Madamine, il catalogo del sovranismo è questo

di Stenio Solinas

 

Da cuore della Dottrina dello Stato, luogo centrale del diritto pubblico, bene custodito nella Costituzione repubblicana e nella Carta dell’Onu, la sovranità è oggi divenuta sinonimo di cattivo gusto e di cattiveria, e chi la difende è retrocesso a troglodita. «Disprezzarla, o deriderla» sembra essere l’imperativo del nuovo Dizionario dei luoghi comuni stilato dai moderni quanto involontari Flaubert del «politicamente corretto», il che la dice lunga sullo stato miserabile in cui versa il dibattito culturale, intellettuale e politico in Italia.

Come scrive Carlo Galli in Sovranità (il Mulino, pagg. 154, euro 12), «nella sovranità è implicata la questione del rapporto fra unità e pluralità, fra politica ed economia, fra politica e diritto, fra norma ed eccezione, fra ordine e individuo, fra politica e spazio, fra pace e guerra, fra Stato e federazione, fra identità e cosmopolitismo. Intere biblioteche sono state scritte al riguardo». L’impressione è che ormai non legga più nessuno. In compenso però parlano tutti.

Galli insegna Storia delle dottrine politiche a Bologna, dirige la rivista «Filosofia politica», pubblica per il Mulino, ha scritto libri come Genealogia della politica e Marx eretico: è difficile insomma derubricarlo a troglodita. In questa categoria dell’evoluzione umana andrebbero semmai ricondotti quelli che non si rendono conto che nessun corpo politico è privo di sovranità e che la sovranità è «la capacità di un soggetto collettivo di avere parola», è «capacità di stabilire come stare nel mondo e nella storia». Read more

Pubblicato in «il Giornale.it» il 22 dicembre 2019

Sovranismo significa credere nel conflitto e nella politica, addio al politically correct

di Corrado Ocone

Cominciamo a chiederci cosa sia la sovranità. Per farlo è utile leggere le pagine che al tema ha dedicato Carlo Galli in un agile volume appena uscito per Il Mulino nella collana ” Parole controtempo”: Sovranità

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Il termine “sovranismo”, così come quello di “populismo”, non è stato scelto dai movimenti e partiti politici che sotto di esso sono catalogati. Al contrario, sono stati i loro avversari a coniarli o a riprenderli da un vecchio lessico per usarli nell’attualità. Ciò permette due considerazioni: la prima, che essi rispondevano ad una esigenza avvertita, perché l’uso di una parola si impone quando ce ne è bisogno perché le altre non sono ritenute sufficienti a individuare un determinato ambito semantico; la seconda, che questa esigenza era più di tipo morale o politico che non conoscitivo.

È indubbio infatti che i due termini sono stati coniati e poi usati più con l’intento di criticare, aborrire, prendere le distanze, dispregiare, che non con quello di descrivere per capire. L’uso performativo ha superato sin dall’inizio e di gran lunga quello descrittivo. Chi domina il linguaggio, teoricamente dovrebbe dominare le cose. Eppure, in questo caso, soprattutto per quel che concerne il termine “sovranismo”, i fatti non stanno proprio così. Si può infatti dire che, mentre raramente i populisti accettano di essere chiamati tali, i sovranisti hanno assunto ad un certo punto il termine per autodefinirsi, lo hanno volto in positivo.

Ma perché ciò è avvenuto o sta avvenendo? Cosa ha di più o di meno questo termine rispetto ad esempio a quello classico di “nazionalismo”? Andiamo per gradi. E cominciamo a chiederci cosa sia la sovranità. Per farlo è utile leggere le pagine che al tema ha dedicato Carlo Galli in un agile volume appena uscito per Il Mulino nella collana ” Parole controtempo”: Sovranità, Il Mulino, pagine 154, euro 12.

Galli è uno studioso serio e accreditato e da un anno, dopo un’esperienza parlamentare prima nel PD e poi in SEL, è tornato all’insegnamento di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna. Proprio il pedigree accademico e la solida cultura fanno sì che Galli apra queste pagine quasi con un moto di stupore: quello che non può non cogliere lo studioso quando pone orecchio al dibattito pubblico attuale. Come è possibile, si chiede, che la sovranità sia derisa e disprezzata? “Nel nuovo Dizionario deiluoghi comuni, il ‘ politicamente corretto’ delle élite mainstream, sembra esserci – scrive- questo imperativo.

Chi fa un uso positivo di quello che era il cuore della dottrina dello Stato, luogo centrale del diritto pubblico… è ormai considerato un maleducato, un troglodita: è compatito con un sorriso di scherno… Sovranità è passatismo o tribalismo, nostalgia o razzismo: o goffaggine o crimine. E ‘ sovranismo’ è sinonimo di ‘ cattiveria’, di volontà malvagia”.

Ma cosa è propriamente la sovranità? Sovranità è il potere sommo e quindi assoluto ( cioè sciolto dalla subordinazione ad altri poteri che pure esistono), indipendente da ogni altro potere, originario, autonomo, legge a sé stesso. Essa, in età moderna, coincide con lo Stato. La sovranità va insieme, non può disgiungersi, dal suo contrario, la rivoluzione, che la sovverte e crea nuove sovranità quando le vecchie non sono più in grado di adempiere al proprio compito.

“Sovranità e conflitto vanno insieme: e infatti i nemici ( ad esempio, neoliberisti) della sovranità avversano parimenti anche il conflitto, e affermano che togliendo quella si elimina anche questo”. È questa la vera posta in gioco: chi vuole superare la sovranità statale sogna un mondo in qualche modo “conciliato”, senza più conflitto e senza più politica.

Bisogna cioè ammettere che anche il maggiore dei poteri è “abitato da uno squilibrio: forse controllabile, certo non del tutto cancellabile. E chi per rifiutarne il lato conturbante nega la sovranità per sostituirla con altre funzioni d’ordine – il “dolce commercio”, il diritto e i diritti, la fratellanza universale, la tecnologia globale, la governance privatistica – si vede piovere addosso, inaspettatamente, la violenza e l’eccezione, il disordine e la paura”.

Un discorso, a mio avviso, ineccepibile, a cui farei una semplice chiosa: gli avversari della sovranità, e quindi anche del conflitto, non sono solo i neoliberisti ma anche i fautori del “politicamente corretto”, cioè i liberal. Anzi, può dirsi che la classe dirigente globale che ha avuto in mano per buona parte le redini del mondo negli ultimi decenni, diciamo dalla caduta del muro di Berlino in poi, si è sviluppata dalla “convergenza parallela” della sinistra liberal e della destra neoliberista, entrambe nemiche della sovranità in nome, l’una, della neutralità del mercato e, l’altra, della corretta etica, casomai sanzionata per legge, dei comportamenti ( inutile dire che la sinistra realista e la destra conservatrice di un tempo erano altra cosa).

“Quindi – scrive Galli-, sovranità come volontà della nazione non è necessariamente nazionalismo: è autonomia di quella volontà, anche la più pacifica e dialogante; e la sovranità come creazione della distinzione fra interno ed esterno non è necessariamente xenofobia, ma è volontà di delimitare uno spazio su cui il soggetto politico abbia diretto potere e responsabilità”.

Dopo aver compiuto un percorso attraverso la storia della sovranità e un altro attraverso la ( storia della) filosofia, Galli si sofferma sull’oggi e in particolare sull’affacciarsi sulla scena politica dei partiti e dei movimenti cosiddetti “sovranisti”. “Benché sia un prodotto del razionalismo moderno, la sovranità – scrive Galli- è oggi messa sotto accusa da due delle principali declinazioni di questo”.

Si tratta, appunto, del razionalismo giuridico e di quello utilitaristico- economico. Ovviamente Galli, che è uomo di sinistra sinistra, ha forse una sorta di pregiudizio per il profitto in sé. Fatto sta che anche un liberale come chi scrive può facilmente sottoscrivere la critica ad un liberismo sovranazionale che impone le proprie regole alla politica.

Galli nella conclusione dice con parole molto chiare ciò che è in gioco: il futuro stesso della politica. Credere nella sovranità significa credere nel conflitto e nella politica. Quanto al sovranismo, di esso se ne può tentare una definizione, secondo me, abbastanza avalutativa: indica la richiesta di sovranità da parte di chi l’ha persa ( o crede diaverla persa o stare per perderla).

In ogni caso, non si può non concordare con la conclusione di Carlo Galli: il “sovranismo” va preso molto sul serio perché pone un problema, quello della politica, e quindi della partecipazione dei cittadini alla vita democratica, che non può essere eluso. Né, si può aggiungere, neutralizzato con prassi sovranazionali e omologanti. Che poi i “sovranisti” non riescano spesso a tradurre in qualcosa di serio e duraturo questo bisogno di politica e democrazia, che in quanto tale non è né di destra e né di sinistra, beh questo è un altro discorso.

Pubblicato in «IL DUBBIO» il 17 luglio 2019

Sovranità nazionale, pace e giustizia sociale

di Alessandro Somma

Alcune recenti pubblicazioni indicano l’affiorare di un filone letterario in controtendenza rispetto alla vulgata per cui la sovranità costituisce un concetto “odioso perché presuppone uno stare sopra” e dunque implica “subordinazione”[1]. Non è ancora un filone dai tratti particolarmente definiti, e tuttavia l’indicazione che se ne ricava è sufficientemente univoca: nella storia recente della sovranità si possono indubbiamente registrare momenti bui, ma essa resta pur sempre il motore dei moti emancipatori fondativi del nostro stare assieme come società. Si colloca su questo terreno l’analisi di coloro i quali, dai punti di vista più disparati, salutano con favore il ritorno dello Stato e “un recupero non nazionalista della dimensione nazionale”[2], e a monte della sovranità popolare[3]. E che nel contempo sottolineano le radicali differenze tra la loro prospettiva e quella di chi invoca confini al solo fine di promuovere identità violente e premoderne[4].

Ad accrescere questa produzione si è aggiunta l’ultimo libro di Carlo Galli[5]. Questi non si sofferma tanto sulle ragioni per cui la sovranità debba essere recuperata, il che presupporrebbe la possibilità di farne a meno, bensì sui motivi per cui essa costituisce l’imprescindibile “forma politica di una società, che grazie a essa si costituisce e agisce” (29). Il tutto documentato a partire da una panoramica succinta ma ricca e ampia sullo sviluppo storico e i fondamenti di ordine filosofico della sovranità, impiegata come sfondo per riflettere sui pericoli e le potenzialità riconducibili a quanto viene volgarmente descritto in termini di momento sovranista. E per farlo rifuggendo dai facili entusiasmi tipici di certa letteratura critica con il cosmopolitismo, ma non per questo aliena dalle semplificazioni che caratterizzano l’argomentare dei suoi fautori.

Storicizzare la sovranità

Prima di entrare nel vivo delle riflessioni di Galli, occorre soffermarsi su un invito ricorrente nella sua opera, ma che in questo caso è particolarmente amplificato: l’invito a storicizzare l’oggetto di studio. La sovranità è infatti “originariamente esposta alla storia” (12), quindi caratterizzata da “insuperabile contingenza” (21) e “mai uguale a se stessa” (148).

Se così stanno le cose, occorre riconoscere che vi sono state epoche in cui la sovranità è stata fine a se stessa, ha cioè alimentato l’autosufficienza del potere politico e legittimato il suo arbitrio e le sue violenze: epoche in cui si mostrava nella sua essenza di dispositivo destinato a impedire l’emancipazione individuale e sociale, motivo per cui era evidentemente opportuno criticarla e combatterla (149). Nel tempo le cose sono però cambiate: la sovranità è divenuta “potere impersonale di tutti” (29), e anche in questa veste un potere limitato al fine di evitare che per il suo tramite sia avallata una sorta di dittatura della maggioranza (26 ss.).

Chi invoca sovranità esprime pertanto una “volontà di autogoverno” e lo fa per invocare “protezione fisica e promozione sociale della persona”, per combattere la “sovranità del mercato” (70). E in particolare affida alla sovranità il compito di ripoliticizzare il mercato, di ripristinare i meccanismi deputati a consentire lo sviluppo del conflitto redistributivo, così come la traduzione del suo esito in comportamenti dei pubblici poteri. La sovranità è insomma lo strumento da attivare per “difendere o restaurare la democrazia” (125), in un’epoca in cui essa viene a tal punto ridimensionata dall’ortodossia neoliberale, da evidenziare il rischio concreto di una sua imminente cancellazione.

Bisogno di protezione

Ciò detto è indubbio che l’attuale richiesta di sovranità ben può essere motivata dalla volontà di alimentare la sua “valenza oppressiva”, piuttosto che la sua carica “emancipativa” (125). Lo stesso era accaduto al principio del Novecento, quando un secolo di invadenza dei mercati aveva messo a rischio la sopravvivenza delle società, e queste avevano reagito chiedendo la protezione dello Stato: in alcuni casi assicurata nel rispetto del meccanismo democratico, come con il New Dealstatunitense, e in altri in combinazione con la soppressione di quel meccanismo, come accadde con i regimi fascisti[6]. Peraltro l’esito della richiesta di sovranità non è scontato: dipende dalla capacità della politica di governare in senso democratico il processo di rinazionalizzazione opposto all’invadenza dei mercati e ai loro minacciosi sconfinamenti.

Quanto sta avvenendo non testimonia certo una simile capacità e anzi mette in luce la volontà di interpretare la domanda di sovranità come richiesta di presidiare identità “tribali-naturali” (26), come dispositivo volto a produrre e alimentare “comunità compatte” in linea con il modo nazionalista e razzista di “organizzare la sfera pubblica” (17). Se peraltro sono queste le risposte alla domanda di protezione, essa è destinata a rimanere insoddisfatta: i valori premoderni sono buoni solo a sterilizzare i conflitti provocati dalla modernità neoliberale, a occultarli nella loro essenza di prodotti ineliminabili del funzionamento del mercato. Di qui la conclusione lapidaria di Galli, secondo cui “l’anticapitalismo di destra è un’opzione soltanto teorica” (139), e la relativa rivendicazione di sovranità un’istanza facilmente “piegata alla conservazione dello status quo” (149).

Un riscontro esemplare di questa conclusione lo ricaviamo dalle vicende che oramai da qualche tempo caratterizzano i Paesi dell’est europeo. Lì la richiesta di dimensione sovrana è particolarmente pressante in quanto l’ingresso nell’Unione ha comportato l’adesione all’ortodossia neoliberale senza la mediazione degli elementi di democrazia economica che, sebbene in misura sempre più ridotta, caratterizzano le costituzioni dei Paesi fondatori della costruzione europea. Di qui la richiesta di protezione a cui si è però risposto con un sovranismo violento e identitario, utile a individuare nemici esterni da combattere in luogo dell’ortodossia neoliberale. Utile a produrre una cortina fumogena chiamata a occultare la reale natura della minaccia alla sopravvivenza della società, simboleggiata dai mitici parametri di Maastricht che non a caso non sono mai stati messi in discussione.

Se peraltro si vogliono evitare simili camuffamenti, occorre non cadere nell’errore di mortificare la richiesta di protezione che le società rivolgono agli Stati, etichettandola come mera espressione di sovranismo reazionario o di xenofobia (138). Occorre cioè non consegnare alle destre le masse intente a chiedere ciò per cui la sinistra si è storicamente battuta: “un futuro da cittadini e non da consumatori indebitati” (148). È questa la funzione che rinvia alla “normalità” della sovranità: strumento di “lotta di larghe fasce popolari contro i mercati” (126), di “reazione a un’economia che si è fatta pericolosa e portatrice di crisi” (128), e in tal senso fonte di “protezione pubblica delle vite e dei beni privati” (17).

Cosmopolitismo e mercati sconfinati

Se così stanno le cose, è lecito dubitare seriamente dell’attuale capacità della politica di governare in senso democratico la richiesta di protezione che le società rivolgono agli Stati. Non tanto perché, riconosciuti i termini della quesitone, non si riesce a sviluppare una progettualità coerente: il problema è a monte e riguarda un giudizio triviale su quanto si reputa esprimere la sovranità. Questa è diffusamente considerata, sintetizza efficacemente Galli, “cosa da poveri di spirito” in “preda di superstiziose paure”, sinonimo di “prigionia, logiche confinarie e identitarie, chiusura morale e intellettuale, razzismo, xenofobia”. Tutto l’opposto di quanto si reputa costituire l’essenza del cosmopolitismo, concetto riassuntivo di tutto ciò che si riconduce al “bene” (7 s.).

Intendiamoci, simili giudizi non si rinvengono solo nel discorso pubblico più o meno divulgativo, ma attraversano anche la riflessione scientifica. Tra i cultori del diritto, ad esempio, è diffuso l’orientamento secondo cui la sovranità è oramai “una categoria antigiuridica” in quanto rinvia a scenari caratterizzati dalla “assenza di limiti e di regole”. Motivo per cui occorrerebbe liberarsene e affidarsi ad altre costruzioni per rifondare le strategie di emancipazione individuale e sociale: prima fra tutte la tutela internazionale dei diritti[7].

I fautori di un sistema di tutela dei diritti fondamentali radicato fuori della cornice statuale trascurano un dato essenziale: che i “diritti senza sovrano” sono “eterei”, o in alternativa efficaci solo nella misura in cui la loro implementazione viene in ultima analisi assicurata da entità direttamente o indirettamente riconducibili al perimetro della statualità[8]. E le cose non cambiano considerando che lo spazio giuridico globale è oramai affollato di entità pubbliche e private la cui interazione è governata da regole, oltre che da istituzioni chiamate a farle rispettare, idoneo pertanto a renderlo efficace[9]. Anche se una “pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie” ha alimentato ma solo in parte soddisfatto “un innegabile bisogno di diritto e di diritti”, i quali riprendono e ampliano il catalogo delle posizioni rivendicate dai “soggetti storici della grande trasformazione moderna”[10].

Insomma, il ruolo delle entità internazionali e sovranazionali nella difesa dei diritti non deve essere minimizzato, e tuttavia nemmeno si può ritenere che quelle entità rappresentino un efficace sostituto dell’azione a livello statuale. È quanto sottolinea anche Galli, stigmatizzando il “cortocircuito fra diritti umani e diritto internazionale che può scavalcare la sovranità degli Stati” (108), e ricordando come la riduzione dello Stato a “soggetto non-sovrano” sia nell’interesse dei mercati e della loro volontà di rappresentarsi come “asse attorno a cui ruota la politica” (111).

La federazione interstatuale di Hayek

Che il cosmopolitismo sia l’alimento primo dei mercati, lo ricaviamo in modo inequivocabile dalle parole di un padre dell’ortodossia neoliberale: Friedrich von Hayek. Questi muove da una considerazione fondativa del pensiero cosmopolita, sulla quale torneremo tra breve, ovvero che il superamento della sovranità nazionale costituisce una condizione imprescindibile per promuovere la causa della pace. Il superamento non doveva però portare solamente a un’unione politica, bensì anche e soprattutto a un’unione economica, entrambe da realizzare nell’ambito di una “federazione interstatale”[11]. Compito di questa costruzione era consentire la libera circolazione dei fattori produttivi, celebrata in quanto capace di spoliticizzare il mercato: di vanificare l’azione dei pubblici poteri volta e influenzare la formazione dei prezzi e a ostacolare con ciò lo sviluppo del mercato autoregolato.

Hayek celebra insomma il vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un mercato unico, che impedisce agli Stati di promuovere forme di emancipazione diverse da quelle cui prelude l’equazione per cui si identifica l’inclusione sociale con l’inclusione nel mercato: “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”.

Più precisamente, la federazione interstatuale deve ridurre “le relazioni economiche internazionali” a “relazioni fra individui” e non anche “fra intere nazioni”, consentendo così di vanificare il conflitto redistributivo in quanto motore di scelte non allineate all’ortodossia neoliberale. Invero “il popolo di un qualsiasi Paese può essere facilmente persuaso a fare un sacrificio per sostenere quella che considera come la propria industria o la propria agricoltura, o per fare in modo che nel suo Paese nessuno scenda sotto un certo livello”. La stessa solidarietà non si attiva però tra popoli di Paesi diversi: “chi potrebbe immaginarsi che esista qualche comune ideale di giustizia distributiva tale da indurre il pescatore norvegese a rinunciare alla prospettiva di un miglioramento economico per aiutare il suo compagno portoghese, o l’operaio olandese a pagare di più per la sua bicicletta allo scopo di aiutare il meccanico di Coventry, o il contadino francese a pagare più tasse per sostenere l’industrializzazione dell’Italia?”[12].

E il cosmopolitismo non si limita a produrre un rifiuto delle politiche redistributive dal punto di vista morale. Consente anche di rimpiazzare i conflitti tra Stati nazionali con una sana “lotta per la concorrenza”, e soprattutto la lotta di classe con il conflitto tra poveri: “per il lavoratore che vive in un Paese povero, la richiesta fatta da un suo collega più fortunato di essere protetto contro la concorrenza a salari bassi da una legislazione di salari minimi, si suppone nel suo interesse, è spesso niente più che un mezzo per privarlo della sua sola occasione di migliorare la propria condizione: quella di superare gli svantaggi che gli sono naturali, lavorando a salari più bassi rispetto ai suoi compagni degli altri Paesi”[13].

Sul popolo europeo

Soffermiamoci ancora per un momento sul ruolo del cosmopolitismo come contributo alla costruzione di un ambiente istituzionale entro cui non vi sono legami solidaristici capaci di ispirare comportamenti diversi da quelli relativi al libero incontro di domanda e offerta: un ambiente nel quale l’individuo è isolato di fronte al mercato, e per questo condannato a reagire in modo automatico ai suoi stimoli. Proprio questo aspetto viene messo in evidenza dalle riflessioni sulla sovranità che Galli esalta nella sua essenza di “espressione della politicità di un popolo” (102): comunità in tal modo definita a partire da vicende radicalmente alternative a quelle cui rinviano i valori premoderni. Il popolo si identifica infatti a partire dalla condivisione di un “progetto comune in un determinato territorio”, o più precisamente dal consenso attorno ai modi di “distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio”, a prescindere dalla riconduzione al medesimo “gruppo etnico o religioso”[14].

Su questo nodo scivolano molti dei tentativi di legittimare l’Unione europea in quanto comunità che, almeno in prospettiva, può aspirare a recuperare la sua dimensione sociale. Tentativi che, per dirla con Zygmunt Bauman, sono chiamati a fare i conti con la circostanza per cui “lo stimolo all’integrazione politica, e il fattore necessario affinché progredisca, è la visione condivisa di una missione collettiva”[15]. Certo, si può aggirare il problema sostenendo che la comunità politica può emergere in quanto sviluppo naturale di una comunità nata a partire da vicende di ordine economico: in linea con la celeberrima vulgata neoliberale per cui l’affermazione di un ordine capitalista finisce prima o poi per produrre un ordine democratico. È peraltro gioco facile ribattere che non è lecito “sperare che i popoli degli Stati… adattandosi alle leggi del mercato si uniranno grazie alla giustizia del mercato in un popolo ideale”[16].

Non resta dunque che riconoscere come la costruzione europea, in quanto dispositivo neoliberale, sia concepita per impedirle di divenire il catalizzatore a livello sovranazionale dei medesimi meccanismi solidaristici combattuti a livello nazionale. E se anche si intensificasse l’integrazione, essa non potrebbe mai rendere un eventuale popolo europeo capace di esprimere la sua politicità: questo piacerà forse ai cosmopoliti nemici della sovranità, ma non porterà una goccia d’acqua al mulino dell’Europa sociale.

Pax europea

Le riflessioni dedicate da Galli alla sovranità incrociano incidentalmente un motivo ricorrente nella retorica cosmopolita: l’osservazione che l’Europa unita ha assicurato settant’anni di pace. La storia ci racconta che “non è stata l’Ue a evitare la guerra in Europa, ma l’esito stesso della seconda guerra mondiale” (130), ovvero la guerra fredda.

Non si tratta qui di celebrare le virtù di un confronto politica e militare durato per decenni, bensì di mettere a fuoco le conseguenze che la sua fine ha prodotto sul piano economico. Fino a quando è esistito il blocco sovietico, il blocco occidentale era stimolato a esibire un capitalismo dal volto umano, capace di assicurare un accettabile equilibrio con la democrazia e con ciò di non incrementare l’attrattiva del socialismo. Solo dopo il crollo del Muro, infatti, l’ortodossia neoliberale si è mostrata in tutta la sua virulenza, determinando il rovesciamento del compromesso keynesiano che pure poteva trovare qualche appiglio nei Trattati di Roma: è il senso del percorso che ha condotto alla moneta unica e che è stato introdotto dall’attuazione del principio della libera circolazione dei capitali, fino ad allora avversato in omaggio al cosiddetto compromesso di Bretton Woods[17].

Altrimenti detto, la pace è stata assicurata dalla giustizia sociale, così come è stata la negazione di quest’ultima e non la sovranità nazionale, ad aver provocato la seconda guerra mondiale. Proprio questo si è invece detto alla sua conclusione, quando si è discusso della tendenza invincibile dello Stato a provocare conflitti bellici e a vivere la pace unicamente come momento preparatorio di quei conflitti: come si è scritto con particolare veemenza nel celeberrimo Manifesto di Ventotene[18].

Ora, che nel corso della prima metà del Novecento lo Stato nazionale sia divenuto un’entità invadente, tanto da insidiare la sopravvivenza della società, è un fatto difficilmente contestabile. Sappiamo peraltro che l’esaltazione della dimensione statuale e nazionale è stata la reazione a una fase storica caratterizzata da processi di denazionalizzazione anch’essi decisamente minacciosi per la sopravvivenza della società. Così come sappiamo che la costruzione europea si è nel tempo trasformata in un dispositivo programmato per vanificare qualsiasi tentativo di mutare la sua ispirazione neoliberale. Il tutto, sia detto per inciso, utilizzando ricette condivise dal Manifesto di Ventotene, che affida anch’esso alla dimensione sovranazionale il compito di disinnescare il conflitto redistributivo[19].

Se così stanno le cose, stupisce quantomeno l’insistenza con cui i fautori del cosmopolitismo continuano a sostenere le ragioni di una costruzione europea, che a questo punto da strumento per la promozione di valori positivi si trasforma in fine a se stesso: esattamente come lo Stato nazionale nella lettura di chi avversa la sovranità. Di qui la conclusione, formulata da Galli a corredo dell’osservazione secondo cui l’europeismo costituisce a ben vedere una forma di ipersovranismo, che gli europeisti sono “ancora più sovranisti degli odierni sovranisti” (143).

NOTE

[1] G. Ferrara, La sovranità popolare e le sue forme, in S. Labriola (a cura di), Valori e principi del regime repubblicano, vol. 1, Roma e Bari, 2006, p. 251.

[2] C. Formenti, Il socialismo è morto viva il socialismo. Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Milano, 2019, p. 186.

[3] Th. Fazi e W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Milano, 2018 e A. Somma, Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale, Roma, 2018.

[4] Ad es. D. Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata (2018), Torino, 2019 e Y. Tamir, Why Nationalism, Princeton, 2019.

[5] C. Galli, Sovranità, Bologna, 2019 (i numeri fra parentesi nel testo si riferiscono alle pagine dell’opera). V. anche Id., Apologia della sovranità, in «Limes», 2019, 2, p. 159 ss. e Id., Senza sovranità non c’è politica, in «Corriere della Sera» del 28 aprile 2019, entrambi ripubblicati in https://ragionipolitiche.wordpress.com.

[6] La vicenda, cui si riferisce anche Galli (127), è quella narrata da K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974, pp. 56 e 167 ss.

[7] L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.

[8] Così G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Roma e Bari, 2013, p. 58 ss.

[9] S. Cassese, Chi governa il mondo? (2012), Bologna, 2013.

[10] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma e Bari, 2012, p. 6.

[11] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in «New Commonwealth Quarterly», 5, 1939, p. 131 ss.

[12] F. von Hayek, La via della schiavitù (1944), Soveria Mannelli, 2011, p. 269 ss.

[13] Ivi, p. 275.

[14] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-onli….

[15] Z. Bauman, Oltre le nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà (2012), Roma e Bari, 2019, p. 17.

[16] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 204.

[17] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, 2016, p. 70 ss.

[18] A. Spinelli e E. Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, in E. Rossi et al., Ventotene. Un manifesto per il futuro, Roma, 2014, p. 21 s.

[19] Ivi, pp. 23 e 29 ss. V. anche A. Spinelli, Il Manifesto dei federalisti europei, Genova e Ventotene, 2016, pp. 70 ss. con l’invito ad attuare la libera circolazione dei capitali.

Pubblicato in «Il Rasoio di Occam – MicroMega» il 5 giugno 2019

Carlo Galli, “Sovranità”

di Giuseppe Cascione

Questo agile volume di Carlo Galli, come ovviamente il titolo suggerisce, cerca di fare il punto su una possibile reinterpretazione moderna del concetto di Sovranità.
La cosa, oltre a non essere affatto semplice, risulta tuttavia assolutamente necessaria in questo momento storico, in cui ci sembra di svegliarci improvvisamente da un sonno durato alcuni decenni e ritrovarci a dover fare i conti con una categoria considerata ormai obsoleta (al suo meglio), se non addirittura foriera di catastrofi politiche (al suo peggio).
Bisogna subito avvertire che il tentativo di sintetizzare in modo pressocchè esaustivo le tematiche connesse alla sovranità in modo così succinto e parimenti chiaro poteva essere portato a termine solo da Carlo Galli, il quale da sempre e con coerenza insiste su temi che sembravano passati di moda o di interesse tra i moderni politologi.
Il volume è articolato in quattro capitoli, attraverso i quali Galli parte da una definizione di massima della categoria di sovranità, per articolarla e verificarla attraverso prima un taglio storico e poi attraverso una riflessione di natura filosofica, per arrivare infine a confrontarsi con la inevitabile attualizzazione del tema. Sì, perchè, secondo Galli, non si riesce oggi a parlare più di ‘sovranità’ senza essere tacciati di ‘sovranismo’, categoria a lungo demonizzata dalla sinistra politica e fatta propria, al contrario, da una destra politica che si fa ogni giorno più attiva.
Diciamo subito che, per Galli, le due definizioni, sovranismo e sovranità, non solo sono differenti, ma risultano decisamente antitetiche, perchè i sovranisti sono, al pari dei neo-liberisti, tra i critici più radicali del concetto di sovranità, del quale declinano un aspetto solo, quello dell’illusione del controllo totale, che produce un ordine indiscutibile, assoluto e risolto. I neo-liberisti (categoria di intellettuali e politici contro cui Galli si è già precedente espresso in modo estremamente critico, in particolare gli ‘ordoliberalisti’ tedeschi), dal canto loro, tendono a dare per acquisita una dimensione impolitica dell’ordine globale e pertanto non fanno che considerare oramai inattuale e controproducente una prospettiva che valorizzi l’idea di sovranità. In fondo, sostiene Galli, se la moneta è oramai in mano all’ordoliberalismo europeo, il fisco diventa l’unico elemento sovrano (vedi la lettura di E.H. Kantorowicz dell’emblema di Alciato denominato Christus Fiscus) che, seppur imbrigliato nei vincoli transnazionali attraverso i trattati da Maastricht in avanti, rappresenti una posta in gioco ‘emblematicamente’ ripoliticizzabile.
Sarebbe inutile, a mio avviso, sintetizzare puntualmente ogni passaggio del libro di Galli, che certamente va letto in prima battuta per averne una rappresentazione ben più corretta di quella che potrebbe essere fornita in questa sede. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare almeno tre fondamentali aspetti.
Il primo, è quello relativo all’articolazione che Galli presuppone alla riflessione sulla sovranità, cioè la tripartizione tra Punto (individuo), Figura (Stato) e Sfera (società). Sono proprio le interazioni tra questi due elementi, che per Galli sono sempre relazioni difficili, critiche e “sconnesse”, che producono il mondo che conosciamo, a partire dall’origine degli Stati nazionali europei. Di questi tre elementi, quello che personalmente mi interessa di più è il secondo, la Figura, non solo per la sua oggettiva importanza per il tema oggetto del libro, ma perchè rinvia direttamente al problema della forma politica come visibilizzazione dell’ordine costitutivo dello Stato moderno. Ricordiamo che Galli fu il curatore (1986) di un’opera di Carl Schmitt intitolata Cattolicesimo romano e forma politica, in cui è centrale proprio il tema della Rappresentazione, in un certo senso opposto a quello della Rappresentanza. Un richiamo quasi iconico all’essenza della sovranità, che non ha solo il compito di declinare il proprio mandato (quasi privatistico) di rappresentanza, ma al contrario si pone un compito molto ambizioso, quello cioè di sintetizzare la molteplicità che sempre un ordine politico costituisce in un’unica Rappresentazione.
La sconnessione ineludibile tra questi tre elementi ci conduce al secondo aspetto, che è quello del carattere critico della sovranità. Essa, dice Galli, si pone contemporaneamente come tentativo di fare ordine e come elemento perturbante, che attraverso la decisione sovrana, riproduce all’infinito la sconnessione tra i suoi elementi fondativi. Questo movimento si può sintetizzare, a mio modo di vedere, in una espressione di eco gramsciana, cioè che la Sovranità è sempre crisi. La crisi è la sua cifra costitutiva ed insieme inespungibile, che al contempo però, attraverso un’interpretazione positiva di stampo hegeliano, produce quello che noi siamo, in quanto europei moderni.
Il terzo aspetto è, forse, il più importante, ed attiene al rapporto tra Sovranità e Politica, cioè concetto di politico (Begriff des Politischen). A chi scrive si rivela, a tratti, la totale coincidenza tra questi due concetti: non è pensabile una sovranità de-politicizzata (chè sarebbe l’orizzonte economico neoliberale che pretende di globalizzare, sradicandole, le nostre esistenze), così come non è possibile separare il concetto di politico dal suo incarnarsi nella decisione sovrana.
Nel finale, Galli si immerge nella polemica politica contemporanea e segna alcuni punti fortemente discontinui dal mainstream politologico. Tra questi vi è nell’ultimo capitolo, in continuità con alcuni recenti scritti dell’autore sull’argomento, una critica durissima al modo in cui l’Unione Europea produce la propria presunta egemonia politica, totalmente schiacciata sull’interesse sovrano dell’ordoliberalismo tedesco. Dice Galli, “l’ordoliberalismo tedesco fino dai primi anni del dopoguerra ha stabilizzato la Germania, ma oggi attraverso l’euro destabilizza le società europee e i sistemi politici europei […] il nomos, l’euro, produce anomia, ma non perchè esprima sovranamente l’esistenza di un corpo politico reale con le sue contraddizioni interne, ma perchè è l’esito di patti che hanno lasciato intatti i rapporti di potere fra i contraenti (gli Stati).” (pp.134-135)
Alla vigilia delle elezioni europee più sofferte e ‘politiche’ che si siano conosciute, questo mi sembra un passaggio non da poco.

Pubblicato in «Iconocrazia», 17 maggio 2019

Quando la sovranità (dello Stato) coincide con la democrazia. Un libro controcorrente di Carlo Galli

di Davide Ragnolini

Perché lo Stato sovrano? Il sistema di Stati – sappiamo almeno dallo studio di Hendrik Spruyt, The Sovereign State and Its Competitors (Cambridge University Press, Princeton 1994) – è risultato da una selezione storica tra competitivi modelli di unità politico-territoriali tra loro diverse: leghe cittadine e imperi erano candidati altrettanto legittimi ad un’esistenza stabile e continuativa nel mondo politico internazionale, in modo concorrenziale allo Stato sovrano. Secondo Spruyt lo Stato sovrano (tardo-medioevale e moderno) si è rivelato essere l’unità politica più adeguata ad operare in una condizione di anarchia internazionale esterna, quindi a garantire un ordine gerarchico al suo interno. Ma perché lo Stato sovrano ancora oggi, nella cosiddetta post-modernità? E perché in Europa, per giunta?

“Lo Stato sovrano e i suoi concorrenti” potrebbe essere un sottotitolo adeguato al pamphlet saggistico del prof. Carlo Galli appena pubblicato e intitolato appunto Sovranità (il Mulino, Bologna 2019). Il contesto del saggio è occasionato, come rivela l’autore, dalla “diatriba tra ‘sovranisti’ e anti-sovranisti” (p. 28), ma nella chiara consapevolezza, peculiare ad uno storico delle dottrine politiche, che il concetto di sovranità sia troppo importante per essere relegato ad un’accidentale, o strumentale, polemica giornalistica. Perché è questa la condizione che si presenta nel dibattito politico italiano ed europeo oggi: “chi fa un uso positivo di quello che era il cuore della dottrina dello Stato, luogo centrale del diritto pubblico, bene custodito nella Costituzione repubblicana e nella Carta dell’Onu, è ormai considerato un maleducato, un troglodita” (p. 7).

La sovranità, insomma, da sofisticato prodotto giuridico ed intellettuale della tradizione politica occidentale, si è trasformata in una “caricatura polemica” (p. 8), in cui statalismo e nazionalismo, nazionalismo e razzismo, e ancora razzismo e xenofobia, sono non di rado tra loro acriticamente equiparati (cfr. pp. 17, 25, 38, 140). Sia i significati polemici dell’anti-sovranismo odierno, che quelli positivi di ‘sovranismo’, sono da intendere in un senso così plurale da alimentare una confusione concettuale di fondo: “la sovranità è interpretabile tanto da destra quanto da sinistra, così come la volontà di superarla è tanto del capitalismo neoliberista quanto dei mondialisti moltitudinari” (p. 138). Ritrovare il bandolo della matassa in questa stratificazione di categorie polemiche è, soprattutto oggi, il compito a cui una breve storia del concetto di sovranità può forse adempiere.

Il saggio si articola in quattro parti (I. Definizione; II. Storia; III. Filosofia; IV. Oggi), nelle quali viene offerta una mappa dei problemi teorici e politici che inquadrano il dibattito giornalistico presente nel più ampio contesto di una storia delle idee politiche. La nozione di sovranità, così monolitica per le fluide sensibilità post-moderne, rappresenta secondo l’autore “l’espressione politicamente più alta” della modernità (p. 14), e al contempo il “principio di pluralismo internazionale” (p. 26) attorno a cui si è forgiata l’esistenza politica dei diversi popoli. La sovranità, ancora, è il convitato di pietra di un mondo in cui la sovraordinazione politica su ogni settore di vita associata (economica, tecnologica, privata), l’autonomia decisionale di un soggetto collettivo, il suo monopolio della forza e le sue capacità di conservazione giuridica nel tempo, sono ormai qualità reputate anacronistiche nel “mare magnum” globale (espressione, questa, ricorrente nei lavori dell’autore).

La sovranità, insomma, è un concetto che condensa all’interno di una comunità politica le “funzioni inerenti al fatto stesso che un soggetto politico possa dire ‘Io’” (p. 25). Senza sovranità, dunque, verrebbe a mancare uno strumento istituzionale per democratizzare lo stesso sistema internazionale, consentendo cioè alle diverse comunità, di regioni o sub-regioni, di farsi soggetti e rappresentanti dei propri interessi materiali e culturali. Non è stato un esito lineare: l’affermazione di una “sovranità nazionale impersonale” (p. 57) come condizione pressoché universale di esistenza dei popoli sulla terra è stato il parto di un travagliato percorso. Il secondo capitolo si cimenta con un excursus storico sullo sviluppo della sovranità nell’età moderna e contemporanea, attraversate da rivoluzioni (come quella inglese, francese, e russa) che hanno spettacolarmente rappresentato il “nemico” e al contempo il “grande motore” della stessa idea di sovranità (p. 22).

Il terzo capitolo fa della sovranità un termine di confronto obbligato per la storia della filosofia politica, ovvero “il tema in cui convergono i principali elementi della riflessione filosofico-politica moderna” (p. 73), da Bodin a Hobbes, da Locke a Hegel, da Marx a Schmitt, fino a quei sofisticati anti-sovranismi ante litteram di Kelsen e Foucault.

Il nostro tempo, invece, sembra essere meno erede della tradizione moderna che ha generato la ‘sovranità’, e più l’esito della critica parricida post-moderna verso questo concetto filosofico-giuridico. Da un lato la sovranità è concepita come esito giuridico incompleto, sulla base del principio di analogia domestica (pp. 107-108), che invoca una sorta di ‘sovrano globale’ in luogo di sovrani locali (pp. 107-108); dall’altro, la sovranità cessa di essere ‘utile’ rispetto all’orizzonte di un’economia globalizzata che “non richiede tanto l’unità politica quanto l’unità del mercato” (p. 110). Di qui, dunque, i surrogati post-moderni della sovranità (vetero) moderna: “il ‘dolce commercio’, il diritto e i diritti, la fratellanza universale, la tecnologia globale, la governance privatistica” (p. 24).

In luogo della fatidica questione degli “amici del popolo” si pone oggi un diverso problema, anche se per certi aspetti complementare: chi sono i “nemici della sovranità’? Nessuna netta risposta è avanzata dall’autore, ma è lecito individuare due categorie politiche (e polemiche) che affiorano a più riprese nel volume. Neo-costituzionalisti e neo-liberali. I primi hanno inteso limitare a partire dal secondo dopoguerra, su basi moralmente legittime, l’estensione e il potere della sovranità statale al suo interno e all’esterno (cfr. pp. 28, 39, 67). I secondi, invece, mirano a “sostituire il privato al pubblico, la libera scelta al comando, il mercato alla decisione, il contratto all’obbedienza, la pluralità all’unità, la concorrenza al conflitto, l’uguaglianza alla rappresentanza, la governance alle istituzioni politiche” (p. 112).

Per estendere – in modo euristico – la proposta teorica di Spruyt, si potrebbe dire che nella patogenesi della ‘sovranità’ offerta da Galli emergono oggi due concorrenti al modello di Stato sovrano: lo “Stato senza sovranità” dei neo-costituzionalisti, e la “sovranità senza Stato” del mercato (neo)liberale (p. 119). È una metamorfosi, beninteso, quella che subisce il concetto di sovranità, non la sua scomparsa: il mercato è sovrano nell’esigere un’unità economica in luogo di quella politica; è sovrano nell’istituire nuovi confini finanziari (lo “spread”, cfr. p. 134) in luogo di quelli fisici; è sovrano nel decidere una “spoliticizzazione dell’economia” (p. 133) e nel punire le eterodossie economiche (i conti pubblici ‘non ordinati’, cfr. p. 136); è sovrano, infine, nel vincolare i soggetti dell’eurozona ad un ordine a loro esterno (i parametri di Maastricht), e nel difendere l’ideale di una “vera sovranità europea” (p. 141) rispetto a quella annessa storicamente ai singoli Stati.

Di fronte alla sovranità del paradigma economico neoliberale europeo, insomma, il cosiddetto “sovranismo” rimane una “richiesta di politica” (p. 144) da comprendere appieno, assieme alla complessa semantica che il termine “sovranità” racchiude e attraverso gli strumenti che la storia e la filosofia ci offrono. Quella che si profila su scala europea, però, sembrerebbe una situazione di stallo tra opposti, e parziali, sovranismi: “la semi-sovranità rimasta ai singoli Stati non protegge più le società dalle logiche semi-sovrane dell’euro, dei mercati e dalla sfida dell’immigrazione” (p. 138). Il saggio di Galli traccia un perimetro storico-filosofico in cui la sfida dei ‘sovranismi’ (e dei complementari ‘anti-sovranismi’) può essere ripensata criticamente, per una ragionevole apologia del concetto di sovranità.

È proprio perché, in fondo, la sovranità è logicamente ineliminabile e difficilmente surrogabile che il suo concetto deve tornare al centro dell’attenzione pubblica, sottratta alle faziosità di opposti opinionismi.

L’articolo è stato pubblicato in «Istituto di Politica» il 18 maggio 2019

Sulla «sovranità» una recensione di T. Klitsche de la Grange a C. Galli

di Teodoro Klitsche de la Grange

Uno degli effetti dell’esplosione dei partiti sovran-popul-idealitari è di aver tolto dal cono d’ombra creato nella seconda metà del Novecento il concetto di sovranità.
Solo a parlare del quale si era spesso stigmatizzati come reazionari, sciovinisti e, in una logica tutta contemporanea, fascisti. Che la sovranità nazionale fosse stata la bandiera di Mazzini e Garibaldi, dei patrioti polacchi ed irlandesi, dei coloni americani e, anche se meno enfatizzata, di tanti partiti comunisti (da quello cinese a quello vietnamita), non valeva a questa legittima aspirazione/concetto, di essere sottratto all’anatema dell’oblio, al doversi rassegnare a un posto nell’archivio della Storia.
È quindi assai interessante questo saggio di Carlo Galli che ripercorrendo la storia dell’idea di sovranità e le concezioni della stessa colloca “le cose a posto” nella prima parte, per poi formulare le conclusioni negli ultimi due capitoli.
Non è il caso di ricordare al lettore il percorso che fa Galli nella prima parte, sintetica ed esauriente.
Importante è ricordare comunque alcuni connotati fondamentali della sovranità. Questa, nata con Bodin nell’intento di neutralizzare i conflitti di religione (avente funzione cioè di decisione-neutralizzazione del conflitto), fu pervertita nel fine dai totalitarismi del Novecento: da strumento di protezione della società (individualistica) borghese (Hobbes), era diventato quello di affermazione aggressiva del “noi” comunitario (classe, nazione o razza); ed è stata superata dalla sconfitta dei totalitarismi (nel 1945 e nel 1989).
Altro punto – dall’autore passato ripetutamente in esame – è che il rapporto conflitto/sovranità è l’inverso di quanto pensano i “politicamente corretti”. Non è la sovranità a creare i conflitti: in effetti è il contrario. Se non vi fossero conflitti, se gli uomini fossero angeli, di sovrani (e anche di governi) non se ne avrebbe bisogno.
Resta il fatto che dalla lotta e dall’ostilità come presupposti del politico (Freund) non si può prescindere: “la sovranità è il farsi carico del fatto che all’origine della normalità c’è l’incompletezza dell’esistere associato”. Al sovrano, inoltre, compete non solo (e non tanto) dare delle norme, ma, ancor di più, decisioni per applicare quelle o anche per derogarle nello stato di eccezione (Schmitt).
La sovranità, inoltre, è realismo e prudenza politica, non “ipertrofia” dell’Io, individuale o collettivo. “Sovranità per un corpo politico è la capacità di stabilire come stare nel mondo e nella storia, come organizzare l’interdipendenza fra più soggetti politici… Quindi sovranità come volontà della nazione non è necessariamente nazionalismo: è autonomia di quella volontà”.
Pertanto alla domanda di sovranità contemporanea occorre dare risposte non demonizzaitrci (come quelle delle élite declinanti): nelle concezioni delle quali sintetizzate da Galli “Il funzionamento della politica interna è la governance, cioè la mediazione, fin che si può; ma quando ci sono ostacoli … allora interviene la decisione politica…. La politicità implicita nel sistema torna a farsi esplicita”. La governance è insomma una politica in maschera: una politica che non ha il coraggio di qualificarsi tale, ma non rinuncia ai mezzi propri: forza ed astuzia. In effetti una sovranità mistificata.
Come sostiene Galli: “Il problema, semmai, è decifrare quanto la richiesta di sovranità che nasce nelle società occidentali sia funzione del dominio già esistente, che cambia forma e legittimazione per mantenere la propria valenza oppressiva, o quanto al contrario quella richiesta sia uno sforzo di risolvere in direzione emancipativa le contraddizioni dell’oggi. Per gran parte dei cittadini europei la richiesta di sovranità politica è il ritorno alla funzione protettiva, la prima prestazione della sovranità … è insomma sintomo di una sofferenza economica e psicologica, di un’autodifesa della società davanti all’eccesso di movimento, di mobilità, di instabilità”. E la stessa domanda di sovranità non ha finalità imperialiste o iperpolitiche “ha più il segno della tutela delle esistenze singole e familiari, dei piani di vita individuali, che non della ipertrofia del «politico», della volontà di potenza nazionalistica. Ciò che si chiede è più uno Stato protettore che uno Stato guerriero”. L’autore conclude “La tesi di questo libro è che la sovranità è una tematica ineludibile, e che – se l’Italia non vuole sperimentare la «non-sovranità in un solo Paese» – va trattata seriamente, in chiave storica e politica, e non con anatemi”. Anche se la richiesta di sovranità è superficiale, carente di capacità progettuale e di direzione politica incerta, chi oggi teme la democrazia “illiberale” dovrebbe chiedersi quanto sia il “tasso di democraticità” del “neoliberismo” o di altre “ideologie” post moderne che della sovranità pretendono (e credono) di fare a meno.
Per cui “un tempo il pensiero non conformista doveva criticare la sovranità e la sua pretesa di autosufficienza, la sua intrinseca alienazione, la violenza implicita nelle sue istituzioni. Oggi, davanti ad altra violenza, ad altra alienazione, ad altra pretesa di autosufficienza deve vedere nelle pur contraddittorie richieste di sovranità il sintomo dell’esigenza di ritrovare un approccio integrale, ed emancipativo, alla politica”.
Un saggio, in definitiva, la cui lettura è la migliore difesa contro gli idola dei mass-media allineati al (non-) pensiero unico.

L’articolo è stato pubblicato in «Civium Libertas» il 14 maggio 2019

Il libro. Il monito del politologo Carlo Galli : “Oggi sovranità è democrazia”

di Fernando M. Adonia

Sovranità. Che cos’è? Il punto lo fa il politologo Carlo Galli con un testo tanto agevole quanto utile a interpretare una «richiesta» di fondo che è al centro del dibattito politico mondiale. Un concetto frainteso, screditato, interpretato con letture talvolta isteriche o derisorie. Censurato, pure. Dietro la parola ‘sovranità’ ci sta tuttavia un mondo d’idee che ha attraversato l’epopea intellettuale del moderno Occidente. Insomma, Galli mette ordine e affronta di petto – cioè storicamente e filosoficamente – una questione che non può essere lasciata alle mercé di un dibattito politico-giornalistico che sul tema in questione (come tanti altri, del resto) è troppo superficiale, eludendo di fatto come in corso ci sia una crisi del tutto nuova da codificare.

Che sia un’introduzione o un’appendice al poderoso Genealogia della Politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, è una questione che riguarda da quale porta d’ingresso si è soliti entrare nell’opera di Carlo Galli. Di certo c’è che il nostro, i termini linguistici della questione, li conosce fin troppo bene. Un buono motivo per leggerlo senza pregiudizi. La quarta di copertina pone una provocazione che vale anche un chiarimento: «Sovranità è democrazia? Oggi sì». Basterebbe questo per reimpostare la questione. In fondo, chi intende l’opzione sovranista teoricamente o storicamente riconducibile esclusivamente ai nazionalismi, ai fascismi o a presunte pretese di limitare libertà o diritti acquisiti, palesa scarsezza d’idee. Altrimenti non si spiegherebbero neanche le accelerazioni provenienti da sinistra sul tema. Vedi Diego Fusaro, Luigi Savoca, Jean-Luc Mélanchon o Carlo Formenti (che meriterebbe un approfondimento a parte).

Qualcosa in questi anni non ha funzionato: la crisi economica non è passata, la diseguaglianza aumentata, mentre la questione emigranti ha fatto riemergere la dimensione plastica e drammatica della povertà. Davanti a ciò, le grandi istituzioni, nazionali e sovranazionali, hanno palesato la sostanziale incapacità (in parte dettata da motivi rigidamente ideologici) a porre rimedi efficaci. La pretesa di salvare l’esperimento della moneta unica senza ammettere emendamenti ha fatto il resto: «L’euro – dice Galli – è un dispositivo deflativo che impedisce agli Stati di autofinanziarsi battendo moneta o emettendo bond garantiti da una Banca di Stato; il che obbliga gli Stati dell’area euro a entrare nei mercati e a passare dalle svalutazioni competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche, giuridiche e organizzative del lavoro all’interno di ciascuno Stato, e a competere sulla produttività, sulle innovazioni e sulle esportazioni».

Il primato dell’economia. «L’euro – spiega ancora – è lo strumento di una economia che lotta primariamente contro l’inflazione e che non si cura troppo dell’occupazione perché prevedere che questa sia garantita dalle stesse dinamiche economiche una volta che queste abbiano raggiunto il loro equilibrio, grazie a una politica (necessaria) che reprime ed esclude ogni alternativa economica e politica “non conforme”. Nel caso italiano, l’euro è stato apertamente perseguito dalle élite come “vincolo esterno”, per limitare la sovranità economica del Parlamento, impedendone le “derive sociali” (lo stesso era avvenuto con il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, nel 1981)». Una diagnosi amara, ma difficile da smentire.

Sovranità, insomma, come rimedio per salvare il salvabile e garantire alle democrazie di non soccombere alle ragioni dei mercati finanziari. «Siamo nell’epoca non dell’assenza di sovranità – spiega Galli – ma della sovranità squilibrata, sconnessa, anomica, intermittente. L’epoca in cui l’immediatezza della mediazione economica viene gestita sempre più frequentemente dalla immediatezza delle decisioni politiche. E quindi l’epoca che esige una nuova mediazione, un riequilibrio. E infatti della sovranità si manifesta anche un nuovo bisogno, proprio per contrastare la sua debolezza. È alla sovranità che è affidato il compito di difendere o restaurare la democrazia». Insomma, sovranità è speranza. Sovranità è politica.

L’articolo è stato pubblicato in «Barbadillo» l’11 maggio 2019