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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

marzo 2020

Epidemia e sovranità

 

Fintanto che non si troveranno cure o vaccini, la sovranità è  l’unica risposta, in tutto il mondo, all’epidemia di coronavirus. Una risposta in termini di confini e confinamenti, a cui tutti gli Stati ricorrono; e  anche in termini di  guerra contro un nemico che si vuole tenere all’esterno, o bloccare se è già penetrato dentro la città. E il porre confini, e il fare la guerra, sono appunto opere della sovranità.

Ma ciò ha gravi contraccolpi. Uno di essi è che la sovranità accresce la concentrazione e l’efficacia del potere politico, la sua presa  sulla vita delle persone, riducendone la libertà, mutilando la «civile conversazione». Un altro è che la sovranità tende  a regnare su una non-società, su un agglomerato disarticolato di individui solitari a cui vieta riunioni, assembramenti, raggruppamenti, prossimità. Insomma, la sovranità è «soluzione» perché pone confini e al contempo scioglie i legami intermedi. Il suo effetto classico è che consente di sopravvivere a prezzo della qualità della vita. E poiché l’uomo è animale sociale, ciò provoca sofferenza. Nell’emergenza affiorano i tratti più duri della sovranità, nella normalità non visibili ma da essa ineliminabili; e duro è infatti il prezzo che stiamo  pagando.

A questo punto abbiamo due esigenze uguali e contrarie. Una è che la sovranità sia almeno efficace. E qui si pongono questioni di efficienza del sistema politico, dell’apparato amministrativo, della Protezione civile, del sistema sanitario. Siamo alle solite: l’Italia è il Paese degli atti di eroismo (ammirevoli), ma anche della disorganizzazione. I ceti dirigenti – politici, tecnici, scientifici, industriali, intellettuali – hanno detto, e fatto,  tutto e il contrario di tutto: il consenso e la fiducia popolare non hanno motivo di indirizzarsi verso gli uni piuttosto che verso gli altri. Errori sono stati commessi tanto dai vertici della politica (i decreti resi pubblici anticipatamente) quanto dalle opposizioni (oscillanti fra il «tutto chiuso» e il «tutto aperto»), quanto dai cittadini (le migrazioni bibliche verso il Sud) quanto dai ricercatori (divisi su temi essenziali). La gestione della crisi ha avuto una declinazione regionale che ha generato confusione e disomogeneità, come confuso è stato il susseguirsi delle norme. Un Leviatano drammaticamente acciaccato e ansimante, quindi.

L’altra esigenza è che l’emergenza non si istituzionalizzi in uno «stato d’eccezione». Lo scavalcamento di fatto della mediazione parlamentare, lo strumento del Dpcm utilizzato in modo massiccio, il rapporto personale e unilaterale fra il presidente del Consiglio e i cittadini via Facebook, non sono segnali positivi. Ed è ambiguo il mantra «non è il momento di fare polemiche». Infatti, se non si va a un governo di unità nazionale, la dialettica politica (già semi-spenta) non può essere interrotta. Le idee e le proposte devono avere spazio: è una iattura, pur comprensibile, che siano state congelate elezioni e referendum.

E invece di dialettica politica, e di elezioni, ci sarà presto bisogno. Il Paese è chiamato a grandi scelte, per ripartire a guerra finita – per quanto questa possa dolorosamente trascinarsi – ma anche prima, a breve. Una  di queste è sulla Ue che, in coerenza con le proprie logiche e strutture, si appresta a sferrare un altro  colpo alla nostra autonomia offrendoci come unica risorsa  economica il  Mes: prestiti (pochi) in cambio della Troika e di una nuova austerità. Insomma, il trionfo degli oltranzisti nordici, che vedono nell’epidemia l’occasione per regolare i conti con l’Italia, come con la Grecia. E ci sarà bisogno anche di riflettere sulle nostre alleanze internazionali. La (relativa) generosità russa e cinese, infatti, davanti all’avarizia europea e al sostanziale silenzio americano, sono segnali da decifrare e valutare. L’ordine (si fa per dire) della globalizzazione potrebbe risultare molto modificato dalla pandemia.

Ci attendono insomma decisioni di prim’ordine. Se ci sembra che qualcosa debba essere cambiato delle politiche che ci hanno fatto sottofinanziare la Sanità per 37 miliardi in dieci anni, che ci hanno fatto aderire al «vincolo esterno» dei Trattati europei, che ci hanno consegnato all’austerità e alla stagnazione, allora di sovranità avremo bisogno. Ossia di energie politiche e morali per l’impresa che ci attende: inventare una nuova normalità, rifondare il patto della nostra democrazia.

Pubblicato in «La parola», n. 7, aprile 2020

Il nuovo Spengler (liberato da Evola) parla a noi e di noi

 

Oswald Spengler pubblicò Il Tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia universale nel 1918; nel 1922 apparve l’edizione definitiva, in due volumi. Nonostante l’enorme mole e lo stile non brillante (ma molto assertivo), l’opera godette subito di un’immensa fortuna di pubblico – fu il libro d’apertura del XX secolo –, mentre una parte del mondo accademico inorridì davanti al dilettantismo a-scientifico dell’autore, alle sue velleità di «tuttologo» in grado di unire in una sintesi, nel «simbolo», gli aspetti più disparati delle diverse civiltà «superiori», proponendo connessioni avventurose che si vogliono profonde e spesso sono superficiali, e davanti alla sua pretesa di saper maneggiare con perentoria disinvoltura il sapere universale, di avere individuato le chiavi della storia mondiale passata presente e futura.

Croce recensì il Tramonto con sgomento, accusando l’autore di ignoranza e faciloneria, e leggendo in quel miscuglio di irrazionalismo, di relativismo, di nazionalismo e di profetismo, la decadenza morale e scientifica della cultura tedesca. E all’irrazionalismo Spengler fu ascritto da un marxista come György Lukács nel suo libro-denuncia La distruzione della ragione (1954) – mentre un filosofo analitico come Otto Neurath lo aveva accusato di iper-razionalismo ma anche di pseudo-razionalismo (Anti-Spengler, 1921) –.  A ciò si aggiunga il favore con cui Mussolini accolse, facendoli tradurre, alcuni scritti successivi di Spengler – il quale però non ebbe rapporti cordiali col nazismo, di cui rifiutava l’antisemitismo e che riteneva volgare e fasullo, essendone a sua volta accusato di «pessimismo» (del resto, è suo il motto «l’ottimismo è viltà») –.

Ce n’era abbastanza per fare di Spengler – morto nel 1936 – un autore «di destra», per ghettizzarlo in un ambito ideologico in cui si apprezzavano le sue tesi sulla natura razziale delle civiltà, e le intuizioni sul tramonto della «civiltà» moderna, e sul cesarismo autoritario a forte impronta tecnica (cioè anti-umanistica) della «civilizzazione» contemporanea. Questa interpretazione fu assecondata dalla prima traduzione del Tramonto, che si ebbe in Italia nel 1957, presso Longanesi, opera di un personaggio altamente controverso come Julius Evola.

La traduzione di Evola rispecchia il suo autore – tradurre è trasportare, ma soprattutto è interpretare, ricreare, rimettere al mondo –: andamento stilistico pesante (lo è anche l’originale), linguaggio un po’ arcaico, soluzioni a volte intelligenti ma molto orientate da una forte ideologia tradizionalista che rileggeva il lato razziale dell’organicismo di Spengler (che nell’originale c’è, ineluttabilmente) alla luce di un’idea di sapere trascendente ed eterno, che è dell’italiano e non del tedesco. Una traduzione autorevole, quindi, ma molto influenzata dall’esoterismo aristocratico evoliano, che ascriveva del tutto Spengler alla «cultura della crisi», alla «critica del tempo», alla polemica antidemocratica e ambiguamente ostile alla tecnica (disprezzata nel suo utilitarismo, ma ammirata come strumento di potenza), tipica del pensiero di destra. Una traduzione che di fatto metteva d’accordo  dispregiatori e apologeti, nel valorizzare di Spengler organicismo, pessimismo e irrazionalismo.

Né le cose cambiarono molto quando apparve nel 1978 una revisione della traduzione di Evola (poi ripresa, presso Guanda, da Stefano Zecchi) a opera di una équipe afferente a Furio Jesi. L’operazione fu poco più che cosmetica, e si limitò a eliminare alcune bizzarrie stilistiche e alcune arbitrarie intrusioni del termine «razza», inserito anche dove era assente nell’originale.

La crucialità, la creatività, la vitalità del tradurre, emergono con piena evidenza in occasione di una delle più importanti imprese editoriali di questi anni, in  ambito filosofico-politico: la nuova versione integrale del Tramonto – che prescinde del tutto da quella di Evola – a opera di Giuseppe Raciti, professore a Catania, che l’ha pubblicata presso l’editore Aragno di Torino, coraggioso e benemerito, in due splendidi volumi il primo nel 2017, e il secondo nel dicembre del 2019 .

Si tratta di un restauro radicale del testo di Spengler, che ci viene restituito con una nitidezza e una vivacità inconsuete. Il linguaggio è, anche se un po’ ricercato, più fresco e aggiornato rispetto a quello di Evola (che dista più di sessant’anni); errori fattuali e sviste non intenzionali sono stati corretti; ma soprattutto è cambiato lo stile, il sapore, della traduzione, proprio a causa del diverso interesse teorico, del mutato angolo visuale, del traduttore. Ora, la parola di Spengler suona più viva, più interessante anche se non necessariamente più persuasiva. La nuova traduzione, insomma, rende attuale l’inattualità programmatica di Spengler, che non viene più decifrata dal punto di vista della Tradizione ma di una bruciante contemporaneità. Ora, Spengler parla a noi.

Le sue coppie esplicative civiltà e civilizzazione, organico e storico, organismo e organizzazione , la stessa nozione di «tramonto», possono ora essere riviste. Certo, per Spengler la vita delle civiltà, gli organismi che hanno un’anima naturale e vitale,  è razzialmente determinata (il traduttore mette però in rilievo il grande ruolo storico dello spazio, del paesaggio, rispetto al sangue, delle migrazioni rispetto al radicamento). Ma il cuore del libro non sta nella «metafisica selvaggia» (parole di Heidegger) dell’organico: non nella biologia vegetale delle culture ma nel destino interno delle civiltà, nella costruzione artificiale, non più originale, delle civilizzazioni. Spengler ci dice che l’Occidente non è il punto d’arrivo dell’umanità (e così rovescia la tesi di Hegel); che l’origine, lo sviluppo, il declino delle civiltà complesse, delle culture, non è calcolabile, anche se si può ricavare, dallo studio delle civiltà, una sequenza di forme e figure, una morfologia, che consente la comprensione del loro destino; e soprattutto ci dice che fra le civiltà superiori quella europea «faustiana», sta morendo in un tramonto di lunga durata, e che proprio la morte di questa civiltà, non la sua vita, consente quell’esercizio di auto-comprensione che è la storiografia.

Questa, però, non è come la filosofia di Hegel, come la «nottola di Atena» che alza il suo volo sul far della sera e riesce a comprendere, se non a ringiovanire il mondo; la storiografia in Spengler è solo il linguaggio particolare dell’Occidente, la «bolla» in cui è immersa una civiltà morente. Non salva, e non comprende il corso del mondo che non c’è : semmai, se lo inventa come propria auto-giustificazione. Una grande relativizzazione dell’Occidente, quindi, che coesiste con la consapevolezza che la storia di questa civilizzazione è insuperabile, dal suo interno, che cioè l’Occidente non riesce a uscire da se stesso, che si pensa eterno, privo di storia e di futuro, che si dilata solo nello spazio, dove può perfino diventare minoritario dopo avere reso il mondo a propria immagine.

Il Tramonto così non è il compianto su un declino, ma l’apertura grandiosa sulle questioni del nostro tempo: la democrazia di massa, il denaro, il regno della tecnica, il destino di diffusione e appropriazione planetaria la globalizzazione della civilizzazione occidentale. Passata la sua creatività, la civiltà faustiana si impadronisce dello spazio mondiale. E  qui scatta l’analogia fra il presente e Roma antica: Spengler, tutt’altro che pessimista, affidava alla Germania il ruolo di interprete del destino occidentale; ma è stato smentito dagli eventi. Eppure, gli Stati Uniti, cioè l’impero uscito vittorioso dai grandi conflitti del XX secolo che dovevano decidere chi sarebbe stato il signore delle masse, della tecnica, del denaro e dell’organizzazione , si pensano come eredi di Roma, e paventano un’analoga decadenza.

Le pagine restaurate di Spengler sono così non un rimpianto ma un’analisi disincantata, benché enfatica, delle vicende che generano la democrazia e del cesarismo imperialistico (il populismo iper-sovranista e iper-politico) che sorge dalla sua impotenza, con le sue leadership e la sua volontà di dominio. E la  globalizzazione rivela di essere una fine che non ha fine, uno spazio-tempo prefigurato, dentro il quale può succedere di tutto.

Ecco allora che grazie alla nuova traduzione Spengler diventa il portatore non solo di una velleità conoscitiva dai tratti nostalgici e al contempo totalitari, ma di uno sguardo critico sul nostro mondo. E non è un caso che già Adorno che pure centrava la sua lettura meno sulla civilizzazione e più sulla naturalità delle culture, cioè sulla barbarie che alligna nelle civiltà, accettata da Spengler come destino vedesse in lui uno di quei teorici della reazione la cui critica del  liberalismo (oggi diremmo dell’autocomprensione mainstream della globalizzazione) si è rivelata superiore a quella progressista.

Pubblicato in «Corriere della Sera – La Lettura», 8 marzo 2020

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