Nella mia formazione intellettuale la nozione di sinistra ha a che fare con l’osservazione che l’uomo sia stato reso estraneo a sé stesso e, sulla base di un giudizio negativo di questo dato, si reputi necessario restituirlo a sé stesso. L’estraneità di cui si parla non ha radice nel peccato originale, ma è prodotta in un luogo e in un processo sociale specifico, derivante da una determinata struttura economica. Quindi alla sinistra si confà una capacità di analisi radicale – cioè il ricercare la radice del problema – e una forte valutazione del ruolo della politica, perché è alla politica che si affida il compito di risolverlo, di riumanizzare l’uomo.

In questa prospettiva lo Stato può apparire come benefico ma, anche se dotato di una legittima e democratica autorità, di per sé non è sufficiente. È necessario che ci sia anche un partito. La politica, infatti, non deve avere soltanto una funzione di gestione e amministrazione ma deve anche saper orientare, dirigere verso una direzione, una parte.

La sinistra, insomma, non può appoggiarsi solo sulla forza dello Stato, ma richiede anche un’idea di partito. E non deve quindi focalizzarsi sulla diminuzione delle disuguaglianze a valle, attraverso la redistribuzione, ma deve essere la forza che interviene là dove le disuguaglianze si formano e sono brucianti, cioè nel processo produttivo – della produzione materiale e immateriale, e quindi anche nella formazione –. È infatti molto difficile che possa esistere una società equa nella redistribuzione quando persiste un dislivello insuperabile di potere e sapere fra chi controlla la produzione – e la comprende –, e chi partecipa alla fase della produzione in modo passivo. L’obiettivo principale della sinistra è ribilanciare una società che non è neutra, che è già divisa, squilibrata.

Dopo le tre grandi rivoluzioni del Novecento, bolscevica, fascista e socialdemocratica, alle quali la sinistra ha partecipato, contribuito o rispetto a cui è sopravvissuta, nell’ultima rivoluzione – cioè quella neoliberista, nella quale ci troviamo dal 1980 circa – la sinistra sembra essersi perduta. Uno degli obiettivi è allora quello di riprendere le ragioni profonde, strutturali, della sinistra. Posto che sinistra è una parola di parte, ciò implica fornire una lettura parziale di una società che è già in sé parziale, dove per parziale si intende potenzialmente conflittuale, e in ogni caso squilibrata, ma che non lo riconosce, non lo ammette nella propria autonarrazione.

Sotto il profilo pratico, molto poco però si può fare nel panorama politico e intellettuale odierno. Infatti il grande tema della sinistra, cioè il lavoro, è stato squalificato a livello teorico a favore di un’interpretazione dell’economia fondata sull’individuo e sulla sua, presunta, uguale e libera scelta: il lavoro come fonte di valore è scomparso dalle idee e dalle politiche neoliberiste, sostituito dall’importanza del consumo. Il lavoro è stato poi distrutto a livello pratico, reso molto raro, quasi un privilegio, e specularmente una condanna (ai bassi salari e ai bassi diritti); è stato infinitamente spezzettato, e ha assunto tutte le forme e tutte le mancanze di forma, tutte le articolazioni precarie e flessibili, tanto che è molto difficile pensare ad un partito unico del lavoro proprio perché non esiste l’unità del lavoro.

Per quanto riguarda i partiti, poi, i poteri che hanno governato l’ultimo quarantennio hanno voluto dimostrare l’intrinseca malvagità della nozione di partito, che a differenza dello Stato – necessario al capitalismo, ma in funzione servente – è stato fortemente denigrato perché inutile, parassitario, burocratico: da questo si sono creati partiti personali, volatili e insussistenti. La società è diventata non la società degli individui – come pensano gli ottimisti – ma una società senza individui; l’individuo di per sé, d’altra parte, è diventato qualcosa che non ha società, cioè che è privo di legami sociali. L’esito reale dentro il quale la società si trova dopo 40 anni di neoliberismo, – o ordoliberismo nel caso europeo – è la fine del legame sociale: ciascuno è isolato, debole e non in grado di riconoscere o immaginare nella propria mente l’idea di un processo sociale che lo veda protagonista. Nell’universale passività, non a caso prendono corpo fantasmi cospirativi, complottismi, dietrologie, allucinazioni collettive: mezzi con i quali si cerca di darsi una ragione di un mondo sociale che non ha ragione.

In questo contesto la sinistra avrebbe terreno fertile per mettere radici: disuguaglianza, alienazione, mancanza di risoluzione del soggetto in se stesso e nella società, sono tutti argomenti che riguardano la sinistra. Ma, allo stesso tempo, nessuno di coloro che hanno titolo per essere all’opposizione del sistema vigente sceglie la sinistra. Quelli che vengono chiamati “populisti” e “sovranisti” sono precisamente coloro che avrebbero titolo a essere interni a un processo di sinistra, cioè a un processo di rafforzamento del potere dello Stato come difesa allo strapotere delle logiche private e come affermazione dei diritti dei singoli e dei ceti più deboli contro il potere sempre più efficace, ma anche sempre più contraddittorio, del capitale. Una domanda di protezione sociale che è invece intercettata dalla destra, che naturalmente non dà una risposta corretta, ma offre soluzioni illusorie, e non va al di là di additare nuovi capri espiatori… Read more

 

L’articolo – tratto dall’intervento dell’Autore del 28 dicembre 2020 nell’ambito del ciclo seminariale «Ripensare la cultura politica della sinistra» – è stato pubblicato in «Pandora Rivista» il 16 gennaio 2021.