Ora è chiaro. Pisapia chiedeva l’impossibile. Discontinuità e “campo largo” si contraddicono a vicenda, poiché il primo termine implica la rottura col Pd o almeno con la sua linea politica strategica e il secondo invece significa che si vuole fare politica alleandosi con esso e anzi che si vuole imporgli, senza averne la forza, alcune scelte – prevalentemente su materie come i diritti – che il Pd non può condividere (il cosiddetto Jus soli farebbe perdere al Pd più voti di quanti gliene potesse portare Campo progressista).

Quel matrimonio non s’aveva da fare. E non si è fatto. Non a caso dopo il suo fallimento lo stesso gruppuscolo di Pisapia si è spaccato in due: da una parte coloro che daranno vita a una lista (civetta) che “copra” il Pd a sinistra, e dall’altra coloro che invece se ne tornano alla casa madre, cioè o Mdp o Sinistra italiana, oggi Liberi e Uguali. Questi ultimi, almeno, la decisione l’hanno presa: correranno da soli contro il Pd. Soluzione che ha prevalso su pasticci e tentennamenti, non assenti in una prima fase – tanto che Emiliano, a nome della sinistra interna al Pd, priva ormai di interlocurtori, ancora prova ad attirare LeU nell’orbita piddina –.

La verità è che la politica maggioritaria e bipolare della Seconda repubblica è oggi inapplicabile e inattuale. Cosa che Pisapia ha capito, fermo, con i suoi consiglieri prodiani, al perseguimento della vittoria sul campo, con un’alleanza vasta di centrosinistra. Anche Renzi a parole finge di credere a questo schema, e si rammarica che Pisapia e LeU lo abbiano fatto fallire: ma è proprio lui  che a Bersani e a Pisapia non ha concesso nulla – a voler correre sostanzialmente da solo, o con l’appoggio di formazioni minori ininfluenti, non tanto per vincere, come pure secondo il solito millanta (ma lo fanno tutti, in realtà), quanto per portare un congruo numero di fedelissimi in Parlamento, nelle aule, ritornate centrali, della rappresentanza libera da mandato, per costituirsi come uno dei players di una maggiornaza tutta da costruire. In ogni caso, con le regole del Rosatellum il primo nemico è il vicino, non più l’inesistente fronte avversario  in realtà , infatti, di fronti avversari del Pd ce ne sono tre: LeU, la destra, il M5S .

Ma non sono soltanto le regole di funzionamento del sistema politico quelle che hanno fatto fallire Pisapia. La verità è che il Pd è il “partito del sistema” e non può, né da solo né in alleanza, essere alternativo a se stesso, ovvero raccogliere il voto di protesta insieme a quello pro establishment. Anzi, il Pd, a differenza della Dc  che era il perno di un sistema bloccato, e che era quindi costretta a governare e a vedere convergere su di sé gli altri partiti –, è segno di contraddizione: non attrae ma respinge. E infatti è rimasto isolato, e può solo sperare nel voto utile, il voto della paura (fondata o infondata che questa sia).

Chiunque voglia riconoscere la vera novità di questa stagione  il collasso generalizzato della fiducia nella narrazione neoliberista, che acclama l’aumento del Pil e ignora l’aumento della disuguaglianza e della sfiducia nella democrazia  e quindi voglia intercettare i voti di protesta ed erodere l’astensionismo, non può offrire sul mercato elettorale un “centrosinistra”. Questa formula  l’assecondamento liberal delle esigenze del neoliberismo e dell’ordoliberalismo  fa parte del problema, non della soluzione. Sono il momento storico e la situazione economica a obbligare infatti il sistema politico a strutturarsi secondo fratture non semplicemente frontali ma multiple e incrociate: fra sistema e antisistema tanto a destra (che per ora riesce a fare l’alleanza fra Berlusconi e Salvini, ma che verosimilmente non la potrà conservare a lungo, dopo il voto) quanto a sinistra, mentre il M5S prova a raccoglierle tutte in sé (costituendo quindi, solo per questo aspetti, una sorta di nuova Dc – tuttavia volutamente priva di capacità coalizionale).

Semmai, c’è da chiedersi se LeU è a sua volta consapevole che la società italiana si sta strutturando per fratture e non per ricomposizioni, e se il suo obiettivo esplicito – recuperare i voti di chi è deluso perché il Pd non è più di centrosinistra ma di centro (e la scelta di Grasso come leader va in questa direzione) – non sia troppo limitato e prudente, e se non sarebbe meglio avere come target non la delusione (che vale il 7%) ma la rabbia dei cittadini, che vale ben di più. Con l’ipotesi minore, infatti, si è schiacciati su una politica di sostanziale continuità col passato pre-renziano (Prodi, D’Alema, Bersani), mentre con la maggiore si potrebbe sparigliare l’intero assetto del sistema politico – certo, sarebbe meglio incrociare leader come Mélenchon, Corbyn, Sanders; ma sarebbero sufficienti anche solo propositi analoghi, espressi da una leadership plurale –.

Una travolgente speranza che nasca da una rabbia bruciante: di questa energia politica c’è bisogno. E, naturalmente, di analisi radicali, invece che di invocazioni di “valori”, smentiti tutti i giorni dalle condizioni materiali di vita di fasce sempre crescenti di cittadini. Essere sinistra “di governo” non deve implicare moderatismo mainstream – sia chiaro, tuttavia, che questo non è un inno all’estremismo, ma è semmai un’invocazione, appunto, di serietà e di profondità analitica –. Solo la discontinuità, non proclamata ma reale, nel pensiero e nell’azione, darà nuova vita alla Repubblica, e farà anche svanire i fantasmi neofascisti che allignano parassitariamente nella disperazione neoliberista e nella desolazione sociale. Insomma, la discontinuità vera è pensare in grande per contribuire al ritorno della grande politica, la vera assente dalle scene di questo Paese.

Il testo qui pubblicato deriva dall’articolo Servono scelte radicali, «La parola», dicembre 2017