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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Vittoria Lega

Elezioni europee 2019

 

La soddisfazione del Pd per la “crescita” elettorale dimostra solo quanto grande era il suo timore. In realtà, il Pd  perde circa centomila voti rispetto alle politiche del 2018 (più di sei milioni rispetto al 2014) e guadagna in percentuale solo pescando dall’astensione e da LeU, mentre i voti usciti dall’effimero e incapace M5S (meno 1.200.000 rispetto al 2014, meno 6.200.000 rispetto al 2018) vanno all’astensione e alla Lega. Che,  a sua volta, guadagnando tre milioni e mezzo di voti rispetto al 2018 e 7.500.000 rispetto al 2014, cannibalizza anche Fi (che perde 2.200.000 voti rispetto al 2014 e  al 2018).

Caduto il Piemonte, tutto il Nord e quasi tutto il Centro sono in mano alla Lega, che raddoppia come i grillini dimezzano. Solo le grandi città votano Pd,  insieme ad alcune province rosse dell’Emilia-Romagna e della Toscana (qui l’amministrazione, meno cattiva che altrove, è premiata dai cittadini).

La Lega raddoppia, FdI avanza, Fi tende a scomparire, il M5S si dimezza; le élites  di +Europa si dimostrano inconsistenti, il Pd tiene a fatica. Nel complesso, insultare i cittadini, demonizzare Salvini,  puntare sulla paura delle conseguenze di un voto anti-europeo senza proporre nulla in positivo, continua a non esser un buon affare elettorale.

Anche la sinistra, ormai incapace di analisi radicali e di sintonia col popolo, non sa fare altro che strillare al “fascismo”. Col bel risultato di venire distrutta a livello continentale, con l’unica significativa eccezione della Spagna (dove peraltro Podemos perde); ma in  Germania la Spd naufraga miseramente. Trionfo della destra estrema in Francia, che sconfigge Macron; tracollo del Centro cristiano della Merkel in Germania. Annichiliti i tory e indeboliti i laburisti in Inghilterra. I Verdi – che rifiutano la dimensione politica destra/sinistra perché non mettono in discussione i rapporti sociali ma il rapporto uomo/natura – sono i veri vincitori, insieme alle destre.

Le elezioni non cambiano molto, nell’immediato. In Europa le variazioni di composizione di un Parlamento frammentato e con scarsi poteri non muteranno radicalmente gli attuali equilibri: cristiani e socialisti cercheranno stampelle in qualcuno degli innumerevoli gruppi parlamentari. Le chiavi del potere staranno come sempre nelle tecnostrutture continentali e in alcuni Stati nazionali (ma l’asse franco-tedesco è fortemente minacciato).

In Italia – che in cinque anni ha cambiato tre “partiti della nazione” – Salvini è il premier ombra, padrone dell’Italia perché almeno sa che il Paese è in crisi economica e morale; chi lo ha portato fin qui, le forze storiche del centrosinistra, omologhe a quelle che hanno fatto l’Europa, non sanno nemmeno questo. Il governo non dovrebbe cadere presto, perché i grillini sono terrorizzati da nuove elezioni. Il Pd non ha alleati. Fi è in fase agonica. L’Europa (una Commissione scaduta) saluta i risultati elettorali italiani con una multa di 3,5 miliardi che confermerà nella loro opinione quanti hanno votato Lega. L’ordine liberale del mondo del secondo dopoguerra è eroso, e l’ordine neoliberale della globalizzazione si trasforma pesantemente. Salvini – che non è Hitler, come vogliono i cattivi analisti semplificatori – vi è più funzionale. La sua retorica è più utile di quella liberal. I suoi piani fiscali ultraliberisti sono più adatti ai tempi perché almeno puntano alla crescita (guidata dal capitale) e non all’austerità ordoliberista. Nonostante le simpatie per Putin, il suo modello è Trump, e non è un modello perdente.

E la nostra regione? Gravemente infiltrata dalla Lega, soprattutto a livello del voto europeo, conserva un po’ dell’antica fisionomia nelle province centrali e in parte della Romagna. Fa argine nazionale per il Pd? Forse. Ma non è un modello né un freno, un katéchon. È una differenza, leggera anche se politicamente rilevante. E non sappiamo se è permanente o transitoria. Per capirlo, non abbiamo da attendere che le elezioni regionali. Ma per ricostruire la sinistra ci vorrà molto di più.

In corso di pubblicazione nel mensile «La parola»

Elezioni regionali in Abruzzo

Intervista con Alessandro Canella

 

Queste elezioni con il boom della Lega e la vittoria del centrodestra potrebbero avere un impatto anche a livello nazionale?

A livello soltanto teorico; naturalmente, si potrebbe dire: il Movimento 5 Stelle si spaventa di questo trend, e interrompe l’esperienza di governo. Ma siamo proprio nella teoria, perché – a parte il fatto che in Italia chi interrompe l’esperienza di governo, e in questo caso la legislatura, è solitamente punito dagli elettori nelle urne – di fatto sarebbe da parte del M5S una mossa irrazionale; proprio perché corre rischi reali, la strategia ragionevole davanti alla quale si trova, e che dovrebbe perseguire, è quella di mantenere vivo il governo e di pretendere dalla Lega che alcune istanze qualificanti del M5S trovino soluzione a livello di azione di governo, trovino maggiore risonanza e siano meglio comunicate ai cittadini. Perché, effettivamente, il M5S è stato un po’ oscurato dalla molto superiore capacità di manovra della Lega, benché la Lega sia – a livello di rappresentanza, in questo momento, in Parlamento – la metà del M5S, o quasi.

Altro discorso è semmai la tentazione – che mi sembra un po’ più verosimile – della Lega stessa di capitalizzare immediatamente il suo crescente successo; eppure, anche in questo caso, potrebbe essere una scelta non felice, perché – ripeto – interrompere un’azione di governo, fare andare il Paese a elezioni molto anticipate, genererebbe una situazione di grande disagio che potrebbe, con ogni probabilità, ritorcersi contro i responsabili: cioè, in questa ipotesi, la Lega. Io penso che il governo continuerà la propria esistenza, e che vi sarà da parte del M5S il tentativo di rendere più forte la propria presenza, la propria capacità di essere visto dai cittadini.

Come dire che i corteggiamenti, mai cessati dalle elezioni a oggi, di Berlusconi a Salvini non sarebbero comunque propizi per la Lega, nonostante in questi mesi abbiamo visto diversi screzi all’interno della maggioranza su diversi temi…

Gli screzi ci sono perché questi sono partiti diversi, e tuttavia sono uniti dalla comune avversione verso l’antico regime, chiamiamolo così: prima di tutto verso il Pd, e poi anche verso Berlusconi, che è assolutamente detestato dalla base e dai vertici dei Cinquestelle. Salvini, in questo momento, può giocare su due forni su diversi livelli: a livello nazionale sta con il M5S; in moltissimi livelli regionali e locali sta con la destra. È in una posizione di grande vantaggio, e tuttavia per ottenere un governo di destra – cioè Lega più Forza Italia – sono necessarie elezioni anticipate; e siamo daccapo. Posto che Salvini ne senta la necessità.

In ogni caso visto che la Lega di Salvini ha dimostrato capacità politiche, indubbiamente, al di là di come uno la pensi a livello programmatico, questo trend è destinato a crescere secondo lei?

Sì, è destinato a crescere, anche se i sondaggi danno un  calo molto lieve della Lega in queste ultime settimane a livello nazionale: nei sondaggi è data intorno al 34 per cento, dopo aver raggiunto a un certo momento il 35; ma, insomma, siamo a livelli stratosferici. In realtà, intorno alla Lega si va formando il blocco sociale che era stato prima di Berlusconi e prima ancora della Democrazia Cristiana. Al di là dei cambiamenti di accento, al di là del cambiamento di cultura politica molto deciso, al di là di tutti questi cambiamenti, l’Italia “moderata” – nel frattempo divenuta parecchio più insofferente – si va progressivamente riconoscendo nella Lega. È un’Italia doppia: da una parte è un’Italia che riesce a vivere nell’attuale momento politico ed economico, dall’altra è un’Italia (un’altra Italia) che al tempo stesso protesta duramente contro lo stato di cose esistente. Al Sud il voto di protesta che era andato ai Cinquestelle si sta coagulando intorno alla Lega; mentre nel Nord la Lega prende i voti di popolazioni che godono di livelli di esistenza politica, economica, sociale e organizzativa molto superiori a quelli del Sud. Riuscire a fare stare insieme realtà così diverse è un segno tipico di egemonia: l’avevano i democristiani, l’aveva Berlusconi, lo sta avendo, di fatto, in questo momento Salvini.

Intervista realizzata l’11 febbraio 2019 e pubblicata nel sito web di Radio Città Fujico.

Parlare di “sistema e antisistema” è un inganno politico

Intervista con Donatella Coccoli

«Eccome se c’è differenza tra destra e sinistra. Bisogna solo tirarla fuori, renderla manifesta, perché il bisogno di sinistra, anche se ormai inconsapevole, c’è in tutti coloro che stanno male, anche se hanno rifiutato la sinistra alle ultime elezioni». Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche a Bologna, nel 2010 aveva scritto per Laterza Perché ancora destra e sinistra. In quel libro, poi uscito in seconda edizione nel 2013, già prefigurava scenari contrastanti nella società e nella politica. Poi, le cose sono precipitate e Galli le ha vissute in prima persona. Eletto con il Pd di Bersani alla Camera nel 2013, nel 2015 se n’è andato, entrando in Sinistra italiana, ma per le elezioni del 4 marzo ha scelto di non ricandidarsi e di tornare all’insegnamento universitario a Bologna.

Professor Galli, negli ultimi tempi ci viene propinato un mantra, soprattutto da parte del Movimento Cinque stelle, e cioè che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso. È proprio così?

In prima battuta si potrebbe dire che destra e sinistra, concetti tipici della storia moderna, hanno senso quando la politica ha la capacità di decidere su questioni importanti, come sulla modalità con cui avviene la produzione e la distribuzione della ricchezza. Ma da tempo le grandi decisioni non le ha prese la politica istituzionale a livello nazionale. Le hanno prese i mercati, e gli Stati che a essi si sono aperti attraverso trattati internazionali. Detto questo, dentro quella via già tracciata si può ancora distinguere destra e sinistra, ma su questioni per lo più marginali.

Quali sono adesso le questioni che permettono di identificare destra e sinistra?

Per esempio lo ius soli. Certo, si può dire che è di sinistra volere lo ius soli e di destra non volerlo, ma questo significa rimanere dentro il mainstream. Invece, se volessimo scendere un po’ più alla radice, potremmo prendere il Jobs act. Su questo tema si può dire che la partita è tra coloro che vedono il lavoro come variabile dipendente dal mercato e coloro che invece nel lavoro vedono qualcosa più importante del mercato. E quindi l’ingiusto licenziamento è qualcosa che il mercato non può comprare, per cui chi lo subisce deve essere reintegrato, non ricompensato. Ma vi sono forze che si dicono di sinistra secondo le quali il Jobs act è giusto.

E allora è semplice, non sono forze di sinistra.

Sì, la deduzione non fa una piega. Per essere di sinistra non basta proclamarsi di sinistra. Ma passiamo al terzo livello di destra e sinistra, ancora più radicale. La distinzione si gioca sul neoliberismo. In prima battuta sembra che chi si oppone al neoliberismo sia di sinistra e tutto quello che accetta il neoliberismo sia di destra. Ma si dovrebbe distinguere invece tra destra economica e destra politica, che molto spesso si presenta come antiliberista.

Si riferisce all’ “antiliberismo” della Lega?

Esatto. Tutta la destra sociale in Europa, almeno a parole, è antiliberista. Ma il suo essere antiliberista è rivolto solo contro alcuni aspetti del neoliberismo e in ogni caso sconfina nell’antidemocrazia. Naturalmente esiste anche una sinistra filoliberista: l’Italia ne è piena. Insomma la differenza fra destra e sinistra esiste ma va integrata (non sostituita) con la differenza fra liberismo e antiliberismo (economica) e fra sistema e antisistema (politica).

Veniamo alla situazione della sinistra in Italia, sconfitta alle elezioni del 4 marzo.

C’è prima di tutto una sinistra che ho definito “accompagnamento liberal” del neoliberismo. È il Pd, che gioca il proprio progressismo sui diritti, ma ignora l’esistenza di un problema sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e sulla subordinazione del lavoro e che, al massimo, emette alti lamenti sul fatto che c’è diseguaglianza sociale ma non capisce dove e come essa di genera. Così interviene con elargizioni monetarie che non modificano la struttura dell’assetto economico complessivo. Questo è stato il modo di essere di sinistra del Pd, e di molti di quelli che ne sono usciti all’ultimo minuto. Certo, qualcuno dentro il Pd ha fatto opposizione, ma è stata troppo debole.

E la sinistra a sinistra del Pd?

La sinistra antagonista corre il rischio di essere antagonista e basta, cioè di accettare il terreno di lotta che di volta in volta viene offerto, con esiti irrilevanti. Il fatto è che c’è un dislivello enorme tra la grande massa di popolazione che l’attuale situazione economica fa decadere sotto un certo livello di vita e rende disponibile a posizioni antisistema e la capacità della sinistra di rappresentare questa base potenziale. Il Pd è votato nei quartieri alti, la sinistra democratica di Leu ha ottenuto il 3%, gli antagonisti di Pap non hanno fatto presa. La realtà è che quelli che sono perdenti nell’attuale modello economico non si sono sognati di votare a sinistra. Da qui in molti sono giunti alla conclusione: destra e sinistra non esistono, esiste solo forze di sistema e antisistema.

Che cosa significa sostenere la dicotomia sistema-antisistema?

Significa eludere il problema. In questo modo si arriverebbe a pensare che il 55% degli italiani che ha premiato M5s e Lega sono antidemocratici, che addirittura il fascismo è dietro l’angolo. È chiaro che così non si guarda la causa, che va interpretata attraverso la vecchia griglia destra-sinistra, su base economica. L’Italia ha votato forze antisistema perché non c’era una sinistra in grado di raccogliere le sue istanze di protesta contro un sistema politico ed economico che è costruito per togliere potere al popolo, rendendo i cittadini poveri, deboli e ricattabili.

Quindi è una pura operazione politica ridurre tutto a sistema e antisistema?

Assolutamente sì. È la più sottile operazione politica adesso sul mercato. E non è contrastata, perché invece di analizzare le cause storico-politiche per cui c’è una società che non piace alla maggioranza dei cittadini, ci si limita a dire “quelli sono matti, sono di destra, sono cattivi, sono populisti”. Ora, spesso è vero, sono populisti e antisistema, con venature a volte antidemocratiche. Ma chi o che cosa li ha fatti diventare così?

C’è chi ha parlato di “volatilità del voto”: di fronte ad una delusione per M5s, gli italiani potrebbero tornare a votare la sinistra?

No, gli italiani delusi dai Cinque stelle non torneranno a votare Renzi, voteranno molto di peggio, a destra. Dire volatilità del voto è la trascrizione politologica del concetto sociologico di società liquida. Quanto più la società è liquida, in realtà, tanto più è solida, nel senso che una volta distrutti i legami sociali dal neoliberismo, le diseguaglianze rimangono solidissime. Quindi il voto può essere libero e fluttuante, però se non cambiano i motivi per cui la gente protesta, il voto di protesta, molto difficilmente tornerà ai partiti dell’establishment.

Lei ha scritto di recente che la sinistra, più che di governo, deve essere «di popolo, di studio e di cultura». C’è un po’ di speranza?

Le questioni ormai sono strutturali. O hai la forza per fare cambiamenti strutturali o non ce l’hai e allora è meglio mettersi a studiare, visto che se ne ha tanto bisogno, e prepararsi così a costruire un’Italia nuova. Il Pd oggi è inutile. Non è che deve ritrovare la propria identità come dicono in tanti: no, la deve proprio trovare perché quella che aveva non era di sinistra, era una identità blandamente blairiana. Si tratta di rifondare Pd, ma anche Leu e ogni sinistra. Siamo, come diceva Gramsci, alla fine della guerra di movimento, se mai è stata combattuta; adesso è guerra di posizione, cioè bisogna tornare ad accumulare riserve, energie, saperi, legittimità davanti ai cittadini. La sinistra deve piantarla di stare sui social media e tornare a ciò di cui tutti hanno bisogno: l’incontro di persone reali in spazi fisici. Bisogna reinventare le sedi di partito. L’unica cosa che conta sono le persone che non sono astrazioni algoritmiche insediate dentro un computer. La sinistra deve fare quello che gli altri non vogliono fare, cioè scatenare la libertà e l’energia delle persone, e questo è possibile solo se le persone vengono riconosciute come esseri umani veri e non come dei target elettorali o propagandistici o consumistici. Per tornare ad avere la fiducia dei cittadini la sinistra deve tornare ad avere fiducia in se stessa, il che significa riconoscere la sconfitta senza se e senza ma, fare il mea culpa e ricominciare, possibilmente anche con facce nuove, purché serie e competenti. Perché la politica è una cosa terribilmente seria: dalla politica passa, o dovrebbe passare, la vita di tutti.

L’intervista è stata pubblicata in «Left», n.17, 27 aprile 2018

La sinistra e la speranza

 

La crisi della sinistra è reale. E probabilmente terminale. Lo stato attuale di Pd e LeU e Pap non giustifica alcuna speranza.

L’Italia ha detto No a tutte le sinistre possibili. A quella irriconoscibile, il Pd, centrista, ambigua, forte solo della propria arroganza e della propria funzione di partito dell’establishment (Renzi è solo l’epitome di un’impostazione al tempo stesso velleitaria e subalterna). A quella di LeU, fin troppo riconoscibile: la vecchia Ditta di chi non ha visto, se non post festum, le contraddizioni e i problemi del modello sociale ed economico che sponsorizzava e implementava, di chi ha dato l’allarme quando i buoi erano già scappati, quando le mucche erano già nel corridoio. A quella sconosciuta di Pap, carica di un passato dogmatico che non si sa bene come conviva con il presente mutualistico.

Certo, il No ha coinvolto anche Berlusconi e il suo partito introvabile, Fi, privo di guida e di orientamento, dilaniato da faide personali. Il fatto è che tutta la sinistra è stata valutata come Fi, ovvero come irrilevante oppure adagiata sulle logiche del «sistema», parola imprecisa per indicare qualcosa di molto preciso. Il modello economico neoliberista e ordoliberista, e le sue conseguenze concrete, devastanti per la società e per la democrazia.

Così, la protesta e la proposta sono state lasciate a forze nuove, qualunquiste e lepeniste, che hanno raccolto tanti voti di cittadini non lepenisti, non fascisti, non qualunquisti, stanchi ed esasperati dalla sordità, dalla mancanza di analisi, dall’assenza di capacità politica di proposta, delle forze della destra e della sinistra tradizionali o, meglio, delle forze che si sono contese la seconda repubblica e il suo triste declino. La crisi economica decennale che l’Italia, vaso di coccio tra vasi di ferro, non ha ancora superato.

È inutile ora sottolineare che la protesta dei vincitori è fuori bersaglio – lo è, in larga parte -; che le loro proposte sono o inesistenti o velleitarie – anche se è in buona parte vero -; che i vincitori non hanno veramente vinto perché non riescono a fare un governo – anche questo è vero, ma non significa che i perdenti avessero ragione -. Quello che è certo è che in caso di elezioni anticipate la sinistra, in tutte le sue forme, uscirebbe massacrata e scomparirebbe. E questo lo sanno tutti.

La sinistra non ha chiavi di lettura del presente, del passato e del futuro. Non sa che cosa dire agli italiani, se non che è migliore degli altri (chissà perché, poi. Forse per la sua superiore cultura?). La sinistra non è credibile nei suoi dirigenti, nelle sue parole, nelle sue opere. Nonostante il residuo di entusiasmo e di pensiero critico che circola nella società, e che ancora ha il coraggio di dirsi di sinistra, la sinistra politica oggi è inutile.

Ciò non significa che la dialettica destra-sinistra sia estinta, e che le due partizioni della società non esistano più. Che non esistano più contraddizioni e ingiustizie, dominio e oppressione, disuguaglianza e assenza di speranza. Che non esistano disordini, che derivano dalla mancanza di ordine umano; dismisure generate da un modello sociale ed economico fondato sull’assenza di misura, che non è e non vuol essere a misura d’uomo.

Una sinistra non inutile dovrebbe essere in grado di produrre analisi delle cause di tutto ciò, dovrebbe essere in costante rapporto simbiotico (di reciproca educazione) con i soggetti interessati a rovesciare quelle cause (ma prima dovrebbe individuarli), dovrebbe essere impegnata nella ricerca di strategie di lotta, dovrebbe riconoscere apertamente le sconfitte patite da un avversario ultra-potente, dovrebbe cercare di sottrarsi alla sua egemonia culturale e sociale, quale si è manifestata con la globalizzazione, con la fine del comunismo, con il neoliberismo, con il progetto ordoliberista dell’Europa.

E invece le sinistre hanno voluto presentarsi come sinistra di governo, e non hanno saputo governare nulla, se non in modo passivo e subalterno, solo ravvivato da slogan e narrazioni vuote; hanno voluto cavalcare la tigre, e ne sono state sbranate; hanno voluto essere responsabili e sono risultate ciniche (quelle di governo) o astratte (quelle di opposizione); sono giunte alla più profonda ignoranza della realtà per eccesso di realismo; non hanno prodotto nessuna idea trasformativa e tutt’al più si sono concesse qualche incursione nei diritti civili, tanto timida quanto risoluti erano i tagli dei diritti sociali che in nome della responsabilità andavano irresponsabilmente praticando. È ovvio che la sinistra sia stata ritenuta responsabile della crisi: lo ha voluto essere, senza sapere misurare la sua gravità, i suoi effetti dolorosi, senza conoscerne le vittime, senza parlare a esse se non la lingua populista della felicità forzosa, dell’ottimismo programmatico, del futurismo velleitario. Una lingua falsa, che suona falsa, che si espone al controcanto di altre lingue populistiche che almeno sanno esprimere lo scontento e la rabbia di un popolo che per più della metà dei votanti (molti) ha rifiutato il «sistema».

Chi ha tratto beneficio da questa protesta ha individuato non tanto il problema quanto la percezione popolare del problema, che non ha la forza teorica né pratica di affrontare, così che ora sta cercando, con politiche filo-establishment, di tradire il mandato politico ricevuto dai cittadini? Affari suoi, peggio per lui e per loro. I fallimenti dei vincitori rimetteranno in gioco il Pd, come Renzi spera con il suo Aventino? Oppure il Pd deve fungere da rassicurante ingrediente di ogni governo futuro, in alleanza con i vincitori, come vorrebbero i sempre timidi oppositori interni dell’ex segretario? Non rileva. Se i vincitori falliscono la protesta resterà e crescerà, e si trasferirà altrove; e d’altra parte la sinistra non può certo costituire il freno moderato delle velleità populiste, anziché essere, come dovrebbe e come non sa fare e non fa, una forza di trasformazione radicale dei rapporti sociali. Trasformazione che in Italia passa primariamente attraverso la restituzione allo Stato di funzioni e poteri pubblici, dato che le forze dell’economia privata non sono in grado di assicurare benessere, ordine, legittimità, alla nostra comune esistenza.

Essere anti-sistema è obbligatorio, ormai. Siamo in un’epoca di crisi che ce lo impone. E per uscire dalla crisi si deve capire chi l’ha generata, quali debolezze specificamente italiane l’hanno resa quasi mortale, quali programmi e progetti e soggetti sono disponibili per tentare di non restarne travolti, nel ciclo di decadenza culturale, civile e democratica, oltre che economica e sociale, che sembra incombere.

La sinistra, se c’è, deve battere un colpo. Non serve la riproposizione pallida di progetti che erano miopi già quando nacquero. Serve invece capire che cosa si vuole, con chi lo si vuole fare, in che modo. Se non si accetta di essere all’ora zero, la sconfitta definitiva è certa. E se invece lo si accetta, ci si deve attrezzare per una lunga e faticosa attraversata del deserto, che implica che ci si liberi da fardelli inutili e di ceti politici reduci da tutte le sconfitte e da tutti i fraintendimenti. E che si sia seriamente intenzionati a offrire agli italiani buona politica, non chiacchiere. Politica radicale, non palliativi. Credibilità, non menzogne. Azioni, non parole.

Altro che sinistra di governo! Si deve essere sinistra di popolo, e insieme sinistra di studio e di cultura. Non si tratta di rinnovamento, di ringiovanimento, di rottamazione. Ma di un sussulto di dignità almeno quando la campana suona per annunciare una irrilevanza ormai dimostrata a livello europeo, e particolarmente evidente in Italia. Ci si deve convincere, se ci si dice di sinistra, che i problemi e le contraddizioni continueranno a darsi anche se la sinistra non ci sarà, e che saranno nominati da altri e risolti da altri. Che può esistere un mondo senza sinistra. Che questa ha avuto la pretesa di coniugare emancipazione e progresso, e che se non conosce più il proprio DNA può anche sparire. Solo guardando in faccia l’ipotesi della propria scomparsa, solo col rinunciare alle analisi consolatorie, solo vincendo l’inerzia, la tentazione della continuità, si può prendere la decisione di avere e di dare speranza. Hic Rhodus hic saltus.

M5S-PD, un governo fuori dalle possibilità logiche

 

Il risultato elettorale segna un ritorno della politica – non una vittoria dell’antipolitica –. Gli italiani hanno espresso un’esigenza tipicamente politica, di protezione e di fiducia, contro i meccanismi (pretesi automatici e “tecnici”, in realtà politici anch’essi, ma oligarchici) della moneta unica e dell’impianto ordoliberista che le è sotteso. Hanno detto che il «pilota automatico», e i suoi aiutanti del Pd, ha fatto un disastro sociale e antropologico, e vogliono un diverso pilota umano, politico e non tecnico né asservito ai tecnici e agli oligarchi. E ciò, nonostante la crescita del Pil, che evidentemente non basta a soddisfare le esigenze di sicurezza del Paese. Sia perché è una crescita scarsa, malissimo distribuita, sia perché il quadro in cui essa avviene resta caratterizzato dalla disuguaglianza, dalla precarietà e dalla subalternità del lavoro, dall’incertezza delle prospettive di vita, dal degrado della società e dal malfunzionamento della sfera pubblica.

Le proteste (una ribellione, non ancora una rivoluzione) sono state di due segni diversi. Da una parte il M5S ha stravinto nella fragile società del Sud, che chiede tutela diffusa – il reddito di cittadinanza –; dall’altra la Lega ha stravinto nel Nord, che in una società più forte vuole protezione dalla inefficienza pubblica e dal degrado urbano. Con categorie tradizionali, la prima è più vicina a qualche umore di sinistra, la seconda è più connotata a destra. Ma quello che conta è che questo nuovo bipolarismo, pur imprecisamente designato, si afferma sulle rovine del Pd, il partito dello status quo, insieme a Forza Italia – non a caso entrambi sconfitti –.

Questa protesta duplice è primariamente rivolta contro i ceti politici che hanno governato fin qui; e anche se molti elettori la estendono al sistema politico-economico in generale, potrebbe essere compatibile con l’assetto economico vigente. In fondo le richieste dei pentastellati (soprattutto il reddito di cittadinanza) non eccedono l’orizzonte neoliberista, e quelle dei leghisti possono, in parte, essere contenute, almeno provvisoriamente, all’interno di un impianto ordoliberista (anche se qui l’euroscetticismo è più forte). Ma perché questo contenimento possa avvenire, il sistema economico dovrebbe fornire una performance rassicurante. E perfino in questo caso i guasti del passato, profondissimi, non cesseranno per molto tempo di produrre effetti sul modo, negativo, con cui milioni di italiani guardano il presente e il futuro, anche se si registrassero (improbabili) miglioramenti. La fiducia si è davvero spezzata. Si può dire che quel sistema non è più in grado di generare consenso, benessere (pur relativo) e coesione sociale. Gli italiani si sono “incattiviti” per qualche preciso motivo, non per sadismo o per innata xenofobia.

Da questo cataclisma politico è risultato un sistema politico a due poli e mezzo. Nessuno dei due poli può governare da solo, e ciascuno di essi fa offerte al terzo mezzo polo, il Pd. Ma le due possibili combinazioni si moltiplicano in molte fattispecie concrete: una cosa, infatti, è governare insieme, altra cosa è dare un appoggio esterno con astensione programmata su singole questioni, oltre che sulla fiducia iniziale. Naturalmente, esistono sulla carta altre opzioni: dal governo di tutti (di unità nazionale) al governo di nessuno (tecnico o del presidente). Si tratterebbe di governi non politici ma di scopo, a tempo: fino alla legge di stabilità del 2019, o fino alla nomina dei vertici dei Servizi.

Detto questo, l’esigenza di formare un governo, già a partire dal Def, si scontra con alcune incompatibilità logiche: come possono governare insieme, o in ogni caso legittimarsi e sostenersi a vicenda, partiti come M5S e Pd, fino a ieri (giustamente) feroci avversari? Forse in nome della comune opposizione alla destra? Ma quello fra destra e sinistra non era un cleavage obsoleto, almeno nel discorso pubblico dei M5S? E poi: in questa ipotesi il Pd dovrebbe essere davvero de-renzizzato, dato che Renzi si rifiuta di governare con gli uni e con gli altri; ma almeno il 60% degli eletti è composto di fedelissimi che, anche in un mondo di labili fedeltà come quello della politica, dovrebbero avere un vero tornaconto per lasciare il segretario dimissionario e imbarcarsi in un’avventura governativa (sia pure di appoggio esterno) con il M5S.

E quale tornaconto, a fronte dello svantaggio strategico di risultare un’appendice di un governo egemonizzato da altri, destinato a colpire interessi che finora hanno trovato casa nel Pd, anche se quel governo fosse guidato da una grande personalità neutrale (da individuare fra le «riserve della repubblica», posto che ce ne siano ancora di spendibili)? Per puro senso dello Stato o del Bene comune? O per posti di governo nell’immediato (ma è probabile?) scambiati contro la certa delegittimazione presso una grossa fetta di quel che resta del proprio elettorato? Una qualunque collaborazione sarebbe un placebo per rallentare una malattia mortale – la scomparsa politica del Pd, la sua irrilevanza, il suo collasso – che al contrario la aggraverebbe e ne precipiterebbe l’esito. E se qualcuno, dentro il Pd, ancora pensa di rivitalizzarlo e di renderlo politicamente appetibile, non potrà certo credere che la via verso la guarigione sia di mescolarsi, in qualsivoglia modo, con un partito, il M5S, che appartiene a un altro mondo, anche se è pieno di ex votanti Pd – i quali, come si sa, non torneranno indietro, neppure verso un Pd de-renzizzato –.

Lo stesso si dica al rovescio, del M5S: alimentato da anni dall’odio anti-Pd, come potrebbe allearsi a questo, o chiederne l’appoggio su punti qualificanti di un programma, anche se questo fosse di fatto anti-sistema (non solo a livello simbolico e politico) come quello prefigurato da Flores? La forza della moral suasion del Capo dello Stato dovrebbe essere davvero smisurata, e infinita l’abnegazione di tutti, per dar vita a un governo siffatto. Quanto a un incontro su un programma di mera conservazione dell’esistente, sarebbe un tradimento della volontà dell’elettorato che porterebbe fiumi d’acqua al mulino di un’opposizione scatenata come quella che metterebbe in atto la destra. Davvero Pd e M5S vogliono regalare all’opposizione, alla Lega soprattutto, questa ghiottissima occasione di incrementare a dismisura il proprio consenso, di pescare a piene mani nello scontento sociale, nella protesta anti-sistema? Pensano davvero, entrambi, di incrociare e di gestire un ciclo positivo e legittimante di benessere e di crescita?

Non si tratta di preferenze personali. Oggettivamente un governo sinistra (sconfittissima) + Pd (sconfittissimo) + M5S mi sembra fuori dalle possibilità logiche. E, inoltre, offensivo della volontà popolare, che non ha saputo dire in positivo che cosa vuole, ma che ha ben detto che cosa non vuole. Se poi calcoli e furbizie, o improbabili slanci patriottici, di gruppi dirigenti porteranno a tentativi in questa direzione, saranno tentativi poco proficui e molto autolesionistici.

E allora? Il rispetto della volontà popolare vuole che questa, se non produce un effetto, torni a esprimersi – i risultati, in un diverso contesto, saranno sicuramente diversi, anche a legge elettorale invariata –. Ma si tenga presente che in linea teorica esiste anche la possibilità di un governo Lega + M5S, che non è più difficile da concepire (se si fa leva sull’asse sistema/antisistema piuttosto che su quello destra/sinistra) di quello di cui si è parlato finora. In alternativa, si può pensare a un governo di scopo con tutti dentro, o con tutti fuori, per una nuova legge elettorale, che aiuti il popolo a rendere più efficace la propria volontà di cambiamento e più nitide le direzioni di questo (ma sarà un bel problema trovare un accordo su questo punto).

Se invece saranno pressioni internazionali irresistibili a obbligarci, come nel 2011, a una governabilità qualsiasi, saremmo di fronte a una riedizione dell’esperienza “Monti”. E ciò vorrebbe dire che l’interesse nazionale, interpretato dai poteri forti, dalle oligarchie, diverge dalla volontà popolare, anche se incompleta; che quindi le elezioni sono un lusso che non fa più per noi; e che, quali che ne siano i risultati, l’esito deve essere sempre l’eterno ritorno dell’identico. There is no alternative, quindi, con l’ennesimo scacco della politica democratica e con l’ennesimo trionfo del potere dei pochi.

 

L’articolo è stato pubblicato in «MicroMega» il 14 marzo 2018

«La sinistra non può diventare la ruota di scorta dei grillini»

Intervista con Silvia Bignami

«Se il Pd andasse a fare da ruota di scorta al Movimento 5 Stelle morirebbe». Chiusa l’esperienza in Parlamento, prima col Pd e poi con Si ed Mdp, il politologo Carlo Galli torna ad insegnare. Guarda da lontano la politica, ma non esita a bocciare il dialogo tra dem e pentastellati ipotizzato dalla vicepresidente della Regione Elisabetta Gualmini. E pensando alle regionali del 2019 scuote la testa: «Se i numeri sono quelli delle politiche, il Pd ha già perso».

Galli, come legge il voto?
«I cittadini hanno votato in modo inequivocabile contro Renzi, Berlusconi, D’Alema e Bersani. In pratica contro tutti coloro che a qualche titolo sono stati coinvolti nella gestione del potere e di una situazione che gli elettori reputano di grave crisi. Hanno premiato Lega e M5S, che non hanno avuto responsabilità di governo. Per questo mettere insieme perdenti e vincitori è molto complicato».

E come si fa a fare il governo?
Il M5S cerca il Pd.
«Intanto un governo c’è. Gentiloni è in carica e il Def lo farà probabilmente lui. Poi certo, bisognerà farne un altro. Vedo che i dirigenti 5 Stelle sono diventati molto dorotei. Ma se fanno un accordo col Pd, io mi chiedo: come potranno far accettare ai loro elettori quest’alleanza? Gli elettori M5S, ex Pd, e sono molti, vogliono forse una politica di sinistra, ma al massimo ipotizzano per il Pd un ruolo subalterno. E poi, gli elettori non ex-Pd, che hanno votato M5S per odio al Pd, come prenderanno una collaborazione col vecchio nemico? Se non si pongono queste questioni, vuol dire che a nessuno interessa davvero che le cose cambino. E a meno che non arrivi una super-ripresa economica, al prossimo giro la Lega vince da sola».

Quindi al M5S l’accordo non converrebbe. E al Pd?
«Il Pd che fa la ruota di scorta al M5S diventa come Alfano per Renzi.
Indispensabile ma anche insignificante, e votato a sicura scomparsa».

E un appoggio esterno?
«Credo che anche questo sarebbe un problema enorme per il Pd… Read more

 

 

L’intervista, pubblicata l’11 marzo 2018  in «la Repubblica. Cronaca di Bologna», continua in «la Repubblica.it».

La sconfitta del «sistema»

 

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.

A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobs act è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.

Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza. Un’impotenza di fondo, quindi, quella della sinistra, per sopperire alla quale si è fatto ricorso a temi laterali, come lo ius soli e perfino l’antifascismo, che in realtà svelano una concreta incapacità di entrare in empatia con gli italiani e con i loro problemi. Cosa che è riuscita, con la consueta abilità, alle destre e ai qualunquisti, che hanno immediatamente colto che il primo problema dell’Italia è la sicurezza – dove per «sicurezza» dobbiamo intendere le sicurezze esistenziali (cioè la sicurezza del lavoro, della sanità, del Welfare, oltre alla tutela delle libertà personali), una volta assicurate le quali c’è anche la capacità e l’attitudine all’accoglienza. Quella della sinistra è stata davvero una campagna elettorale di carattere moralistico. Naturalmente, quella dei qualunquisti e della destra è una «sicurezza» a sua volta parziale e propagandistica. Il che, ovviamente, non ha impedito che sui fallimenti della destra economica, che da decenni comanda in Europa e che è la portatrice del progetto neoliberista e ordoliberista dell’euro, si siano infilati, secondo un modello classico, la destra politica e i qualunquisti. La sinistra è rimasta a guardare, perché non è in grado di fare analisi politica, economica, strategica, delle dinamiche storiche contemporanee. E senza analisi non c’è linea politica.

Occorre, pertanto, avere chiaro che il problema teorico e politico di fondo è che la sinistra non sa che cosa vuole e che cosa vuole essere; a quale tipo di bisogno vuole rispondere. A ben vedere, oggi siamo davanti alla débâcle del ceto politico postcomunista, che ha dato origine al Pd senza però riuscire a fondare una prospettiva politica vincente, e che alla fine è stato sconfitto dall’altra componente, inizialmente minoritaria, dello stesso Pd – quella degli ex DC –. Ma anche questi, oggi, non riescono più a parlare agli italiani.

Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti. Oggi l’Italia chiede protezione, in modalità differenti, se non opposte, in relazione ai propri spazi sociopolitici. Il Sud, dove la società è fragile, chiede, con il M5S, un sostegno economico vitale, una vera rendita politica. Il Nord, dove la società è più forte, chiede, con la Lega, efficienza e lotta al degrado. Chiede ovunque più Stato, e un rinnovo radicale delle classi politiche ormai delegittimate, anche se in due direzioni diverse.

In realtà, il principale problema da porsi è se il modello economico che è entrato in crisi sia riformabile, o se invece abbia finito di produrre effetti positivi. Un sistema che – è bene ricordarlo – è stato almeno simbolicamente rifiutato nel Regno Unito, non certo orientato in senso europeo; che in Francia ancora funziona grazie al meccanismo elettorale, che è una sorta di ingessatura della società e che fa sì che il Presidente della Repubblica governi con nemmeno il 25 per cento dei consensi; e che in Germania costringe i due principali partiti, un tempo concorrenti – SPD, CDU-CSU –, alla Grosse Koalition, un taglio delle ali che ha un costo politico-sociale enorme (e che vedrà la crescita della destra antisistema).

Insomma, nei principali Paesi europei, con le ovvie differenze che li connotano, il sistema economico-politico vigente sta perdendo colpi. Tutti sanno che c’è un problema strutturale nell’Europa, e in generale nel neoliberismo, capace – quando ci riesce – di generare soltanto un’occupazione sempre più degradata, sempre meno pagata, sempre più precaria. Un sistema nel quale le disuguaglianze aumentano, e l’ascensore sociale è bloccato. Tutto ciò pone sfide radicali alle quali si può rispondere con i sermoni e con l’antifascismo – come nella recente campagna elettorale –; oppure – come io credo – con un vero antiliberismo, con analisi che spieghino perché mai gli italiani sono diventati “cattivi”. Dire che gli italiani si sono “incattiviti”, infatti, non è una analisi politologica; bisognerebbe capire la causa del fenomeno. Tutto ciò è stato presente in campagna elettorale? No, ma era presente nella testa degli italiani, e lo si è visto.

Ora il problema non è solo quello, pur grave, di formare il governo. Al riguardo sono già iniziate le minacce di Bruxelles, all’ombra delle quali si svolgono le trattative tra forze politiche che non hanno in realtà grandi spazi di manovra, perché tanto il M5S quanto la destra non potranno certo governare insieme a quel Pd contro il quale si sono espressi i loro elettori. Il problema è come si esce dalla trappola in cui siamo finiti senza che una nuova folle austerità finisca di distruggere la nostra società e di generare altra e più grave protesta. Quanto al Pd, o viene radicalmente rifondato o è destinato alla progressiva irrilevanza.

Elezioni 2018

Intervista con Pino Salerno

 

Elezioni politiche, il giorno dopo. I risultati parlano chiaro e sono impietosi: alla Camera si affermano il Movimento 5 Stelle con quasi 11 milioni di voti e la Lega che con 5.700.000 voti diventa primo partito della coalizione di centrodestra. Il crollo del Partito democratico appare inequivocabile, con 6 milioni di voti e una percentuale pari al 18,71, mentre del tutto deludente è il risultato della lista Liberi e Uguali, che con un milione112mila voti supera di pochi decimali quella soglia del 3% che consente di eleggere pochi parlamentari. Insomma, ce la ricorderemo a lungo questa data, soprattutto a sinistra.

«Si tratta di una delegittimazione radicale che ha colpito soprattutto le forze della sinistra», ci dice Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche all’Alma Mater di Bologna. «Qual è stato il loro limite in questa campagna elettorale, e non solo?», s’interroga il professor Galli. «Una carenza nell’analisi politica di quanto accadeva nella società italiana dall’inizio della crisi ad oggi, e di come quello che io definisco l’ordoliberalismo del XXI secolo abbia prima imposto le sue regole e le sue decisioni, e poi abbia definito gli equilibri della politica a tutto vantaggio dell’ordine economico».

Prima di tutto l’analisi, continua il professor Galli, che «è storicamente uno dei tratti tipici della sinistra, e quando è assente ci si lascia sorprendere dalla realtà di una società che, appunto, non si conosce più in profondità. E si va incontro a risultati elettorali come quello di ieri, che si può definire come una delegittimazione radicale degli elettori, non solo nei confronti di tutta la sinistra ma anche nei confronti del progetto di governo Renzi-Berlusconi, i veri sconfitti del 4 marzo». A sostegno della tesi del professor Galli ci sono i dati: la somma del Pd e di Forza Italia, sia in termini assoluti che percentuali, non raggiunge quello che da solo è riuscito a totalizzare il Movimento 5Stelle. Le cause? Secondo il professor Galli, «l’Italia è un Paese ormai fortemente frammentato, tra ricchi e poveri e tra Sud e Nord. A chi è stata fatta pagare la crisi economica e sociale in questi dieci anni? Ai poveri. E chi più di tutti ha subito l’insecuritas dei nostri centri urbani, se non le donne e gli anziani? Le madri emiliane, toscane, lombarde, ad esempio, non sanno più sentirsi sicure di lasciare libere le figlie di andare dove gradiscono, e con chi vogliono, quando lo vogliono. Si tratta di una delle questioni centrali della nostra modernità, la sicurezza, che è sinonimo di libertà. La sinistra ha sottovalutato il fenomeno, o forse, per mancanza di analisi, neppure l’ha percepito, mentre era in cima alle ansie di milioni di famiglie».

Inoltre, aggiunge il professor Galli, «è la stessa sensazione di insicurezza che si prova quando si subisce la crisi economica. Che cosa è successo in questi anni? In che modo il neoliberismo nelle sue diverse varianti ha cercato di uscire dalla crisi? Usando il potere deflattivo dell’euro, ad esempio, che ha colpito i salari e le pensioni, mentre sul piano industriale si sacrificavano migliaia di aziende per salvare quelle poche che fossero in grado di reggere la competizione internazionale. È il modello economico in sé che non genera più consenso, che impedisce allo Stato di attuare una politica economica strategica, che fonda il dinamismo dell’economia solo sulle esportazioni e non sul mercato interno. È il modello economico che rende subalterno e precario il lavoro. Davanti alle reticenze della sinistra, alle sue analisi carenti, si sono stagliate una destra e un M5S che si sono infilati nel disagio di milioni di famiglie. Come si poteva pensare che gli elettori prima o poi non avrebbero reagito? Che non avrebbero delegittimato in modo radicale chi è stato corresponsabile delle politiche di Monti e della Fornero, per tacere di Renzi?».

La disfatta del Partito democratico e di Forza Italia dunque si comprende con questa lucida analisi che il professor Galli ci consegna a poche ore dalla chiusura dei seggi. Ma com’è stato possibile il risultato del tutto deludente di Liberi e Uguali, e non solo? Il professor Galli insiste sulla sua tesi per la quale è «l’analisi, sia dei processi economici sia della modernità che da sempre caratterizza la sinistra, e definisce quali strategie assumere, nella società, non solo in campagna elettorale». È il tema della differenza tra sinistra che si ricostruisce nel conflitto, e sinistra che si perde nel governo, restando subalterna agli interessi e ai diktat dell’ordine economico-sociale. «Questa mancanza, questa assenza di analisi, è anche il segno dell’assenza di una identità precisa, con la quale ci si presenta al popolo, prima ancora che agli elettori. E l’identità della sinistra non può che ripercorrere parole come libertà, liberazione, partecipazione, democrazia, vera sicurezza. Esattamente il contrario di quanto chiede l’ordine economico egemone. E quando non si capiscono questi nessi, si rischia di perdere le elezioni fino all’insignificanza».

 

L’intervista è stata pubblicata in «Jobsnews.it» il 5 marzo 2018

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