La soddisfazione del Pd per la “crescita” elettorale dimostra solo quanto grande era il suo timore. In realtà, il Pd  perde circa centomila voti rispetto alle politiche del 2018 (più di sei milioni rispetto al 2014) e guadagna in percentuale solo pescando dall’astensione e da LeU, mentre i voti usciti dall’effimero e incapace M5S (meno 1.200.000 rispetto al 2014, meno 6.200.000 rispetto al 2018) vanno all’astensione e alla Lega. Che,  a sua volta, guadagnando tre milioni e mezzo di voti rispetto al 2018 e 7.500.000 rispetto al 2014, cannibalizza anche Fi (che perde 2.200.000 voti rispetto al 2014 e  al 2018).

Caduto il Piemonte, tutto il Nord e quasi tutto il Centro sono in mano alla Lega, che raddoppia come i grillini dimezzano. Solo le grandi città votano Pd,  insieme ad alcune province rosse dell’Emilia-Romagna e della Toscana (qui l’amministrazione, meno cattiva che altrove, è premiata dai cittadini).

La Lega raddoppia, FdI avanza, Fi tende a scomparire, il M5S si dimezza; le élites  di +Europa si dimostrano inconsistenti, il Pd tiene a fatica. Nel complesso, insultare i cittadini, demonizzare Salvini,  puntare sulla paura delle conseguenze di un voto anti-europeo senza proporre nulla in positivo, continua a non esser un buon affare elettorale.

Anche la sinistra, ormai incapace di analisi radicali e di sintonia col popolo, non sa fare altro che strillare al “fascismo”. Col bel risultato di venire distrutta a livello continentale, con l’unica significativa eccezione della Spagna (dove peraltro Podemos perde); ma in  Germania la Spd naufraga miseramente. Trionfo della destra estrema in Francia, che sconfigge Macron; tracollo del Centro cristiano della Merkel in Germania. Annichiliti i tory e indeboliti i laburisti in Inghilterra. I Verdi – che rifiutano la dimensione politica destra/sinistra perché non mettono in discussione i rapporti sociali ma il rapporto uomo/natura – sono i veri vincitori, insieme alle destre.

Le elezioni non cambiano molto, nell’immediato. In Europa le variazioni di composizione di un Parlamento frammentato e con scarsi poteri non muteranno radicalmente gli attuali equilibri: cristiani e socialisti cercheranno stampelle in qualcuno degli innumerevoli gruppi parlamentari. Le chiavi del potere staranno come sempre nelle tecnostrutture continentali e in alcuni Stati nazionali (ma l’asse franco-tedesco è fortemente minacciato).

In Italia – che in cinque anni ha cambiato tre “partiti della nazione” – Salvini è il premier ombra, padrone dell’Italia perché almeno sa che il Paese è in crisi economica e morale; chi lo ha portato fin qui, le forze storiche del centrosinistra, omologhe a quelle che hanno fatto l’Europa, non sanno nemmeno questo. Il governo non dovrebbe cadere presto, perché i grillini sono terrorizzati da nuove elezioni. Il Pd non ha alleati. Fi è in fase agonica. L’Europa (una Commissione scaduta) saluta i risultati elettorali italiani con una multa di 3,5 miliardi che confermerà nella loro opinione quanti hanno votato Lega. L’ordine liberale del mondo del secondo dopoguerra è eroso, e l’ordine neoliberale della globalizzazione si trasforma pesantemente. Salvini – che non è Hitler, come vogliono i cattivi analisti semplificatori – vi è più funzionale. La sua retorica è più utile di quella liberal. I suoi piani fiscali ultraliberisti sono più adatti ai tempi perché almeno puntano alla crescita (guidata dal capitale) e non all’austerità ordoliberista. Nonostante le simpatie per Putin, il suo modello è Trump, e non è un modello perdente.

E la nostra regione? Gravemente infiltrata dalla Lega, soprattutto a livello del voto europeo, conserva un po’ dell’antica fisionomia nelle province centrali e in parte della Romagna. Fa argine nazionale per il Pd? Forse. Ma non è un modello né un freno, un katéchon. È una differenza, leggera anche se politicamente rilevante. E non sappiamo se è permanente o transitoria. Per capirlo, non abbiamo da attendere che le elezioni regionali. Ma per ricostruire la sinistra ci vorrà molto di più.

In corso di pubblicazione nel mensile «La parola»