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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

settembre 2016

“Imperfetto perfettismo”: le riforme costituzionali nell’Italia del secondo dopoguerra. Intervista a Carlo Galli

Intervista con Fausto Pietrancosta

Lo storico del pensiero politico Carlo Galli nell’intervista rilasciata a «Diacronie. Studi di Storia contemporanea» il 30 luglio 2016, partendo dall’esame degli esiti dell’ultima revisione del testo costituzionale, ripercorre le fasi e le caratteristiche fondamentali del dibattito sulle riforme istituzionali nel secondo dopoguerra. L’analisi delle ideologie e dell’evoluzione del pensiero politico rappresentano così l’occasione per un approfondimento degli assetti del potere in Italia alla luce degli eventi storici degli ultimi decenni.

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In che modo ritiene si inserisca la legge di revisione costituzionale (cosiddetta Riforma Boschi), approvata in via definitiva dal Parlamento ad inizio del 2016 e che a breve sarà sottoposta a referendum popolare confermativo, nel contesto politico nazionale e in che modo crede abbia influito l’attuale conformazione del sistema partitico italiano sulle scelte con essa compiute?

La legge di revisione costituzionale e la legge elettorale che la completa nascono da un input del Capo dello Stato all’inizio della legislatura, e sono state portate avanti, con modalità diverse, tanto da Enrico Letta quanto da Matteo Renzi. Quest’ultimo ne ha fatto la propria legittimazione politica, e ha pensato a due leggi che, combinate, lo conservassero al potere senza significativi contrappesi. È stato spinto a ciò dai risultati delle elezioni europee del 2014, molto favorevoli al Pd (ma anche molto caduchi, come si è visto in seguito). L’idea di fondo è di stabilizzare a ogni costo la politica italiana attraverso un’ingegneria costituzionale ed elettorale che trasformi il tripolarismo uscito dalle elezioni del 2013 in un bipolarismo al momento decisivo del voto (il ballottaggio) e in un monopolio del potere per chi risulta vincitore. Da quando si è capito che ad avvantaggiarsi del sistema sarebbero stati i “grillini”, stiamo assistendo a una serie di tentativi di smontare l’impianto della legge elettorale, e di superare il divieto delle alleanze (da sempre definite inciuci), intorno a cui è costruita. Dal punto di vista dei principali effetti sistemici, la revisione costituzionale dà un nuovo impulso al centralismo statale a scapito delle autonomie regionali, e una maggiore forza all’esecutivo a scapito del legislativo e dei poteri di garanzia. Infatti una delle più rilevanti novità della revisione costituzionale, cioè l’eliminazione dal circuito della fiducia del Senato (nel quale i governi hanno spesso maggioranze risicate in virtù della sua elezione su base regionale), rende ancora più stretto il rapporto fra il governo e l’unica Camera politica, nella quale una maggioranza gonfiata artificialmente dalla legge elettorale (se questa non verrà cambiata) garantisce che ogni iniziativa governativa troverà rapida legittimazione legale.

Pur nella diversità dei punti di partenza e del momento storico è possibile rintracciare delle analogie tra il dibattito sull’ordinamento istituzionale all’interno dei partiti di oggi e quello animato dai membri dell’Assemblea costituente fra il 1946 e il 1947? E in caso quali differenze riesce a ravvisare?

Premesso che una revisione costituzionale condotta ex art. 138 Cost. non può essere confusa con l’esercizio di un potere costituente, non trovo nessuna analogia fra l’oggi e il passato. Il dibattito attuale è stanco, ripetitivo, mediatico, ideologico e condotto per slogan. Non è all’altezza nemmeno formale della solennità richiesta a un atto costituente. La revisione costituzionale è di iniziativa governativa, ed è stata portata avanti con gravi forzature della prassi parlamentare. Oggi, in generale, l’Italia non si mette in gioco con la stessa drammaticità di allora. Ciò che allora era una necessità nazionale oggi è solo una posta della lotta politica: la lotta di Matteo Renzi contro tutti (che gli è sfuggita di mano).

Che ruolo hanno avuto a suo parere le dinamiche sociali ed economiche, ma anche il contesto geo-politico internazionale e, nello specifico, europeo sulle scelte istituzionali compiute dai membri della Costituente? Analogamente, volendo stabilire una forma di comparazione, in che modo le stesse dinamiche e il contesto internazionale odierni hanno influito sul dibattito sulle riforme alla base dell’attuale legge di revisione del testo costituzionale?

L’opera dei costituenti risente della sconfitta militare e politica dell’Italia fascista, e della volontà di dire addio per sempre alla dittatura. È dunque figlia della Seconda guerra mondiale, ma non della guerra fredda. Infatti la rottura dell’alleanza governativa tra democristiani e comunisti, nel marzo 1947, non mise fine ai lavori della Costituente che proseguirono costruttivamente fino al dicembre. La nostra Costituzione è frutto di una collaborazione fra sinistra e cattolici che si manifesta chiaramente con la scelta istituzionale democratica e con la decisione per un’economia capitalistica a rilevante componente pubblica e a forte responsabilità sociale. Oggi gli assunti di fondo che guidano la revisione costituzionale sono coerenti con le esigenze basiche dell’ideologia neoliberista (nel caso europeo, ordo-liberista), che alla politica chiede essenzialmente capacità di decisione e governabilità, con un netto sacrificio della partecipazione e della rappresentanza.

A suo parere è possibile tracciare un percorso più o meno lineare che partendo dal testo costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948, passando per le varie modifiche organiche tentate o compiute (commissioni bicamerali delle legislature IX, XI e XIII e riforme del 2001 e del 2005), possa pervenire all’attuale ultima riforma approvata dal Parlamento motivandone e chiarendone le caratteristiche della discussione e le formule definite?

Da quando le autentiche forze propulsive della prima repubblica, cioè i partiti, hanno smesso di svolgere il loro ruolo politico, cioè dalla metà degli anni Settanta e soprattutto dopo la morte di Aldo Moro, hanno coltivato la speranza di potere rimettere in carreggiata la politica nazionale riformando non tanto se stesse quanto le istituzioni, alle quali sono state attribuite colpe non loro. Così si è assistito dal 1982 in poi a una serie interminabile di tentativi di riforma – alcuni riusciti, altri falliti o bocciati dai cittadini – tutti orientati con varie strategie al rafforzamento dell’esecutivo e alla ridefinizione, oggetto a sua volta di periodiche revisioni, dei rapporti fra Stato e regioni.

Indro Montanelli in una famosa intervista rilasciata nel corso degli anni Novanta parlò del differente punto di partenza del lavoro dei costituenti tedeschi rispetto a quelli italiani nella redazione della legge fondamentale della Repubblica, sottolineandone la scelta a favore del rafforzamento del ruolo dell’esecutivo come risposta al «caos della Repubblica di Weimar» nel primo caso e, al contrario, la scelta di una forma esasperata di parlamentarismo in grado di condizionare e limitare ogni forma di azione dell’esecutivo quale origine dei mali del sistema istituzionale italiano nel secondo. Quanto ritiene ci sia di vero in questa analisi e quanto ritiene che questa eventuale consapevolezza abbia condizionato il dibattito sulle riforme costituzionali nei decenni sino alle ultime modifiche introdotte?

Il Grundgesetz tedesco non è particolarmente caratterizzato da un forte esecutivo quanto piuttosto da uno scrupoloso senso della legalità costituzionale e della legittimità democratica dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che il valore cardine della Germania postbellica è la stabilità sociale, economica, istituzionale – ottenuta con una combinazione di legge elettorale, federalismo, ordoliberalismo –. D’altra parte il sistema delineato dalla Costituzione italiana non è un «esasperato parlamentarismo» ma un «normale» parlamentarismo, in piena linea con la tradizione politica (italiana e prima ancora sabauda) fino dai tempi dello Statuto Albertino, che pure formalmente non lo prevedeva.

Bicameralismo paritario, Senato delle autonomie ed elettività della Camera alta sono stati già nel 1946-1947 temi oggetto di acceso dibattito tra le forze politiche. Come interpreta la soluzione istituzionale allora definita e come giudica la modifica dell’assetto parlamentare approvata a riguardo nell’ultima riforma rispetto alla scelta iniziale?

L’assetto istituzionale del Parlamento previsto dalla Carta del 1948 è un bicameralismo paritario, ma non perfetto. Il Senato è eletto su base regionale, il che ne differenzia, anche profondamente, la composizione rispetto alla Camera. L’età a cui si accede all’elettorato attivo e passivo è diversa. La durata era settennale (fu modificata nel 1953). Certo, rango e ruolo erano e sono uguali fra Camera e Senato; il che è stato recentemente un grave problema dal punto di vista della possibilità di formare al Senato la medesima maggioranza politica della Camera, e ha quindi creato un frequente deficit di governabilità. Ma il bicameralismo paritario, benché discutibile, non è, di per sé, motivo reale di inefficienza del processo legislativo; la quale, quando c’è, nasce dalla debolezza, dalla divisione e dalla contraddittorietà dei partiti. Oggi, si sarebbe potuto ipotizzare o l’abolizione del Senato (e l’elezione della Camera con il sistema proporzionale e una soglia di sbarramento) o un Senato di garanzia, eletto dai cittadini ma escluso dalla fiducia, incaricato tra l’altro di preparare leggi organiche (codici) in rapporto con la Camera politica. Sarebbero state soluzioni più efficaci, più rispondenti a un’esigenza reale del Paese, e quindi soluzioni anche più comprensibili di quella, pasticciatissima e incoerente, che è stata adottata (come si giustifica il mandato libero dei senatori di fronte alla loro elezione di secondo grado, e al fatto che rappresentano le «istituzioni territoriali» e non la volontà del popolo?).

La revisione del Titolo V adottata con l’ultima riforma del testo costituzionale è stata vista da molti come una sorta di arretramento rispetto al percorso di rafforzamento delle autonomie regionali in Italia, iniziato nel corso degli anni Settanta e consolidato con la riforma costituzionale del 2001, con un ritorno di molte competenze a livello centrale. Possiamo inquadrare le scelte compiute come effetto della consapevolezza del fallimento dell’esperienza regionalista in italia? In tal senso possiamo rintracciare dei punti di contatto nel dibattito istituzionale sulle autonomie locali tra il ceto politico presente in Assemblea costituente e quello attuale?

La riforma del Titolo V attuata dal centrosinistra nel 2001 non ha funzionato. Era un esito della stagione del «federalismo» italiano, che è stato praticato tanto a sinistra quanto a destra e che si è rivelato uno dei molti tentativi, sostanzialmente falliti, di rispondere con l’ingegneria costituzionale alla crisi della politica. L’assetto regionalistico della Repubblica, attivato solo nel 1970, e rafforzato appunto nel 2001, non ha dato buona prova di sé, sia per motivi legati a fenomeni di corruzione sia, assai di più, per l’alta conflittualità che ha contrassegnato, generando molte inefficienze, i rapporti tra Stato e regioni sulle materie concorrenti. Se non è fallita, l’esperienza regionalista in Italia ha certamente avuto un (relativo) successo solo in alcune aree.

Gli inevitabili riflessi della riforma Boschi sul funzionamento e le modalità di elezione degli organi costituzionali di garanzia come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale o le modifiche delle forme di controllo ed emendazione popolare come il referendum sembrerebbero andare nella direzione di uno spostamento dei rapporti di potere a vantaggio dell’esecutivo, favorendo allo stesso tempo un rapporto quasi diretto e trilaterale tra partito di maggioranza alla Camera (tenuto conto degli effetti del disposto del cosiddetto Italicum) esecutivo e corpo elettorale, ricalcando formule e prassi iper-maggioritarie in vigore in altre democrazie occidentali. Non ritiene ciò segni una rottura rispetto al solco tracciato dai costituenti nel 1946/1947? E in che modo crede abbiano inciso su tale evoluzione istituzionale gli avvenimenti degli ultimi trent’anni e in particolare quelli che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica?

Se si dovesse realizzare, il combinarsi reciproco della revisione costituzionale e della nuova legge elettorale super-maggioritaria implicherebbe non solo un significativo spostamento dei rapporti fra i poteri dello Stato, ma una trasformazione qualitativa della repubblica, che da democrazia parlamentare dei partiti diventerebbe una democrazia d’investitura rafforzata. Il sistema politico ruoterebbe infatti intorno al leader del partito uscito vincitore dalle elezioni, anche con percentuali molto basse di suffragi, calcolate per di più su una base elettorale che da parte sua si restringe continuamente. Esecutivo, legislativo, organi di garanzia, perfino la deliberazione dello stato di guerra, sarebbero a disposizione, piena o quasi piena, del vincitore, senza significativi contrappesi istituzionali. La rappresentanza sarebbe quasi interamente sacrificata alla governabilità. I partiti non sarebbero altro che effimere formazioni elettorali al servizio del Capo; quelli soccombenti non avrebbero ruolo politico, e i loro elettori sarebbero collocati in una condizione di forte disuguaglianza rispetto ai vincitori. In generale, la vita politica sarebbe non solo impoverita (si vota per meno istituzioni), ma sarebbe anche irrigidita in una brutale semplificazione plebiscitaria celebrata ogni cinque anni. La complessità e la ricchezza della politica sarebbero votate a scomparire. L’esatto contrario dell’idea di una società aperta, dinamica, dialettica, partecipativa a più livelli, disegnata dai costituenti; di una società, cioè, che non relega la politica in un angolo, e che non la delega al Capo, ma che attraverso i partiti di massa la vive democraticamente come propria dimensione normale. Il combinarsi delle due riforme risulta insomma funzionale all’idea di politica  – meramente neutralizzante e amministrativa, ma all’occorrenza anche emergenziale – del neoliberismo e delle sue varianti europee. E di fatto costituzionalizza e razionalizza le tendenze e le prassi politiche – largamente difformi dallo spirito della Costituzione – già da tempo in atto, nell’assunto che ad esse non vi sia alternativa. Ancora una volta, tutto deve cambiare perché tutto resti com’è.

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L’intervista è stata pubblicata in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», N. 27, 3, 2016.

Cambiare tutto per non cambiare niente

Da quando ha scoperto la possibilità di una vittoria al ballottaggio del M5S, il Pd ha cominciato a trovare qualche capello nella minestra dell’Italicum, dapprima proclamata squisitissima. Per di più la sinistra interna collega il proprio impegno per il Sì al referendum a modifiche della legge elettorale. E senza l’apporto dei bersaniani e dei cuperliani è improbabile che vinca il Sì; e anche le elezioni politiche divengono per il Pd ancora più un terno al lotto.

Per ora il Pd fa melina, com’è successo mercoledì alla Camera. Ma prima o poi dovrà fare una proposta su cui cercare l’accordo di altri partiti, dato che una forzatura del governo con una nuova fiducia pare da escludersi.

Si deve mettere in conto, fin d’ora, che Renzi non può modificare l’Italicum nella sua parte ideologica: non può cioè rovesciare l’assunto anti-parlamentare che il governo si formi nelle urne, e non nelle Camere, grazie a un voto dato al Capo di un partito che non ha la maggioranza dei voti popolari, e che la ottiene, grazie a un artificio, nel Palazzo. Renzi non acconsentirà mai alla logica della democrazia parlamentare, secondo la quale i governi nascono da trattative fra partiti all’interno delle istituzioni rappresentative: lo ha detto molte volte, ed è il caso di credergli, una volta tanto, poiché non è uomo che possa sopportare di dover mediare con altre volontà politiche autonome. Renzi potrà forse concedere qualcosa sulle preferenze, sulle candidature multiple, sui capilista bloccati (tutte cose che interessano molto i politici di professione), ma non concederà nulla sul premio di maggioranza – che questo scatti con o senza ballottaggio, che sia conferito alle liste o alle coalizioni pre-elettorali –. I politici di professione potrebbero accontentarsi, i cittadini no, dato che è proprio per questa via che la democrazia parlamentare si trasforma in premierato, o in «democrazia d’investitura rafforzata», senza contrappesi.

Questa trasformazione della forma di governo nasce dal «combinato disposto» delle due riforme – quella elettorale e quella costituzionale –, che è innegabile perché l’Italicum è già legge: quindi esiste già la chiave, o il grimaldello, che si adatta perfettamente alla serratura, cioè alla Costituzione riformata. E questa infatti prevede l’esclusione del Senato dal circuito della fiducia, così da garantire il governo da ogni sorpresa, mentre intanto gode della maggioranza (fittizia) alla Camera, ridotta a organo di veloce ratifica delle decisioni dell’esecutivo. Del resto, se non vi fosse una forte interferenza fra le due riforme la Corte costituzionale non avrebbe rinviato la pronuncia sulla legge elettorale: il rinvio nasce dal fatto che entrambe le riforme riguardano in modi diversi la medesima materia – il cambiamento della forma di governo – e che una decisione giudiziaria su una di esse interferisce col referendum sull’altra. La Consulta, insomma, smentisce le tesi renziane della estraneità fra le due riforme.

Ma al di là dei tecnicismi, il giudizio politico su queste è che si tratta di uno dei più grandi atti di gattopardismo della storia della Repubblica. La logica che vi è implicita è infatti che tutto deve cambiare (e, appunto, le due riforme, insieme, cambiano la forma di governo) perché tutto resti com’è: ovvero perché permanga, rafforzato, l’attuale dominio dell’esecutivo sul Parlamento, e del Capo sul partito. Un dominio – ora garantito dal Porcellum e in futuro dall’Italicum, comunque questo venga modificato, e dal nuovo ruolo del Senato – che comporta l’affermarsi definitivo del plebiscitarismo e della passività politica dei cittadini. È contro questa prospettiva, non sanabile da modificazioni di dettaglio, che il «ritorno alla Costituzione» del 1948 sarebbe un programma politico alternativo, civico e progressista.

 

 

L’articolo è stato pubblicato in «il Fatto Quotidiano», il 27 settembre 2016.

Il sentiero stretto della sinistra europea

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È vero che alla crisi del neoliberismo e della Ue la cultura politica non sta rispondendo adeguatamente: nulla a che vedere con quanto avvenne in occasione della crisi del paleoliberalismo del 1929, che determinò un salto di fase a destra (le teorizzazioni degli Stati a partito unico, i corporativismi) e a sinistra (l’elaborazione della teoria critica francofortese e parte della stessa riflessione di Gramsci).

Per schematizzare, si può dire che la cultura mainstream ha posizioni conservatrici (all’insegna del «non c’è alternativa» all’euro e alle sue regole) oppure progressiste: secondo queste, si deve andare verso gli Stati Uniti d’Europa, iniziando col democratizzare la Ue con vari strumenti, anche economici – eurobond, politica fiscale unica –, e si deve far rientrare anche la Germania nei parametri dell’euro, oltre che tentare di far comprendere alla socialdemocrazia tedesca che c’è una contraddizione fra euro e democrazia sociale. Ma mentre questa opzione è più che improbabile, la prevalente linea dura verrà prima o poi sconfitta dalle sue contraddizioni interne: ovvero, l’euro finirà di distruggere le società meridionali (il momento felice della Spagna non può essere che una parentesi), che andranno incontro a una polarizzazione tra forze del sistema e forza antisistema.

L’altra fonte di contraddizioni strategiche della Ue, la crisi nel Mediterraneo – in Nord Africa e in Siria –, non è passibile, a sua volta, di soluzione, e vede l’Europa assente in quanto tale, e qualche singolo Stato solo marginalmente coinvolto: anche per questa via dentro i singoli Stati si crea, sul tema dei migranti, della loro accoglienza o del loro respingimento, un’alternativa politica tra forze del sistema e forze antisistema.

Il punto è che le forze antisistema si coagulano intorno a questioni identitarie (nazionalistiche) o populistiche (la lotta anti-casta), e che la sinistra, in questa situazione, non sta trovando un ubi consistam, una chiave coerente di lettura e d’azione.

Dal dibattito in corso sul «manifesto» sembrano emergere due linee: la prima (di Fassina) favorevole a mettere in discussione l’unità dell’euro e al recupero di uno spazio d’azione a livello statale; la seconda (Varoufakis) indica invece come terreno di lotta l’intera Ue, e come strategia il rilancio del conflitto per la democrazia su tutte le scale, dal livello locale a quello statale – non privilegiato –, fino al livello continentale e a quello mondiale, iniziando col «disobbedire» alle regole economiche della moneta unica, senza uscirne.

Al di là della sovrapposizione fra euro e Ue – si può pensare, con Stiglitz e Fassina, di articolare l’unità del primo senza uscire dalla seconda – è abbastanza chiaro che la seconda linea è debole perché espone alle rappresaglia del potere economico europeo (il caso della Grecia lo dimostra); inoltre, è affetta da indeterminatezza perché non individua i soggetti della lotta – la questione del demos –.

Non c’è nulla di nazionalistico o di sovranista nel notare che se è vero che il soggetto del conflitto si costruisce nel conflitto stesso – è, questa, una tesi fondamentale del pensiero dialettico –, è anche vero che la prima casamatta da conquistare, quella in cui c’è ancora la più consistente riserva di potere e di legittimità, e che può divenire soggetto di politica su più vasta scala, è senz’altro lo Stato. La politica su scala continentale ha inizio là dove la politica si condensa significativamente, nello Stato. La sinistra non può aggirare il tema della statualità consolandosi con la narrazione del predominio logico, politico ed economico della globalizzazione – che in realtà, come ha mostrato Saskia Sassen, conserva gli Stati, limitandosi a dare loro compiti neoliberisti, mentre toglie loro la pretesa di autosufficienza nazionale –. Se non passa attraverso la scala statale, la lotta sarà sterile ribellione, frustrante spreco di energie; e non avrà alcuna speranza di giungere a livello continentale o perfino di aspirare a un nuovo assetto delle relazioni internazionali.

Ci si deve servire dello Stato per una politica democratica: la costruzione di un’Europa diversa non può fare a meno di questa leva di potere, che del resto già stanno utilizzando la destra liberista e la destra reazionaria. Dovrà forse la sinistra disinteressarsene? Dovrà forse non vedere che è a livello degli Stati che si sta coagulando la grande dicotomia fra accoglienza e respingimento, che dà il tono alla politica di oggi? Recuperare un rapporto con la società, ripoliticizzare la società in modo critico – che sono gli obiettivi della sinistra – può anche significare pensare a una politica di accoglienza europea, a una politica di pace europea, e al contempo a una politica di superamento parziale e condiviso della moneta unica, nell’ambito della Ue.

Lo spirito del tempo non soffia a favore della sinistra, certo. Ma si può anche navigare controvento. Basta saperlo fare, e volerlo fare; e avere una direzione, una meta, e una realistica tappa intermedia.

L’articolo è stato pubblicato in «il manifesto», il 17 settembre 2016.

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