diritti civili sono un pezzo fondamentale di una società libera, un prerequisito della democrazia, ed è giusto implementarli per quanto lo consentono i rapporti di forza politici e culturali. Infatti, il cleavage destra/sinistra − che continua a esistere ma che è celato dalla pseudo-contrapposizione tra forze del sistema e forze anti-sistema − si rivela in modo chiarissimo sui temi dei diritti (unioni civili, dichiarazioni anticipate di trattamento, omofobia, tortura, cittadinanza dei figli degli stranieri) o su temi come la legittima difesa. Ma esiste democrazia sostanziale, esiste libertà dal dominio reale che grava su tutta la società, solo quando sono fatti valere i diritti sociali e materiali che implicano una revisione radicale del rapporto di forza nel mercato del lavoro, che generano uguaglianza e sicurezza esistenziale sulla stabilità del posto di lavoro, sulla sanità, sul sistema pensionistico, sul sistema scolastico. Sono questi i temi che caratterizzano la sinistra, purché declinati in modo radicale, cioè non come generica vicinanza agli “ultimi” − concetto non di sinistra quanto piuttosto (splendidamente) evangelico − ma come analisi dei meccanismi che producono subalternità e disuguaglianza, e come intervento politico di rettificazione di quei meccanismi.

All’interno del variegato filone della sinistra culturale, lei vorrebbe ridisegnare in termini socialdemocratici il rapporto dialettico capitale-lavoro e si batte in favore di una sinistra potenzialmente «governativa», anche se legata in modo indissolubile all’ideale egualitario. La sua offerta politica quanto è in sintonia con quella formulata da Sanders negli Stati Uniti o da Corbyn nel Regno Unito?

Sotto il profilo culturale la mia posizione di sinistra è molto più complessa, e si nutre, oltre che della versione francofortese del pensiero dialettico, anche di alcune suggestioni indirette ma potenti del pensiero negativo che ho a lungo studiato. Sotto il profilo della pratica politica mi sono convinto che le posizioni estremistiche sono insufficienti e in fondo subalterne, e che sono molto più temute dall’establishment le posizioni coerenti e radicali di un riformismo antiliberista. E quindi mi sento vicino alle figure che lei menziona, particolarmente a quella di Sanders, pur dovendosi sottolineare l’enorme distanza sociale, istituzionale, economica che separa l’Italia dagli USA.

In un altro volume (Sinistra, Mondadori 2013) sostiene che l’ultimo stadio del «pensiero negativo» − quello coltivato nel secolo scorso dai seguaci di Nietzsche − è attraversato dalla lezione neoliberista. Potrebbe approfondire la sua tesi?

Direi che il neoliberismo − che altro non è se non marginalismo rivisitato − condivide, come molte altre espressioni culturali a cavallo dei secoli XIX e XX, la «crisi dei fondamenti» inaugurata dal pensiero di Nietzsche. In sintesi, il neoliberismo, in quanto ostile sia al costruttivismo razionalistico dello Stato sia al conflittualismo dialettico della classe, in quanto vede l’individuo come un imprenditore concorrenziale, in quanto esalta la volontà di vita, di successo, di profitto, che sarebbe in ciascun soggetto, in quanto è ostile alle regole e indifferente alla morale, in quanto sviluppa al contempo il calcolo utilitaristico razionale e il sentimento più immediato e spontaneo (il «capitalismo compassionevole») è, oltre che un sistema economico, anche una gigantesca narrazione mistificante, un ingannevole nietzschianesimo per il popolo, un patetico superomismo di massa. Ed è anche una gigantesca truffa politica: mai più di oggi il soggetto è stato subalterno e precario, mai la società più disperatamente povera e disuguale − altro che società liquida: qui si tratta di una società in rovina −.

La libertà anarchica dell’intrapresa, l’energia eccedente delle soggettività, si sono spente nella deflazione, nella stagnazione, nella disuguaglianza, nella mancanza di legami sociali, di fiducia intersoggettiva, di speranza nel futuro. Il sentimento è divenuto risentimento, e il calcolo si è rivelato sempre sbagliato (tranne che per pochissimi).

Scrive, inoltre, che destra e sinistra sono categorie vive, le quali affondano le radici nello spazio del moderno, dove da Hobbes in poi è centrale e dirimente il nesso ordine/disordine. La sua idea è che la sinistra prende atto del disordine della storia e intende correggerlo in chiave progressiva e razionalistica; le destre, al contrario, premiano per vocazione «l’inconsistenza ontologica della realtà» e dunque – aggiungo io − le ingiustizie sociali. Le chiedo: all’interno di questo schema dove andrebbe collocata la Third Way di Blair, Giddens e Renzi?

La «terza via» è la scelta di una sinistra che accetta sostanzialmente l’impianto economico e ideologico del neoliberismo, e che si illude di guidarlo politicamente verso esiti non distruttivi. Crede, infatti, nel merito individuale, nella società liquida, nella flessibilità del lavoro, nella deregulation, nella funzione centrale (di progresso e di sviluppo) del mercato. Ha per avversari lo Stato, le burocrazie (tranne, a volte, quelle sovranazionali), i sindacati, i partiti, la stessa dimensione pubblica in generale; alla sovranità (che può essere democratica) contrappone la governance (che è sempre opaca). Privilegia inoltre l’iniziativa privata, e nega la possibilità di una significativa politica economica a direzione statale.

La «terza via» crede che uno Stato leggero, essenzialmente anti-monopolistico e anti-sindacalistico, possa ovviare ai «danni collaterali» del neoliberismo, e che in ogni caso l’iniziativa storica sia passata tutta nel campo capitalistico, che diviene così un orizzonte insuperabile, un «pensiero unico».

È l’ideologia di una sinistra di governo che progetta riforme che diano spazio e libertà d’azione alla potenza del capitale, che si illude di poter assecondare senza danni e anzi con profitto per tutti. Concorrenza fra individui, dunque, all’interno di un’unità di fondo (la società del neoliberismo). È, insomma, una versione moderata e benintenzionata (a volte) della destra, in quanto punta più sul disordine (la concorrenza, non il conflitto) che sull’ordine, e in quanto rinuncia a vedere le profonde contraddizioni della società capitalistica, il cui riconoscimento analitico è la condizione per la progettazione teorica e pratica di una società ordinata (che vuol dire «giusta»). La sinistra, infatti, pensa l’unità e l’ordine come un obiettivo da raggiungere attraverso una lotta che prenda sul serio, e non mistifichi né «naturalizzi» le divisioni e le ingiustizie del presente.

L’intervista è stata pubblicata in «MicroMega», l’8 maggio 2017.

Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi

«Tutto ciò che è stabilito evapora». Nel Manifesto Marx aveva ben colto il potere mobilitante e la potenza dionisiaca del capitalismo, dandone un’entusiastica descrizione; e ne aveva individuato il carattere progressivo nella capacità di «lacerare senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali». Rottura delle comunità e delle istituzioni, individualismo e dinamismo sono caratteri essenziali della forma capitalistica di produzione, della sua «distruzione creatrice».

Costretto dalla crisi del keynesismo a «guadagnare tempo», il capitalismo non ha esitato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo a travolgere gli equilibri sociali e politici che aveva realizzato nei «Trenta gloriosi»: è stata la quarta rivoluzione del Novecento, neoliberista (dopo quella comunista, fascista, socialdemocratica). I cui effetti, o almeno alcuni dei quali, sono stati descritti da Zygmunt Bauman in un celebre libro, Modernità liquida, che apre il XXI secolo descrivendo la fine del legame sociale, delle istituzioni collettive, delle forme organizzative e di appartenenza in cui si erano conformate le società del secondo dopoguerra.

La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

L’articolo è stato pubblicato in «Patria Indipendente», l’8 marzo 2017.

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