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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Lavoro

Sinistra e critica radicale

 

Nella mia formazione intellettuale la nozione di sinistra ha a che fare con l’osservazione che l’uomo sia stato reso estraneo a sé stesso e, sulla base di un giudizio negativo di questo dato, si reputi necessario restituirlo a sé stesso. L’estraneità di cui si parla non ha radice nel peccato originale, ma è prodotta in un luogo e in un processo sociale specifico, derivante da una determinata struttura economica. Quindi alla sinistra si confà una capacità di analisi radicale – cioè il ricercare la radice del problema – e una forte valutazione del ruolo della politica, perché è alla politica che si affida il compito di risolverlo, di riumanizzare l’uomo.

In questa prospettiva lo Stato può apparire come benefico ma, anche se dotato di una legittima e democratica autorità, di per sé non è sufficiente. È necessario che ci sia anche un partito. La politica, infatti, non deve avere soltanto una funzione di gestione e amministrazione ma deve anche saper orientare, dirigere verso una direzione, una parte.

La sinistra, insomma, non può appoggiarsi solo sulla forza dello Stato, ma richiede anche un’idea di partito. E non deve quindi focalizzarsi sulla diminuzione delle disuguaglianze a valle, attraverso la redistribuzione, ma deve essere la forza che interviene là dove le disuguaglianze si formano e sono brucianti, cioè nel processo produttivo – della produzione materiale e immateriale, e quindi anche nella formazione –. È infatti molto difficile che possa esistere una società equa nella redistribuzione quando persiste un dislivello insuperabile di potere e sapere fra chi controlla la produzione – e la comprende –, e chi partecipa alla fase della produzione in modo passivo. L’obiettivo principale della sinistra è ribilanciare una società che non è neutra, che è già divisa, squilibrata.

Dopo le tre grandi rivoluzioni del Novecento, bolscevica, fascista e socialdemocratica, alle quali la sinistra ha partecipato, contribuito o rispetto a cui è sopravvissuta, nell’ultima rivoluzione – cioè quella neoliberista, nella quale ci troviamo dal 1980 circa – la sinistra sembra essersi perduta. Uno degli obiettivi è allora quello di riprendere le ragioni profonde, strutturali, della sinistra. Posto che sinistra è una parola di parte, ciò implica fornire una lettura parziale di una società che è già in sé parziale, dove per parziale si intende potenzialmente conflittuale, e in ogni caso squilibrata, ma che non lo riconosce, non lo ammette nella propria autonarrazione.

Sotto il profilo pratico, molto poco però si può fare nel panorama politico e intellettuale odierno. Infatti il grande tema della sinistra, cioè il lavoro, è stato squalificato a livello teorico a favore di un’interpretazione dell’economia fondata sull’individuo e sulla sua, presunta, uguale e libera scelta: il lavoro come fonte di valore è scomparso dalle idee e dalle politiche neoliberiste, sostituito dall’importanza del consumo. Il lavoro è stato poi distrutto a livello pratico, reso molto raro, quasi un privilegio, e specularmente una condanna (ai bassi salari e ai bassi diritti); è stato infinitamente spezzettato, e ha assunto tutte le forme e tutte le mancanze di forma, tutte le articolazioni precarie e flessibili, tanto che è molto difficile pensare ad un partito unico del lavoro proprio perché non esiste l’unità del lavoro.

Per quanto riguarda i partiti, poi, i poteri che hanno governato l’ultimo quarantennio hanno voluto dimostrare l’intrinseca malvagità della nozione di partito, che a differenza dello Stato – necessario al capitalismo, ma in funzione servente – è stato fortemente denigrato perché inutile, parassitario, burocratico: da questo si sono creati partiti personali, volatili e insussistenti. La società è diventata non la società degli individui – come pensano gli ottimisti – ma una società senza individui; l’individuo di per sé, d’altra parte, è diventato qualcosa che non ha società, cioè che è privo di legami sociali. L’esito reale dentro il quale la società si trova dopo 40 anni di neoliberismo, – o ordoliberismo nel caso europeo – è la fine del legame sociale: ciascuno è isolato, debole e non in grado di riconoscere o immaginare nella propria mente l’idea di un processo sociale che lo veda protagonista. Nell’universale passività, non a caso prendono corpo fantasmi cospirativi, complottismi, dietrologie, allucinazioni collettive: mezzi con i quali si cerca di darsi una ragione di un mondo sociale che non ha ragione.

In questo contesto la sinistra avrebbe terreno fertile per mettere radici: disuguaglianza, alienazione, mancanza di risoluzione del soggetto in se stesso e nella società, sono tutti argomenti che riguardano la sinistra. Ma, allo stesso tempo, nessuno di coloro che hanno titolo per essere all’opposizione del sistema vigente sceglie la sinistra. Quelli che vengono chiamati “populisti” e “sovranisti” sono precisamente coloro che avrebbero titolo a essere interni a un processo di sinistra, cioè a un processo di rafforzamento del potere dello Stato come difesa allo strapotere delle logiche private e come affermazione dei diritti dei singoli e dei ceti più deboli contro il potere sempre più efficace, ma anche sempre più contraddittorio, del capitale. Una domanda di protezione sociale che è invece intercettata dalla destra, che naturalmente non dà una risposta corretta, ma offre soluzioni illusorie, e non va al di là di additare nuovi capri espiatori… Read more

 

L’articolo – tratto dall’intervento dell’Autore del 28 dicembre 2020 nell’ambito del ciclo seminariale «Ripensare la cultura politica della sinistra» – è stato pubblicato in «Pandora Rivista» il 16 gennaio 2021.

Il lavoro nelle tradizioni politiche moderne: bilancio e prospettive

 

Non si può parlare di lavoro, in chiave storica e teorica, senza confrontarsi con le principali categorie del discorso filosofico-politico: soggetto, proprietà, Stato, società, pubblico/privato, libertà/alienazione, disciplinamento; insomma con la nozione di politica moderna in generale.  Infatti, il lavoro interseca le quattro grandi invenzioni della modernità: lo Stato, il mercato, il partito e la tecnoscienza.

Il mondo antico conosce il lavoro, naturalmente, ma nella teorizzazione classica il lavoro ha scarso rilievo. Certamente, in Platone (Repubblica 369b-374d) e in Aristotele (Politica 1252b) c’è l’idea che la città è prima di tutto cooperazione, un operare comune, e che questo cooperare grava sulla città, la fonda e la determina; ma c’è, altrettanto chiaramente, l’idea che ciò che è importante – l’attività di governo, o l’attività della filosofia, variamente intrecciate o addirittura coincidenti –, non è il lavoro. La politica ha a che fare con la libertà, la filosofia, la scienza, la guerra e la gloria, mentre il lavoro appartiene al regno della necessità. Del resto,  mai i Greci hanno sentito il bisogno di pensare una divinità del lavoro: i Titani lavorano perché sconfitti; Afrodite è la dea della universale fecondità, della riproduzione ma non della produzione,  e il suo infelice marito, Efesto, benché lavori è il dio del fuoco; Demetra è la dea delle messi, non la dea dei contadini; Ermes è il dio della comunicazione, del commercio e anche del furto; ma il dio del lavoro si cercherebbe invano: il lavoro non è cosa da dei. 

Una delle poche voci importanti del mondo greco in cui il lavoro diventa una realtà politica è l’Epitaphios Logos, il  discorso di Pericle che commemora i caduti ateniesi del primo anno (431/430 a.C.) della guerra del Peloponneso, riportato, probabilmente con fedeltà, da Tucidide nel II libro della Guerra del Peloponneso. In quel discorso, che contiene una delle pochissime teorizzazioni greche della democrazia, Pericle, senza abbandonare l’ideale classico dell’eccellenza – che nella tradizione aristocratica è possibile esclusivamente a colui che sia libero dalla fatica e dalla necessità, cioè appunto l’aristocratico –, afferma che solo gli ateniesi sono capaci di realizzare l’autogoverno e di raggiungere l’obiettivo dell’eccellenza, cioè del governo di se stessi su se stessi, in quanto lavorano, non in quanto sono liberi dal lavoro (con lavoro, qui, si intendono i mestieri, il commercio, l’artigianato). Si tratta, evidentemente, di un’affermazione provocatoria; è il grido di guerra di Pericle contro l’ideologia degli aristocratici. In ogni caso, la cittadinanza, anche in Pericle, non deriva dal lavoro. La cittadinanza, l’essere parte di questa comunità che si autogoverna, deriva dall’autoctonia. Quello che Pericle sembra voler dire è: «Lavoriamo e siamo anche capaci di autogovernarci. Siamo capaci di contemperare la  necessità, il lavoro, con la libertà, la politica». Non si dice «attraverso il lavoro siamo liberi», come dirà invece la modernità.

Nella tradizione ebraica e poi cristiana, il lavoro è punizione del peccato, come è chiaro nella maledizione divina lanciata su  Adamo e Eva, cacciati dall’Eden. E la società trinitaria indoeuropea, le cui tracce sono presenti nella tripartizione medievale tra oratoresbellatoreslaboratores, colloca il lavoro al livello più basso della gerarchia sociale: necessario, naturalmente, e anch’esso voluto da Dio come parte dell’ordine dell’essere, ma destinato a essere santificato (legittimato) e governato dal di fuori, da chi non lavora. 

Con l’età moderna cambia tutto. La lettura estremistica, violentemente anti-umanistica, del testo biblico,  operata da Lutero, diventa il veicolo attraverso il quale si afferma l’indipendenza soggettiva dei ceti che hanno interesse ad allentare o rompere i legami e le gerarchie tradizionali, a rovesciare le concrete relazioni di potere per cui chi lavora è subordinato a chi fa la guerra e a chi prega. Quella che nasce da Lutero è una lettura dell’essere cristiani che perfino contro le intenzioni del riformatore risulta a forte caratura soggettiva; il risultato è stato colto da Weber, il quale ha visto che  la soggettività moderna si afferma attraverso una radicalizzazione e una soggettivizzazione del cristianesimo. Lungi dall’essere soltanto punizione, il lavoro è infatti anche la via attraverso la quale il soggetto costruisce se stesso: la soggettività si tempra e si misura in questo mondo attraverso l’«ascesi intramondana». Il «soggetto-che-lavora»diventa per la prima volta il fondamento, il cuore, il cardine della politica; perché «politica» c’è sempre, ma «politica fondata sul soggetto» è davvero una invenzione moderna. Solo in quanto lavora il soggetto fonda la politica. Questa è la cifra fondamentale della modernità: il lavoro passa da essere pura oggettività a essere costitutivo della soggettività e della pubblicità (della politica). Il lavoro è insomma l’attività attraverso la quale si costituisce il soggetto, e – al tempo stesso – quel soggetto che si è costituito in quel modo costruisce la politica. Nessun Antico avrebbe potuto dire che l’elemento fondativo della vita comune è il lavoro, ed è il soggetto: prima dell’età moderna si pensava agli individui ma non ai soggetti; esisteva  il lavoro, ma non era il fondamento della soggettività né il fine della città.

All’interno di questo paradigma generale – soggettivizzazione del lavoro e «laburizzazione» del soggetto, e al tempo stesso apertura di questo soggetto alla dimensione politica – l’età moderna presenta significative differenziazioni. Il lavoro può avere come proprio centro il soggetto, oppure essere la naturale forma di auto-sostentamento della forma politica nella sua totalità, oppure ancora può avere una caratteristica di insuperabile parzialità. 

Il paradigma di Hobbes è però un po’ differente:  in Hobbes c’è l’idea che la politica è necessaria perché sia possibile il lavoro produttivo, e la proprietà. Prima della politica, infatti, non c’è propriamente il lavoro: c’è il prendere, non c’è il produrre in forma sistematica, non c’è neppure il dividere – per usare tre categorie schmittiane –; e il prendere significa che ciascuno prende ciò che l’altro ha preso, mentre il produrre, il dividere e il consumare (e anche la proprietà) sono possibili soltanto dopo la politica. La politica nasce quindi dall’incertezza del lavoro, dall’esigenza di lavoro, dal desiderio di lavoro. Il lavoro è come incertezza una precondizione della politica, mentre come presenza ne è il contenuto finale, ma non è costitutivo della politica: perché ci sia politica ci deve essere il patto, il cui primo contenuto e fine è la vita singola. Non c’è mai stata una riduzione degli obiettivi della politica così radicale: la politica non serve alla gloria, né a fare la guerra, ma solo a rendere possibile la tutela della vita e il godimento dei «frutti dell’industria» (Leviatano). 

John Locke (Secondo Trattato sul governo) instaura un’importante variazione rispetto a Hobbes. Anche in lui c’è il patto; anzi, ce ne sono due, quello di unione che fonda la società politica, e quello che dalla società politica dà vita al governo, il «trust», e tuttavia la differenza decisiva rispetto alla costruzione hobbesiana sta nel fatto che mentre Hobbes prospetta una figura disincarnata della politica – la «carne», cioè il lavoro, viene dopo (prima, semmai, c’è solo la nuda vita) –, per Locke invece la «carne» comincia da prima, dalla natura, e permane e persiste attraverso il patto: la politica serve non a renderla possibile ma a rafforzarla, a darle misura ed equilibrio. Questa «carne» è la proprietà come diritto naturale, e la proprietà a sua volta ha come «titolo radicale» il lavoro, che avviene proficuamente già nello stato di natura: dapprima nella forma dell’occupazione e della lavorazione della terra; ma appena la civiltà progredisce si può essere proprietari non solo di ciò che si è coltivato direttamente, ma di ciò che si può guadagnare lecitamente attraverso il lavoro nelle sue forme più astratte e generali, e attraverso l’uso del denaro. C’è qui l’idea dell’individuo proprietario di se stesso – che vuol dire la fine dell’autorità, delle gerarchie ecclesiastiche, del dominio aristocratico: ciascuno è proprietario di sé; ovvero, ciascuno (maschio bianco) è titolare dei  diritti naturali – vita, libertà, proprietà –. È per tutelare e garantire queste realtà prepolitiche che per Locke si rende necessaria la politica, l’uscita dallo stato di natura attraverso il patto.

In Locke dunque le due dimensioni, il lavoro e la politica, sono distinte, ma c’è una predominanza della dimensione lavoro. Infatti, c’è una chiara consapevolezza della intrinseca e naturale politicità del lavoro: è il lavoro che ci fa stare insieme, non il patto; questo perfeziona e formalizza la nostra socialità, la ripulisce, toglie le difficoltà dello stato di natura, ma il legame sociale è dato dal lavoro (in Europa: fuori da questa c’è l’appropriazione delle terre incolte o poco sfruttate). Con Locke, il protagonista della politica è l’individuo proprietario di sé che, divenuto proprietario di beni attraverso il proprio lavoro, vive insieme ad altri in relazioni di potere codificate da una legge che tutti hanno contribuito a creare. 

C’è in Locke la matrice, non ancora del tutto sviluppata, dell’economia politica classica: il lavoro ha come protagonista l’individuo;  ha una base naturale, una intrinseca socialità (è il lavoro che produce i beni, ciò che è buono per il singolo e per la società: è in embrione la teoria del valore/lavoro) che la politica istituzionale formalizza.  

La coappartenenza di lavoro, soggettività, società e politica è il grande lascito della civiltà moderna, ma è anche l’origine della doppiezza borghese sul lavoro:  da una parte, quando è utile, si gioca la polemicità e la politicità del lavoro contro gli ordini politici e sociali tradizionali; dall’altra, quando serve, si può affermare la naturalità del lavoro, anche e proprio nelle sue forme capitalistiche. 

Infatti, nel paradigma moderno costituito da individuo, soggettività, lavoro, politica, è presto visibile un’ulteriore variante: quella di Sieyes. In Che cos’è il Terzo stato?  Sieyes spoliticizza il lavoro, ovvero trasforma il lavoro in natura, e fa della divisione del lavoro la struttura non discutibile, ovvia, della coesistenza umana, il metabolismo materiale della nostra natura sociale, della nazione. A questo punto, l’utilizzazione del lavoro come titolo per definire la legittimità della vita associata è già avvenuta, l’illuminismo ha già compiuto la sua opera: se il lavoro non è più politica, ma natura, la politica è fare la guerra e la rivoluzione,  tagliare la testa ai nobili, che non stanno alle regole del gioco, cioè rifiutano l’uguaglianza formale. 

Siamo qui nel cuore della neutralizzazione borghese del lavoro, che consiste appunto nel non volere più vedere l’elemento di polemicità, cioè di potere diseguale, oltre che di socialità, contenuto nel lavoro, e nello spostare la polemicità verso un nemico che è interno ed esterno al tempo stesso: interno, perché la nobiltà vive in Francia; esterno, perché ideologicamente estraneo alla nazione rivoluzionaria. Infatti, riprendendo in negativo la tesi, diffusa dalla fine del Seicento, delle origini franco-germaniche della nobiltà francese, Sieyes invitava il Terzo stato a «rimandare nelle foreste della Franconia tutte le famiglie che mantengono la folle pretesa di essere nate dalla razza dei conquistatori e di aver ereditato da loro il diritto di conquista». Politica e lavoro qui si separano: il lavoro non è politica, è naturale (si noti che tanto contro la politicità positiva del lavoro quanto contro la sua neutralizzazione si era mosso Rousseau nel Discorso sull’origine della disuguaglianza: il lavoro, strettamente collegato alla proprietà, è il male originario della civiltà). 

Eppure, contemporaneamente, resta anche la possibilità opposta: non è vero che l’intrinseca politicità del lavoro emerga soltanto con il marxismo. È chiarissimo infatti a un autore coevo di Sieyes come Bentham che la proprietà implica dislivelli di potere nella relazione sociale (certo, il suo problema è l’omeostasi, cioè trovare le forme dell’equilibrio perché la società non si distrugga).

Ma è nel pensiero dialettico, con Hegel, che politica e lavoro tornano a coesistere nel modo più complesso. Il lavoro per Hegel è politico, ma di una politicità non orizzontale (come relazione fra uguali): anzi implica un dislivello di potere, mai del tutto neutralizzabile. Per di più, contro l’ideologia dell’illuminismo, che egli definisce come paradigma dell’utilità, ovvero della neutralizzazione del lavoro – il lavoro è naturale, e l’utilità del singolo può e deve diventare direttamente l’utilità collettiva –, Hegel afferma che l’utilità stessa non è naturale, ma derivata: prima del paradigma universale e neutrale dell’utilità c’è il fatto che chi lavora è un vinto, un subalterno. Il lavoro – è la grande scoperta di Hegel – è un’attività asimmetrica, inscritta nei rapporti di potere, generata da una disuguaglianza polemica e politica; e il rapporto di potere che vi si instaura collega e al tempo stesso separa il signore dal servo. Questo non è il rapporto di potere fra il capitalista e il proletario, i quali sono entrambi lavoratori: il signore hegeliano è invece colui che, nella scena mortale pensata da Hegel, non ha avuto paura della morte, ha vinto: viene riconosciuto dallo sconfitto, il servo, come coscienza essenziale e non lavora. E infatti, nella Fenomenologia dello Spirito, da questo momento il signore esce dalla storia e scompare.

Chi lavora è dunque il servo, un vinto; anche se sulla  scena non ci sono i vincitori. Ma è questa soggettività debolissima, che proprio in quanto debole è costretta a lavorare, che alla fine del processo (nella tarda modernità) riemerge come quella che, lavorando, ha non solo elaborato il mondo, ma ha costruito se stessa ed è giunta alla libertà e alla certezza della ragione. La possibilità di sostenere, come faceva Vico, che verum et factum convertuntur è data proprio dal lavoro moderno, che fa il mondo e al tempo stesso fa il soggetto. C’è qui una importante differenza rispetto alla politicità del lavoro pensata dai liberali come Locke: in un contesto dialettico lo stesso soggetto (e non solo la sua proprietà) è costruito attraverso il lavoro (questa è la nozione di Bildung). 

C’è qui una politicità del lavoro che è una socialità del lavoro: la società civile è per Hegel il sistema dei bisogni, segnato solo dal lavoro individuale e dalla sua capacità relazionale. E, riguardo alla società, c’è la piena consapevolezza che il lavoro non è indifferenziata laboriosità, e che la divisione del lavoro implica anche i dislivelli di potere e tutte le contraddizioni del lavoro,  quelle che producono la dialettica della società civile, e anche la «plebe» (parr. 244-248 della Filosofia del diritto). Hegel vede insomma la piena politicità del lavoro e le sue contraddizioni, e vede soprattutto la centralità del lavoro in senso non retorico: «lavoro» non è una metafora per dire «naturale socialità», ma è il lato materiale della «fatica del concetto» (senza che, però, a differenza di quanto accade con la filosofia, vi sia una sintesi che pacifica il lavoro; la soluzione delle contraddizioni del lavoro è fuori dalla società, è nello Stato – il quale a sua volta non è certo un assoluto, perché presenta altre contraddizioni – e fuori dello Stato). Non a caso, quindi, Adorno rimprovererà a Hegel di «avere chiosato senza ritegno l’elogio borghese del lavoro». 

Marx, da parte sua, afferra l’idea fondamentale di Hegel, la politicità dialettica (cioè contraddittoria) del lavoro (un’idea, lo si ripete, che – priva però dell’elemento della disuguaglianza e del conflitto – era presente anche nel paradigma classico dell’economia politica, noto a Hegel attraverso Jean-Baptiste Say) e le dà un contenuto materiale, che consiste nell’analisi del processo economico; e la contraddizione che Hegel vedeva e accettava – cioè la «plebe», quel «resto» che la società capitalistica sempre produce, quella contraddizione economica dentro lo Stato che risolveva con il colonialismo, spostando cioè le contraddizioni fuori dallo Stato, diventa in Marx molto più radicale, mentre esibisce una chance di soluzione.  

Anche in Marx il lavoro è l’elemento di costruzione della socialità, è costitutivo della politica,  e produce contraddizioni; bisogna però vedere come si articola veramente quel lavoro. In primo luogo, mentre in Hegel il lavoro è ancora un Tutto, un sistema complessivo di relazioni al cui interno si danno contraddizioni, in Marx diventa invece una parte: il lavoro non è uno, ma è un due, e in questa dualità – il lavoro del capitalista e il lavoro del proletario – c’è chi vince (che non è il signore hegeliano) e c’è chi perde: l’uno, il capitalista, mette all’opera l’altro, il proletario. Detto altrimenti: per Marx è centrale capire che il lavoro nel sistema del capitale è «forza-lavoro». L’alienazione (meglio, la reificazione) è la cifra fondamentale del lavoro, come per Hegel, ma non è inevitabile: è necessaria solo all’interno del processo di lavoro capitalistico. 

In Marx il lavoro è il vero titolo della cittadinanza – questo gli è chiaro fino da La questione ebraica (1843), la critica all’uguaglianza formale garantita dallo Stato, mentre in realtà è il lavoro e non lo Stato che socializza gli uomini, rendendoli diversi –: lo Stato è una sovrastruttura funzionale a una parte specifica della società (la borghesia). Non solo è il lavoro subordinato a costituire il titolo della cittadinanza (i proletari sono quelli che fanno funzionare la macchina sociale), ma soprattutto lì, nel lavoro comandato e mercificato, emerge un’umanità talmente ridotta all’osso, a «essenza di genere», che le è possibile – nel momento in cui riconosce la propria condizione – esprimere un’umanità piena; quello di Marx non è semplicemente un umanesimo del lavoro, ma è un umanesimo del lavoro politicamente liberabile. Di un lavoro che non è più sfruttato ma è restituito alla sua funzione di scambio organico con la natura.  Nel lavoro-parte (che implica anche un partito del lavoro, o dei lavoratori), nel lavoro alienato, sta scritta la possibilità di una disalienazione del lavoro (una parte del marxismo del Novecento ha visto in Marx perfino la possibilità di superare la stessa dimensione del lavoro). 

In Marx – uomo dell’Ottocento – lo Stato non è più un arcano: è il primo bersaglio della sua critica giovanile; l’economia politica è il vero problema, che egli impiega tutta la vita a dipanare; ma non è un problema neppure la tecnoscienza. Quarant’anni dopo questa è divenuta il problema. 

In Nietzsche infatti quel problema è centrale. Per lui, l’idea di un soggetto che costruisce se stesso, la società e lo Stato, attraverso il lavoro – tanto nella prospettiva liberale quanto in quella socialista – è la grande menzogna moderna, identica (benché rovesciata) alla grande menzogna antica del lavoro come punizione della colpa; in realtà, nel lavoro si svela la menzogna. Lavoro come colpa e lavoro come libertà sono due facce della stessa medaglia, della stessa logica che vuole che il soggetto sia se stesso solo attraverso un duro disciplinamento, cioè quando è assoggettato (a un padrone, o a un ideale). Il risultato dell’etica moderna del lavoro e infatti che il lavoro che si è insignorito del soggetto; che il lavoro si rivela essere il destino dei servi. 

In Umano, troppo umano II (1878), il primo testo della fase matura di Nietzsche, emerge che l’epoca del lavoro (la modernità) non può non rovesciarsi in «macchina» (inganno, mechané). Il lavoro non è la libertà ma il sistema del dominio su base tecnologica, è la «macchina» come nuova oggettività che nega la soggettività. Il valore del lavoro è il principio di utilità, non di soggettività; il soggetto di cui si parla quando si parla di lavoro non è un soggetto, ma la funzione del paradigma fondamentale della civiltà moderna: l’utilità. Già Hegel lo aveva individuato, addebitandogli la colpa del Terrore; tuttavia, egli pensava ancora che la modernità potesse superare il principio di utilità, e trasformarlo nel principio della libertà. Per Nietzsche invece, l’idea moderna può certamente narrare se stessa come paradigma di libertà e di affermazione del soggetto che col lavoro si insignorisce del mondo; ma la verità di questa narrazione ideologica è che il soggetto è insignorito dalla macchina, dall’utilità che si fa concreta: il soggetto è semmai un oggetto. Come appare nei Frammenti postumi 1887-1888, l’umanità come macchina totale è un «enorme ingranaggio di ruote sempre più piccole, volte al massimo dello sfruttamento e a minimizzare il valore dell’uomo. L’uomo si deteriora perché non si sa più a che cosa mai quest’enorme processo sia servito».

Il che è la fine non solo della filosofia classica tedesca, ma anche della logica moderna della laburizzazione del soggetto. Il soggetto si soggettivizza altrove e altrimenti, non nel lavoro: «ogni attimo in cui facciamo le nostre cose migliori, noi non lavoriamo. Il lavoro non è che un mezzo per questi attimi» (Frammenti Postumi 1882-1884). Non solo il lavoro non è lo spazio della libertà (o della liberazione): non è neppure il problema principale, benché insolubile. È una questione derivata, mentre la principale è la metafisica, la duplicazione del mondo – che nella modernità diventa la costruzione dell’orizzonte dell’utilità – e la tecnica, che da questa discende. Col lavoro, infatti, non si costruisce se stessi, ma si esegue un principio che ci trascende, il principio di utilità.  Nietzsche non è un aristocratico che odia i lavoratori – per lui, lo sfruttamento del lavoro nella sua forma rapace e brutale è idiota, è come ammazzare di fatica un cavallo; il socialismo si previene non sfruttando troppo duramente il lavoro (la logica è quella dell’allevamento, insomma) –; semplicemente, Nietzsche non vede più nel lavoro il problema (l’alienazione) e al contempo anche la soluzione (la libertà); vi vede solo il problema, insolubile all’interno delle coordinate epocali che lo pongono: il lavoro è una disciplina da cui non nasce alcuna libertà. Con il lavoro si resta all’interno dell’epoca, e delle sue contraddizioni – e sono queste il vero problema –. Nietzsche insomma vede che liberalismo e socialismo non sono due alternative, il secondo capace di risolvere i problemi posti dal primo, ma  due facce della stessa avvilita e avvilente narrazione moderna, «malata» (come dice lui), incapace cioè di riflessività, in crisi perché non riesce a criticare se stessa.

Con Nietzsche il lavoro è ormai marginale; il soggetto si costituisce fuori da esso, nelle forme del desiderio e dell’entusiamo (e del consumo). Il connubio – privo di relazione dialettica – fra macchina e godimento tiene ora il campo. 

Sul lato della macchina, la profondità e l’acutezza della diagnosi nietzscheana trova riscontro nell’opera di Ernst Jünger, che in Der Arbeiter (1932) abbraccia in toto l’eredità di Nietzsche, di colui che, nato postumo, è diventato il maestro di un secolo. Di conseguenza, anche per Jünger il lavoro è «macchina»; e l’Operaio, l’Arbeiter, è un addetto alla «macchina», è un Titano. Ovvero, non è più un soggetto moderno, non costruisce più la propria libertà nel lavoro, ma al lavoro è condannato da un destino che ha messo in moto da sé ma che lo ha trasceso. Così, la cifra fondamentale dell’epoca contemporanea non è la libertà ma la coazione.

Tutto ciò significa, tra l’altro, che guerra e politica, guerra e lavoro non sono più distanti, come sosteneva la civiltà liberale, ma sono la stessa cosa: lavoro e guerra sono la stessa figura della violenza, e la violenza è la cifra ultima della utilità. Il Lavoratore, l’Operaio, non solo non è un soggetto ma un oggetto, non un uomo libero ma un essere coinvolto nella coazione, ma non è neppure un uomo pacifico essendo piuttosto produttore di violenza e al contempo sottoposto a violenza. La produzione è produzione di guerra, attuale o potenziale – come si legge in La mobilitazione totale (1930), il testo che prepara l’Arbeiter. L’Operaio è un Milite del Lavoro (come proponeva il giovane Cantimori). 

Con intenti differenti e con altri strumenti concettuali anche Hannah Arendt (Vita activa, 1958) riconosce che il lavoro è inadeguato a fondare la sfera pubblica: tanto l’homo faber quanto l’animal laborans hanno perduto, nella loro ansia di dominare il mondo, la dimensione della politica come libero agire comune: della politica non come costruzione ma come azione. La politica divenuta produzione è il trionfo della tecnica sull’uomo che da dominatore diviene dominato.  Come si vede qui il lavoro è alienante in quanto tale, se elevato a unica dimensione della vita collettiva; la critica del capitalismo è assorbita nella critica del lavoro. Certo, questa prospettiva si applica anche alla rinascita, dopo la fine della seconda guerra mondiale,  dell’umanesimo moderno del lavoro – cioè al passaggio dallo Stato totale allo Stato sociale –. È una prospettiva radicale, che non crede che nel lavoro (la sfera della necessità) ci sia l’origine della politica come libertà.  

Al contrario, la Costituzione italiana ricapitola la narrazione della modernità quando afferma che il soggetto costruisce se stesso, la società e la politica, attraverso il lavoro; dire che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro significa che il lavoro è il luogo della formazione del sé, della società, dell’ordine politico. E anche che è la dimensione privilegiata della liberazione dal bisogno e dalla umiliazione della dignità personale – senza che vi sia, in questa prospettiva democratica e progressista, un esplicito discorso sulla liberazione dalla reificazione propriamente capitalistica, c’è certamente un’indicazione contro lo sfruttamento e la degradazione del lavoro e dei lavoratori –. 

Dopo il «trentennio glorioso» – l’alleanza fra il capitalismo fordista e i partiti democratici di massa, che nel nostro Paese hanno garantito sviluppo economico e  progresso civile e sociale – una nuova sfida ha minacciato l’idea (e la pratica) moderna che veda nel lavoro la chiave di comprensione e di costruzione del soggetto, della società, della politica. La nuova sfida è il neo-liberismo, le nuove forme del capitalismo – che in generale non è più ad alta intensità di lavoro ma richiede una bassa intensità di lavoro –, ora mosso da un’idea fondamentale: cioè che il soggetto non si forma attraverso il lavoro, e che l’economia è un sistema di equilibri nei quali si esprimono le preferenze di soggetti già fatti e finiti, capaci nello scambio e nella concorrenza di massimizzare la propria utilità individuale e di operare scelte razionali (queste tesi, riconducibili alla teoria della scelta razionale, derivano dal marginalismo austriaco e dalla sua critica radicale della teoria del valore-lavoro). 

In realtà questa nuova individualizzazione del lavoro è al tempo stesso anche una nuova naturalizzazione: quel soggetto, infatti, intorno al quale ruota, nella teoria (nell’ideologia) la realtà del lavoro, è pensato come un soggetto astorico, naturale, esente da determinazioni materiali. Infatti, accanto alla naturale capacità di calcolare la propria utilità, di massimizzare il proprio profitto e la propria avidità, di quel soggetto il neoliberismo stimola anche (secondo le circostanze e le convenienze) il lato del piacere, sollecitando il suo egoismo – ma oltre a questo tono edonistico o sentimentale il discorso neoliberista si può servire anche di un mood penitenziale, adatto ai tempi di crisi e di sacrifici –.  In generale, per il neoliberismo il lavoro è una faccenda privata, nel bene o nel male, nel successo o nella sconfitta: non dà forma né al soggetto, né alla società né alla sfera politica (dentro la quale, in ogni caso, lo Stato è un male, che va ridotto e tagliato). 

Naturalmente questa narrazione è in sé non vera: è al servizio di poteri e di interessi che sanno bene quanto il lavoro sia in verità centrale, capace di formare lo spazio pubblico; e proprio per questo lo vogliono marginalizzato, subalterno, privatizzato, non garantito, appunto perché gli interessi che quella narrazione veicola possano trionfare. Infatti,  il lavoro plasma ancora la vita del singolo e la forma della società e della politica: lo sanno coloro che cercano di lavorare, che lavorano e subiscono su di sé il dominio di poteri che neppure comprendono. Solo, mentre in passato quel dominio veniva concettualizzato in narrazioni che mettevano al centro il soggetto  e la sua capacità di liberarsi attraverso il lavoro, di liberare il lavoro attraverso le contraddizioni del lavoro, oggi questo non avviene: del  lavoro non si dice più che è centrale, che lo dovrebbe/potrebbe essere. Al più si dice che la sua attuale mancanza è un problema, che però la politica si guarda bene dall’affrontare direttamente, affidandone piuttosto la soluzione al mercato. Pensare al lavoro come problema, in questo modo, significa in realtà pensarlo come derivato. 

Il lavoro non fa sistema: anzi, da una parte si nega che un sistema esista (che la stessa società esista), e dall’altra si afferma che le logiche del sistema sono tanto elastiche e al contempo tanto rigide da consentire  ogni trasformazione del lavoro ma anche da impedire che esso divenga un problema politico. Insomma, innovazione e flessibilità sono le nuove forme della neutralizzazione della dialettica del lavoro. Quanto ciò sia compreso e condiviso dai lavoratori, o quanto a ciò essi si possano e vogliano opporre, e come, è un problema politico fondamentale.

 

 

Questo testo modifica la Prefazione a D. Dazzi –  C. Minghini (a c. di), Ripartiamo dal lavoro. Autonomia, riconoscimento e partecipazione, Bologna, Editrice Socialmente, 2014, pp. 9-19

Seduzioni e delusioni del neoliberismo

 

Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.

Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore  e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.

Le conseguenze di ciò sono, oltre al deperimento e alla delegittimazione delle strutture pubbliche e dei corpi intermedi tradizionali (Stato, burocrazia, partiti, sindacati), l’estensione illimitata dell’area del mercato, a cui nessun ambito può pretendere di sottrarsi (l’arte, la cultura, l’istruzione, la scienza, la sanità, il turismo, il tempo libero, lo spettacolo, la politica, ne sono investite e assorbite, ne ricevono “valore”): insomma, l’universale mercificazione della vita di tutti. Questa estensione del mercato, la sovranità dell’economico e della sua auto-interpretazione come “equilibrio” e come progressivo nec plus ultra dell’umanità, ha come conseguenza l’iscrizione di tutta la vita, di tutte le vite, nel registro della concorrenza e della competizione, della prestazione e della valutazione – a opera di agenzie pubbliche e private, che assumono il peso determinante che un tempo spettava ai ministeri –. Non il conflitto, che è un fatto pubblico e sociale, e neppure la collaborazione, ma la competizione, che è un fatto privato, tiene ora il centro della scena.

Questa visione è stata abilmente introdotta nell’immaginario delle masse, con un’opera insigne di psico-politica;  vi ha fatto presa, vi si è radicata, perché è stata presentata nel momento della massima delegittimazione delle strutture di potere tradizionali: la caduta del comunismo in Russia e dintorni (con l’enorme eccezione della Cina, che si concilia col neoliberismo attraverso la nozione di autorità), e la crisi, in Occidente, dello Stato sociale (in realtà, del sistema di Bretton Woods) e delle forze politiche che l’hanno supportato (i partiti democratici del secondo dopoguerra). Questa visione neoliberista, insomma, è stata legittimata attraverso il ricorso a un’accezione emotiva, euforica ed energetica, della nozione di libertà individuale, declinata come ribellione contro l’autorità – appunto, partiti e sindacati, ma anche Stato ed élites tradizionali (i “professoroni”)  – e come potenziamento del singolo soggetto attraverso l’azione rivolta al successo, all’affermazione di sé. Una libertà che è deregulation su scala ridotta, analoga a quella che la politica perseguiva, negli anni Novanta, su scala mondiale. Tutti possono arricchirsi, tutti possono mettersi alla prova, tutti possono competere per migliorare la propria posizione sociale; e tutti lo fanno rimanendo «se stessi», liberandosi da ogni autorità, obbedendo solo ai propri istinti vitali, coltivando e amplificando i propri talenti: «anche tu puoi, se vuoi». Non il comando ma il libero contratto, sempre revocabile, è la figura chiave di questa società; non l’autorità ma la libertà; non il dovere ma il diritto soggettivo; non il governo e il diritto pubblico ma la governance privatistica a rete e la lex mercatoria, pattizia, elastica; non la stabilità dell’ordine ma il movimento, la circolazione, l’innovazione, l’intrapresa; non la nascita né gli studi, ma il successo (confuso col merito), l’aggressività, l’avidità: greed is good, il peccato capitale dell’avarizia è un bene. Dai garage della Silicon Valley escono i nuovi miliardari con il loro grido vittorioso (già sessantottino): stay fool, stay hungry, la sfida a non appagarsi mai. L’utile è legittimato dal sentimento, la speculazione dalla commozione.

Tutto ciò va oltre Mandeville: qui non si tratta di vizi privati e di pubbliche virtù, ma della nietzschiana trasvalutazione di tutti i valori, di una eroica volontà di potenza paradossalmente diffusa in tutto il corpo sociale, e applicata all’ambito (per Nietzsche spregevole) dell’utile, e divenuta, ancora più paradossalmente, norma collettiva. Dalla critica al normativismo razionalistico, dalla derisione del pensiero dialettico, dalla decostruzione del logos moderno e delle sue strutture politiche, in primis la sovranità, emergono – in chiave mondialista o liberista, benicomunista o ultraprivatistica – la medesima apologia dell’«oltre», il medesimo scuotimento dei fondamenti, la medesima «splendida aurora» della soggettività desiderante, il medesimo godimento in atto, il medesimo trionfo dell’immanenza, la medesima pretesa che le dinamiche sociali, spiegabili attraverso l’agire individuale, si autosostengano, che non debbano rinviare a null’altro che a se stesse. La partita si gioca tra “movimenti” globali, nella concorrenza tra il francescanesimo moltitudinario, da una parte, e il general intellect mercatista dall’altra, sulle teste di Stati e classi, scienze e autorità. Le prospettive politicamente confliggono, ma convergono nella critica del Vecchio, travolto dall’energia del Nuovo.

Al di là delle analogie e delle differenze rispetto alla prima grande ondata di movimenti del dopoguerra – la generazione del Sessantotto lottava per una  forma diffusa anarchica e rizomatica della libertà, ma nonostante le sue istanze libertarie e individualistiche fu capace di agire socialmente e di contestare la guerra in Vietnam – resta il fatto che la narrazione del neoliberismo fece presa perché apparve rivoluzionaria: la quarta rivoluzione del XX secolo dopo quelle comunista, fascista, e socialdemocratica. Una rivoluzione che prometteva l’immediata liberazione individuale: se si promuove la libertà contro l’autorità, l’espansione contro la costrizione, la potenza contro la diligenza, l’eccezionale contro il normale, la velocità contro la staticità, la trasgressione contro il conformismo, l’immanenza contro la trascendenza (o l’auto-trascendimento), la seduzione è garantita.

Nulla di tutto ciò si è rivelato vero, se non le sue esagerazioni e le sue contraddizioni, la sua negazione pratica nelle contraddizioni che si sono rivelate. A partire dal soggetto euforico, che si è rovesciato in soggetto impotente e impaurito, avendo ben presto sperimentato che il mare sconfinato delle opportunità è in realtà la selva aspra delle tribolazioni e delle lacerazioni; che i poteri economici dilatati su scala planetaria lo schiacciano come una nullità; che la centralità del consumatore è in verità la subalternità dell’individuo asservito a ogni manipolazione; che l’espansione anarchica dell’Io è prerogativa dei pochi che reggono il mondo, moltiplicando la mortificazione e la soggezione di innumerevoli Io, legati dalle  «catene del valore» che nel globo vincolano uomini e donne come propri strumenti, mai unificati in un diritto comune e in una coscienza comune ma anzi sempre parcellizzati, separati, divisi, posti in concorrenza gli uni contro gli altri;  che più si parla di privacy (concetto già in sé difensivo) più l’individuo è oggetto delle invasive costrizioni di apparati di potere pubblici e privati davanti ai quali è trasparente, e dai quali non può sfuggire.

Al livello pubblico, poi, lungi dall’estinguersi lo Stato si è rafforzato; non verso i pochi forti, naturalmente, ma verso i molti deboli, che ha disciplinato, sorvegliato e punito con tanta maggiore energia quanto più le contraddizioni del neoliberismo hanno mostrato che il sogno euforico del benessere diffuso aveva come controparte la povertà avanzante, la disuguaglianza, l’anomia sociale, il crollo della qualità della vita; lo Stato sempre più volentieri ha fatto ricorso all’eccezione contro la norma,  e sempre più spesso si è dato forme di governo spostate dalla democrazia alla tecnocrazia, centrate non sulla rappresentanza sovrana ma sulle agenzie non rappresentative che «mettono al sicuro» i fondamenti del sistema dall’invadenza della politica; e ha visto erodere sia la propria legittimità (non è più capace di ispirare civismo) sia  la propria sovranità – mentre la filosofia la decostruiva –, a fronte del potere dell’economia, della finanza e delle agenzie di rating. Nondimeno, le grandi sintesi politiche, i Grandi Stati, sono ancora in grado di determinare la politica internazionale, con le loro sovranità in concordia discors rispetto alle potenze economiche.

Al livello sociale, infine, la produzione, espunta dalla teoria, è rimasta centrale con tutte le sue contraddizioni: il lavoro è divenuto più incerto, povero, indifeso, scarso. E ciò o è giudicato senza rimedio, o vi si interviene a livello etico, con il capitalismo compassionevole, oppure con distribuzioni di sussidi; o ancora con lo scambio fatale fra diritti sociali (progressivamente negati) e diritti civili (tendenzialmente, anche se molto lentamente, concessi o allargati). Lo Stato sociale è finito sotto l’orizzonte; la critica strutturale dell’economia non esiste più; l’individuo è solo davanti e dentro il capitale, e deve sopperire con nuove emozioni private – dalla fidelizzazione all’azienda a qualsivoglia altro orgoglio identitario –, alla perdita di senso del suo agire. Inutile dire che a fornire tali emozioni provvede il sistema mediatico.

Infine, nella morsa dell’ordoliberismo tedesco – la matrice dell’euro –, quella che nel neoliberismo “austriaco” era libertà è diventata dovere, al kosmos spontaneo si è affiancata una severa visione statalistico-organicistica, l’euforia si è rovesciata in austerità, in espiazione, in disciplina, in paura, in autorità; ed è emerso che il nuovo paradigma economico altro non è se non una dottrina liberale deflativa, che prevede ogni anno tagli al bilancio dello Stato, spending review, compressione della domanda interna oltre che dei diritti sociali, orientamento del sistema economico alla esportazione.

Non siamo però di fronte all’universale schiavitù; la reazione a tutto ciò c’è stata. L’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione del bail-in, la legge Fornero, l’inoccupazione strutturale, le disuguaglianze crescenti e incolmabili fra ricchi e poveri, il sotto-finanziamento sistematico dei servizi pubblici, le insicurezze sociali ed esistenziali che da tutto ciò derivano, le prospettive di dover subire ogni anno manovre «lacrime e sangue» e di dovere affrontare un destino come quello della Grecia: tutto ciò non è stato controbilanciato dalla stabilità dei prezzi, dall’Erasmus, dai voli low cost, dal roaming europeo, dalla diffusione degli smartphone. Si è generato, piuttosto, in Italia, in Europa, in Occidente, un “momento Polanyi”, una mossa difensiva rispetto al dominio del capitale, una ricerca di protezione, anche nella forma dell’affidamento plebiscitario a un capo; una reazione che le sinistre di governo, le élites politiche di ieri, denigrano come “populismo” e delegittimano come “sovranismo”, ma che non analizzano nelle sue cause originarie e che si limitano a deplorare moralisticamente come “cattiveria”; un malessere che non hanno intercettato, che  hanno lasciato alle destre europee, e che ora definiscono “fascismo”.

Ma i sovranismi (termine privo di dignità teorica) non sono una declinazione aggiornata di un presunto «fascismo eterno». A parte le differenze sostanziali (il nesso tra violenza e politica, e tra guerra e politica, essenziale al fascismo, è pressoché assente nei partiti che hanno intercettato questo trend), vi è oggi un’altra divergenza rispetto ai processi degli anni Trenta a cui pensava Polanyi. La richiesta che gli Stati tornino ad appropriarsi della sovranità ha più il senso della tutela delle esistenze singole e familiari, dei piani di vita individuali, che non della ipertrofia del ‘politico’, della volontà di potenza nazionalistica. Ciò che si chiede è più uno Stato protettore che uno Stato militare, più uno Stato sociale con qualche tocco di “comunità” che uno Stato-Moloch, più un individualismo di massa che un nazionalismo identitario, per il quale mancano i presupposti culturali: il nazionalismo, infatti, implica una forte dimensione pubblica e una consapevolezza storica collettiva, che oggi francamente non è dato vedere. Il neo-liberismo ha lasciato il segno, almeno nelle percezioni esistenziali e negli immaginari collettivi: più che di identità nazionale si tratta oggi di protezione dei privati dal mercato dilagante e dall’austerità sempre incombente e, infine, del rifiuto della «società liquida» e delle sue solidissime, inscalfibili disuguaglianze.

L’orizzonte della protesta, insomma, resta sostanzialmente il medesimo – fatto salvo l’abbattimento, a volte grave, di alcuni tabù lessicali, ossia del «politicamente corretto» –; la reazione al neoliberismo è declinata in chiave non di conflitto sociale ma di invidia individuale, non di un nuovo paradigma economico ma di odio anticasta, non di critica dell’economia politica ma di libero sfogo di pulsioni securitarie (in parte giustificate, e in parte spinte fino alla xenofobia), non di ripresa dell’elaborazione critica ma di ulteriore svilimento della cultura “alta” in nome del plebeismo, non di giustizia ma di giustizialismo, non di coraggio ma di timore (legittimo, ma ingigantito ad arte dai governi). Domina ancora l’individualismo, benché mutilato, ferito, umiliato, deluso. Reazione, quindi; non vera ribellione; meno che mai rivoluzione. Il soggetto individuale non diviene collettivo; resta quello di prima: emotivo, ma animato da emozioni ben diverse. Un soggetto sedotto, abbandonato e ormai carico di timore e di rancore. Le molte ragioni dei singoli (parecchie buone, qualcuna cattiva) non diventano ragioni politiche collettive: siamo davanti, con valori in parte rovesciati, alla medesima pseudo-attività, e reale subalternità, alla medesima impotente solitudine, che caratterizzava il neoliberismo.

Il quale, da parte sua, a questa reazione, rabbiosa ma non alternativa, riesce ad adattarsi. È possibile che il sovranismo divenga, dopo tutto, una sorta di  “piano B” dei poteri dominanti, che passano dal mondialismo ideologico a un moderato territorialismo (con largo uso di capri espiatori) sulla base del principio «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»; ed è certo che il sovranismo è per ora una ricerca di protezione senza proiezione, senza un’idea di politica.

L’opposizione fra individualismo liberista e mondialista, da una parte, e sovranismo dall’altra è, insomma,  più di forma che di sostanza; più di mentalità che di struttura; e non è un’opposizione fra democrazia e antidemocrazia. La democrazia era di fatto divenuta post-democrazia già in età neoliberista: oggi, a (parziale) differenza di ieri, se ne vilipendono pubblicamente i resti. Il che, certo, è più grave, a livello ideologico; ma la costituzione materiale del nostro Paese, dell’Europa, del cosiddetto Occidente, va per la sua solita strada. Per provare a ridare vita e significato alla democrazia bisogna uscire dalla contrapposizione superficiale fra sovranisti e  europeisti (o mondialisti), rinunciare alle prediche moralistiche e dare inizio a un grande investimento culturale – critico, analitico e propositivo – paragonabile a quello che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso spianò la via alle truppe trionfanti del neoliberismo; il quale oggi cambia volto e retorica, ma non trova ancora avversari sufficientemente consapevoli e radicali.

Pubblicato in «Italianieuropei», 3/2019, pp. 75-82

 

A sinistra: da dove ripartire?

Intervista con Virgilio Carrara Sutour

Professor Galli, parlando della distanza della sinistra e del centro-sinistra dall’elettorato che vorrebbero rappresentare, del loro eterno dividersi e della conseguente incapacità a reagire a forze che si accaparrano elementi del loro discorso, da dove possiamo partire per ricercare le cause di questa condizione?

Il fatto di parlare, allo stesso titolo, di ‘sinistra’ e di ‘centro-sinistra’ costituisce in sé un indice di indeterminatezza su ciò che oggi la sinistra è.

Con ogni evidenza, il centro-sinistra si è posto come architrave dell’attuale sistema socio-politico ed economico. Ciò ha funzionato finché il sistema ha avuto un minimo di capacità produttiva, di ordine e benessere. Quando il sistema, nel 2008, è andato in crisi (benché le ragioni della crisi siano insite nella sua stessa natura), la politica italiana è stata sospesa: abbiamo avuto governi tecnici sorretti in Parlamento quasi da tutta l’Assemblea. In seguito, abbiamo avuto un centrosinistra – la fase renziana – che ha promosso una serie di riforme funzionali a un assetto tutt’altro che ‘di sinistra’.

Ossia?

Allo scopo di rendere il sistema sociale ed economico più funzionante, conservandone tutte le contraddizioni interne, alcune riforme sono state fatte (il ‘Jobs Act’, la ‘Buona Scuola’); altre sono fallite: la Costituzione. Di fatto, il centro-sinistra non ha saputo – questo è il punto – individuare e, men che mai, correggere le contraddizioni del sistema, che produce più disagio che benessere, più povertà che ricchezza. Inoltre, quando produce ricchezza, non la distribuisce equamente. Il sistema genera disuguaglianza crescente e priva i cittadini, soprattutto i giovani, di un ragionevole futuro.

Tutto questo non è stato approfondito e compreso dal centro-sinistra?

Non lo ha capito o non l’ha voluto capire. Alla prima occasione, non appena i cittadini hanno avuto l’opportunità di esprimersi con il voto, la loro scelta è andata contro l’architrave politico del sistema, cioè il PD, e contro il suo contraltare di destra, cioè il partito di Berlusconi. La sinistra – è ora di porre termine a questa confusione – non è il centro-sinistra.

Come può essere definita?

Come una forza di critica e di cambiamento, in senso democratico e progressista. Per ‘critica’ intendo una forza culturalmente dotata, capace di analizzare la società cogliendone il lato conflittuale, in vista o di un rovesciamento degli attuali rapporti di forza o, in ogni caso, di riforme strutturali dirette a imbrigliare la potenza del capitale, non a lasciarla correre indisturbata.

In Italia, una sinistra di questo tipo, di fatto, non c’è. Non c’è un Corbyn, per intenderci. La ragione principale è che, al di là del PD che non è di sinistra, la sinistra è poca cosa: culturalmente irrilevante e divisa al proprio interno – come dimostrano le tragicomiche vicende di LEU.

In ogni caso, tanto quando è architrave del sistema, tanto quando ne vuole essere critica, ovvero sia quando è centro-sinistra sia quando è sinistra, le forze di cui parliamo hanno assorbito fattori, elementi, suggestioni e punti di vista del sistema, in misura tale da non essere capaci di farlo funzionare, né di contrastarlo seriamente.

In che cosa si è tradotto, per la sinistra, questo processo di assorbimento?

Pensiamo soltanto che la sinistra ‘alternativa’ è, praticamente, tutta mondialista: su questo punto, che è decisivo, è perfettamente in sintonia con il neoliberismo. Detto altrimenti, la sinistra non ha alcuna consapevolezza dell’esigenza maturata dentro la società italiana – ma non solo qui – di difesa, di tutela rispetto ai fattori più perturbanti del nostro tempo: mercati e migrazioni. Volendo offrire a questo dato uno spessore storico, penso al Karl Polanyi di La grande trasformazione (1944): l’analisi della nascita dei fascismi come domanda delle società di essere tutelate rispetto a una precedente fase di liberismo estremo. In un dato momento, al predominio della funzione privata – che, tra l’altro, ha provocato gravissimi scompensi – le società oppongono la richiesta di un predominio della funzione pubblica, cioè dello Stato.

Naturalmente, con questo non intendo affermare che il fascismo sia stato veramente una tutela dalle dinamiche del capitalismo: ne è stata piuttosto una variante. Né intendo affermare che l’attuale fase politica sia analoga alla nascita dei fascismi europei. Le forze politiche che, avendola intercettata, stanno approfittando di questa fase, sono forze di destra, ma non sono fasciste, non avendo del fascismo alcuni assunti: la violenza politica come metodo, la guerra come finalità. Soprattutto, non hanno del fascismo il culto dello ‘Stato potente’.

Però ci sono elementi di violenza molto forti.

Sì, ma non sono elementi di violenza ‘sistematica’: la coincidenza tra politica e violenza, oggi, non è accettata da nessuno. Banalmente detto, chi afferma oggi che l’omicidio politico non sia un omicidio, ma una misura opportuna? Né la guerra è vista come finalità della politica, come invece era per il fascismo.

Una parte di questa violenza, però, è confluita nelle politiche securitarie alle quali si assistiamo in diverse realtà nazionali, compresa la nostra.

Appunto: mentre la fase fascista aveva sia una componente securitaria sia una componente di aggressività tanto interna quanto esterna, oggi invece prevale di gran lunga la semplice richiesta securitaria e solo in parte identitaria. Le società europee stanno chiedendo un ‘alt’ alle dinamiche economiche (che coniugano liberismo e austerità) imposte da Bruxelles e all’immigrazione. Queste sono le due grandi richieste, che però non vanno oltre: non sono prodromiche allo sviluppo di una ‘volontà di potenza’, anzi sono richieste molto piccolo-borghesi che non presentano niente di eroico e aggressivo.

Gli episodi di violenza contro i migranti non generano consenso. Nella peculiarità del caso italiano, ha invece prodotto dissenso, in un’opinione pubblica già esasperata dalla crisi, la palese incapacità dei Governi della XVII legislatura a gestire il flusso migratorio. La rabbia nei confronti dei migranti rappresenta un elemento accessorio rispetto alla gravissima crisi socio-economica che ha colto il Paese e dalla quale l’Italia non si è ripresa, a differenza di altri Stati europei – al di là del fatto che il modello economico contenuto nell’euro è un modello deflattivo, che non consente grandi sviluppi dell’economia.

Questa esigenza passiva di difesa nasce dai ceti più deboli della società, quelli che patiscono di più le logiche dell’euro. La crisi di quelle logiche non è stata ravvisata; oppure, se lo è stato, è stata derisa e negata dal centro-sinistra, ma anche dalla sinistra. Il primo fa parte dell’establishment e ha introiettato un unico ordine (politico, economico e sociale) possibile: quello vigente, che, secondo il principio thatcheriano del TINA (there is no alternative), dovrà risultare buono e giusto per chiunque.

La sinistra in senso proprio, in ogni caso numericamente priva di peso, non ha colto diverse caratteristiche della crisi.

Un esempio di questa miopia?

La sinistra chiede ancora più Europa, senza porsi il problema di ‘quale’ Europa si prospetti: aumentare il peso dell’Europa nel suo attuale assetto istituzionale ed economico porta palesemente ad aggravare la crisi, non a risolverla. Il chiedere, poi, un’apertura incondizionata dell’Italia ai diversi flussi migratori le aliena la stragrande maggioranza dei consensi degli italiani.

Il centro del consenso – lo dimostra la campagna di Salvini, a costo zero – sembra dipendere dalla questione migratoria, che diventa centrale o quantomeno equiparata a quella economica.

Abbiamo una richiesta di protezione su due fronti (economico e migratorio), che identificano fenomeni entrambi strutturali. La sinistra non riesce a mettere ordine in questo mare di problemi, mentre la destra li vede, perché più spregiudicata, più superficiale e più abile, offrendo protezione: tanto sul versante economico (ricordiamo la polemica anti-euro che c’era nella proposta della Lega), quanto su quello delle migrazioni. E gli italiani ci credono.

In tutto questo, dove si colloca il Movimento 5 Stelle?

I 5 Stelle sono un fenomeno che, prima o poi, da qualche parte deve ‘cadere’. Più facilmente – o, diciamo, ‘maggioritariamente’ – cade a destra, benché all’interno del Movimento molti voti e alcune intuizioni (che non vanno al di là delle intuizioni, cioè non diventano sistema di pensiero), un tempo, stessero a sinistra.

È molto probabile che l’offerta di protezione della destra contro il capitalismo e contro i flussi migratori sia, entro certi limiti, efficace nel secondo caso ma, al tempo stesso, che non riesca (o non voglia) fornire adeguata protezione rispetto alle logiche più dure del capitalismo. Non a caso, sotto il profilo economico, la vera richiesta della destra ha a che fare con le pensioni e non, ad esempio, con l’Articolo 18. Se si vuole proteggere la società dalle logiche del capitalismo, si deve rafforzare il potere dei lavoratori: il loro status giuridico, la loro capacità economica, il loro peso nelle lotte sindacali, puntando su un’economia fondata sulla domanda interna e non sull’esportazione. Tutte cose che la Lega non si sogna nemmeno lontanamente di fare. Mentre, probabilmente, è nelle corde della Lega aiutare il proprio elettorato ad andare in pensione presto, cosa che non è di per sé sconvolgente sotto il profilo politico – può esserlo, se mai, sotto quello dei conti.

Esiste il ‘nazionalismo’ leghista?

Una vera politica nazionalistica non costituisce un tratto distintivo della Lega, perché per fare nazionalismo ci vuole cultura: non basta dire che il presepe è più bello dell’albero di Natale, né che gli italiani sono cristiani anziché islamici. Per fare del nazionalismo bisogna essere in linea con la tradizione nazionale, cioè conoscere Dante, la storia italiana, la storia dell’arte… Ed esaltarla, il che – dico io – è in sé negativo, mentre conoscerla sarebbe un bene per tutti.

Sappiamo che, a destra, questa conoscenza non c’è; ma non c’è nemmeno a sinistra. Comunque sia, dissento fermamente da chi afferma che siamo di fronte a un’impennata del nazionalismo. Quale nazionalismo? Quando l’Europa era in preda ai nazionalismi – quelli che determinarono la Prima guerra mondiale – gli intellettuali erano almeno capaci di interpretare la cultura nazionale. Oggi chi lo fa? Siamo davanti a un’impennata di paura, molto più banalmente.

Si può spiegare questa paura con un’unica, grande causa?

La causa prima è l’insicurezza economica: in sostanza, l’individuo ha perduto il controllo sulla propria vita. Questo è il tema di fondo. Ti passa tutto sopra la testa a opera di poteri che non si riescono non solo a porre sotto controllo, ma nemmeno a individuare.

La democrazia è, in primis, retta dall’idea che la politica si trovi sotto il nostro controllo, ovvero che capiamo quello che succede perché siamo noi a farlo. In secondo luogo, la politica democratica è, almeno, trasparenza: anche se il potere è gestito dagli altri, dalle élites, siamo noi a legittimarle e a chiedere conto. L’impotenza davanti a forze non individuabili (che cosa sono i ‘mercati’? Chi sono i ‘migranti’? Da dove arrivano?) e la conseguente percezione di vivere in un contesto fuori controllo generano quel sentimento primordiale che è la paura.

La sinistra e il centro-sinistra hanno fatto di tutto: non per eliminare le cause della paura, ma per dire agli italiani che sono degli stupidi, dei selvaggi e dei barbari, se hanno paura: mi sembra assolutamente folle, anche sotto il semplice profilo del buon esito della propria proposta politica.

Cosa è mancato a quelle proposte?

Bisogna ascoltare le ragioni di chi ha paura, capire che cosa teme allo scopo di eliminarlo, non di opporvi prediche e buoni sentimenti. Parliamo di paure altamente giustificate, soprattutto quelle inerenti alla nostra condizione socio-economica. In una situazione di paura, i cittadini non si sono certo rivolti a Bruxelles per farsi difendere, né all’ONU. Si sono rivolti all’unica realtà istituzionale che conoscono, per la quale votano e che identifica la loro soggettività giuridica pubblica: lo Stato. Da qui nasce l’accusa di ‘sovranismo’: un’accusa sbagliata e concettualmente fallace, perché l’idea che esiste la sovranità popolare (ossia: sono i cittadini che comandano, non i mercati) è contenuta nella Costituzione e quindi non è un ‘ismo’, una tendenza di parte, ma è patrimonio di tutti.

Questi sono discorsi che stanno benissimo a sinistra. Tuttavia, per motivi di compromissione con il potere (il caso del centro-sinistra) o di incapacità culturale (la sinistra), essi non sono stati rilevati. Sono stati, invece, raccolti entusiasticamente dalla destra che vi ha fatto rientrare le sue scarse vedute e i suoi pregiudizi. Per cui la sinistra deve piangere se stessa per quanto sta succedendo in Italia: se Salvini vince le elezioni, non è colpa sua, ma di chi lo lascia vincere, dicendo ai cittadini che sono dei deficienti o dei barbari.

Secondo Lei la sinistra è in grado di rifondare un proprio discorso? Ci sono esempi storici che potrebbe recuperare?

L’Italia uscì dal fascismo attraverso una guerra, scatenata e persa dal fascismo, dentro la quale si è inserita la Resistenza. Poiché nessuno evidentemente auspica tragedie, occorrerà molta pazienza. Tranne che i rappresentanti dell’attuale Governo non commettano errori così gravi da alienarsi il proprio elettorato (quello che sperano in tanti), bisogna ricominciare da capo.

In che modo?

Smettendola di pensare che la sinistra debba avere più amici tra gli imprenditori che non tra i sindacalisti. Facendola finita con l’idea che centro-sinistra e sinistra siano la stessa cosa, e che non ci siano differenze di interessi all’interno della società, perché queste differenze ci sono. È giusto dire a una persona: ‘Non sei titolare di alcuna tutela perché il capitalismo vuole flessibilità’?

La sinistra non è nata per favorire il capitale e le sue ragioni, ma per analizzare la società da un punto di vista specifico, quello del lavoro e per organizzarne gli interessi e i valori. Concettualmente è facilissimo dire a qualcuno: ‘Faremo una legge perché tu possa essere licenziato, perché il capitalismo di oggi funziona così; ma non ti preoccupare, perché il capitalismo funziona tanto bene che, se ti licenzia un’impresa, il giorno dopo un’altra sarà pronta ad assumerti’. Affermare questo è facile, ma criminale: il capitalismo odierno funziona distruggendo il lavoro, non creandolo, perché non ne ha bisogno. E infatti, in ultima analisi, un’ipotesi come il reddito di cittadinanza va nella logica dell’attuale forma di capitalismo, che preferisce dare sussidi piuttosto che creare lavoro (se invece insieme al reddito di cittadinanza verrà creato vero lavoro, tanto meglio: staremo a vedere).

Non dico, allora, di fare la Rivoluzione di ottobre: l’obiettivo è riequilibrare, con un nuovo compromesso, le ragioni del capitale e quelle del lavoro. Niente di sconvolgente, ma certamente un cambio di paradigma. Più beni comuni, più potere al lavoro, più domanda interna, più mano pubblica nell’economia, più investimenti. Per cominciare, si dovranno organizzare gli interessi che si contrappongono naturalmente al capitale, senza inventarseli.

Come farlo, concretamente?

Iniziando a tornare sui luoghi di lavoro. Anziché alle assemblee di Confindustria, si deve andare alle assemblee sindacali.

Un metodo che fa appello a una ritrovata condizione di prossimità?

Assolutamente sì. Prima occorre l’analisi critica, quindi anche distanza: studiare i libri e le ricerche empiriche, a livello intellettuale. A livello di azione politica, poi, è questione di prossimità… Senza, però, entrare nella logica della politica fatta per via telematica, che è perdente. La politica funziona quando le persone si parlano: tutti ne abbiamo bisogno. Ma per parlarsi è necessaria la fiducia verso coloro che si propongono come politici. Temo che la sinistra, intesa anche come persone, oggi abbia perso la fiducia degli italiani.

Potrebbe citare, in proposito, un esempio recente di questo distanziamento?

Nel caso emblematico del crollo del ponte Morandi a Genova, penso che una sinistra (un centro-sinistra, in realtà) che continua orgogliosamente a rivendicare le privatizzazioni manchi di intelligenza politica. Le logiche del neo-liberismo sono state assorbite a tal punto dagli esponenti di questa sinistra, che paiono credere davvero che il privato perseguendo i propri interessi realizzi, attraverso la concorrenza, l’interesse collettivo. Quando cade un ponte costruito con denaro pubblico e dato in gestione a un privato (con i guadagni che ne derivano), la prima cosa da pensare non sarà: ‘Abbiamo fatto bene a fare le privatizzazioni’, bensì: ‘Forse c’è qualcosa di sbagliato nell’affidare un bene pubblico in mano ai privati’.

Dagli anni ’80, i pregiudizi filo-capitalistici hanno sostituito i dogmatismi marxisti. In tempi non così lontani, certe persone giuravano sulle parole di Karl Marx, che forse non avevano nemmeno letto…

Cosa ha significato, per la società italiana, il voto politico del 4 marzo 2018?

Il neoliberismo, assunto dal centro-sinistra a panacea di ogni male, spiana le società, disgregandole. Al momento di andare a votare, queste società si ribellano: si potrà gridare al cielo che sono ‘barbari’, ma intanto gli elettori hanno votato. Se solo penso che le fasce più avanzate del PD hanno come motto ‘discontinuità senza abiure’, e che sono convinte di prendere voti su questa base… In realtà l’unica loro speranza è che l’attuale Governo sia distrutto da qualche cosa: dallo spread, dalla magistratura, da una catastrofe. Certamente l’azione politica delle forze di opposizione non sarà capace di distruggerlo, per quanto Salvini e Di Maio non siano due Napoleoni della politica.

Bisogna tornare a essere, lo ripeto, keynesiani, pensando a un forte impegno della mano pubblica: un impegno di proprietà, di direzione e di controllo. Il capitalismo, da solo, è deleterio: non a caso, l’Italia del dopoguerra si è ripresa con un’economia mista, non solo capitalistica.

Il quadro attuale non fa troppo ben sperare su cambi di marcia in grado di ridefinire le scelte politiche e il voto alle prossime elezioni europee?

Non lo so perché, da qui ad allora, chi governa fa ancora in tempo a commettere errori fatali. Un passaggio fondamentale sarà capire che cosa succede davvero una volta varato il DEF, quando la manovra economica prenderà corpo. Anche qui è davvero penoso vedere che l’opposizione consiste nell’applaudire lo spread, o nel rimanere delusi quando questo non esplode, come invece gli economisti mainstream avevano profetizzato.

Il Governo si sta giocando tutto sul ‘Decreto sicurezza’ e sulla manovra economica. Se non ci sono fatti rovinosi e se il centro-sinistra non tira fuori qualcosa di meglio degli attuali candidati e programmi, faccio una facile profezia: al momento, se in tutto il Paese la Lega è data al 32%, nel Norditalia lo è al 48%. Questo significa che buona parte degli italiani è ‘barbara’, oppure che tutte le ragioni siano state lasciate alla destra, e che la cecità più assoluta ha colpito la sinistra.

L’unica risorsa che mi appare plausibile è una candidatura di Marco Minniti nel PD, con silenzio totale e definitivo di ogni altro personaggio, a partire da Renzi. Il PD ‘diventa’ il partito di Minniti, che fa sostanzialmente concorrenza a Salvini, senza esagerare: come mostra l’esito delle elezioni in Baviera, quando un partito di centro si mette a fare concorrenza agli estremisti perde un pezzo del proprio elettorato.

Una candidatura di Minniti in questi termini comporterebbe un cambio di sistema?

Non cambia il sistema, ma lo rafforza e lo razionalizza, soddisfacendo a uno dei due problemi sul tappeto. L’altro, quello economico, non è alla sua portata. Naturalmente, con la clausola del silenzio assoluto sulla ‘Buona Scuola’ o sul ‘Jobs Act’, e con il recupero di qualche parola di sinistra, come ‘sfruttamento’ o ‘sicurezza’.

In quali forme sarebbe declinata la sicurezza?

Sicurezza rispetto alle vicende economiche (accezione che non sarà usata) e rispetto al dilagare della criminalità – quella spicciola, che spaventa quotidianamente, e quella importante, che è poco all’attenzione di Salvini (a partire dalla lotta alla mafia). Si può tentare di spiazzare Salvini su terreni di quel genere. Se, al tempo stesso, le cose vanno molto male per il governo giallo-verde, allora, lo ripeto, uno spazio c’è. Altrimenti vedo nel PD un partito che sta fra il 15% e il 20%, e gli altri che alle europee crescono ancora. Se mai, si può immaginare che M5S e Lega entrino in rotta di collisione, ma tale è la loro voglia di governare che, anche se in linea teorica rappresentano mondi e – forse – interessi diversi, si sforzeranno di restare insieme il più a lungo possibile. I 5 Stelle sono famelici di potere; sono come un bambino in un negozio di dolciumi: non lo tiri più fuori. I 5 stelle dovranno arrivare al divorzio politico da Salvini, ma è probabile che aspettino il più a lungo possibile. E poi dovranno decidere che cosa fare da grandi. E non sarà facile.

 

L’intervista è stata pubblicata in «L’Indro» il 16 ottobre 2018

La guerra delle parole

 

  1. Strategie

Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.

La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.

Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream, proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.

A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica. E quelle elezioni sono state vinte dai partiti che, se non altro, hanno riconosciuto il pesantissimo disagio sociale in cui il Paese versa, e che il Pd ha invece sostanzialmente negato dando l’impressione di voler lasciare tutto com’è, o in ogni caso di non avere né le idee né l’intenzione di cambiare le cose.

C’è anche, va detto, la posizione oltranzista di chi non vuole «seguire i populisti sul loro terreno», e non solo rifiuta radicalmente le loro ricette ma non vuole ascoltare il grido di dolore che attraverso il populismo si esprime, e affida non alla propaganda ma alla dura lezione delle cose, alle rappresaglie della realtà economica e dei suoi “spontanei” meccanismi, la vittoria dell’ordine politico e sociale che le elezioni di marzo hanno rovesciato. Ma è una posizione difficile da tenere. In ogni caso a essa, prudentemente, si aggiunge la propaganda, la retorica.

La logica di questa retorica – che definiremo la retorica dello scandalo, dello sdegno permanente – consiste nell’imporre un terreno di gioco su cui combattere lo scontro politico fra le élites mainstream e il popolo, mettendo quest’ultimo, fin dall’inizio della partita, dalla parte del torto. La strategia è discriminare culturalmente e moralmente chi si è ribellato alle conseguenze degli errori di quelle stesse élites; ovvero chi in una crisi catastrofica ha cercato protezione, e naturalmente non l’ha chiesta ai vecchi governanti, che le protezioni avevano tolto di mezzo. Insomma, la strategia di rimettere al loro posto i perdenti che hanno osato protestare, e di rovesciare il mondo rovesciato dalla ribellione delle masse.

Tutti i termini in questione hanno infatti intento accusatorio e implicita intenzione punitiva: sovranismo significa tribalismo incivile; populismo significa ragionare con la pancia e con il rancore; nazionalismo significa xenofobia e provincialismo egoista; razzismo, infine, è il male assoluto, la sistematica e ignorante violenza verso i deboli e i diversi. L’accusa, ovvia, è che tutto ciò – questi atteggiamenti, questa cultura diffusa – mette a rischio la democrazia, tutelata invece dal “politicamente corretto” liberal. Al quale si deve ritornare, riconducendovi i riottosi concittadini, bisognosi di rieducazione dopo essere stati sottratti ai cattivi maestri, ai pifferai magici che hanno vinto le elezioni.

Al contrario, sembra chiaro che è una follia tanto pensare di recuperare consenso per questa via, quanto presentare queste come “analisi politiche” che consentano di comprendere che cosa è successo. Se il governo giallo-verde è il fascismo (e non lo credo), sarebbe come fare dell’antifascismo criticando questo o quell’atteggiamento o provvedimento di Mussolini, e lanciando invettive contro la dittatura, invece di seguire la via genealogica, storico-concettuale e storico-economica, di Gramsci.

Ma è difficile credere che gli opinionisti mainstream non vadano oltre la constatazione che in marzo hanno vinto il rancore, la rabbia e la paura, e non riescano a chiedersi che cosa mai – quali eventi, quali processi, quali strutture – abbia prodotto nelle masse questi riprovevoli stati d’animo, queste biasimevoli passioni (ad esempio, quale precedente disastro nella rappresentanza politica abbia generato l’odio e il disprezzo degli italiani verso il parlamento, e sia quindi all’origine anche delle disinvolte proiezioni post-parlamentari di alcuni esponenti di un partito di governo). Fintanto che la retorica dello scandalo non lascia il posto all’analisi, è folle sperare che le posizioni che si reputano biasimevoli perdano terreno. E quindi è forse possibile ipotizzare che se quella retorica non è follia sia piuttosto una dissimulazione, un gioco a parlare d’altro, per non ammettere colpe ed errori enormi, nella speranza che alla retorica della delegittimazione preventiva dell’incubo giallo-verde segua una reale catastrofe della sua azione, e che tutto torni come prima, cioè alle vecchie egemonie.

  1. Errore

L’errore è naturalmente avere sposato (non solo subito, ma accettato e glorificato) il paradigma neoliberista, e poi quello ordoliberista sotteso all’euro; paradigmi diversi che prevedono entrambi la deflazione, la disuguaglianza sociale, la subalternità e la flessibilità del lavoro dipendente, che in tempi di crisi diventano – in assenza di “argini” politici e giuridici – precarietà e insicurezza esistenziale di massa. Il paradigma, insomma, che nega la dignità del lavoro e il ruolo egemone della politica e a questa affida il compito di garantire il mercato (ed eventualmente di aiutare i perdenti, o di punirli se troppo devianti e rumorosi), mai ipotizzando che il governo delle cose del mondo possa risiedere altrove che nelle potenze economiche – ad esempio, in una democrazia in cui i lavoratori (il lavoro dipendente, di diritto e di fatto, e non una generica “comunità nazionale”) abbiano una posizione politica conflittuale e quindi tendenzialmente paritaria, e non subalterna, rispetto alle potenze dell’economia –. Insomma l’errore non è che ci sia stata una crisi – gli economisti mainstream sanno bene che il capitale funziona appunto così –, ma che il paradigma economico preveda che dalle crisi si esca aiutando strutturalmente il capitale e solo episodicamente e marginalmente i lavoratori, che in ogni caso devono essere disponibili ad assecondare ogni richiesta del capitale in temporanea difficoltà. L’errore è che non si sia immaginato che ci sarebbero state reazioni politiche a tutto ciò; di non aver pensato che la politica possa guidare un’uscita dalla crisi, con una soluzione che non consista di salvataggi per gli uni e di eliminazione dei diritti per gli altri (le “riforme coraggiose” a danno dei deboli) ma di “riforme di struttura” (come si diceva ai tempi sovversivi del primo centrosinistra, e come si potrebbe cercare di dire anche oggi, mutatis mutandis: in fondo, la questione è la stessa, cioè allineare capitalismo e democrazia, naturalmente divergenti).

Avere trascurato la politica, e avere ignorato che questa avrebbe potuto vendicarsi: questo è stato l’errore strutturale, che alle élites è costato il potere politico, ma che non viene ammesso. Se ci volessimo servire dell’antica dottrina cattolica, potremmo dire che la mancata ammissione (confessio oris) nasce dal mancato pentimento (contritio cordis) e dà a sua volta origine al mancato ravvedimento operoso (satisfactio operis). Insomma, pervicaci e impenitenti, le élites politiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo sono in peccato mortale, e ne pagano il fio. Ovvero, sono finite all’opposizione e paiono doverci rimanere a lungo.

Ma, come si diceva, credono di potere uscire in breve dall’inferno della perdita del potere aspettando che agli italiani “passi” il rancore, oppure che questo si sposti verso gli attuali governanti, dei quali si attende la rapida scomparsa di scena per impresentabilità e inefficienza. E nell’attesa combattono la guerra linguistica.

  1. Battaglie

Una guerra le cui battaglie sono già state enumerate, ma che vanno studiate un po’ più da vicino, per vedere, in ciascuna di esse, come vengano costruiti i fronti del Bene e del Male, e come ai due fronti si possa contrapporre una “verità”; che non vuole essere un assunto dogmatico ma il suggerimento di uno sguardo realistico. Per una possibile politica oltre la propaganda.

Sovranismo, dunque. Ovvero l’aggressivo particolarismo che sarebbe la presunta radice politica dei nostri mali. Il cui opposto positivo sarebbe invece l’universalismo collaborativo, declinato in globalismo o in europeismo secondo i casi (in realtà, si tratta di due prospettive che possono anche essere opposte). Una contrapposizione costruita per non parlare di sovranità, ovvero della pretesa di un soggetto politico, i cittadini nel loro complesso, che lo Stato che li rappresenta persegua gli interessi nazionali e protegga i cittadini stessi. Una pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere, la sua mission. Una pretesa che può essere anche democratica, come appare dalla nostra Costituzione che collega il popolo alla sovranità e non ai mercati o ai trattati dell’euro. Una pretesa, del resto, avanzata e praticata, secondo le proprie forze, da tutti gli Stati europei, nessuno escluso. Lo Stato sovrano è un anacronismo? Pare di sì: la sinistra globalista lo minimizza, quella moltitudinaria lo deride (i risultati si vedono). Forse invece potrebbe essere una leva, o meglio un punto d’appoggio, transitorio ma obbligato, per rispondere alla sistemica insicurezza alla quale i cittadini sono esposti e sacrificati, e che non tutti trovano eccitante e ricca di opportunità – un dato che chi fa politica dovrebbe conoscere –.

Populismo, poi. È con ogni evidenza il nome che le élites mainstream danno a ciò che dice e fa il popolo quando hanno perso il contatto con esso. È come se dicessero: «se non ci obbedisci, sei plebe; se hai perso la fiducia in noi, ragioni con la pancia». L’opposto positivo è invece la “ragionevolezza”, il dare ragione alle élites, alle loro narrazioni. La verità è che il populismo con le sue semplificazioni è un segnale della crisi politica terminale di un intero ciclo politico-economico, quello democratico-keynesiano, crollato dapprima economicamente sotto i colpi del neoliberismo e, trent’anni dopo, anche culturalmente e ideologicamente. Una crisi di legittimità che si tratterebbe di decifrare nelle sue cause e non di deridere nei suoi effetti. Certo, impostare la politica sull’onestà e sulla lotta ai vitalizi, o sull’ossessione anti-migranti, è riduttivo e fuorviante, ma non perché è una mossa populista, quanto piuttosto perché non è per nulla radicale. Come altrettanto poco radicale è stracciarsi le vesti ad ogni uscita pubblica scorretta di questo o di quel governante, senza mai andare oltre la predica moral-superficiale; senza mai capire a quali problemi quel governante sta comunque rispondendo.

Nazionalismo, inoltre. Ossia il ritorno di culture politiche improntate all’atavismo e all’aggressività xenofoba, viste come un regresso a quelle condizioni che hanno portato l’Europa a suicidarsi con due guerre mondiali. E quindi il nazionalismo è appunto ciò contro cui si è costituita l’Europa del dopoguerra. È il nemico. Il suo opposto positivo è invece l’apertura reciproca delle culture e delle istituzioni, l’interculturalità, il federalismo o addirittura la sovranità degli Stati Uniti d’Europa, che solo una inspiegabile e irragionevole resistenza nazionalistica non lascerebbe realizzare. La verità è che tutti in Europa perseguono interessi statal-nazionali, e che tuttavia di nazionalismo e di nazione (differenti e opposti, come da tempo sappiamo) oggi in Italia e altrove c’è poca o nessuna traccia (piaccia o dispiaccia; ovvero, che ciò sia detto in negativo o in positivo). Non c’è alcuna visibile richiesta, da parte della società, di identità, di comunità di destino, di tradizione, e neppure la cultura va in questa direzione: con una certa pigrizia intellettuale si scambia per nazionalismo (cioè le si dà un nome vecchio) la richiesta sociale di una protezione che si manifesti efficacemente dentro il livello storico e istituzionale esistente, cioè dentro il perimetro degli Stati nazionali. Certo, questi nacquero anche attraverso il mito della nazione, allora progressivo. Ma di questo mito identitario oggi non c’è neppure la caricatura, se non ai campionati di calcio: da tempo l’individualismo e il familismo hanno colpito a fondo, e modelli culturali internazionali si sono affermati irresistibilmente ormai da decenni. L’esigenza di condurre una vita in dimensione storica, sottratta all’eterno presente dell’universale raccolta di merci neoliberista, non sembra essersi ancora radicata nelle masse.

Razzismo, infine, è il nome dato all’insicurezza ostile dei poveri e degli incolti. Che si sentono minacciati non da un generico “diverso” ma da un concreto ingresso, al tempo stesso pubblico e clandestino, di persone fin troppo simili a loro. E i penultimi si specchiano negli ultimi, li temono e li esorcizzano, perché vi vedono certo persone bisognose di aiuto ma capiscono anche che non possono essere aiutati a spese loro, delle fasce più fragili, che dai migranti si sentono minacciati anche dal punto di vista economico. Né a spese esclusive di quel fragile vaso di coccio che è l’Italia nel consesso europeo, inchiodata da patti leonini, sottoscritti dalla destra e rinnovati dai governi seguenti, che hanno cercato di fare del nostro Paese il campo profughi del continente in cambio di altri benefici macroeconomici. Tanto più che gli altri Paesi d’Europa non smaniano certo per ricevere migranti, per sostituirsi all’Italia. Come che sia, l’opposto positivo è in questo caso il cosmopolitismo contrapposto alla chiusura egoistica, la pietà contrapposta alla spietatezza, oppure, da un punto di vista moral-politico, l’appello alla fraternità, il terzo trascurato della triade rivoluzionaria; ma si avanzano anche esortazioni ad apprezzare l’utile economico che dai migranti deriverebbe in termini di Pil e di pagamento delle pensioni agli italiani, come se i migranti trovassero facilmente, in Italia, lavoro stabile, legale e non servile, e come se in futuro le loro pensioni non dovessero essere pagate. La verità è che l’insofferenza, in sé deplorevole, verso i migranti nasce dalla sofferenza e dalla insicurezza reali dei cittadini, che nessuna promessa europea, sempre disattesa, o nessun sermone o catechismo riuscirà, da solo, a esorcizzare. Solo la politica ci riuscirà, se sarà una politica efficace e concreta.

  1. Politica e parole

La guerra delle parole è al tempo stesso un’arma, un diversivo, e un andar fuori bersaglio. Se la sinistra moderata europeista e quella radicale globalista e moltitudinaria non capiscono ciò, non hanno speranza. Vanno lasciate alle loro battaglie minoritarie, poiché hanno evidentemente rinunciato all’analisi politica realistica.

Certo, le parole e la propaganda sono anch’esse parte della politica. Ma le parole fanno politica quando indicano a questa una direzione, un obiettivo: non quando sono il punzecchiamento più o meno sdegnato, sempre e solo “reattivo”, rispetto alle parole e alla politica altrui. Se è così, il far guerra con le parole significa ripiegare, non saper fare nulla di politico, essere subalterni alle politiche e alla propaganda altrui.

Chi vuole cambiare qualcosa, posto che sia possibile, non deve schierarsi dalla parte di una propaganda o di un’altra. Al primo posto non viene la parola della propaganda, ma la parola dell’analisi e della critica: a questa può seguire l’azione, accompagnata, a questo punto, dalla parola di una propaganda non parassitaria ma autonoma ed egemonica. L’opposizione, se vorrà esistere, dovrà analizzare, criticare e parlare in proprio. Anziché forgiare una lingua di guerra all’interno della guerra delle lingue, deve costruirsi una lingua di verità, di realismo, di radicalismo non parolaio, di radicamento sociale, che spiazzi e trascenda il discorso politico corrente.

«Politica» implica insomma che con le parole si afferrino le cose, le strutture, i processi, i soggetti. La politica è l’attività di chi non si limita a opporre propaganda a propaganda ma di chi si chiede come si possa «mettere la mani negli ingranaggi della storia», col pensiero e con l’azione, senza limitarsi ad aspettare gli errori altrui – del resto, se il quadro politico-economico si sfascia, chi ne trarrà vantaggio difficilmente saranno i vinti di oggi –.

Per chiudere, un esempio. Si sta diffondendo l’idea che nel discorso pubblico di “sinistra” si debbano recuperare la nazione, e lo Stato nazionale, perché è su questi concetti, o temi, che si è stati sconfitti il 4 marzo (come ho detto, credo che ciò sia non esatto, e che la sconfitta si sia consumata sulla protezione e non sulla tradizione, sulla sicurezza e non sulla patria). Ecco allora le proposte di “nazionalglobalismo”, di “patriottismo europeo”, di “federazione sovrana di Stati sovrani”.

L’obiettivo è di non lasciare la nazione ai nazionalisti, lo Stato agli statalisti, la sovranità ai sovranisti, l’Europa agli europeisti. E fin qui va bene: si tratta di smarcarsi dalla polemica quotidiana, di guardare oltre, di tentare di imporre un altro terreno di gioco. Ma pur dovendosi apprezzare la direzione nuova che si cerca di intraprendere, resta da sottolineare che in alcuni casi si tratta di concetti di cui la storia (ad esempio, la guerra civile statunitense) ha dimostrato la non praticabilità, o in altri casi di provocazioni intellettuali che in quanto tali non sanno indicare alcuna tappa intermedia tra il presente e il futuro, tra il problema e la soluzione. Che vogliono costruire miti più che discorsi razionali.

Ma in politica anche la parola mitica per essere capace di mobilitare deve avanzare un progetto realistico e condivisibile, un obiettivo difficile ma raggiungibile attraverso una via che va indicata nella sua concreta materialità. E a maggior ragione questo è l’obiettivo della parola razionale.

Questi nuovi miti dovranno quindi essere preceduti da analisi critiche, e dovranno essere riformulati dopo che il pensiero critico si sarà misurato con la questione del rapporto fra sovranità nazionale e sovranità europea, nonché del rapporto fra politica ed economia. E ciò non per pedanteria accademica, ma per realismo, per efficacia tanto critica quanto propagandistica. In caso contrario si resterà ancora una volta in superficie. Detto altrimenti, questi nuovi “miti” non avranno la forza di smuovere alcunché, e meno che mai i popoli, fintanto che attraverso di essi non verrà veicolata un’idea credibile di sicurezza sociale e di reale integrità della persona, finalmente sottratta al suo presente destino di essere in balia di potenze economiche incontrollate, di processi che li trascendono. Fintanto che del mito politico non farà parte anche la consapevolezza che «finanza è una parola da schiavi».

Per i duecento anni di Marx

Questa riflessione su Marx deriva dal libro di Carlo Galli, Marx eretico, di prossima pubblicazione per la casa editrice il Mulino, Bologna.

 

 

Marx è un autore di metà Ottocento, che del proprio tempo condivide alcune idee di fondo: una concezione eroica della politica, in cui agiscono soggetti collettivi come la nazione e la classe; una proiezione al futuro, come fiducia nella possibile apertura di nuovi orizzonti dell’umanità; una robusta ammirazione per la potenza della scienza e della tecnica, per lo sviluppo economico che ne scaturisce, e per la forza espansiva sprigionata dalla civiltà industriale; una propensione a pensare in termini di sistema, per fronteggiare adeguatamente l’emergere della dimensione totale delle relazioni sociali e per individuarne «leggi» organiche di sviluppo. Quello di Marx è il pensiero forte di una personalità dotata, com’egli diceva di sé, di «aspirazioni universali». Che Marx veda con acutezza la contraddittorietà, l’ideologicità, la conflittualità e la parzialità dell’intera società moderna, non toglie che egli sia estraneo a nostalgie pre-moderne, a sensibilità post-moderne, a prospettive catastrofiche.

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La sua adesione alla modernità è, certo, un’adesione «critica». E non della «critica critica», impotente e subalterna, della sinistra hegeliana, contro cui si accanisce il sarcasmo distruttivo del giovane Marx, ma della «critica spietata di tutto ciò che esiste», la critica dialettica, la dialettica utilizzata come arma («le armi della critica» e perfino «la critica delle armi») e non come conciliazione.

Una critica a Dio, allo Stato, alla filosofia di Hegel che lo porta al «nuovo materialismo», al «solido terreno della realtà»; ma questa realtà è una contraddizione strutturale che ha la sua origine nei rapporti economici di produzione, e che ha la sua principale manifestazione nello sfruttamento, nell’estrazione di plusvalore (di profitto capitalistico) dal lavoro salariato, e nella estraneazione dell’uomo da se stesso e dal proprio lavoro.

L’obiettivo di Marx non è la società senza lavoro, ma la restituzione dell’umanità a sé, a partire dall’estraneazione presente. Il comunismo, la libera e razionale «cooperazione» dei produttori, è appunto il rapporto immediato fra uomo ed esistenza, è «l’effettiva soppressione della proprietà privata e la reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo». È «umanesimo positivo». Ma non è un progetto campato in aria, né un ideale vuoto e declamatorio; è il frutto di un’azione politica che non si perde in sogni, in utopie, e che non indugia in opportunismi ma anzi affronta apertamente quel conflitto di classe, quella guerra permanente fra capitale e lavoro salariato che struttura la società. Marx corregge la nozione di valore-lavoro, già presente nell’economia politica classica, per far emergere che nella produzione di merci è incorporato un rapporto sociale: un rapporto di espropriazione di plusvalore, prodotto socialmente e appropriato privatamente. L’obiettivo politico quindi è di espropriare gli espropriatori, di rifare la società a partire dall’ «abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente», di abolire la contraddizione tra la ricchezza della produzione e la povertà della società, quella contraddizione che ha reso il proletariato talmente misero che non ha nulla da perdere se non le proprie catene, e di instaurare la «dittatura del proletariato», guida verso la realizzazione della libertà di tutti.

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Marx non ha scoperto per primo la lotta di classe, ma ha decifrato per primo il generarsi della politica nell’economia. Che la teoria del valore-lavoro sia da tempo rifiutata dagli economisti non toglie che la grandezza di Marx stia nell’avere mostrato ciò che anche oggi è sotto gli occhi di tutti, e cioè che l’economia capitalistica è un gigantesco processo di valorizzazione a vantaggio dei profitti e non dei salari, percorso da contraddizioni, dislivelli di potere, conflitti asimmetrici, che in essa si genera un dominio sociale e politico che coinvolge tutta la vita dell’uomo.

Marx coglie la centralità e l’instabilità del rapporto moderno fra economia e politica perché dell’economia privilegia la contraddizione e la crisi, cioè la componente umana, sociale, politica, e non il lato meccanico, o quello specialistico, disciplinare. Perché vede l’economia debordare da se stessa, e investire tutto l’umano, in modalità disumane. Perché dimostra che il capitalismo è potentissimo e al tempo stesso insostenibile; che quella borghese è «una civiltà scellerata, fondata sull’asservimento del lavoro». Perché nel gioco astratto delle grandezze economiche presunte «oggettive» sa vedere la violenza di classe, strutturale; e analizzando la ricchezza delle nazioni sa retrocedere fino alla sua origine, alle «doglie che accompagnano il parto della ricchezza».

Ma Il Capitale non è solo uno squarcio di storia del capitalismo in Inghilterra. È anche la scoperta delle logiche, delle linee di tendenza che innervano il sistema produttivo tipico della modernità. E queste logiche sono la sussunzione del lavoro nel capitale, la parcellizzazione del lavoro, la cooperazione coatta in fabbrica, lo sviluppo verso la macchina mentre il soggetto ne diviene appendice, l’aumento della produttività del lavoro, il colonialismo, la finanziarizzazione dell’economia, l’espulsione del lavoro dal processo produttivo, il formarsi dell’esercito industriale di riserva, il calo tendenziale del saggio di profitto, l’espansione illimitata del capitale a danno degli stessi capitalisti come singoli individui proprietari, la globalizzazione, e su tutte queste logiche la illogicità suprema: di essere un sistema produttivo, una società che non può realizzare se non nel caos e nell’oppressione crescente – e che quindi non può non tradire – le potenzialità che suscita e che mette all’opera. Tutto ciò non è confinato al XIX secolo, ma dice qualcosa anche all’oggi: sia pure percorrendo vie tortuose e impreviste, con scarti improvvisi e «mosse del cavallo», le logiche del capitalismo non hanno deviato di molto da queste indicazioni.

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La scoperta delle contraddizioni del capitalismo non comporta che di esse sia possibile la soluzione che ne ipotizzava Marx, e non consente, in realtà, una analitica prefigurazione del mondo futuro. La «vecchia talpa» scava – le contraddizioni interne del capitalismo si manifestano –, la direzione e l’orizzonte le sono noti, ma non sa dove rivedrà la superficie e la luce del sole.

E in effetti la vicenda politica del comunismo reale è stata, dopo tutto, un fallimento, ma non direttamente imputabile al pensiero di Marx quanto piuttosto alle logiche dello Stato autoritario in cui si è incarnato. Marx non appartiene all’album di famiglia dei fondatori di tirannidi, di Stati di polizia. Semmai, egli è stato frainteso per motivi opposti. L’idea di fondo di Marx, la razionalizzabilità del mondo e la scomparsa del dominio, l’idea che un altro mondo è possibile a partire da questo, ha subito una lettura semplificata. La ragione e l’azione sono state saldate tra loro dal desiderio, dal bruciante impeto dell’assalto al cielo, dall’epica marcia del Quarto Stato per «conquistare la rossa primavera». Ciò che è prevalso è stato l’empito verso il futuro, l’impulso all’umanizzazione del disumano. L’insegnamento di Marx è stato interpretato e semplificato come speranza da milioni e milioni di uomini e donne che hanno fatto del marxismo una profezia messianica di rango globale. Il marxismo è stato abbracciato soprattutto come la risposta delle genti alla ingiustizia del mondo, della storia. Hanno agito in questo senso un bisogno di credere, una pretesa di dignità, un’ansia di riscatto che oggi non hanno ancora trovato un sostituto. Ma, certo, mentre si faceva «religione» il marxismo spianava la strada anche al dominio di «sacerdoti» tanto spietati quanto, alla fine, inetti.

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Leggere Marx dopo l’Ottantanove, dopo la fine del comunismo, significa avere attraversato gli anni dell’oblio, gli anni che hanno proposto Marx quale responsabile del comunismo reale e dei suoi errori ed orrori. E significa accettare che non esiste un soggetto eroico in grado di rovesciare il mondo, e che non è più praticabile la certezza su cui Marx si fonda: che ciascuna epoca pensa i problemi di cui ha la soluzione.

Marx da gettare alle ortiche, quindi? Proprio no. Senza Marx non si può organizzare una nuova teoria critica. La sua capacità di smascherare l’ideologia è un esorcismo contro l’egemonia del neoliberismo da cui derivano strutturali fratture e inceppamenti della società, disuguaglianze e ingiustizie, nonché paurosi dislivelli di potere fra ceti e fra aree del mondo. Certo, i fattori e le modalità dell’oppressione non stanno solo nella forma di produzione ma nelle molte contraddizioni, non sistematizzabili e non dialettizzabili, non tutte necessariamente di origine economica anche se a questa variamente accostabili, di cui è intessuta la vita delle società, delle persone e delle nazioni: le linee di frattura dell’inconscio, del genere e del colore, la scomparsa della soggettività (anche di quella operaia) nell’età dell’individualismo passivo, l’antagonismo sistemico fra capitalismo e ambiente, le coazioni proprie del ‘politico’, le pulsioni identitarie fondamentalistiche ed essenzialistiche che si manifestano in società decostruite e atomizzate. Il pensiero di Marx – nessun pensiero – può risolvere queste contraddizioni, ma, insieme ad altre linee critiche, può denunciare la scissione là dove il neoliberismo esige che non venga neppure menzionata, e dove gli stessi soggetti coinvolti stentano a prenderne coscienza.

Inoltre, anche il pensiero di Marx serve a incontrare energie di liberazione, a comprendere e suscitare lotte e alleanze che uniscano l’emancipazione dall’alienazione economica con altre emancipazioni. Serve a valorizzare lo spirito d’iniziativa politico, contro la passività; e ad assecondare le emergenze – ciò che non si lascia sommergere – contro il potere dell’eccezione divenuta norma. In Europa e fuori d’Europa.

Marx è l’ultima voce della filosofia tedesca che cerca di tenere insieme il movimento moderno della storia e della produzione globale – le loro contraddizioni e parzialità – con la liberazione umana universale. E oggi se è impraticabile l’obiettivo che egli si proponeva, di assumere il mondo nel pensiero e nell’azione come un sistema di scissione strutturato da un’unica contraddizione strategica, nondimeno egli resta un «classico», ancora operante almeno in quanto è sempre affacciato sulla denuncia e sulla ribellione. Il suo pensiero è oggi un elemento di ogni realismo critico.

Ancora oggetto di interpretazione nei contesti più svariati – dall’America Latina al mondo post-coloniale, dalla Cina (dove in parte è servito a organizzare lo Stato) all’Occidente (dove è servito a criticarlo) – e ancora associato a populismi e ad autoritarismi, a serpeggianti inquietudini e ad aperte ribellioni, ma anche a tentativi di nuove costruzioni statuali, Marx non è la fonte unica della verità, la sorgente della prassi corretta, la speranza dei veri credenti, la via maestra per risolvere le contraddizioni. È più un reagente che un agente, un precursore (in senso chimico) da associarsi ad altre sostanze, un detonatore più che una deflagrazione. Eppure, non è soltanto un brano di storia intellettuale europea, divenuto ormai patrimonio della civiltà del mondo intero: è un ingrediente indispensabile, anche se non esclusivo, per chiunque non accetti che il futuro sia del tutto in mano alle oligarchie economiche, e per chiunque creda che la parte maggioritaria della umanità possa riprendere l’iniziativa su se stessa, da se stessa.

 

Il testo è stato pubblicato in «Patria indipendente» il 18 maggio 2018

La sconfitta del «sistema»

 

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.

A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobs act è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.

Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza. Un’impotenza di fondo, quindi, quella della sinistra, per sopperire alla quale si è fatto ricorso a temi laterali, come lo ius soli e perfino l’antifascismo, che in realtà svelano una concreta incapacità di entrare in empatia con gli italiani e con i loro problemi. Cosa che è riuscita, con la consueta abilità, alle destre e ai qualunquisti, che hanno immediatamente colto che il primo problema dell’Italia è la sicurezza – dove per «sicurezza» dobbiamo intendere le sicurezze esistenziali (cioè la sicurezza del lavoro, della sanità, del Welfare, oltre alla tutela delle libertà personali), una volta assicurate le quali c’è anche la capacità e l’attitudine all’accoglienza. Quella della sinistra è stata davvero una campagna elettorale di carattere moralistico. Naturalmente, quella dei qualunquisti e della destra è una «sicurezza» a sua volta parziale e propagandistica. Il che, ovviamente, non ha impedito che sui fallimenti della destra economica, che da decenni comanda in Europa e che è la portatrice del progetto neoliberista e ordoliberista dell’euro, si siano infilati, secondo un modello classico, la destra politica e i qualunquisti. La sinistra è rimasta a guardare, perché non è in grado di fare analisi politica, economica, strategica, delle dinamiche storiche contemporanee. E senza analisi non c’è linea politica.

Occorre, pertanto, avere chiaro che il problema teorico e politico di fondo è che la sinistra non sa che cosa vuole e che cosa vuole essere; a quale tipo di bisogno vuole rispondere. A ben vedere, oggi siamo davanti alla débâcle del ceto politico postcomunista, che ha dato origine al Pd senza però riuscire a fondare una prospettiva politica vincente, e che alla fine è stato sconfitto dall’altra componente, inizialmente minoritaria, dello stesso Pd – quella degli ex DC –. Ma anche questi, oggi, non riescono più a parlare agli italiani.

Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti. Oggi l’Italia chiede protezione, in modalità differenti, se non opposte, in relazione ai propri spazi sociopolitici. Il Sud, dove la società è fragile, chiede, con il M5S, un sostegno economico vitale, una vera rendita politica. Il Nord, dove la società è più forte, chiede, con la Lega, efficienza e lotta al degrado. Chiede ovunque più Stato, e un rinnovo radicale delle classi politiche ormai delegittimate, anche se in due direzioni diverse.

In realtà, il principale problema da porsi è se il modello economico che è entrato in crisi sia riformabile, o se invece abbia finito di produrre effetti positivi. Un sistema che – è bene ricordarlo – è stato almeno simbolicamente rifiutato nel Regno Unito, non certo orientato in senso europeo; che in Francia ancora funziona grazie al meccanismo elettorale, che è una sorta di ingessatura della società e che fa sì che il Presidente della Repubblica governi con nemmeno il 25 per cento dei consensi; e che in Germania costringe i due principali partiti, un tempo concorrenti – SPD, CDU-CSU –, alla Grosse Koalition, un taglio delle ali che ha un costo politico-sociale enorme (e che vedrà la crescita della destra antisistema).

Insomma, nei principali Paesi europei, con le ovvie differenze che li connotano, il sistema economico-politico vigente sta perdendo colpi. Tutti sanno che c’è un problema strutturale nell’Europa, e in generale nel neoliberismo, capace – quando ci riesce – di generare soltanto un’occupazione sempre più degradata, sempre meno pagata, sempre più precaria. Un sistema nel quale le disuguaglianze aumentano, e l’ascensore sociale è bloccato. Tutto ciò pone sfide radicali alle quali si può rispondere con i sermoni e con l’antifascismo – come nella recente campagna elettorale –; oppure – come io credo – con un vero antiliberismo, con analisi che spieghino perché mai gli italiani sono diventati “cattivi”. Dire che gli italiani si sono “incattiviti”, infatti, non è una analisi politologica; bisognerebbe capire la causa del fenomeno. Tutto ciò è stato presente in campagna elettorale? No, ma era presente nella testa degli italiani, e lo si è visto.

Ora il problema non è solo quello, pur grave, di formare il governo. Al riguardo sono già iniziate le minacce di Bruxelles, all’ombra delle quali si svolgono le trattative tra forze politiche che non hanno in realtà grandi spazi di manovra, perché tanto il M5S quanto la destra non potranno certo governare insieme a quel Pd contro il quale si sono espressi i loro elettori. Il problema è come si esce dalla trappola in cui siamo finiti senza che una nuova folle austerità finisca di distruggere la nostra società e di generare altra e più grave protesta. Quanto al Pd, o viene radicalmente rifondato o è destinato alla progressiva irrilevanza.

Fra «vintage» e «quarto polo»

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Aderisco al nuovo gruppo parlamentare della Camera («Articolo 1- Movimento dei Democratici e Progressisti», se questa è la denominazione definitiva), ma come «indipendente» perché non mi paiono ancora chiari i suoi contorni politici.

La componente che proviene dal gruppo SI-Sel non è disposta a sacrificare l’originario progetto di «quarto polo» alla interpretazione minoritaria e movimentista che ne ha dato il recente congresso di Rimini, al quale parecchi non hanno neppure partecipato. Quindi quella componente – peraltro maggioritaria – non è da definirsi tanto «scissionista» quanto interprete coerente del progetto originario di SI.

Ma poiché la componente ex-SI-Sel si fonde con i protagonisti della scissione consumata da alcuni bersaniani e dalemiani in uscita dal Pd, si pone senza dubbio la questione di decifrare i significati di questa alleanza, e l’orizzonte della nuova formazione parlamentare e del soggetto politico che ne seguirà.

Finora si è parlato molto del rapporto col governo Gentiloni, che soprattutto al Senato dovrà essere non osteggiato, perché non si realizzino i propositi avventuristici di Renzi. Nondimeno, questa è una questione tattica, che si rende urgente nell’immediato ma che non può certo esaurire l’essenza dell’operazione in corso. A livello strategico, invece, si sono sentite poche affermazioni, e non tutte rassicuranti. Fra le altre, che la nuova formazione non nasce contro il Pd ma contro Renzi; o ancora che non si deve neppure polemizzare contro quest’ultimo, perché è evidente che dopo le elezioni (o prima, secondo il sistema elettorale) ci si dovrà alleare con lui (dato quindi per vincitore del congresso); che il target elettorale di riferimento del nuovo soggetto sono quelle parti del «popolo della sinistra» che non votano più il Pd di Renzi (o per astensionismo, o per sofferto «grillismo»).

Se ci si limitasse a ciò, si starebbe dando vita a una «operazione nostalgia» dal profilo minimalista – e infatti sono minimi anche i risultati elettorali attesi, stando alle prime impressioni sondaggistiche –; a una sorta di «linea vintage» di quel medesimo progetto di cui il Pd è il «marchio giovani» (benché questi non lo votino, com’è noto); insomma, a un semplice riadattamento alla nuova realtà tripolare e proporzionalista di una forza come il Pd, che, nato come partito pigliatutto a vocazione maggioritaria, ora deve marciare diviso per poi colpire unito, per riaffermare sostanzialmente immutato il proprio progetto politico. Cioè la gestione «riformistica» della situazione presente e dei trend attuali, l’identificazione con l’establishment, il fronteggiamento dei «populismi».

Se fosse confermata questa impostazione – rifare i Ds, per poi essere una parte del «nuovo Ulivo», del «centro-sinistra col trattino» – saremmo di fronte a una debolezza ancora più grave di quella denunciata da coloro che nelle cause della scissione del Pd vedono solo interessi elettorali di qualcuno, o un elemento personalistico. Si tratterebbe, più che di una debolezza, di un’occasione mancata: quella proposta di scarso respiro sarebbe infatti punita elettoralmente in quanto per nulla rispondente alle attese e ai bisogni attuali del Paese. Che ha l’esigenza di vedersi offrire un’alternativa democratica e progressista – e non rabbiosamente populista e xenofoba – alle politiche praticate dalla linea Monti-Letta-Renzi che, con i loro esiti di impoverimento quasi generalizzato, di disuguaglianza, di umiliazione e precarizzazione del lavoro, hanno messo a repentaglio la tenuta del legame sociale e dello stesso orizzonte democratico della repubblica, favorendo la nascita di quelle forme di protesta che sbrigativamente si definiscono «populismi».

Ma ci sono state anche prese di posizione più rassicuranti: la nuova formazione, in quanto si richiama all’articolo 1 della Costituzione per l’idea che l’essenza politica del legame repubblicano è il lavoro, parte programmaticamente col piede giusto. Troppo si è detto che il mercato è il cuore della società, e troppa politica recente si è data da fare in questa direzione. E proprio per questo il nuovo centrosinistra ha bisogno di sviluppare molto di più che in passato il lato di sinistra (dato che la differenza fra destra e sinistra esiste ancora, purché la si voglia cercare), atrofizzato negli ultimi anni e mai irrobustito in precedenza; e deve accentuare il lato di sinistra – la lotta non solo congiunturale ma macro-economica alla disuguaglianza e alla svalorizzazione del lavoro – così marcatamente da poter fronteggiare con credibilità il disastro economico e sociale del centrosinistra vecchio, del Pd in profondissima crisi e orientato semmai in posizione difensiva verso i «nuovi barbari» populisti.

Insomma, il nuovo soggetto politico dovrà porre in essere una discontinuità tanto netta che nelle prime fasi della sua esistenza dovrà presentarsi come «quarto polo», come una forza sì riformista ma con segno politico ed economico assai diverso da quello che è stato attribuito al termine in tempi recenti; una forza che deve prima di tutto precisare la propria vocazione e la propria analisi della situazione, cosa che ha appena iniziato a fare, e che solo in un secondo momento deve porsi la questione delle alleanze (certo, che il segretario del Pd sia ancora Renzi, o invece un esponente della sinistra interna, non è indifferente); che insomma non deve nascere politicista ma politica. Che deve parlare agli italiani con un linguaggio radicale e concreto, libero e istituzionale, con un discorso di verità e di critica che prenda le distanze dal neoliberismo e dall’ordoliberismo – mettendo il lavoro al centro – senza cadere in quelle derive identitarie e reazionarie che rispetto alle forme dei poteri dominanti non sono per nulla alternative, costituendone piuttosto l’altra faccia (Trump ne è l’esempio più clamoroso, per ora).

Solo con questi intenti, tutt’altro che nostalgici, l’operazione in corso avrà il senso pionieristico e rivolto al futuro (cioè progressista) di un’apertura di un nuovo spazio politico: quello della Terza repubblica, che deve superare democraticamente gli errori politici economici e intellettuali della Seconda.

 

Vere e false libertà del lavoro

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Il lavoro ha prima di tutto una funzione privata: serve essenzialmente a guadagnarsi da vivere. Tuttavia in una società democratica esiste una dimensione pubblica della quale tutti fanno parte: ciascuno è al tempo stesso una persona privata, che lavora, e una persona pubblica, cioè un cittadino, portatore in quanto tale di diritti politici, ad esempio quello di voto.

La scommessa della Repubblica Italiana è stata, in effetti, che la cittadinanza politico-giuridica, universale, potesse essere sposata con la dimensione del lavoro, particolare ma suscettibile di essere universalizzata. Cioè che non solo il cittadino, ma anche il lavoratore in quanto tale fosse da considerare portatore di valori, o di problemi, universali. La Repubblica si dice «fondata sul lavoro» proprio perché non si basa solo sulla cittadinanza, ma anche su quello che è apparentemente il lato privato della vita, quello in cui ciascuno bada a se stesso.

Eppure questa attività privata, il lavoro, viene riconosciuta così importante, e anzi determinante nella vita delle persone e della società nel suo complesso, che anch’essa viene caricata di un valore politico e pubblico.

Il lavoro, che è un fatto privato, è anche un fatto pubblico e deve poter essere riconosciuto e valorizzato come tale: questo è il significato profondo dell’art.1 della Costituzione. A rendere effettivo questo principio siamo arrivati però solo con lo Statuto dei lavoratori.

Il lavoro è sempre stato un fattore identitario, che bollava, che faceva sì che il singolo fosse soltanto ciò che era. In una lunga fase della storia occidentale il lavoro collocava nella fascia più bassa della società, quella esclusa da qualsiasi diritto politico. In un’altra fase storica successiva, medioevale, collocava, almeno in alcune parti dell’Europa tra cui l’Italia, all’interno di una corporazione. Adesso, nelle logiche democratiche costituzionali dentro le quali dovremmo vivere, il lavoro qualifica chi lo esercita come essere umano che pensa a se stesso ma anche come un soggetto al quale, nel contempo, sono riconosciuti diritti e rivendicazioni universali.

Infatti nel lavoro entrano in gioco questioni – il rispetto della dignità del lavoratore, il riconoscimento di un’equa retribuzione, la regolamentazione dei tempi e dell’organizzazione del lavoro – che non si sbrigano né risolvono in privato, nel rapporto tra il lavoratore e il suo datore, ma possiedono una dimensione pubblica e politica. Dalla necessità – che il lavoro sia privato significa appunto che in esso ciascuno ha a che fare col bisogno – si può quindi passare, in un assetto democratico (non solo formale, ma sostanziale, cioè in un assetto di Stato sociale), alla libertà, nel senso almeno che nel lavoro si vede e si valorizza un’energia anche emancipativa e partecipativa. Il lavoro è legame sociale e legame politico.

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Ma nella fase post-democratica che si è aperta da trent’anni, si è generata una nuova contraddizione: il lavoro è sempre più libero nel senso che è stata fatta passare l’idea che esso sia la dimensione di una autorealizzazione competitiva, di tipo individualistico e imprenditoriale, aperta a tutti; che non ci sia quindi più bisogno delle grandi strutture intermedie (il sindacato e il partito) che organizzavano il lavoro per renderlo politico. Il lavoro libero è libero da Stato, partiti, sindacato: è la corsa al successo. Ma questo individualismo si è rivelato in realtà un assoggettamento radicale del lavoratore a poteri economici illimitati, davanti ai quali non ha alcuna difesa. Inoltre, al tempo stesso il lavoro è non solo «fuori» dalla politica e dal sindacato, ma sempre più spesso «fuori», altrove, rispetto alla fabbrica, e anche in questo modo perde il suo collegamento con la cittadinanza. Finisce così con l’essere una faccenda strettamente privata, in cui si fronteggiano il datore e il lavoratore, e quindi, dati i rapporti di forza, il lavoro diviene spesso disumanizzante, sottopagato e privo di diritti. E non mi riferisco solo ai lavori che «si vedono». Ci sono molti lavori che sono altrove perché non li vediamo, «fuori» dall’attenzione: i lavori clandestini, i lavori neri, i lavori schiavistici, di cui è pieno il mondo e anche l’Italia. Gomorra è dappertutto.

In questa falsa libertà il lavoro è, insomma, «fuori», altrove, anche rispetto al singolo lavoratore: è infatti sempre più frequente lo scollegamento tra la vita della persona e l’attività lavorativa. Le infinite difficoltà di trovare un lavoro stabile rendono sempre più difficile identificarsi con la propria attività lavorativa. «Il mio essere non è il mio lavoro», deve quindi dire ciascuno.

Infine, c’è un’altra forma del dislocarsi «fuori» del lavoro: è il lavoro fuori dall’uomo, governato dai robot, dalle macchine, dai sistemi informatici. Come anticipava Marx nel «capitolo delle macchine» (Capitale, 1, 13) siamo arrivati al punto in cui o si costituisce un nuovo sistema integrato di cooperazione tra uomo e macchina all’interno della cooperazione tra gli uomini, oppure il lavoratore, al di là della sua qualifica, diventa semplicemente ingranaggio, appendice della macchina.

Questo era vero anche nella fase fordista-taylorista, ma è ancora più vero nella fabbrica hi-tech, dove il lavoratore è ancora più spossessato della capacità di comprendere e controllare quello che fa, dovendosi confrontare con una tecnologia complessa ed evoluta, alla quale risulta subalterno. L’operaio più formato e specializzato, che lavora a contatto con le macchine più avanzate, fa certo molta meno fatica fisica di quella che facevano i suoi predecessori, ma probabilmente ha anche molte meno possibilità di comprendere quello che sta facendo.

Quindi, oggi ci sono i lavoratori fortunati che stanno nelle fabbriche hi-tech, e ci sono quelli sfortunati che raccolgono pomodori, organizzati dal caporalato o prigionieri nelle galere della camorra. E ci sono sempre meno lavoratori «normali», ovvero persone in condizione di comprendere ciò che fanno sul posto di lavoro, retribuite adeguatamente e in grado di incidere in qualche modo sull’ambiente e sull’organizzazione del lavoro.

Sia chiaro, nessuno (o meglio, pochi: in vista dei successi dei «populisti», già si sentono voci che si rammaricano dell’esistenza del suffragio universale) elimina seccamente e formalmente il diritto di voto, i diritti di cittadinanza; ma quei diritti sono dissociati dal lavoro, e quindi oggi restano astratti, poco sentiti. E non a caso l’esercizio più tipico della cittadinanza, esercitare il voto, è sempre meno praticato: la perdita di identità nel lavoro va di pari passo con la perdita della partecipazione politica.

In teoria non ce ne sarebbe ragione: si può lavorar male e essere infelici e oppressi sul luogo di lavoro, e però avere voglia di andare a votare, di partecipare in qualche modo alla vita politica. Ma, in realtà, se si perde identità e dignità sul luogo di lavoro, viene meno anche l’interesse a partecipare alla cosa pubblica. Queste due dimensioni erano collegate tra loro, in una fase breve e – nonostante le sue durezze e contraddizioni – luminosa della nostra storia: i «Trenta gloriosi».

Questa dissociazione tra lavoro e cosa pubblica non è avvenuta per caso. Qualcuno – gli araldi del neoliberismo e i loro padroni – l’ha voluta, teorizzata, messa in pratica, utilizzando una vasta gamma di strumentazioni intellettuali, giuridiche, economiche, politiche. Lo sanno bene i sindacati, che si trovano a dover organizzare non più classi, ma individui, che considerano il lavoro solo come strumento per guadagnarsi la sopravvivenza, o una vita decente, e non più come una dimensione nella quale si afferma l’identità della persona, meno che mai una dimensione essenziale alla cosa pubblica.

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È evidente che la via d’uscita da questa situazione non si trova in campo puramente economico. È successo qualcosa – la rivoluzione neoliberista, e le sue crisi – che deve prima di tutto essere compreso, in una dimensione di lungo periodo. Di seguito, se si vuole rifiutare questa deriva, occorre innescare un grande processo di riorganizzazione della società e della politica.

Le istituzioni devono essere interessate a far sì che la società non sia composta da milioni di individui privi di relazioni, «atomici»; occorre ridare un ruolo alle organizzazioni, ai corpi sociali, ai partiti, senza i quali una ricostruzione della democrazia è impossibile, e ovviamente ai sindacati. I quali devono ritrovare un accesso diretto alla politica, da cui oggi sono sostanzialmente esclusi.

Il compito della ricostruzione dei corpi intermedi (partiti e sindacati) è il nostro compito attuale. E ciascuno deve fare la sua parte. L’obiettivo è la necessaria ricostruzione dell’identità del lavoratore, che sia in relazione a una nuova dimensione della politica, per contrastare la dissociazione operata dal neoliberismo.

Non è facile, ma se non ricostruiamo il nesso tra lavoro e politica attraverso i due ponti di cui abbiamo accennato, cioè i partiti e i sindacati, non andremo da nessuna parte. E scivoleremo dalla democrazia alla post-democrazia, e da questa ad avventure populiste, o peggio.

Estratto dalla relazione tenuta dall’Autore al convegno Il lavoro, la politica, il sindacato, organizzato il 4 novembre 2016 a Bologna dalla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna insieme all’IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali) Emilia-Romagna, e pubblicato in «rassegna sindacale», il 26 novembre 2016. 

 

La nobiltà della politica

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La politica può essere nobile se e quando si occupa della promozione della dignità della persona. Dunque, non quando si occupa di far tornare i conti dei bilanci.

Io non mi sento un visionario nel parlare di nobiltà della politica; semmai, propendo verso l’interpretazione realistica della politica, e quello che segue ha a che fare molto più col realismo che con l’utopismo o con vaghe aspirazioni, perché è il contenuto implicito, ma anche esplicito, della nostra vigente Carta costituzionale.

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Che cosa non significa nobiltà della politica.

Non significa che la politica sia cosa di élites nobili, nate per comandare. La nobiltà nella storia d’Europa ha avuto il ruolo, tutt’altro che irrilevante, di esercitare il mestiere delle armi e − fino a un certo momento − anche del governo, in lotta con l’altra fonte di legittimità del potere, cioè con la Chiesa. La nobiltà, quindi, avocava a sé la politica. Nobiltà della politica, però, non vuol dire questo.

Nemmeno le versioni laiche e moderne della teoria delle élites, se assunte nel loro significato più ristretto e angusto, sono soddisfacenti. Pensare che la politica sia il comando dei «pochi» organizzati sui «molti» disorganizzati attraverso le più svariate «formule politiche», cioè le diverse ideologie, − che è la tesi di Mosca − non consentirebbe di parlare di nobiltà della politica. Non solo, ma non ci consentirebbe di capire perché abbiamo fatto, ad esempio, una Carta costituzionale come quella che abbiamo. Le élites hanno un grande ruolo nella politica, ma da sole non potrebbero giustificare il fatto che la politica sia qualche cosa di nobile.

Inoltre, nobiltà della politica non significa che la politica sia un esercizio sofisticato di tecnica amministrativa, che implichi il padroneggiamento di complessi algoritmi, appannaggio di pochi sapienti. Questa è la tesi che oggi circola per il pianeta. Governa una persona che ha la fortuna di essere simpatica ai cittadini, che viene scelta attraverso un procedimento conflittuale politico-elettorale. Ma, in realtà, chi governa sul serio sono coloro che vengono formati nelle business school anglosassoni, dove si insegnano quelli che una volta si chiamavano gli arcana impèrii, cioè i veri meccanismi nascosti del potere. Vi si insegnano cose molto difficili, vi sono insegnamenti universitari, master, PhD, estremamente selettivi. Quelli che sono destinati al comando fanno molta fatica, perché devono apprendere tecniche sofisticatissime e difficilissime, che saranno quelle che consentiranno loro di governare il pianeta attraverso gli uomini politici.

Nobiltà della politica non vuol dire nemmeno quella sorta di iperpoliticizzazione muscolare e plebiscitaria della politica che dà un brivido momentaneo alle masse per spoliticizzarle subito dopo. Nobiltà della politica non è la grande rappresentazione del grande conflitto elettorale, con il grande leader che eccita le passioni delle folle nei tre mesi che precedono le elezioni, e poi − una volta che ha vinto gloriosamente ed è stato legittimato dal voto popolare − chiede che lo di lasci lavorare indisturbato per cinque anni. Quel momento di gloria non è la nobiltà della politica.

Naturalmente che la nobiltà della politica non sia quelle tre cose che ho appena detto non significa che non vi sia alcuna nobiltà della politica come sostengono gli antipolitici ridotti al qualunquismo dalla pessima dimostrazione di sé che sta dando la politica da almeno trent’anni, per i quali la politica è corruzione, non ha in sé alcuna nobiltà e anzi è gestita dai peggiori individui che la società esprime.

E non significa nemmeno che si debba dare ragione al realismo di bassa lega del pur intelligente Rino Formica, per il quale la politica è “sangue e m…”, o al realismo metafisico che portava un grande reazionario cattolico come Donoso Cortés a dire che «l’uomo è come il verme che si calpesta»: cioè, se la politica ha a che fare con l’umanità − cosa che è ovvia −, come può essere nobile dato che l’uomo in sé infinitamente vile, non vale nulla? Nonostante questa sorta di agostinismo politico estremizzato, al limite dell’eresia, non è vero che la nobiltà della politica sia esclusa a priori dalla assoluta ignobiltà del suo soggetto, cioè dell’uomo.

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In positivo la nobiltà della politica sta in due linee di pensiero.

Per una − sulla quale non mi soffermerò, anche se è quella che ho studiato di più − esiste la nobiltà della politica in senso «tragico». Quando, cioè, essa è vista come uno sforzo destinato a essere sempre sconfitto, e che tuttavia è sempre necessario porre in essere. Uno sforzo di umanizzazione del destino, che sempre fallisce perché il destino è più forte dell’uomo, perché gli elementi di negatività, di pericolo, di irrazionalità, di durezza, dell’esperienza della vita sono tali che nessun progetto umanistico avrà mai successo. È la linea di Nietzsche, Weber e Schmitt: tutt’altro che spregevole, quindi; siamo davanti a momenti altissimi della elaborazione intellettuale dell’Occidente. La politica come esperienza tragica, come consapevolezza della infondatezza radicale dell’esperienza umana, come certezza di un pericolo sempre incombente che grava sulle nostre società, sull’ordine che è sempre minacciato dal disordine; una pace sempre precaria, sempre minacciata dalla guerra interna ed esterna; un umanesimo sempre sospeso sull’abisso dell’inumano. Chi fa politica con queste idee – sostanzialmente, in vario modo nichiliste – interpreta sicuramente la politica come una dimensione nobile e alta dell’agire: sia che si pensi come Carl Schmitt che la politica è il rapporto amico-nemico − e ciò vuol dire che non saremo mai al sicuro dal conflitto −; sia per chi pensa come Max Weber che la politica sia lo sforzo continuo di chi sa che la ragione umana non sarà mai in grado di razionalizzare il mondo, e tuttavia dice «non importa, continuiamo» − così si chiude il grande saggio sulla Politik als Beruf −; sia per chi come Nietzsche aveva distinto la politica dell’«ultimo uomo», cioè la politica che è volta al soddisfacimento dei bisogni degli esseri umani, dalla Grande politica, che è la politica del dominio mondiale. Questa è un’ipotesi di nobiltà della politica, ma non è un’ipotesi di nobiltà democratica della politica.

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Ma è possibile pensare alla nobiltà della politica in chiave non soltanto di pensiero negativo, di grande realismo? È possibile pensare alla nobiltà della politica in chiave democratica? Tutta la mia esperienza politica e tutta la mia capacità intellettuale è volta a conciliare le due ipotesi della nobiltà della politica, o meglio a tentare di far coesistere l’ipotesi della nobiltà della politica intesa come apertura della politica sul nichilismo, da una parte, e l’ipotesi della nobiltà della politica intesa come nobiltà della politica democratica, dall’altra.

Per parlare della nobiltà della politica democratica cominciamo dal luogo meno indicato: da Platone. Il quale pensava della democrazia tutto il male possibile: essa aveva messo a morte Socrate. E perché pensava che la politica dovesse essere appannaggio di una ristretta casta di «guardiani scelti», cioè dei filosofi. Leggiamo dal Politico (305e): «Il sapere politico è quello che ha autorità su tutti i saperi particolari. Si prende cura di tutte le leggi, di tutti gli affari dello Stato. Tesse insieme tutte le cose nel modo più giusto». Naturalmente, tutto ciò apre la questione della definizione della Giustizia alla quale verrà dedicata l’opera principale di Platone, la Repubblica.

Ancora dal Politico (308e-309b). Il modello di sapere politico a cui pensa Platone è tutt’altro che includente: è anche escludente. Prevede, infatti, la condanna a morte, all’esilio, alla perdita dei diritti per coloro che sono inadeguati alla politica − tutt’altro che democratico, quindi −. E gli inadeguati alla politica sono quelli che non si lasciano guidare dai filosofi. Per di più, sono i filosofi, conoscitori delle anime, che sanno comprendere se un’anima è educabile o no, e − posto che sia educabile − fino a qual punto si può arrivare. Alcuni possono essere educati solo a lavorare e a essere obbedienti per tutta la vita. Altri invece possono diventare «custodi», cioè guerrieri. Poi, fra i «custodi» alcuni possono diventare filosofi. Tutto ciò avviene per natura, perché le anime nascono così. Questo è il punto chiave: si tratta di capire se le persone sono incapaci di trovare un posto dentro la società; oppure – se ne sono capaci − se trovano un posto soltanto «particolare», cioè riescono soltanto a pensare a se stessi, alla propria famiglia, ai propri affetti più vicini; oppure se sono capaci di pensare l’Universale. Nel primo caso, saranno obbedienti a coloro che sono capaci di pensare all’Universale, cioè alla Città nel suo complesso – ai guerrieri e ancor più ai filosofi –.

Ancora dal Politico (311c): «La politica è l’arte regia che conduce gli uomini alla vita comunitaria, in concordia e in amicizia, realizzando il più prezioso dei tessuti». Di nuovo l’immagine della politica che ha a che fare col tessere, col costruire intrecci. La politica − arte regia − sovraintende all’intreccio, senza trascurare nulla di quanto si addice alla vita felice.

Certamente questa non è un’ipotesi democratica, perché muove addirittura dall’idea della diseguaglianza gerarchica delle nature umane». Pur consapevoli di ciò, andiamo avanti. Platone Lettera VII (326a) (diamo per certo che sia autentica): «Solo dalla buona filosofia viene il criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto a livello sia pubblico, sia privato. I mali non lasceranno l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non assurgerà alle somme cariche dello Stato». Una frase così, con varianti meramente formali, avrebbe potuto essere una frase del partito bolscevico: se al posto di «filosofi» mettete «militanti politici» avete l’idea di una nobiltà della politica che è nobile non solo perché esercitata da un’élite nata per comandare, ma è nobile perché ha come obiettivo l’eliminazione del male dal mondo e la costruzione di una vita felice. Qui ci sono dei «pochi» che non comandano per il proprio utile, per il proprio interesse, ma per il bene di tutti.

Ancora dalla Lettera VII (335d): «È necessario fondere nella stessa persona la forza del potere e l’amore del sapere. Nessun cittadino in nessuno Stato può essere felice se non vive con temperanza sotto la guida della Giustizia. Uomini non privi di santità inculcano questi principi con una sana formazione e con la educazione dei costumi». Questa è la nobiltà della politica, che non è né la nobiltà del pensiero negativo, la nobiltà tragica − quella di Nietzsche, Weber, Schmitt −. Qui non c’è lo scacco della ragione. Qui c’è una nobiltà della politica che si fonda sulla convinzione che la politica abbia a che fare con il potere, con il sapere, col Bene. Abbiamo qui un’idea della politica altissima, e lontanissima dalla tesi oggi corrente che la politica sia il calcolo dell’interesse individuale. Naturalmente, è difficile far passare tutto ciò per democrazia. Non ci siamo ancora.

A questo punto è facile pensare alla politica nobile e democratica: la democrazia è quel regime nel quale tutti sono filosofi. Intendo la democrazia come la intendiamo noi moderni, non come la intendeva un antico, che non poteva avere la grandiosa idea di uguaglianza morale dell’umanità. Lo dice un laico: se non ci fosse stata quella idea nata col cristianesimo non ci sarebbe stato, ovviamente, neppure lo sviluppo secolarizzato di quella idea, la democrazia. La democrazia che sta scritta nella nostra Carta costituzionale è questa: è l’idea che tutti, e non solo «i pochi», i filosofi, sono capaci e hanno il dovere di mettere insieme il potere, il sapere, il Bene. Tutti sono, potenzialmente, governanti illuminati. Senza questo convincimento la nostra democrazia non funziona. È facile da dire; è difficile da fare.

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Per iniziare a sbrogliare la matassa delle difficoltà, pensiamo all’elemento «personalistico» della Costituzione repubblicana, cioè l’idea che la vita politica è il complesso degli esseri umani tenuti insieme dal lavoro, cioè dall’interesse individuale, e tuttavia, al tempo stesso, anche da un’idea di uomo. Infatti, se viviamo uniti solo per il lavoro la nostra esistenza è un ergastolo inumano. Noi stiamo uniti, in realtà, per vincere la natura ostile e procurarci una vita migliore di quella delle belve – da qui il lavoro −, ma anche da un’idea che Platone dava per scontata (adesso potremmo avere qualche dubbio), e precisamente da un’alta idea di noi stessi. Se non abbiamo un’alta idea di noi stessi non abbiamo più alcun motivo per sottrarci all’utilitarismo più radicale. Utilitarismo più radicale vuol dire: gli esseri utili li teniamo, quelli inutili li eliminiamo; ovvero, significa che ciascuno ha il valore che gli viene attribuito dalla società. Questa frase terribile, perché vuol dire che non c’è alcun valore dell’uomo se non quello che di volta in volta il mercato gli dà, è di Thomas Hobbes, che la adopera per definire la condizione sociale dell’utilità immediata in un regime di scarsità (ad esempio, un idraulico vale molto più di un professore di filosofia se c’è una perdita d’acqua il giorno di Ferragosto).

Ma lo stesso Hobbes ci ha detto che non c’è solo questo modo di vivere nichilistico, imperniato sull’utilità che non è un criterio fisso, ma condizionato, variabile e contingente; in realtà, anch’egli, uno degli uomini più realistici, meno poetici e meno utopistici che io conosca, ha sostenuto che c’è un’utilità primaria incondizionata, la vita, che diviene così un valore, sia pure di basso livello: è meglio vivere che essere uccisi, la pace è migliore della guerra civile. L’età moderna, a partire da questa idea, è andata un po’ più avanti e ha detto − ed è questa la democrazia come la intendiamo oggi – che, oltre al vivere, è valore incondizionato vivere in una società che rispetta l’umanità di ciascuno, e che ciò è meglio che vivere in una società che pensa soltanto in chiave utilitaristica, cioè che rispetta le persone soltanto per il contributo sociale che possono dare di volta in volta col loro lavoro. È stato possibile, muovendo dall’incondizionato che è presente in quanto universo di condizionatezza, in cui nessuno ha valore in sé mentre tutti hanno il valore che viene attribuito loro di volta in volta, avanzare verso una visione prima liberale e poi democratica, secondo le quali l’incondizionato che accompagna il condizionato è qualcosa di più della nuda vita.

Ma per sapere – questo è il punto − che la nostra vita associata è al tempo stesso condizionata e incondizionata, per sapere che noi siamo insieme per lavorare (cioè per fare i nostri interessi) e per sviluppare la nostra umanità dobbiamo essere tutti filosofi. Sono infatti i filosofi che conoscono il condizionato e l’incondizionato. Per Platone il condizionato e l’incondizionato se ne stanno separati: quelli che conoscono solo il condizionato lavorano; quelli che conoscono l’incondizionato e lo sanno distinguere dal condizionato comandano. Per noi, invece, i cittadini di una libera democrazia conoscono al tempo stesso il condizionato − la durezza della vita, la durezza del lavoro −, ma al tempo stesso sanno che si sta insieme per affermare non solo l’utile ma anche, con la stessa radicalità, un’immagine incondizionata dell’uomo. Questo senza il cristianesimo non ci sarebbe stato, e questo è ciò che se viene perduto ci rende infinitamente poveri.

Tenere in vita questo sapere del condizionato e al tempo stesso dell’incondizionato è la nobiltà della politica. C’è nobiltà della politica solo se noi crediamo nella nobiltà degli esseri umani, nell’incondizionatezza degli esseri umani. Un cattolico direbbe nell’anima immortale. Io dico nella infinita dignità di ciascuno. Negare la nobiltà della politica intesa come affermazione del valore incondizionato della dignità di ciascuno implica che ci si riduca a essere tutti soltanto dei privati.

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Qual è il ponte fra condizionato e incondizionato? Il legame fra particolare e universale? Detto altrimenti: come si fa a costruire le città e gli Stati a partire dai singoli? Nella nostra Costituzione c’è scritto che ciò che tiene insieme le due dimensioni (e quindi i cittadini) è il lavoro. In tal modo il costituente voleva dire, prima di tutto, che il legame sociale non è dato da una religione, da una razza, da una forma economica specifica: il legame sociale è l’attività dell’uomo. Ora, l’agire dell’uomo ha la specificazione del lavoro, che è un’attività privata − il lavoro è una faccenda privata, che riguarda il singolo e la sua famiglia −; è una dimensione sociale, perché il lavoro ci rende socii, compagni anche se concorrenti, perché ci mette in relazione; ma, in più, nella Costituzione c’è l’idea che a lavorare è un soggetto che attraverso il lavoro, l’attività, produce e manifesta il proprio valore infinito – e infatti all’art. 3 della Costituzione non c’è scritto che la Repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono soltanto il lavoro dell’uomo, ma che «la Repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono il libero svolgimento della persona umana» −.

Quando parlo di Costituzione non voglio entrare nel problema di distinguere la concezione programmatica e la concezione normativa dei suoi principi fondamentali. Io risolvo la questione con il concetto di orientamento, cioè di Costituzione in senso materiale. Non vi è dubbio che i principi fondamentali servano − non come preambolo ma come parte essenziale − a orientare l’intero assetto normativo della Costituzione e in linea teorica l’azione politica dei governi, quale che sia il loro colore (che influirà magari sulle concrete modalità di perseguimento delle finalità costituzionali). Il punto semmai è se oggi questo orientamento abbia ancora senso, se la prima parte della Costituzione non sia già stata fatta diventare un insieme di flatus vocis, di parole al vento dall’attuale assetto economico e dalla filosofia politico-economica che regge l’intero Occidente e il mondo intero dalla metà degli anni Settanta. Il grande interrogativo dell’oggi − senza parlare di politica in senso contingente − è se sia ancora possibile attuare la Costituzione in senso radicale.

Cioè se sia possibile sviluppare la sua tesi di fondo, che nel lavoro è coinvolta la persona. Anzi, per i costituenti le due cose erano indistinguibili: il lavoro era tanto l’elemento del condizionato, quanto la porta dell’incondizionato. Tutti lavoratori, quindi, e tutti al tempo stesso filosofi aperti all’incondizionato, all’Universale, alla consapevolezza della dignità infinita della persona. Ciascuno di noi, ciascun cittadino di una libera repubblica, tiene unito ciò che Platone separava: il lavoro condizionato particolare e la consapevolezza universale del filosofo; l’impotenza politica di chi lavora e la potenza politica di chi conosce. Se ciascun cittadino della Repubblica capisce questo, la nobiltà della politica è evidente. Quella nobiltà della politica è la nobiltà nostra, il nostro valore, la nostra capacità di essere condizionati e incondizionati al tempo stesso.

Ciò che ci tiene insieme, politicamente, non è il mercato, l’insieme dei condizionamenti, del lavoro individuale. In questo caso, la politica potrebbe forse spingersi a mettere qualche regola per evitare che il mercato elimini troppa gente, ma non dovrebbe fermare questo motore del nostro vivere associati. La politica sarebbe sostanzialmente una tecnica, e i problemi politici sussisterebbero in verità in problemi tecnici e avrebbero soltanto una soluzione ottimale, che se non perseguita dimostrerebbe l’inadeguatezza o la corruzione del politico. Chi crede questo, in realtà, fa torto non ai politici, ma a se stesso, poiché sta dicendo di essere soltanto un ingranaggio di una macchina e sta sostenendo che non c’è nobiltà della politica, perché c’è nulla di nobile nell’uomo e nelle relazioni interumane, ma soltanto interessi più o meno facilmente soddisfacibili.

La nobiltà della politica è nel fatto che la politica può e deve essere democratica, cioè deve presupporre (potenzialmente) e realizzare (in atto) la dignità di tutti. E dunque democrazia non è soltanto vedere rispettati i propri diritti, fare attraverso il lavoro i propri interessi legittimi nella legalità, ma è affermare quotidianamente la volontà di ciascuno di interessarsi attivamente, attraverso il lavoro, alla cosa pubblica in vista dello sviluppo umano complessivo. Questo è il messaggio della nostra Costituzione. Sviluppo umano complessivo guidato da quei centri di potere che sono le istituzioni, nutrito della sostanza storica e sociale data dai partiti, e in ultima analisi voluto da tutti: ciascuno in modo diverso, ma tutti devono volere l’Universale. Non avere un’unica modalità dell’Universale, ma certamente un’idea di Universale deve essere presente in tutti e in ciascuno. Potrà essere un Universale liberale, democristiano, comunista, ma un’idea di società e un’idea di uomo sono necessarie alla democrazia e alla nobiltà della politica.

Tutto ciò non è solo teoria, ma è potenzialmente pratica. Non c’è esperienza di lavoro − cioè del condizionato, dell’interesse privato − che non ci ponga praticamente, immediatamente, davanti a questioni universali. L’Universale non esce dalla testa dei filosofi, ma esce dall’esperienza quotidiana. Tutte le volte che lavoriamo ci troviamo davanti alla questione di che cosa è giusto; ci chiediamo come vogliamo la società, che cosa è una società giusta; ci interroghiamo sul posto che abbiamo e che vorremmo avere nella società. Il condizionato e l’incondizionato si tengono l’un l’altro: dal condizionato non si può non risalire all’incondizionato.

È una concezione, questa, che fa sì che per nobiltà della politica non si debba intendere solo che la politica deve promuovere concretamente e liberamente l’umanità di tutti e di ciascuno, ma anche che la politica è nobile perché ha l’uomo non per oggetto, ma per soggetto. La politica promuove l’umanità di ciascuno ma non dall’esterno: è ciascuno di noi che promuove l’umanità propria e degli altri essendo al tempo stesso condizionato e incondizionato, lavoratore e cittadino. E quindi, la politica è nobile perché chi fa politica − e cioè noi tutti, sempre − in una società democratica e libera deve pensare a se stesso non come a un amministrato, ma come a un nobile, a un Signore. La politica è la dimensione in cui, attraverso la fatica del lavoro, ci si insignorisce di se stessi, e al tempo stesso della Città; in cui si costruisce la Città dell’uomo, il che significa che non viviamo più alla mercé del fato, della natura o del caso o del mercato, ma viviamo in un mondo che abbiamo costruito noi. Che lo abbiamo costruito attraverso il contratto di Hobbes o attraverso quello di Rousseau, che lo abbiamo costruito attraverso la dialettica di Hegel e di Marx – attraverso la storia del lavoro –, lo abbiamo pur sempre costruito noi. È il mondo dell’uomo. Per pensare in questo modo si deve pensare all’uomo come a qualche cosa di infinitamente pieno di valore, che si manifesta nell’agire individuale e collettivo, e alla politica come a un’attività infinitamente piena di valore. Insomma, la politica è il fatto che tutti promuovono attivamente l’uomo anche come fine. Che tutti sono virtuosi, capaci di azione.

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Nobiltà della politica significa democrazia. Criticare la politica è giusto se se si tratta di una critica a politici inadeguati; è sbagliato se è critica della politica in generale.

A questo punto, tuttavia, va detto che tutto ciò ha dei limiti non solo fattuali − cioè non è proprio possibile essere sempre tutti così virtuosi −, ma soprattutto strutturali. Il realismo tragico deve essere costantemente presente. Dobbiamo sapere che tutto ciò, questa idea che abbiamo di noi, questa idea della politica è infondata. Non c’è nessuna garanzia che quello che abbiamo detto sia vero. Chi ha fede crede nell’anima immortale, non necessariamente crede che l’umanità dell’uomo possa uscire dalla politica − lo può credere, lo può anche non credere −. Ma chi non ha la fede deve sapere che questa grandiosa costruzione, che è la costruzione dell’umanesimo europeo moderno, che ha bisogno di avere alle spalle il cristianesimo, è intrinsecamente fragile, non garantita, esposta alle più terribili smentite che nascono non solo dai nemici esterni, ma soprattutto dall’interno del nostro mondo. Perché se la democrazia ha come obiettivo di rendere l’uomo Signore, cioè di farlo vivere all’interno di una dimensione umana, e non ferina, vi sono stati tentativi di presentare questa Signoria che fanno ancora rabbrividire. E noi sappiamo che tutto ciò è continuamente esposto al grande nemico della democrazia, che è la paura. È la paura che ci fa pensare di non essere capaci di signoreggiare la nostra vita. La paura, l’insicurezza generata dalle crisi economiche, l’insicurezza generata dalla presenza dentro il nostro spazio di persone a cui non siamo abituati, all’«altro». La paura cioè l’idea che noi siamo impotenti, incapaci, minacciati. Chi si sente continuamente minacciato non pensa alla politica come alla volizione dell’Universale, come alla costruzione dell’uomo da parte dell’uomo. La politica diventa per lui piuttosto la costruzione di muri, la ricerca della sicurezza del Particolare che non vuole più sentir parlare di Universale ma solo della safeness e della security. Ciò non è spregevole, ma certo per questa via non si arriva alla nobiltà della politica, perché non si arriva alla nobiltà dell’umanità. Per questa via ci amputiamo della nostra «infondata» idea di uomo − della bella, ricca, potente, idea di uomo −, che viene spazzata via dalla nostra contingenza, dalla nostra carne, dalla nostra debolezza, dalla nostra paura, dalla nostra avarizia, mentre si afferma l’idea che l’uomo sia un soggetto che prende e consuma, avido di beni, insoddisfatto se non accumula e timorosissimo che ciò che ha accumulato gli venga portato via. È ancora una volta Hobbes, questo, ma è Hobbes che parla dello stato di natura dove gli uomini sono animali, lupi per l’altro uomo.

Non vorrei che le nostre società siano tornate a essere quella giungla, quello stato di natura, nel quale non c’è posto per alcuna nobiltà, perché non c’è spazio pubblico ma solo spazi privati. Infatti, l’idea di fondo della nobiltà della politica significa che lo spazio privato può diventare spazio pubblico, attraverso il lavoro, il pensiero, la volontà. Non vorrei che ci sia posto soltanto per la tirannia dell’economia, del neoliberismo, che racconta l’opulenza ai popoli, e realizza la miseria dei medesimi e la ricchezza di ristrette élites già ricche; che ci sia posto solo per la cieca paura, per la cupa sorda cupidigia, per l’estraneità degli uni dagli altri. Per l’individualismo solitario di massa, un tempo euforico e oggi timoroso. E non vorrei che ciò venisse affermato come buono e giusto, come l’unico modo di esistenza.

Le persone, gli uomini e le donne, devono semmai ricominciare a incontrarsi e a parlare – nelle strade, nelle piazze, nelle arene – di questioni che li riguardano nel modo più radicale. Ciò che ci riguarda nel modo più radicale deve essere trattato in pubblico da qualcuno che parla a un altro, il quale risponde, mentre entrambi si guardano in faccia. La libertà è in primis la libertà di parola in pubblico – la parola è solo dell’uomo –, è chiamare le cose col loro nome, e quindi agire. Da questo punto di vista i social network sono un’esperienza di solitudine, di anonimato, di irresponsabilità. La solitudine, che è sorella della paura, è il nostro problema; e la soluzione non sono i social network che possono servire a scopi tecnico-pratici, ma non sostituiranno mai la politica. In essi si naviga nel vuoto, nell’inessenziale, senza il Particolare, perché il lavoro manca, e senza l’Universale, perché la Res Publica la stanno togliendo. Ne risulta solo un’accozzaglia di solitudini tristi e aggressive.

Anche se purtroppo siamo diventati così, almeno continuiamo a sapere che esiste – ed è giusto che esista – l’idea, e possibilmente la pratica, della nobiltà della politica, e della nobiltà di ciascuno di noi.

Relazione tenuta dall’Autore a Piacenza il 24 settembre 2016, nell’ambito del Festival del Diritto.

 

Politica e sindacato

ph-44

Non basta tenere i fermi i principi fondamentali della Carta costituzionale perché si possa dire che non si cambia la sostanza della Costituzione. Questa è modificata radicalmente anche se si lascia invariata e intatta la lettera dei principi fondamentali. Il principio fondamentale che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» ha di per sé un contenuto decisivo, che è precisamente ciò di cui stiamo parlando: cioè il rapporto fra politica e lavoro. Ma non è sufficiente lasciare questo contenuto decisivo scritto così com’è. Questa affermazione di principio trae il proprio senso sia dalla concreta articolazione dei poteri dello Stato sia dalla reale strutturazione della società e del sistema produttivo. Ed è lì che è cambiato tutto.

«Repubblica fondata sul lavoro» vuol dire che la Costituzione della Repubblica italiana si fa carico di erigere un’architettura specifica intorno a un principio che distingue la civiltà moderna dalle altre forme di civiltà: il lavoro entra in modo costitutivo dentro la politica − cosa che, come ha sottolineato tra gli altri Hannah Arendt, non appartiene a buona parte della tradizione dell’Occidente −. La tradizione pensa prevalentemente la politica come qualche cosa di distinto dal lavoro, come due ambiti che non si incontrano − in modi diversi nella cosiddetta Antichità e nel cosiddetto Medioevo − e che meno che mai si sovrappongono, e che ancor meno sono la stessa cosa. Nel mondo antico la politica è gestita soprattutto − tranne nel caso dell’autorappresentazione della democrazia ateniese in Pericle − da coloro che non lavorano. Nel mondo medievale la politica è appannaggio o indirettamente degli oratores (la gerarchia della Chiesa) o direttamente dei bellatores (le aristocrazie laiche), ma non dei laboratores, con l’eccezione dell’autogoverno dei Comuni italiani e delle città anseatiche, che ha dato un contributo assolutamente decisivo alla civiltà occidentale, ma che si trova testimoniato soltanto in alcune aree dell’Europa. In ogni caso, è solo in età moderna che si afferma apertamente l’idea che la politica e il lavoro coincidono: cioè chi fa la politica sono proprio quelli che lavorano. In Olanda, in Inghilterra, in Francia, nei due secoli cruciali dell’età moderna, il Seicento e il Settecento, si formano le pratiche e le idee adeguate a questa grande trasformazione. E infine anche la nostra Costituzione, tutta moderna, può apertamente affermare che ciò che ci fa stare insieme politicamente non è né una generica socievolezza (l’uomo è un animale sociale) né è legato alla natura (la razza), all’economia (il mercato), alla trascendenza (la religione) o alla storia (la nazione): il fondamento del legame sociale e politico è il fatto che lavoriamo. Se per miracolo non fossimo costretti a lavorare, dice la nostra Costituzione, non ci sarebbe politica.

La politica è la coesistenza organizzata di quelli che lavorano. Ciò ha una triplice valenza. La prima è che il lavoro è e resta anche un fatto individuale. Si lavora per mangiare, per portare a casa lo stipendio grazie al quale vivono il lavoratore e la sua famiglia. Ma vi è un altro principio collegato al lavoro: il lavoro è parziale, non è immediatamente un principio di uguaglianza. Anzi, è attraverso il lavoro che passano le disuguaglianze. È lo spazio di differenze potentissime − soprattutto la differenza di collocazione all’interno del processo produttivo −. Terzo punto: nonostante sia un fattore individuale, nonostante sia un elemento di parzialità e, diciamolo, di conflittualità, che potenzialmente divide la società, nondimeno il lavoro è anche il fondamento dell’intero, il fondamento della Repubblica tutta quanta. Che non è una Repubblica di lavoratori: è una Repubblica del lavoro. Voi lo sapete che c’era stato il tentativo comunista di scrivere in Costituzione che l’Italia è una «Repubblica dei lavoratori»: era chiaramente una indicazione di parte, che generava perplessità insuperabili, risolte invece con la mediazione democristiana che ha proposto il testo che ancor oggi resiste.

Da ciò deriva che il lavoro ha bisogno di una doppia rappresentanza, sindacale e partitica. L’elemento sindacale è quello in cui il lavoro si manifesta nella sua concretezza materiale, nella sua particolarità individuale, territoriale e di classe (o in ogni caso di ambito sociale definito). Anche se in Italia fin da subito il principale sindacato ha scritto nella propria sigla la parola «generale», tuttavia il sindacato rappresenta il lavoro nella sua dimensione individuale − cioè il sindacato è un’istituzione a cui si rivolgono i singoli lavoratori a presentare dei problemi − e nella sua dimensione di parzialità anche aspramente conflittuale, perché il sindacato insegna a ciascun iscritto che il problema del lavoratore non è soltanto individuale, ma è anche il problema di quelli che fanno la stessa cosa che fa lui; cioè gli dà una disciplina e una carica di conflittualità che dunque esclude l’elemento della generalità politica. La generalità sindacale significa solo (e non è poco) che il sindacato si candida a non essere corporativo, a tenere presenti le ragioni di tutti i lavoratori. Ma a fianco di un sindacato è necessario un partito, che − nella misura in cui è il partito dei lavoratori, e dunque è un partito di «parte» − sia capace di tradurre la parzialità che è intrinseca al lavoro concreto in un progetto generale di società. Cioè che sia capace di rappresentare il lavoro non nella sua materialità empirica − a quello ci pensa il sindacato −, ma nella sua idealità: nell’idea, cioè, che il lavoro è l’unico titolo di cittadinanza.

Ciò è possibile grazie al fatto che − e questo è ancora più importante −, oltre al partito, oltre al sindacato, esiste lo Stato, cioè il sistema delle istituzioni. Le quali di per sé non sono parziali, sono universali e si presentano − queste sì − uguali per tutti. L’idea marxiana che lo Stato sia di parte proprio nel suo essere universale (cioè nel trattare in modo uguale i cittadini socialmente diseguali) era vera quando fu elaborata (dai primi anni Quaranta dell’Ottocento): noi oggi dobbiamo credere che lo Stato sia capace (e che lo debba fare, che lo voglia fare) anche di rimuovere attivamente le radici della disuguaglianza per dare concretezza sociale ai diritti astratti e formali secondo l’intuizione di Marshall (Cittadinanza e classe sociale) e secondo l’art. 3 della Costituzione. Ma le istituzioni nel loro presentarsi uguali per tutti sono prive di energia politica, come una colonna: che c’è, serve a tenere in piedi un edificio, ma non ha in sé energia. Alle istituzioni l’energia politica − che è necessaria a svolgere il compito dell’uguaglianza attiva, e che è sempre un’energia di conflitto, di orientamento, di parzialità − è fornita dai partiti che, quando vincono le elezioni, governano in un certo modo o in un altro. Quindi perché la frase «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» abbia un senso sono necessarie alcune evidenze sociali, economiche, politiche, istituzionali: è necessario il lavoro, per cominciare; è necessario l’individuo interessato, al limite l’individuo che si identifica con il lavoro; è necessario il sindacato; è necessario il partito; è necessario lo Stato, che è universale e stabile − come dice la parola − e che trae la propria energia dal partito che invece è di «parte» − come dice la parola −.

Di tutto ciò oggi non è rimasto nulla, o quasi. Infatti, la Costituzione è stata scritta in un’epoca diversa dalla nostra, in un differente orizzonte culturale e civile. È stata scritta dentro la «terza rivoluzione» del Novecento (quella socialdemocratica), e noi invece stiamo abitando la fase terminale (ma non finale) della «quarta rivoluzione» (quella neoliberista). È stata scritta deliberatamente come impianto del primo esempio italiano di Stato democratico-sociale. Fino a quel momento l’Italia aveva conosciuto forme di Stato che non erano né democratiche né sociali: quando erano democratiche non erano sociali (i liberali, anche i più democratici, non riuscirono a costruire uno Stato capace di includere la società), e quando erano sociali (le politiche sociali del fascismo) non erano democratiche.

Noi oggi non abbiamo il lavoro, perché il capitalismo nei Paesi dell’Occidente sviluppato ha molto meno bisogno di lavoro. Inoltre, non abbiamo il soggetto esistenzialmente interessato al lavoro. Il soggetto, oggi, percepisce il lavoro quasi solo come uno strumento per vivere al di là del lavoro, nella quotidianità del privato. Questa debole identificazione del soggetto singolo col lavoro fa parte − come l’assenza di lavoro, perché il modello economico ne ha bisogno meno − della civiltà nuova dentro la quale ci troviamo a vivere.

Che cosa sia rimasto dei partiti è poi inutile che ve lo dica: è rimasto ben poco. Sono diventati comitati elettorali di un capo a livello nazionale, e agglomerati di potere affaristico-amministrativo, ora legale ora illegale, nei territori.

Infine, che cosa è rimasto dello Stato? Poco. Lo Stato ha devoluto pezzi piuttosto notevoli della propria sovranità, dopo quella strategico-militare perduta con la sconfitta della guerra. Ha devoluto anche la sovranità che consiste nella capacità di esercitare la politica economica e, insieme ad essa, la politica monetaria, come se avesse perduto un’altra guerra. La politica monetaria non la facciamo più, ci siamo autovincolati allo schema liberale (più precisamente ordoliberale) che nella nostra storia era stato perseguito soltanto dalla destra di Quintino Sella, di Einaudi e di Vanoni (lo schema del controllo della massa monetaria e dell’intervento dello Stato nell’economia non a scopi propulsivi ma soltanto a scopo di moderazione salariale e di abbattimento delle soglie di intervento pubblico). Come principio fondamentale di politica economica abbiamo quello di non farla, perché ci siamo vincolati, con i Trattati europei, a una matrice intellettuale e pratica (ancora una volta, l’ordoliberismo) che sostiene che il mercato è originario e che è il migliore produttore e distributore di ricchezza che esista al mondo, e che compito dello Stato è potenziarne lo sviluppo, e non metterci direttamente le mani. Nello specifico italiano, poi, la pubblica amministrazione è in condizioni rovinose; il mondo della scuola e dell’Università è deliberatamente trascurato con investimenti che ci mettono all’ultimo posto in Europa insieme alla Grecia; e il mondo produttivo non assorbe i laureati (chi si laurea resta disoccupato almeno tre anni dopo la laurea).

È successo che la «quarta rivoluzione», la rivoluzione neoliberista, domina la società e domina anche le menti. Sull’idea che tutto quello che abbiamo nominato − sindacato, partito e Stato − non sia altro che sovrastruttura (come in un marxismo rovesciato) che aliena parassitariamente e burocraticamente la libertà, la potenza, l’entusiasmo, l’energia che sta in ciascuno di noi, è fondato il neoliberismo dal punto di vista soggettivo. Quando si riesce a far credere a tutti (o a molti) che il sindacato e il partito sono i nemici del lavoratore e del cittadino, e che è bella e buona cosa che il singolo entri nel mercato del lavoro fidando baldanzosamente solo in se stesso e nella propria capacità di avere successo, coloro che hanno posizioni dominanti hanno già vinto in partenza. Nella fase euforica del neoliberismo, dagli anni Ottanta alla Grande crisi, le cose funzionavano appunto così. In quella fase anche la sinistra non solo si era convertita all’idea che la libertà individuale stesse nella capacità di proiettare la potenza individuale nella società, ma aveva anche accettato l’idea che lo sviluppo economico, anzi ogni tipo di sviluppo − da quello economico-materiale alla crescita della ricchezza attraverso le bolle finanziarie −, fosse buono in sé. In ciò rendeva vere le indicazioni quasi profetiche di chi, nella cultura del primo Novecento, sosteneva che liberali e comunisti fossero la stessa cosa, e stessero soltanto facendo a gara a chi interpreta meglio la stessa ideologia del progresso e dello sviluppo tecnico-industriale (la elettrificazione del mondo). Quando la partita è stata decisamente vinta dai liberali, dalle liberaldemocrazie, dal capitalismo, a una gran parte della sinistra è stato facile arrendersi all’evidenza e aderire al partito dei vincitori, proponendo qualche piccola variante “sociale” al loro modello di sviluppo. E il pensiero critico si è rifugiato nel pensiero della decrescita, che non è un pensiero di sinistra. Mai e poi mai Marx avrebbe scommesso sulla decrescita: tutta la storia della sinistra è scritta alla luce dell’idea che la crescita produce le condizioni per la liberazione dei lavoratori (condizioni che la politica deve cogliere e realizzare).

Oggi, le idee della destra economica che hanno vinto negli anni Settanta sono pesantemente in crisi, ma restano prive di alternative credibili. Resta centrale, dopo tutto, la circostanza che la globalizzazione ha distrutto nei Paesi di antica industrializzazione i risultati delle lotte sociali di un secolo (non si enfatizzerà mai abbastanza che dal nostro punto di vista è l’esistenza di qualche centinaio di milioni di operai asiatici capaci di essere «l’esercito industriale di riserva», fuori dal perimetro delle socialdemocrazie europee, che ha consentito l’abbattimento dei livelli di tutela del lavoro occidentale). Oggi, nonostante i cattivi risultati del neoliberismo in generale e di quella specifica variante del neoliberismo che è l’ordoliberalismo (ovvero l’idea tedesca di capitalismo che abbiamo accettato e sottoscritto nei trattati istitutivi della Ue, dove sta scritto che l’Europa vuole essere «un’economia sociale di mercato altamente competitiva», che oggi implica salari relativamente bassi, concentrazione spasmodica sulle esportazioni, Stato impegnato a mantenere la stabilità della massa monetaria, quando vuole, sempre fatto salvo l’interesse nazionale germanico), in questo contesto di bassissima crescita, di disuguaglianze crescenti, di svalutazione del lavoro, di trasformazione radicale della democrazia, perché la sinistra non ha lo spazio politico che dovrebbe avere?

Perché è rimasta, io credo, nella testa degli italiani, della sinistra soltanto l’immagine terminale, cioè quella dei diadochi che si sono spartiti l’Impero di Alessandro con guerre intestine e odi funesti. Fuor di metafora: la generazione di dirigenti nazionali che ha gestito la sinistra dopo Berlinguer ha lasciato di sé un ricordo incancellabile negli italiani, e non è un buon ricordo. Dal rifiuto popolare di questo o di quel dirigente il passaggio al rifiuto della stessa parola «sinistra» è stato inevitabile, proprio perché dentro quella parola nessuno mai si è sforzato di mettere un programma di sinistra, ma, oltre alle sorti personali di alcuni dirigenti, solo politiche non certo di sinistra (fino al capolavoro di chi oggi detiene l’egemonia − poiché controlla di fatto quasi tutti i mezzi di informazione − che presenta come di sinistra l’abolizione dell’articolo 18).

È chiaro che se «sinistra» è proporre una lettura abborracciata, affrettata, patetica, dei testi della gerarchia cattolica (ignorando che la polemica anticapitalistica e antitecnologica è una costante del magistero della Chiesa, e che, anche se oggi è presentata in modo più accattivante, ha un fondamento teologico e dogmatico non certo di sinistra), non si va molto lontano. Ed è chiaro anche che se «sinistra» è rivendicare la fedeltà alla ditta − chiunque non sia emiliano non capisce l’intreccio di potere economico, amministrativo a guida partitica che in questa parola si compendia, e che è stato realizzato nella nostra regione e non altrove −, ovvero se è proporre il modello emiliano a tutta Italia, ciò è precisamente l’ipotesi che è stata sconfitta nel febbraio del 2013.

Allora, se non è proporre il pensiero critico del pontefice, e se non è proporre il modello emiliano, che cosa è sinistra? I cittadini non lo sanno, perché è stato loro detto che sinistra è sinonimo di totalitarismo, oppure che consiste nel riformare il Paese in sintonia con le esigenze del neoliberismo.

Il sindacato può essere un elemento di questa mancata risposta oppure un elemento positivo della risposta. Ovvero, può essere ciò che l’attuale forma politica gli chiede di essere: un sindacato di fabbrica, un sindacato dalla rivendicazione all’interno delle compatibilità del sistema, che accetta la gerarchia dei problemi posta in essere dall’attuale configurazione dei poteri. Questa gerarchia dei problemi non vede al primo posto l’occupazione; e non vede al primo posto la trasformazione del lavoro da mezzo di sussistenza a dimensione in cui si realizza il soggetto. Al primo posto c’è semmai la stabilità, la disciplina fiscale; al secondo posto la ripresa economica; solo al terzo posto c’è la nuova occupazione − che in ogni caso deve essere meno tutelata che in passato −. Questa è la gerarchia imposta del potere. Perché ci sia «sinistra» è necessaria una gerarchia alternativa: farla finita con il dogma della stabilità della massa monetaria e della disciplina fiscale; con l’assenza di politica economica; con la flessibilità del lavoro, con la sottrazione di diritti al lavoro, con la marginalità del lavoro. Ebbene, «sinistra» è dire queste cose, e non dirle perché ci sono dei «problemi» da risolvere ma perché si è padroni di un’analisi della società che dietro i problemi vede «questioni», contraddizioni, e che, soprattutto, vede la società come un campo di conflitto. Un conflitto in cui c’è chi ha vinto e ha messo le basi perché la sua vittoria non venga mai più messa in discussione. E in effetti questa vittoria del capitale è stata blindata dal quarto comma dell’articolo 81 della Costituzione. Oggi tutto il processo legislativo culmina nel parere dato dalla Commissione VI (Bilancio), che deve garantire che un certo provvedimento non osta non tanto l’articolo 1 comma 1 della Costituzione, o l’art. 3, ma il comma 4 dell’articolo 81.

Sinistra è dire queste cose, e poi − potendo − farle. È ridare la sovranità al popolo, e non al capitale e al mercato; è ridare centralità al lavoro; è ridare parzialità al lavoro. Ma tutto ciò si può dire e fare soltanto se si hanno gli occhi per vedere, cioè se si è fuori dall’ideologia dominante.

In questo contesto, che cosa può fare il sindacato? Essere generale e parziale al contempo, e non lasciarsi imporre nulla di ciò che avete sentito, e anzi rispondere colpo su colpo, parola su parola. Per fare ciò è decisivo che il sindacato sia capace di elaborare cultura e di praticare formazione: non può essere solo un centro sociale, o di servizio, e neppure uno sfogatoio per lavoratori. Se non sarà produttore ed elaboratore di una cultura politica, sociale ed economica alternativa perderà la battaglia. Ancora più radicalmente, se non sarà capace di capire che c’è in corso una battaglia, la perderà; mentre la sua prima vera vittoria sarà la sua rinnovata consapevolezza, culturale e politica, che è in corso una guerra sociale.

Relazione tenuta a Bologna l’11 gennaio 2016 al convegno Cultura, lavoro, sindacato, organizzato dalla CGIL − Emilia-Romagna e da Editrice Socialmente, in collaborazione con la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.

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