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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

gennaio 2016

Europa: linee di frattura, punti esplosivi

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Dal punto di vista filosofico-politico questa riflessione sarebbe declinabile così: qual è il rapporto fra il concetto di sovranità e il concetto di Unione? Il concetto di Unione, infatti, può essere riempito di molti contenuti: dal quasi nulla che abbiamo ora, al massimo cioè alla federazione. E sovranità è, ovviamente, la qualificazione principale della forma-Stato, che a sua volta può essere declinata in molti modi. La sovranità è stata presente anche nella lotta del popolo greco contro l’euro: quello è stato un esercizio di potere costituente, cioè della sovranità nella sua forma originaria. Lì è stata giocata la sovranità contro un potere che non era sovrano, che non apparteneva alla determinazione del popolo greco, ma alla Unione Europea. Sovranità, d’altra parte, sono anche gli Stati che violano, forzano, sostanzialmente sospendono le strutture giuridiche poste in essere dall’Unione Europea (penso a Schengen), esercitando, in vario modo, poteri d’emergenza, che sono tipici poteri di sovranità. Sovranità è estremamente complessa come nozione, e certamente è in tensione sistematica con ogni possibile declinazione del concetto di Unione Europea (tranne che non la si voglia attribuire a questa, facendone un super-Stato). Vi è una sovranità democratica del popolo, vi è una sovranità istituzionale degli Stati che può divenire emergenziale. In ogni caso, c’è una tensione strutturale fra la sovranità e gli elementi economici e tecnico-burocratici che sorreggono l’Europa oggi.

Dal punto di vista storico, poi, se si sceglie uno sguardo retrospettivo breve − limitato agli ultimi cento anni −, parlando d’Europa sono possibili tre determinazioni, esprimibili in tre termini: «centro», «nulla», «qualcosa». Centro significa che la configurazione globale della Terra ha visto l’Europa al centro fino alla Prima guerra mondiale. Dopo, fra le due guerre, è cominciato uno smottamento che ha visto l’affermarsi di potenze extra-europee. Nulla, è ciò che è stata l’Europa dal 1945 al 1990: un nulla politico, in quanto era semplicemente l’oggetto privilegiato della grande spartizione globale. L’Europa era l’unica posta in gioco per cui si sarebbe potuta scatenare davvero una guerra fra USA e URSS, e proprio per questo ha goduto di una pace prolungata e per lei benefica. Naturalmente, con privazione della sovranità, checché ne pensassero francesi e inglesi, i quali nella data-chiave del 1956 hanno sperimentato di essere incapaci di costituire il centro di alcunché. Nel Cinquantasei – l’ultimo tentativo coloniale classico dell’Europa − le due superpotenze, benché in grave urto per la insorgenza ungherese, furono sostanzialmente d’accordo per rispedire a casa da Suez Francia e Inghilterra. L’Europa è nulla sotto il profilo storico-politico fino al 1990, quando è costretta a tentare di essere qualcosa, cioè a essere una parte di un ordine mondiale plurale. Una parte che si struttura inevitabilmente − e questo è il problema − intorno alla Germania unificata, che come sempre è fuori scala rispetto all’Europa: troppo piccola per essere una superpotenza, troppo grande per essere un normale Stato nazionale. Da cui lo stratagemma dell’euro per tenere la Germania ancorata all’Europa, per non lasciarla vagare in un vago neutralismo; uno stratagemma che si è rovesciato nella situazione attuale che vede la Germania esondare in buona parte d’Europa.

Con uno sguardo retrospettivo lungo – fin dalle origini dell’Europa, dunque a partire dall’Alto Medioevo – si dovrebbero richiamare le analisi di Rokkan sopra l’Europa strutturata su cleavages: una partizione Est−Ovest che nasce attorno alla Lotaringia, la fascia centro-europea − dalle Fiandre, alla Lorena al Nord Italia −, densissima di città, che rende difficile al suo interno il formarsi di statualità; mentre invece via via che ci si allontana da questo centro ricco di città, e a Est e a Ovest si formano statualità con capitali, cioè con città che emergono rispetto a quelle circostanti. Un’altra partizione spaziale, quella Nord−Sud, misura la distanza da Roma, sulla base del principio che ciò che è più lontano da Roma può strutturarsi più facilmente in Stato rispetto a ciò che è più vicino a Roma.

Un’altra linea strutturante l’Europa, che è stata coperta per molto tempo, ma che spiega nel profondo una quantità di cose − nessuna linea spiega tutto, sia chiaro − è una frontiera teologico-politica, che si può definire nella contrapposizione di due nomi: Eusebio e Agostino, la teologia politica imperiale e la teologia politica duale. La prima determina il rapporto tra Stato e Chiesa in tutta l’Europa orientale, dove vige una dipendenza sostanziale della struttura religiosa dalla struttura politica, che permane ancora oggi. L’altra implica la divaricazione fra la Chiesa istituzionale e i poteri politici in una perenne tensione reciproca, in perenne conflitto benché con alcuni periodi di alleanza, senza che mai ci sia una vera unificazione o una vera dipendenza dell’uno dall’altro. Le ipotesi di unificazione imperiale sono state minoritarie nella storia dell’Occidente – abbastanza celebre è l’Anonimo Normanno −. L’ipotesi di unificazione papale (la ierocrazia) è stata anch’essa, in realtà, una linea breve. La storia dell’Occidente, come ha mostrato Berman, si è strutturata sulla tensione fra la forza della Chiesa e la forza dominante del potere politico, con fasi alterne. Quella tensione è la madre della critica e della libertà.

Ora, dobbiamo chiederci quali sono le linee di frattura che disegnano gli spazi politici dell’Europa di oggi, per vedere se sono spazi politici sensati o insensati, congruenti o incongruenti, e in generale se esiste uno spazio politico europeo.

Esistono fratture geopolitiche, geoeconomiche, e fratture sociali ed esistenziali. Le prime generano linee, le seconde originano punti, atomi. Fra queste seconde è certo fondamentale la disuguaglianza politica e sociale, la distanza fra ricchi e poveri (di sapere, di potere, di reddito, di proprietà) che attraversa tutte le società europee. Questo è l’esito della vittoria epocale del neoliberismo sul keynesismo nel corso degli anni Settanta del XX secolo, e poi via via affermatasi attraverso il modo specifico di funzionare del neoliberismo, cioè le bolle e le crisi finanziarie. Ciò ha prodotto gravi lesioni della struttura delle società europee, portate a un livello di povertà da tempo sconosciuto. Questo è il cambiamento sociale profondo da cui è derivato, a catena, la fine della legittimazione dei partiti, dei corpi intermedi, e anche della democrazia. Questa è una frattura destrutturante, che non disegna alcuno spazio appunto perché produce essenzialmente atomi sociali, individui isolati.

Una linea di frattura, invece − le linee di frattura si sovrappongono fra di loro: una non esclude l’altra e insieme costruiscono un intrico di linee –, è la contrapposizione fra terra e mare, fra il liberismo inglese e l’ordoliberalismo tedesco. Ovvero fra quel processo e quella istituzione che è il TTIP, e lo strutturarsi corporato della principale economia europea, cioè quella tedesca. Il TTIP, questa sorta di NATO economica, implica un mercato diverso da quello strutturato dallo Stato nazionale ed è in rotta di collisione con la nozione di sovranità politica, democratica o istituzionale che questa sia. Questa linea terra-mare spiega anche la diffidenza dell’Inghilterra nei confronti dell’Europa/euro, e il fatto che non è impossibile che il Regno Unito si stacchi dall’Unione Europea. In questo distacco si potrebbe vedere il riemergere oggi − che è una delle tesi che io avanzo − di tradizionali linee di frattura geopolitiche che hanno descritto la storia d’Europa; una delle quali è appunto l’ostilità dell’Inghilterra verso il formarsi di strutture di potere forti, stabili, nel continente.

Un’altra linea di frattura è quella disegnata dallo spazio economico dell’euro, che è l’ordoliberalismo applicato a molti Paesi. L’ordoliberalismo si colloca contro il liberismo anarchico, che aveva generato la crisi del 1929, e contro le cattive reazioni alla crisi del 1929, cioè il nazismo, e anche contro il comunismo, e proponendo a tal fine un’ipotesi di società organica che si fonda sulla naturalità del legame sociale generato dal mercato. Il mercato è interpretato come il motore naturale della società (pur nella consapevolezza che non è naturale ma storico) mentre nello Stato si esprime l’altrettanto naturale pulsione societaria dell’uomo, stabilizzata nelle strutture che impediscono che il mercato venga turbato − è fondamentale il divieto per lo Stato di intervenire sulla dinamica dei prezzi −. Lo Stato deve essere la struttura che regola e controlla la massa monetaria, garantisce la concorrenza, e così mette in grado il mercato di funzionare in una società il cui obiettivo fondamentale è di non lacerarsi e di produrre benessere secondo giustizia. Insomma, dietro l’ordoliberalismo c’è un non-detto: cioè che il conflitto non è fisiologico, ma è patologico ed è quindi da escludere. Nella struttura del mercato sta scritta la collaborazione, non il conflitto. La Germania si è strutturata così fin dal 1949, quando Erhard scongiurò gli americani di non intervenire sulla dinamica dei prezzi, di lasciare che la crisi dei prezzi si aggiustasse da sola.

L’ordoliberalismo è l’essenza dell’euro, ma non è universale: è adatto alla Germania che era ed è una società dove c’è un fitto intreccio di potere economico, potere politico, potere statuale, potere dei Länder che la rende stabile; in questa dinamica è presente anche la Mitbestimmung, la collaborazione dei sindacati ai consigli di amministrazione delle imprese maggiori. Il tutto in chiave mercantilista, cioè con una propensione a tenere relativamente bassi i salari e a puntare sulle esportazioni (con violazione dei trattati di Maastricht da parte della Germania, proprio sul surplus commerciale). Che l’Europa sia anche lo spazio dell’euro non la rende unita, quindi: anzi l’euro produce un doppio spazio, ovvero un nucleo tedesco e una cintura di economie embedded dentro l’economia tedesca – Paesi baltici, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Olanda, Slovenia, Croazia, l’Italia settentrionale –, e un cerchio più esterno dei Paesi del Sud (esterni ma prigionieri dell’euro essi stessi). Questa è la linea di frattura che fa sì che l’Europa oggi sia distinta in Europa dei creditori ed Europa dei debitori − dove quella dei creditori è il nucleo tedesco, e gli altri sono via via, con cerchi concentrici differenziati, collaboratori, più o meno coatti e subalterni, di quel nucleo economico −. Il segno di questa differenziazione dello spazio dell’euro sono le linee di divisione degli spread.

Un ulteriore problema è che lo spazio economico dell’euro, che è in concorrenza con lo spazio economico anglofono, in realtà non è uno spazio politico tedesco. Ciò deriva dalla spazializzazione originaria – la cortina di ferro, che ha tagliato la Germania in due, insieme all’Europa – del 1945-47, che si fondava sulla divisione dell’Europa fra le superpotenze, e sull’assunto che la Germania non avrebbe più dovuto avere ruolo politico in Europa, ovvero costituirsi forse come uno spazio economico, ma non certo riproporsi come un Reich. Di fatto molti Stati embedded dentro lo spazio economico dell’euro, e anche nello spazio economico tedesco, non condividono, almeno nella loro maggioranza, le opzioni politiche generali della Germania. Questa non ha un rapporto sempre ostile con la Russia, e anzi ha subito a lungo l’influsso del suo potente vicino, a sua volta influenzandolo: la Germania non ha confini (secondo le tesi dei geografi tedeschi ottocenteschi) dato che è collocata in una pianura che arriva fino agli Urali. In quella pianura vi sono fasi di sovrapposizione secolare fra l’elemento slavo e l’elemento germanico, con un movimento di marea di avanti e indietro. Ora, il punto è che molti degli Stati embedded dentro lo spazio economico tedesco sono violentemente antirussi (molto più della Germania) perché sono stati dominati fino a un quarto di secolo fa dall’URSS, protagonista dell’ultima ondata di marea slava.

L’Europa è insomma attraversata anche da una memoria non condivisa. Il nemico mortale nell’immaginario e nella prospettiva di alcuni Stati dell’Europa orientale continua a essere l’Unione Sovietica o la Russia, l’occupazione e quel che segue. Questo fa sì che la Germania sia scavalcata da una serie di Stati che si appellano agli Stati Uniti per esercitare una confrontation estremamente dura nei confronti della Russia, con la messa a disposizione di basi militari per la NATO − basi di fatto aggressive nei confronti della Russia −. Come tutto ciò pesi sulla questione Ucraina è evidente.

L’Unione Europea non ha una politica di difesa. Nei trattati istitutivi è scritto apertamente che il braccio armato dell’Unione Europea è la NATO. La costruzione del secondo pilastro europeo, della proiezione armata della potenza europea, è ancora agli albori; semmai, la politica militare e industriale è ancora rivendicata in proprio da ciascuno dei pur deboli Stati europei. L’Europa in quanto tale non è in grado di intervenire da nessuna parte.

Ora, dentro lo spazio della NATO − che ovviamente disegna una linea di frattura fra Europa e Oriente russo − c’è una frattura fra la Germania e altri Paesi, a essa vicini ed economicamente subalterni ma politicamente oltranzisti. Il che fa sì che la NATO sia, in questo momento, una realtà meno compatta di quella che è stata finora; certamente (per l’enorme sproporzione di mezzi) sempre a trazione in ultima istanza americana, ma soggetta agli umori, alle paure, di una fascia di Stati molto preoccupati della politica russa. La questione del Montenegro che in altri tempi sarebbe stata quasi un casus belli con la Russia − un ulteriore sconfinamento nello spazio balcanico, ormai tutto occupato dall’Occidente − si spiega con questo dinamismo antirusso della NATO, ‘dal basso’.

Per ricapitolare, dentro lo spazio europeo c’è uno spazio economico dell’euro diviso fra creditori (lo spazio tedesco) e debitori, e politicamente diviso fra Paesi più o meno anti-russi, il che permette agli USA di avere ancora attraverso la NATO (più instabile che in passato) un enorme peso sull’Europa, sulla quale la Germania non può (e forse non vuole) avere anche un’egemonia politico-militare, pur esercitandola in senso economico.

E quindi la questione europea non consiste nel fatto che, pur essendo chiaro dove si dovrebbe andare, tuttavia non ci sono le forze per andarci. No: il punto è che nessuno ha chiaro dove si deve andare, e nessuno ha le forze per andare da nessuna parte. Noi oggi abbiamo per le mani i relitti ormai non più vitali di un’Unione Europea pensata nell’epoca o della guerra fredda (quando gli Stati europei erano di fatto sollevati da responsabilità strategiche) o pensata e rafforzata all’epoca della globalizzazione incipiente, della globalizzazione trionfante e all’apparenza “pacifica”. Un’Europa che, in entrambi i casi, pensava a se stessa come «potenza civile» (dopo che nel 1954 era stata bocciata la CED). Ma che esista una configurazione politica che funga da potenza civile è possibile solo se intorno ad essa non c’è un mare di inciviltà, o di guerra. Senza una situazione di relativa pace una potenza civile non esiste. Come appunto si constata oggi.

Lo spazio liscio dell’Europa potenza civile − realizzato con Schengen − è attraversato da muri, come si è visto ormai da mesi. Ma non è neppure esatto dire che se si è disfatto lo spazio politico europeo, almeno restano gli Stati: infatti, gli Stati tentano di esistere e di resistere, ma conoscono oggi una minaccia inusitata, generata da un terrorismo che è al tempo stesso sistemico e strategico. È sicuramente un atto di guerra di qualcuno contro di noi, dunque è strategico: ma se il terrorismo fosse solo questo, come è stato iniziato così potrebbe anche terminare. In realtà, il terrorismo è anche sistemico, cioè nasce dentro lo spazio politico europeo, dentro le sue contraddizioni e carenze, e lì si alimenta. È da notare che nel complesso non si può neppure sostenere che il terrorismo generi un fronte, una linea di frattura − ad esempio, il clash of religions fra cristianesimo e islamismo . La verità è invece non tanto che l’Islam si radicalizza quanto piuttosto che il radicalismo si islamizza: ovvero che la religione è il codice in cui viene trascritta un’ostilità generata altrove, su un altro terreno. Insomma, il terrorismo su scala continentale (non quello politico degli anni Settanta) non genera propriamente linee di frattura: è anzi il classico esempio di guerra globale, che è − come provai a definirla quindici anni or sono, in La guerra globale − quella condizione in cui «tutto può capitare ovunque in qualsiasi momento». In filosofia questo è lo stato di natura, appunto la situazione per sconfiggere la quale sono nati gli Stati. Ora gli Stati sono davanti a una sfida che non è una sfida ideologica delle Brigate Rosse o delle Brigate nere: è qualche cosa di diverso, probabilmente più forte ed estremamente destrutturante, perché ottiene realmente il suo obiettivo, ossia genera panico nelle popolazioni e spinge gli Stati a politiche emergenziali. Pensiamo solo alla Francia, lo Stato nazionale per eccellenza, la madre delle rivoluzioni, in cui politicamente il Fronte Nazionale ha già vinto, anche solo per lo spazio enorme che sta ottenendo, e in cui un governo socialista esce dalla Convenzione internazionale dei diritti dell’uomo.

E pensiamo anche, al di là del terrorismo, a quella bomba a scoppio ritardato che è l’emigrazione di massa, e a quanto questa stressa oltre che le strutture istituzionali anche lo stesso legame sociale, estremizzando l’opera tipica del neoliberismo: la frantumazione della società in individui «atomici», che sono economicamente concorrenti (ma in realtà impoveriti e subalterni a poteri invincibili), e che sono politicamente preda della paura e della xenofobia.

Il combinarsi di terrorismo ed immigrazione (due fenomeni distinti, ma che si rafforzano l’un l’altro nella psicologia di massa e che alimentano insicurezza e disorientamento) può essere un fattore di rafforzamento, in senso autoritario, dello Stato. Storicamente è sempre successo che la paura rafforzi le istituzioni. E quindi le frontiere statali in uno scenario post-Schengen, tornerebbero a essere le linee di frattura interne allo spazio politico europeo. Ma ho l’impressione che oggi il combinarsi della disuguaglianza economica e della insicurezza esistenziale produca fenomeni di disgregazione della società che neppure una torsione autoritaria dello Stato potrebbe neutralizzare, e che lo stesso «Stato forte» sarebbe in questo contesto in realtà solo uno Stato arbitrario, la cui forza si eserciterebbe in modo casuale, occasionale. Se la guerra classica dentro gli Stati classici produce l’Union sacrée o la rivoluzione, la guerra globale produce forse fenomeni di scollamento del tutto anomici. La paura non produce solo linee, ma anche punti. E così, alle linee di frattura, già di per sé abbastanza complesse e intersecate, si aggiungono microfratture pulviscolari, portate dalla disuguaglianza economica (come abbiamo visto all’inizio) e dalla paura, che possono destrutturare e fare esplodere ogni spazio politico, sia europeo sia statale.

Che tipo di questione pone questo scenario costituito da spazi, linee e punti esplodenti? Impone prima di tutto di abbandonare la retorica del «Ci vuole più Europa»: prima si deve capire di quale Europa si parla. Non certo un super-Stato, monolitico, capace di chiudere i propri confini all’esterno – una finalità irrealistica e indesiderabile −. Né quella posizione può significare l’indeterminata estensione nel futuro dell’Europa di oggi: «Andiamo avanti così perché in un modo o nell’altro ne verremo fuori» – è, questo, il modo di ragionare medio di chi è nato in un mondo in cui, dopotutto, non poteva succedere niente, in Europa, per le terribili conseguenze anche del minimo cambiamento . Adesso il dramma è che invece può succedere di tutto.

Dobbiamo inoltre rifiutare l’idea che ogni analisi non mainstream sia apocalittica. Apocalissi è il disvelamento: finisce un mondo, cadono i veli e se ne rivela un altro nuovo. Oggi, invece, stiamo sperimentando una fase di transizione strutturale degli ordini politici continentali europei. L’ordine continentale è in crisi: sotto il profilo economico, perché spacca le società; sotto il profilo geoeconomico, perché spacca l’Europa; sotto il profilo strategico, perché non sa andare da nessuna parte e, semi-paralizzato, risponde con le leggi di emergenza alla doppia anomia della disuguaglianza e del terrorismo.

Davanti a questa serie di problemi la sinistra è semi-impotente. L’unica potenza che al momento può porre in campo è forse una potenza di analisi, per individuare un quadro non apocalittico né rassicurante, ma realistico del mondo in cui viviamo. La sinistra moderna nasce con Marx, il quale appunto fece un quadro realistico del mondo in cui viveva. Lo stesso si deve fare ora, per evitare che la sinistra o nasconda la testa nella sabbia o segua subalterna coloro che con le bandiere dell’Occidente al vento ci vorrebbero inviare verso ignote avventure.

 

Intervento introduttivo al seminario di Sinistra Italiana − organizzato a Roma il 4 dicembre 2015 −  dal titolo Economia e politica in Europa. Vincoli, contraddizioni, conflitti.

Stato, Grande Spazio, Nomos

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Stato, Grande Spazio, Nomos (Adelphi, 2015, pp. 528, € 60) raccoglie, selezionati e tradotti da Giovanni Gurisatti, alcuni importanti saggi che Carl Schmitt pubblicò dal 1927 al 1978, precedentemente accolti in due importanti antologie tedesche − una del 1996, l’altra del 2005. Vi compaiono alcuni dei lavori più celebri del giurista: tra gli altri, la prima versione di Il concetto di ‘politico’ (quella in cui il ‘politico’, il rapporto amico/nemico, è interpretato come un ambito specifico, mentre di lì a poco diventerà, ancora più radicalmente, il grado estremo d’intensità del conflitto); la quarta edizione, del 1941, dell’opuscolo su L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale (in cui venne aggiunto, tra l’altro, un capitolo contenente una polemica anti-ebraica contro Kelsen; per questo libro Schmitt corse il rischio di finire imputato a Norimberga come complice della guerra d’aggressione nazista verso l’Urss); il densissimo saggio del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943), che anticipa il grande libro del 1950 su Il Nomos della Terra; il testo del 1952 su L’Unità del mondo, in cui la guerra fredda è interpretata non come scontro duale fra Usa e Urss ma come una tensione interna ad un unico campo teorico e pratico, cioè la Terra dominata dalla tecnica; un’originale interpretazione di Clausewitz come pensatore politico (1967); e infine il canto del cigno di Schmitt, La rivoluzione legale mondiale (1978), un articolo che si conclude con un dittatore che in punto di morte, invitato dal sacerdote a perdonare i nemici, risponde “non ne ho: li ho ammazzati tutti” (ed è, per Schmitt, la metafora dei poteri che utilizzano il loro monopolio del diritto per spazzare via legalmente il nemico politico come criminale e nemico dell’umanità).

Molti di questi testi sono già noti al lettore italiano, ma spesso in traduzioni parziali e incomplete, oppure molto datate (degli anni del fascismo), oppure ancora collocati in sedi raggiungibili solo dagli specialisti; da oggi, invece, sono disponibili a un pubblico più vasto, per un supplemento d’informazione e di riflessione sul lascito intellettuale, sempre sconcertante, di uno studioso, Carl Schmitt, la cui fama continua a dilagare nel mondo: dall’originaria singolare fortuna italiana degli anni Settanta e Ottanta (tuttora fortissima) alla consistente attenzione francese, spagnola e sudamericana (sempre crescente), alla consacrazione nella sua patria tedesca (che, dapprima incredula e riluttante, lo ha poi legittimato inserendolo dagli anni Novanta nella potente macchina accademica delle dissertazioni dottorali), all’inondazione del mercato filosofico anglo-americano, fino all’elevazione, nella Cina comunista, a filosofo politico di regime (con particolare riguardo alla sua produzione autoritaria di epoca nazista; qualcosa di simile era già successo nella Corea del Sud).

Tutti (a destra e a sinistra) ormai vedono tutto, in Schmitt – con maggiore o minore fondatezza e acribia filologica, s’intende –. Autore della decostruzione e della teologia politica, dell’autorità e della ribellione partigiana, della decisione e della costituzione, dello Stato e del suo superamento, dell’ordine e del conflitto, Schmitt esibisce tanto una camaleontica versatilità spinta ben oltre i limiti dell’opportunismo (la sua adesione al nazismo fa scorrere fiumi d’inchiostro, ma non lo condanna alla infamia e alla damnatio memoriae come vorrebbero alcuni critici) quanto una ricchezza e molteplicità di pensiero che lo ha reso ormai un classico della politica, i cui libri sono imprescindibili come quelli, ad esempio, di Max Weber – benché il pensiero di Schmitt sia, ancor più di quello weberiano, coinvolto profondamente nella politica (di lui si diceva che, ascoltandolo, non si capiva se si dovesse invadere la Francia o darsi allo studio approfondito dello jus publicum europaeum) –.

Una parte di questa fortuna nasce dall’idea che Schmitt abbia la capacità di fornire chiavi interpretative del mondo contemporaneo, sia perché l’emergenza sarebbe il modo normale con cui funziona il sistema politico nel mondo neoliberista, sia perché il suo realismo politico sarebbe assai indicato a decifrare i limiti e le intrinseche contraddizioni dell’ideologia universalistica della globalizzazione anglosassone.

In realtà le cose sono più complesse. Schmitt è stato un formidabile pensatore novecentesco, impigliato esistenzialmente nella decostruzione delle aporie della modernità al tramonto, piuttosto che un autore post-moderno appaesato nel XXI secolo. E ciò proprio per il dato strutturale della onnipervasività dell’odierna economia capitalistica, e quindi del mutato ruolo dello Stato, che moltiplica sì le eccezioni, le forzature extraistituzionali, ma che al contempo rende difficile ipotizzare oggi una significativa vigenza della grande decisione sovrana. Certo, la critica schmittiana del potenziale discriminatorio implicito nell’universalismo ideologico che sorregge la politica internazionale – che non riconosce nemici politici ma solo ‘criminali’, ‘pirati’, nemici dell’umanità – è convincente e appropriata; ma la sua teoria dei Grandi Spazi, pensata sia come superamento della forma-Stato sia come antidoto all’astrattezza e all’estremismo dell’universalismo, non solo si scontrò a suo tempo con la dottrina nazista dello Spazio vitale (anch’esso illimitato e discriminatorio, e quindi lontano dalla concretezza a cui aspirava Schmitt), ma è resa oggi quanto meno dubbia dal prevalere della potenza di sradicamento del capitalismo rispetto a ogni politica di fissazione dell’ordinamento sul suolo, e di chiusura ordinativa dello spazio. Non a caso Schmitt è, come Heidegger, concentrato sulla critica della tecnica (marina, contrapposta alla terrestrità dello Stato e anche del partigiano) molto più che sulla critica dell’economia.

La verità è che Schmitt è ancora giurista, e quindi legato a quello Stato di cui pure attua la radicale destrutturazione, ovvero è orientato all’ordine – benché sia al contempo tragicamente consapevole della sua interna contraddittorietà e abissale infondatezza –. La sua capacità critica e analitica è grande, ma non va al di là dello svelamento e della decostruzione dei meccanismi con cui lo Stato nasce, agisce, crea il sistema mondiale degli Stati, e agonizza; oltre lo Stato – di cui ha lucidamente colto la contingenza storica – Schmitt sa bene che si deve andare, ma non sa come (soprattutto quando, nel dopoguerra, il pensiero dei Grandi Spazi non fu più immediatamente proponibile). La sua teoria del nomos (dell’ordine internazionale orientato) funziona retroattivamente, per spiegare (benché parzialmente) con potenti campiture splendori e miserie dell’età moderna e dello jus publicum europaeum; ma applicata al presente assume un ambiguo significato mitico, o nostalgico di perduti radicamenti.

Com’è giusto, Schmitt, il quale si è spinto fino a presagire la nuova rivoluzione spaziale, quella del web (da lui intravista nel trionfo del nuovo elemento, l’aria – come prevalenza del potere aereo, ma potremmo dire come potenza dell’etere, dello spazio virtuale –, che prende il sopravvento sulla terra e sul mare, protagonisti della modernità), non può pensare per noi. Proprio da chi ha sostenuto che la verità è vera una volta sola, all’interno di determinate configurazioni di potere, viene l’invito a noi, perché pensiamo la verità, l’ordine e il disordine, del nostro tempo. Congedandoci, per quanto possiamo, dal lungo congedo schmittiano dalla modernità. Procedendo con Schmitt oltre Schmitt.

L’articolo è stato pubblicato in «il manifesto» il 15 gennaio 2016, con il titolo L’ordine politico dei grandi spazi

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