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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Che cos’è questa crisi?

I poteri mondialisti ed europeisti erano usciti parecchio ammaccati dalle elezioni del 2018, in cui aveva prevalso la ribellione popolare contro il paradigma economico vigente e contro le sue conseguenze politiche e sociali – la precarizzazione e l’indebolimento del lavoro e della funzione pubblica come risultato del vincolo monetario esterno hanno generato l’ormai ben noto momento Polanyi –. Privato del suo partito di riferimento, il  Pd clamorosamente sconfitto, l’establishment non era tuttavia rimasto privo di risorse e poteva contare su alcuni ministri, graditi anche al capo dello Stato. E su di un’incessante lavoro più o meno sotterraneo a vari livelli, interni ed europei, per imbrigliare l’azione non ortodossa del governo. Sottoposto a critiche giuridiche e morali sulla questione dei migranti e sfidato sul versante economico dalla Commissione che ha minacciato una procedura per deficit eccessivo, il partito più numeroso ma anche più debole, il M5S, ha fatto proprie le ragioni dell’establishment e ha impedito di fatto l’autonomia regionale rafforzata – forse non carissima a Salvini, cui tocca l’arduo compito di gestire una Lega proiettata oltre se stessa, cioè fortissima anche al Sud, e costretta quindi a una complexio, per cui non è culturalmente attrezzata, tra pulsioni anti-sistema e richieste del Nord liberista, embedded nell’economia tedesca –. E ha preventivamente bocciato la flat tax, questa sì di significato strategico per la Lega, in diretta opposizione all’impianto ordoliberista dell’eurozona, accettando dalla Commissione serie ipoteche sulla nostra libertà di manovra in sede di legge finanziaria. È quindi pura propaganda la tesi di Zingaretti che Salvini scappasse dalla finanziaria. Al contrario, la voleva fare senza condizionamenti, anche in extra-deficit (per non aumentare l’IVA).

Per reagire a questa situazione (e alle minacce trasversali di cui era fatto oggetto: il caso Savoini) e non solo per capitalizzare il consenso delle europee (finalità che certo sarebbe ridicolo negare), Salvini ormai accerchiato ha mandato in crisi il governo, fidando anche nell’interesse di Zingaretti a seguirlo sulla strada delle elezioni anticipate: con queste il segretario Pd avrebbe potuto sbarazzarsi dei renziani, che ora sono il sessanta per cento dei gruppi parlamentari. E il Pd si sarebbe attestato come secondo partito, partner minoritario di un quadro politico centrato sulla maggioranza quasi certa della Lega (con FdI ma senza FI), di cui sarebbe stato l’antagonista sistemico.

A questa prospettiva si sono opposti fulmineamente, sia  direttamente sia con i loro terminali italiani, i poteri europei – timorosi che l’Italia venisse consegnata all’ “uomo più pericoloso d’Europa”, proprio mentre l’Inghilterra se ne va e la Germania entra in recessione –, nonché Renzi, che è stato prontissimo a invertire la sua posizione sul M5S per sfuggire al rischio di venire cancellato dalla scena politica senza avere avuto il tempo di fondare un nuovo partito alla prossima Leopolda (e anche prontissimo, una volta ottenuto il risultato voluto cioè di non andare alle elezioni, a storcere il naso sull’alleanza col M5S, facendo capire che inizierà a proprio piacimento a minacciare di staccare la spina al governo, non appena il suo partito personale sarà pronto). E naturalmente si è opposto il M5S che si è visto minacciato di estinzione elettorale; e, insieme ai grillini, il premier Conte, oltremodo  versatile e ben appoggiato anche dalla Chiesa. Il governo giallorosso era quindi nelle cose. E rispondeva tanto ai timori dell’establishment quanto alle speranze di trascinare la legislatura (con riforme costituzionali ed elettorali) almeno fino  al 2022, anno di elezione del nuovo capo dello Stato, e di logorare nel frattempo Salvini all’opposizione, magari con qualche non implausibile intervento della magistratura.

Specularmente, Salvini ha dovuto ripiegare dall’aspirazione a essere l’unica forza di governo alla accettazione del ruolo di unica opposizione. Un cambio sfavorevole, ma non rovinoso. Sempre che la mancanza di potere non lo logori, e che si dia una strategia e una cultura di governo davvero nazionale ed egemonica, un po’ meno rudimentale di quella che ha fin qui dimostrato.

Ma se è saltata la trappola di Salvini, è fallita anche la contro-trappola di Di Maio, che ha fatto la voce grossa per imporre Conte come Presidente del Consiglio salvo accorgersi ben presto che sta nascendo in pratica un monocolore Pd, quasi tecnico, dato che Conte si sottrae all’appartenenza grillina e che non ci saranno vice-premier a marcare il territorio per il M5S. Una tardiva resipiscenza spiega le difficoltà frapposte da Di Maio al formarsi del nuovo governo, che vede il suo movimento alleato con l’arcinemico Pd (ancora sostanzialmente renziano), e quindi soggetto a logoramento del proprio consenso (dei votanti, non degli iscritti) e all’azione corrosiva dei ben più strutturati politici del Pd. Di fatto escono vittoriosi da questo round – oltre ai poteri europei – Renzi, Grillo e Conte, e sono sconfitti in grado diverso Salvini, Zingaretti (che vede crescere a dismisura il ruolo di Renzi) e Di Maio (oggettivamente ridimensionato  da Conte e Grillo). I liberi battitori e i devoti europeisti vincono sui  capi dei partiti. E questi, tranne la Lega, ne escono tutti divisi al proprio interno.

Quello che sta nascendo grazie al voto di Rousseau, largamente prevedibile, è un governo debole, tenuto insieme dalla paura della Lega ma attraversato dalla contraddizione fra la volontà di continuità dei grillini, che non possono rinnegare l’esperienza gialloverde, e la volontà di discontinuità del Pd, che a sua volta non può mostrarsi un mero sostituto della Lega. Debole e litigioso, quindi, come si comprende dall’estrema vaghezza compromissoria del programma, ma duraturo (almeno fino al 2022), che intanto avrà come risultato di rendere assai più difficile alla Lega conquistare le regioni rosse in cui a breve si vota: l’Umbria e soprattutto la crucialissima Emilia-Romagna. Nonché di varare una legge finanziaria “ragionevole”.

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Sotto il profilo sistemico e teorico si deve notare che il rifiuto di dare il via libera a nuove elezioni è in coerenza con le logiche di una repubblica parlamentare – tanto elogiata oggi da quanti tre anni fa la volevano superare con presidenzialismi e sistemi maggioritari – ma anche che tale coerenza ha senso finché non delegittima le istituzioni. Infatti da Mortati a Moro si è sempre attribuito al capo dello Stato un potere di scioglimento delle Camere determinato dall’esigenza che le maggioranze ivi espresse siano in sintonia con il sentimento popolare. Insomma, in tempi normali nulla quaestio: il popolo non ha diritto di votare quando il parlamento sa esprimere una maggioranza. Ma è lecito dubitare che sia normale, e non anomalo, il governo dei due partiti che hanno perso le ultime due elezioni: il  Pd nel 2018 (incredibilmente miracolato al di là di ogni suo merito), e il M5S nel 2019.

Il rischio della delegittimazione – politica, non formale – delle istituzioni c’è. Ed è potenziato da un’altra anomalia, che non viene neppure negata ma anzi accettata come anch’essa normale, benefica e autorevole. L’ingerenza di potenze e istituzioni straniere nel processo politico italiano, per orientarlo in senso contrario alla Lega che, costi quel che costi, a prezzo del sacrificio di ogni passata posizione e contrapposizione, non deve più gestire il potere. Con le cattive o con le buone, direttamente o indirettamente, togliendo o concedendo margini di spesa pubblica, l’Europa governa i nostri governi e ci tratta ora da provincia ribelle da domare ora da figliol prodigo da festeggiare. Senza esagerare, s’intende. Non è nemmeno il caso di appellarsi all’antico motto repubblicano non bene pro toto libertas venditur auronessuno ci offrirà tutto l’oro del mondo e rinunceremo alla nostra libertà per molto meno.

Nell’intreccio  di piccolezze domestiche e di rabbiosi poteri globali, di paradossi italiani e di crisi europee, si deve riconoscere che la costituzione politica in senso materiale del nostro Paese si configura oggi attraverso il determinante ritorno, dopo trent’anni di assenza, di una  conventio ad excludendum. Non più contro il PCI, ovviamente, ma contro la Lega di Salvini. Quel che resta da vedere è se questa esclusione sarà tanto assoluta e radicale quanto quella che colpiva il PCI, o se invece cadrebbe davanti a una eventuale vittoria elettorale della Lega.

In ogni caso, non  è sovranismo, qualunque cosa ciò significhi, sottolineare che non si governa in Europa con posizioni anti-europee; su questo terreno la volontà del popolo non è determinante. Il vincolo esterno dell’euro non è solo economico ma, ovviamente, anche politico. La nostra è in ultima istanza una democrazia protetta. Ovvero, l’Italia rischia di essere un protettorato, non tanto genericamente europeo quanto più specificamente delle due potenze sovrane più forti e intraprendenti in Europa: Francia e Germania, per quanto piene di problemi (dai gilet gialli al crescente peso elettorale di AfD, parallelo  alla lenta agonia di SPD e CDU).

Che il nostro Paese sia il ventre molle dell’Europa, o almeno la più debole delle grandi potenze europee, è cosa nota, ed è una storia vecchia quanto la nostra esistenza come Stato nazionale unitario. Ce ne siamo potuti parzialmente dimenticare solo quando eravamo immersi nel grande impero occidentale della superpotenza statunitense, e la Germania era divisa. Con l’unificazione tedesca e con la concomitante riconfigurazione del dominio americano in Europa, gli Stati nazionali hanno ripreso quasi del tutto il loro antico ruolo, servendosi di fatto della Ue e delle logiche dell’euro come di moltiplicatori delle rispettive potenze nazionali, in termini di spericolate manovre finanziarie fatte pagare ai debitori, e di assalti e acquisizioni verso le imprese (italiane) più appetibili. Una gerarchizzazione interna alla Ue che non ci vede certo fra i Paesi trainanti: e infatti di norma, verso di noi le regole, a partire da quelle economiche, si applicano (o se ne negozia onerosamente l’applicazione), verso altri si interpretano. Per invertire questo trend nell’ambito delle relazioni internazionali – dove vige, appena camuffata, la legge del più forte – dovremmo mettere mano a una profonda ristrutturazione del sistema-Paese (istruzione, ricerca, pubblica amministrazione, poteri locali, investimenti pubblici nelle infrastrutture) che i vincoli dell’euro rendono obiettivamente difficile, e che in ogni caso sembra al di là della capacità progettuale delle forze politiche.

Né si può far di conto sull’aiuto americano in chiave anti-Ue. Il trumpismo ideologico ed economico di Salvini non ha evitato l’endorsement di Trump al Conte-bis. Per gli USA l’Italia è solo una questione geopolitica. E Salvini che pure si è allineato con Trump contro Maduro è però inaffidabile sulla Russia. E tanto basta. Per di più, Trump ha sicuramente ricevuto da Conte promesse in senso anticinese.

Di pari importanza rispetto al condizionamento politico c’è, ovviamente, quello più generico dei mercati finanziari, benché parte delle reazioni di questi siano politicamente indotte. Si è perfino parlato di presentare il nuovo governo ai mercati, ben prima che al Parlamento. C’è un interessato autocompiacimento in questa servitù volontaria, in questa conclamata voluttà di abdicare alla funzione egemone della politica: la speranza di conservare, a dispetto di tutto, uno status quo che sfavorisce pesantemente il lavoro e la nazione, e favorisce solo le fasce sociali cosmopolite disposte ad accontentarsi di una posizione subalterna fra i beneficiati del gran banchetto globale.

Così, non soltanto la Lega deve attrezzarsi per una lunga traversata del deserto, e dotarsi di idee più che di slogan (ad esempio, su che cosa fare una volta allentati o rotti vincoli europei); non soltanto il M5S corre seri rischi di brusco ridimensionamento e di consegnarsi al Pd, il  quale  come al solito è destinato a governare senza un progetto chiaro, pur di conservare lo status quo, come una ri-edizione minimalista della Dc; non soltanto non esiste in Italia una posizione di sinistra; non soltanto siamo di fronte alla rivincita dell’establishment e del pensiero allineato contro un nemico inesistente (il M5S un tempo anti-casta e oggi membro subalterno di questa) e uno attualmente non fortissimo ma pericoloso per il futuro (la Lega); non soltanto i poteri indiretti e stranieri trionfano sul potere diretto del popolo; ma soprattutto questa crisi mette il Paese davanti alla propria debolezza internazionale e interna, una debolezza che non gli consente di affrontare nessuna delle questioni portate alla luce dalle elezioni del 2018: la mancanza di un centro stabilizzante del sistema politico e l’incapacità dei partiti e delle istituzioni a interpretare le difficoltà della società. Alla quale si risponde, in sostanza, che non c’è alternativa al paradigma dominante, per quanto sfavorevole esso sia (anche la Lega è un’alternativa solo parziale, più anti-ordoliberalista che non anti-neoliberista). Finché qualcosa non si spezza, o finché la via del declino non è imboccata irreversibilmente.

E invece di una nuova speranza, di una nuova politica, di una Grande Idea, dell’energia per un nuovo risorgimento, l’Italia avrebbe bisogno e, chissà, anche desiderio.

Sulla sinistra “rossobruna”

 

Nonostante la sua critica dello Stato come organo politico dei ceti dominanti, nonostante il suo internazionalismo, la sinistra in Occidente ha sviluppato la sua azione all’interno dello Stato: ha cercato di prendere il potere e di esercitarlo al livello dello Stato, ha investito nella legislazione statale innovativa, e nella difesa e promozione della cittadinanza statale per i ceti che ne erano tradizionalmente esclusi. Nella sinistra agiva l’impulso a considerare lo Stato come una struttura politica democratizzabile, sia pure a fatica; mentre le strutture sovranazionali erano per lei deficitarie di legittimazione popolare. La sinistra italiana, per esempio, fu ostile alla Nato (comprensibilmente) ma anche alla Comunità Europea. E in generale le sinistre difesero gelosamente le sovranità nazionali e si opposero a quelle che definivano le ingerenze dei Paesi occidentali nelle faccende interne degli Stati sovrani dell’Est, quando qualcuno protestava perché vi venivano calpestati i diritti umani. L’internazionalismo della sinistra rimase al livello di generica approvazione dell’esistenza dell’Onu, di più o meno platonica solidarietà per le lotte dei popoli oppressi, e di sempre più cauta collaborazione con i partiti comunisti fratelli. L’internazionalismo inteso come spostamento del potere fuori dai confini dello Stato, avversato dalle sinistre, fu invece praticato vittoriosamente dai capitalisti e dai finanzieri.

Caduta l’Urss, la sinistra aderì entusiasticamente al nuovo credo globale neoliberista e individualistico, e alla critica dello Stato (soprattutto dello Stato sociale) e della sovranità – oltre che dei sindacati e dei corpi intermedi – che esso comportava. L’idea dominante era che la sinistra di classe non era più ipotizzabile perché le classi non esistevano più, e perché vi era ormai una stretta comunanza d’interessi fra imprenditori e lavoratori. La giustizia sociale era un obiettivo raggiungibile solo se si lasciava che il mercato svolgesse la propria funzione di generare la crescita complessiva della società: la politica era solo un accompagnamento di processi di sviluppo in realtà autonomi. Gli inconvenienti del mercato si dovevano correggere nel mercato. Sono state le sinistre a introdurre il neoliberismo in Europa: Blair, Delors, Mitterand, Schroeder, Andreatta, D’Alema, Bersani. La sinistra storica divenne così un partito radicale di massa, schiacciato sulle logiche dell’establishment e sulla sua gestione, impegnato – senza esagerare – sui diritti umani e civili visti come sostitutivi dei diritti sociali. Una sinistra dei ceti abbienti e cosmopoliti, incapace di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti, le strutture produttive e le loro contraddizioni.

La critica alle storture, alle disuguaglianze, alla subalternità del lavoro, che invece si manifestarono nelle società occidentali soprattutto a partire dalla Grande crisi del 2008, e alla logica deflattiva dell’euro ordoliberista – con cui l’Europa volle giocare la propria partita nel mondo globale –, fu lasciata alle sinistre radicali (Tsipras, Corbin, Mélenchon, e negli Usa Sanders), generose ma anche confusionarie, e per ora minoritarie, e ai movimenti populisti e sovranisti spesso di destra, che oggi intercettano il bisogno di protezione e di sicurezza di gran parte dei cittadini. Che sono preoccupati per la propria precarietà economica, per il declassamento sociale e per i migranti, visti come problema di ordine pubblico ma anche come competitori per le scarsissime risorse che lo Stato destina all’assistenza e al welfare. Le destre politiche approfittano, come sempre, dei disastri provocati dalle destre economiche (e dalle sinistre che hanno dimenticato se stesse).

Mentre la sinistra deride e insulta gli avversari politici, grida al fascismo fuori tempo e fuori luogo (banalizzando una tragedia storica), e di fatto nega i problemi reali rispondendo alle ansie dei cittadini con prediche moralistiche e con la proposta di dare a Balotelli la maglia di capitano della nazionale, come segno anti-razzista, la destra politica e i populisti quei problemi li riconoscono e ne approfittano. Naturalmente, la interpretazione che ne danno è più che discutibile: i migranti e la casta (bersagli dei populisti e delle destre) non sono i principali responsabili della crisi e della disgregazione che ha colpito il Paese. Ma almeno queste forze anti-establishment porgono ascolto ai cittadini, che infatti li votano, mentre non votano le sinistre, che fanno sterile e superficiale pedagogia mainstream, e che ora scoprono con stupore di essere confinate nei quartieri alti, mentre nelle periferie degradate il proletariato e i ceti medi impoveriti – che ancora esistono, nonostante le analisi di sociologi non troppo perspicaci – votano destre e populisti.

In questo contesto, i sovranisti di sinistra (che non si possono definire “rosso-bruni”, che vuol dire “nazi-comunisti” – ed è un po’ troppo –) cercano di recuperare il tempo e lo spazio perduti dalle sinistre liberal e globaliste. Cercano insomma di sottrarre la protesta sociale alle destre, e tornano così allo Stato, nella consapevolezza che senza rimettere le mani su questo e sulla sovranità – che è un concetto democratico, presente nella nostra Costituzione, e che di per sé non implica per nulla xenofobia e autoritarismo – non ci si può aspettare alcuna soluzione dei nostri problemi, che non verrà certo da quelle potenze sovranazionali che li hanno creati (naturalmente, esistono forti responsabilità anche interne del nostro Paese, che andranno affrontate). Ovviamente è una strategia rischiosa, non garantita, forse anti-storica (ma lo Stato, in ogni caso, è ancora il protagonista della politica mondiale); e, altrettanto ovviamente, facendo ciò le sinistre sovraniste sposano, entro certi limiti, gli argomenti della destra, e ne condividono i nemici (la sinistra moderata – mondialista e europeista –, e il capitale globale). Ma se la sinistra sovranista sa fare il proprio mestiere riesce a distaccarsi chiaramente dalla destra politica perché è in grado di dimostrare che questa dà a problemi veri risposte parziali, illusorie e superficiali: la destra va sfidata non sui migranti, ma sulle politiche del lavoro; non sui vitalizi, ma sulla critica della forma attuale del capitalismo; non sull’euro, ma sulla capacità del Paese di non essere l’ultima ruota del traballante carro europeo; non sul nazionalismo, ma su un’idea non gerarchica di Europa. La sinistra sovranista – che è meglio definire radicale – ha il compito di dimostrare che destre e populismi sono l’altra faccia del neoliberismo e della globalizzazione che dicono di combattere; che sono apparentemente alternativi ma che in realtà ne sono subalterni.

Siamo alla fine del ciclo democratico e progressivo apertosi con la vittoria sul fascismo: una fine sopraggiunta dapprima nelle strutture economiche, e ora nel pensiero e nella pratica politica. In campo, duramente contrapposte ma complementari, ci sono establishment e anti-establishment: due destre, una economica (a cui è di fatto alleata la ex-sinistra liberal) e l’altra politica, l’una moderata e l’altra estrema. Lo spazio della sinistra non è accostarsi ai moderati, né mimare gli estremisti di destra, ma praticare la profondità, la radicalità dell’analisi; il suo compito è dimostrare che il cleavage destra/sinistra esiste ancora, ma è nascosto, e complesso. E che per il bene di tutti lo si deve fare riaffiorare.

 

 

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