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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

settembre 2017

Vero e falso per me pari sono. Le fake news e il mondo virtuale

In La menzogna in politica (1972), in commento alla pubblicazione dei Pentagon Papers, Hannah Arendt sottolineava che un evento ben reale come la guerra in Vietnam era in verità l’esito di un processo di «defattualizzazione». La politica dei vertici decisionali statunitensi, scollegata dalla realtà, dai fatti empirici, dagli stessi interessi concreti della superpotenza, le appariva determinata dalla volontà di creare un’immagine, un effetto ottico – nel caso specifico, che gli Usa fossero disposti a tutto per impedire al comunismo mondiale di vincere – a cui finirono per credere gli stessi decisori politici.

La posizione di Arendt si fonda sulla antitesi di verità e falsità, di reale e rappresentazione, di politica e di ideologia: i primi termini sono relazionali, storici, produzioni dell’umanità che agisce in comune; e i secondi sono invece espressione di una solitudine del sapere e del potere, della loro incapacità di confrontarsi col mondo e con la sua complessità; una solitudine che è lo sviluppo dell’estraneazione fra politica e teoria già presente, in forme diverse, negli arcana imperii del XVI e del XVII secolo, e nella propaganda ideologica totalitaria del XX secolo.

Per dipanare la questione delle fake news si può prendere il via da qui, per andare oltre. In primo luogo, definiamo questo nuovo termine del linguaggio pubblico come «notizia contraffatta, spazzatura, panzana, bufala, inventata a scopi di polemica o di odio, e diffusa con rapidità dai media e dal web» – il mezzo elettronico di propalazione fa parte della definizione, con la istantaneità, la onnipervasività, la facilità di diffusione e la impossibilità di porvi riparo, che al mezzo stesso ineriscono –. Appartengono alle fake news, a mero titolo di esempio, tanto la tesi sgangherata che Obama non sia nato negli Usa (e quindi non ne potesse essere il presidente) quanto la malvagia invenzione che un gruppo di islamici festeggiasse in un bar a Milano l’attentato di Manchester (per accreditare la tesi dell’odio implacabile dell’Islam verso l’Occidente). Le finalità delle fake news, in generale, hanno spesso a che fare con l’incremento dell’intensità di emozioni politiche, l’odio e la paura, la cui potenza è difficilmente sovrastimabile.

Le fake news di oggi sono differenti non solo rispetto al delirio del Pentagono negli anni Sessanta ma anche rispetto alle vecchie menzogne e alle disinformazioni della propaganda politica della guerra fredda. Infatti, piuttosto che una menzogna mirata, consapevolmente o non, a costruire un mondo raddoppiato, un artificio privo di contatti con la realtà (benché capace di agire su questa) oppure a screditare un avversario reale, la fake news si insedia parassitariamente all’interno di una dimensione che Arendt non poteva conoscere: quella del «virtuale». Che non è un mondo raddoppiato, sotto il quale stia una realtà inascoltata, ma un mondo unico, a una dimensione, costituito da flussi di notizie, di rappresentazioni, di narrazioni: una maschera senza volto, infinitamente cangiante, un logos fluido e al contempo reificato, manovrato incessantemente da centrali piccole e grandi che lo riproducono come unica dimensione d’esistenza dell’umanità. Il virtuale non si sovrappone al reale ma è una simil-realtà onnipervasiva, resa tecnicamente possibile dalla rivoluzione elettronica, dalla digitalizzazione della realtà, trasformata in una bolla mediatica in permanente ebollizione; un mondo incantato, popolato di spettri evanescenti, dall’ambiguo statuto ontologico, che vanno e vengono, appaiono e scompaiono, nelle nebbie dell’informazione e della disinformazione; una dimensione in cui non ha luogo la netta distinzione fra menzogna e verità, fra verosimile e inverosimile. Le fake news, insomma, sono sì menzogna, ma vengono fabbricate e propalate in un mondo virtuale che rende impossibile la distinzione fra reale e immaginario, e sono pertanto una menzogna di tipo nuovo, un’alterazione efficace di un’esistenza collettiva che è ormai tutta trasformata in un flusso indistinto, in una disorientante e cacofonica narrazione a molte voci. Rispetto a quella classica della maldicenza («calunniate, calunniate: qualche cosa resterà») le fake news esibiscono un’efficacia potenziata proprio dal fatto che il mondo virtuale ha perduto l’oggettività del vero e la soggettività del falso, perché tutto, lì, è narrazione, in una universale equivalenza e in-differenza che rendono impossibili comprensione, valutazione e giudizio. Il virtuale è il pensiero unico fattosi mondo, non tanto per l’omogeneità dei contenuti quanto per l’indifferenza ai contenuti.

L’efficacia delle fake news consiste nel lasciare un breve segno, nel produrre un fugace orientamento, uno spin; non certo nel cambiare il mondo, né nel criticarlo; è la verità ciò che libera e critica, mentre l’autore di fake news anche se a volte si crede un guerrigliero che mette un granello di sabbia negli ingranaggi del moloch della falsità virtuale, non fa che rafforzarla, che accettarne la legge di fondo: che non vi è Legge. La fake news – che sia sofisticata e professionale, oppure naif e rozza, scientifica o «fai da te» – è manipolazione della e nella manipolazione: la fake news lascia il mondo com’è, o lo peggiora, intossicandolo vieppiù; in ogni caso ha un’efficacia di tipo emozionale, non cognitivo: esprime ed eccita disagio, odio, fanatismo, sentimenti e risentimenti, in una biopolitica delle passioni ribollente e inerte, assai lontana da quella mirata e unidirezionale della propaganda totalitaria.

È quindi evidente che le fake news prevedono anche l’evanescenza della nozione di responsabilità: tanto da parte di chi le produce, che getta un sasso nello stagno e mai ne risponde, quanto da parte di chi ne è destinatario che spesso è ben lungi non solo dal potere esercitare critica e controlli, ma anche dall’immaginare che ciò debba essere fatto, e si affida piuttosto a un automatico riflesso di fiducia, o di neutrale passività, verso la rete, come un tempo verso la televisione – e, naturalmente, chi ne è vittima non ha difesa, nel mondo virtuale –. C’è qui un principio d’autorità di nuovo tipo: poiché non c’è più alcuna autorità, tutto quello che viaggia nei media è narrazione che si autoalimenta. È il mezzo (la virtualità elettronica) che dà al messaggio la patina della verosimiglianza in un oceano dove tutto equivale a tutto, e dove la stessa idea di un controllo a monte o di una responsabilità a valle è difficilmente concepibile oppure è vista come un’autoritaria ingerenza – questa sì illegittima e ingiustificata, perché del tutto allotria rispetto al virtuale – nella libertà della comunicazione. Una libertà che è piuttosto una gigantesca prigione, una sfera comunicativa che in realtà non è fatta di comunicazione, cioè di rapporto dialogico fra soggetti: piuttosto, quella comunicazione – tanto che abbia un andamento top down quanto che pretenda di assumere la direzione bottom up – è una mediazione immediata, abitata da comunicatori, tutti (tanto i   singoli quanto le grandi centrali di informazione, di disinformazione e di orientamento mainstream della opinione pubblica) risucchiati all’interno della bolla virtuale. E proprio per questo predominio del contesto la fake news può sì essere pensata come strategica rispetto a un fine, e quindi riconducibile al classico rapporto di causa ed effetto, ma è più interessante come espressione della fine dei fini, ovvero del nostro vivere immersi in un universo mediatico, come funzione di questo, e al contempo come manifestazione della tendenziale scomparsa dei fatti – o del loro occultamento –.

Il mondo virtuale non è quindi propriamente un regime di verità: è piuttosto la società aperta che implode su se stessa, che realizza nel massimo di visibilità e di trasparenza il massimo di opacità, è un regime di oscurità che attraverso l’eccesso e la dissonanza di news produce un impersonale «effetto Babele», di inclusione fino alla saturazione, un dominio in cui tutto è accolto e tutto è depotenziato: un dominio in cui vero e falso trascorrono l’uno nell’altro, inafferrabili. E in cui quindi anche la fake news, parola scritta sull’acqua o piuttosto sulle onde elettromagnetiche, ha in sé tanto la permanenza e la capacità di orientamento – infatti agisce lasciando una traccia, un sedimento –, quanto l’evanescenza, l’elusività, la non rintracciabilità.

Ma il virtuale destituisce di fondamento non solo la solida realtà, le distinzioni nette fra vero e falso, sì anche – sussumendole in un oceano di chiacchiere, pettegolezzi, stereotipi, confronti televisivi – cannibalizza la rappresentanza politica e l’opinione pubblica: astrazioni concrete ed efficaci, istituzionalizzate o fluide che siano, che la modernità politica ha escogitato per agire politicamente e per controllare il potere; astrazioni, certo, ma pubbliche, istituite, articolate e differenziate, al cui interno può darsi un vero conflitto fra diverse verità, o diverse menzogne, ascrivibili a settori della società, a parti politiche determinate. Da queste determinazioni e da questo conflitto nasceva la possibilità di distinguere, per confronto reciproco, per frizione di interessi e di valori, il vero dal falso; intesi, questi concetti, nelle uniche accezioni praticabili, cioè come saperi dotati di qualche permanenza pur nella loro contingenza, sottoponibili a critica, iscrivibili in una dialettica.

Il virtuale, invece, è l’espressione di una società – quella dei decenni del neoliberismo, dei suoi trionfi e delle sue crisi – che è stata disarticolata in una moltitudine di individui solitari, la cui comunità è, appunto, risolta nella virtualità, nella “amicizia” di facebook; di una società in cui le ragioni del conflitto sono inibite e non espresse, e si trasformano in esasperazione, risentimento, frustrazione, di cui nel virtuale si dà manifestazione non sublimata ma immediata e impotente; in cui la lotta politica si fa con le fake news e con le contro-fake news, in una rincorsa in cui tutti si atteggiano a vittime e tutti si comportano come sicari. Nel virtuale, insomma, si consuma l’impotenza della politica – che esige concretezza e verificabilità – e vengono a cortocircuito tanto il soggetto quanto l’oggetto e le loro relazioni significative. Il significato politico del mondo virtuale sta in questo suo sostituirsi alla politica; e in ciò – e solo in ciò – il virtuale è un potere reale. Che sia una delle facce del potere economico, che sia sorretto da un esplicito disegno di «poteri forti» o che sia uno sviluppo incontrollato di logiche e di tecnologie smaterializzanti iscritte nel DNA del neoliberismo e della rivoluzione elettronica, non è qui il caso di discutere: in ogni caso, il mondo virtuale è un ordine paradossale, fondato sull’indisciplina più che sulla disciplina. Un ordine che non indirizza da una parte piuttosto che da un’altra; piuttosto, agisce impedendo l’orientamento e il giudizio.

La scomparsa della realtà oggettiva, e della verità in senso ontologico e fondativo (realtà e verità sono tematiche che viaggiano affini e vicine), è, certamente, implicita nella modernità, l’epoca in cui non si può più dire, con Paolo (Rm 3, 4) «Dio è verace e ogni uomo è mentitore» proprio perché lo sforzo della modernità è costruire la verità come opera umana e non di accettarla come Oggetto esterno al soggetto. È profondamente iscritto nell’epoca moderna il passaggio dalla verità all’ordine artificiale, dalla realtà alla effettualità, dalla affermazione alla rappresentazione. Il vero, privato del suo ruolo di sostanza fondativa oggettiva, «è l’intero», ossia sono i processi storici dell’umanità – e la storia è l’unica realtà –, i progressi nei diversi saperi, le relazioni collaborative e conflittuali, genealogicamente ricostruite e criticate. Un vero tutto umano, risolto nel sapere costruttivo ma anche nel confronto, e quindi un vero relativo e in movimento; un vero che è essenzialmente critica.

È il vero moderno – non quello ontologico – la vittima del virtuale, che ne costituisce forse l’estremizzazione e certo il superamento in negativo; se nella modernità scompaiono il vero e il reale come oggetti e diventano soggetti in relazione, oggi nel virtuale è appunto la relazione e a scomparire: lì tutto coesiste immediatamente con tutto, perché tutto è indifferente. Adorno poteva dire, nell’età del totalitarismo e del tardo-capitalismo, «il tutto è falso»: della dimensione virtuale si può dire, per rimanere nell’ambito della filosofia classica tedesca, che è «la notte in cui tutte la vacche sono grigie». Ovvero, è appunto la dimensione della «post-verità», o meglio della «post-critica», della «a-criticità». L’ultima fase della modernità è così un’ulteriore complicazione della questione della menzogna, che diventa sempre più inafferrabile, e che ai suoi lemmi e dilemmi classici – verità, veridicità, autenticità, trasparenza, sincerità, rispetto di sé, degli altri, dell’oggetto – aggiunge ora la dimensione del falso-vero e del vero-falso: il virtuale, appunto.

All’incantesimo del virtuale, all’oscurantismo della trasparenza, ci si deve potere sottrarre con un nuovo illuministico disincanto. Si può in prima battuta dare credito alla via giudiziaria. Esistono leggi, vecchie e nuove, che pretendono di far valere, rispetto a esso e contro di esso, il reale; di perforare la bolla, insomma, e la sua autoreferenzialità. E che quindi si propongono di censurare le fake news, di rimuoverle, di rettificarle, di sanzionarle – a partire dall’art. 656 c.p. che vieta e punisce la diffusione di notizie false e tendenziose –. In realtà, il ritorno sulla terra, alla solida realtà, attraverso la via giudiziaria, è rarissimo e lentissimo, e se può in certi casi risarcire tardivamente persone offese non modifica l’efficacia, quale che sia, della fake news – o a volte la amplifica –.

Più radicalmente, da ogni parte giunge l’appello alla critica per aprire brecce nella nichilistica compattezza del virtuale. Infatti, la qualità di «falso» della fake news è solo all’apparenza determinante, mentre realmente decisiva è la sua appartenenza al mondo virtuale, alle sue ontologiche ambiguità. Il falso, all’interno del virtuale, è inafferrabile. E quindi non si può sensatamente lottare contro le fake news se non uscendo dalla stessa dimensione del virtuale, o facendola deperire; se non praticando un nuovo e più potente disincanto, volto al recupero della verità moderna: cioè praticando confronto e conflitto, relazionalità e criticità. Ovvero, uscendo dalla solitudine – che si vuole onnipotente ma che è impotente – del web, e ponendo le condizioni perché si ritrovino persone e cose, istituzioni e partecipazione; perché si riattivino la socialità e l’attività contro la passività e l’inerzia del virtuale.

Ma quale critica? Posta in essere da quali soggetti? Educati da quale scuola? Mossi da quale intento di autonomia? Interrelati fra loro in quali gruppi? Praticanti quale dialogicità? Come si vede, la riattivazione della critica implica cultura lungamente praticata, consistenza e articolazione della società, istituzioni educative non corrive verso gli imperativi dei tempi e verso le forme vitali dominanti. Condizioni esigenti, difficili, che si collocano fuori dal mondo virtuale, e che implicano un forte intervento della politica.

È la politica reale che si deve affermare contro la politica spettrale del virtuale; una politica fatta di poteri diretti, di responsabilità, di interessi che confliggono e si compongono in mutevoli equilibri, di visioni che non si chiudono in se stesse. Una politica che all’anonimato e all’impersonalità passiva del virtuale, al suo regime di post-verità e di a-criticità, alla mediazione immediata, oppone non una improbabile imparzialità o una chimerica oggettività ma una mediazione mediata, storicizzata, sottoposta a critica: una mediazione sociale e istituzionale costituita dal franco confronto fra tesi esplicitamente parziali, non un impossibile terreno solido ma la presenza delle persone, dei gruppi, degli interessi plurali, e il movimento intellettuale e sociale della critica. Ovvero, una democrazia matura e responsabile, portatrice di un nuovo umanesimo. Le cui caratteristiche categoriali siano la presenza concreta (dell’Io, dei gruppi, delle istituzioni), il movimento, il conflitto, il pluralismo, in aperta opposizione alla ribollente staticità e alla multiforme univocità del mondo virtuale. A tal fine non è sufficiente la franchezza della parrhesia individuale: il nuovo umanesimo passa attraverso la nuova criticità collettiva, attraverso la consapevolezza, eminentemente politica, che per criticare il falso si deve criticare l’intero che lo ospita.

Il saggio è stato pubblicato con il titolo Menzogna e verità: le fake news nel mondo virtuale in «Italianieuropei», n. 3, 2017, pp. 24-33

Europe State and Democracy

The fundamental theses I would like to present are the following.

A) The European Union [NOTE 1] and its democracy are in crisis. The crisis is caused by several factors: first, the internal contradictions of the economic form of the European Union (ordoliberalism) and of the structure of the international economy (neoliberalism) [NOTE 2]. The second factor of crisis is that Europe is not a coherent political space, and does not have a common strategy to face the challenges that arise outside and inside his boundaries [NOTE 3]. The third factor of crisis is Europe’s lack of capacity to govern peoples’ migrations from Asia and from Africa. Deep social inequalities, political divisions among the European States, alarm and fear among the weakest strata of society due to what is conceived of an invasion of unassimilable aliens, the threats of terrorism: all of these elements undermine the political loyalty of citizens towards the European projects, the democratic institutions of each State, the contemporary forms of politics; furthermore, they open the door to populist, xenophobic, nationalist and anti-democratic political proposals [NOTE 4]. Fear divides society, since the cleavage between citizens and migrants is deepened by the one between those who are integrated and those who are marginal, but it also divides the States, because each of them formulates its own strategy for facing these challenges.

To recall what Frans Timmermans, the vice president of the EU, said on September 2 during the forum Ambrosetti in Cernobbio: «until we find an answer to the legitimate fears of our citizens, there will be space for the politics of paranoia, intolerance, xenophobia, nationalism, and exclusion as a false solution. We can neither give up, nor underestimate the risk of this challenge».

B) The objective, obviously, is turning Europe into the space of democracy, where civil and social rights exist together. From being one of the problems, the European Union must become the solution.

To this end we require a political energy that can not be immediately found in the cultural traditions of European history. As a matter of fact, these traditions have legitimized everything and its opposite: humanism, the most typical european tradition, lead to the triumph of technique; modern liberalism turned into the subject’s enslavement to the market; socialism and nationalism produced totalitarianism, and the same Christian tradition generated also civil wars of religion.

On my opinion, the political energy of Europe lies in democratic States and in the farsightedness of their élites. By farsightedness I mean the national élites’ awareness that steps forward the political and legal integration of Europe are needed, that they need to assess the economic and social causes of the current crisis, and that the direction of the policies enacted so far should be reversed; that the objective to be pursued is not only the growth of GDP, but rather full employment; that internal demand rather than exports should be fostered; that the legal and economic reassessment of labour should be supported, whereas the social and political centrality of the market should be undercut; that social justice must be chased.

The main instrument of this political and economical revolution is the State. In fact, only States legitimized by their citizens’ loyalty are capable of engaging in a real european cooperation. States which are weak, in crisis, shaken by fear and by populism, will never find a way out to their own selfishness and will always be exposed to the power of transnational corporations, to populist blackmail, and to the critics of anti-european politicians.

The State is not intrinsically nationalist. In our days it is the burden of a coercive economic structure (whose goal is growth without justice, wealth for few and subordination for the majority) leads the States towards short-sighted and opportunist behavior and societies towards rebellion. On the contrary the State has the potential of being internally democratized through a new civism, if the political forces are able to oppose in a plausible way ‒ with radical analysis and proposals ‒ the populist protests. Obviously, claim for personal and collective responsibility, together with civic participation at the level of cities, are needed; but without the power of the State, and without the existence of farsighted élites, civism has not the strength to win the challenges the democracy is facing now.

In reality, the historical and political “nature” of Europe lays in the pluralism of its States, and in the dynamism that those entails, in terms of imagining alternative futures. Now that the «frames» of the two victorious superpowers that shaped two Europes have been dismantled, we should think the new Europe freed from the iron cage of a unquestioned economic model and from xenophobic closing of some of his components.

In short, my main point is that democracy in Europe can be strengthen by increasing the democratic character of the communitarian institutions – insofar as it is possible ‒, but that it is first of all necessary to increase the democratic character of the member States, by enacting economic and social reforms that could make them less selfish and more cooperative.

C) This means that politics is not the simple management of existing relations of power, but rather the thrust (organized by the State) towards individual and collective emancipation (that is, democracy), which in turn is the condition for transforming the jungle of powers into the progressive order of the free city of Man, where his rights and capacity can flourish.

In other words, it is necessary to reassert the primacy of politics in its most significant space: the democratic State. Only through the culture of democratic politics – rather than of technocracy and hyper-capitalism – can more extensive forms of european cooperation be thought of.

***

[NOTE 1]. Europe as a real or alleged unitary construction has a hybrid and fluctuating nature. It arose in the moment when Europe’s weakness was at its peak, as it was defeated and divided. It was born as strongly political, since Spinelli’s federalism envisaged a neutral European super-power between the US and the USSR; afterwards, in 1951 it became economical with the European Coal and Steel Community, and then presented itself again as political with the attempt of the European Defence Community, aborted in 1954. The reaction to this failure ‒ that is the European Single Market established in 1957 ‒ was once more economical and functionalist, while the further development has been again political, economic and technocratic, from the Europe of Maastricht in 1992 ‒ governed by the Commission and the Council of the heads of State or government, with an intergovernmental method ‒ up to the Fiscal Compact in 2012.

[NOTE 2]. The crisis of the European Union in its current configuration ‒ which was made visible by Brexit, but also by the ongoing configuration of a “two speed” Europe ‒ goes hand in hand with other crisis. First, the crisis of globalization, which has been established by the same Anglo-Saxon right-wingers who are now trying to end it, and which is exemplified in Trump’s war against those who have gained too much from globalization, that is China and Germany. Second, the economic crisis that began in 2008 and that in ten years left the society weakened and characterized by deep economic and social inequalities. Third, prospectively, the possible end of the European Union implies the very end of postwar Western democracy.

But the common currency itself has structural problems. Euro is a deflating device which forces the States to switch from the competitive devaluation of national currencies to the economic and legal devaluation of labour, and to competition on exports, in an unending neo-mercantilist drifting. Molded on French hypothesis, culminating in the Delors memorandum, the Euro has come to overlap with the Deutsche Mark and with its underlying ordoliberal conception. In fact, the «highly competitive social market economy» mentioned in the Lisbon Treaty is nothing but Ordoliberalism, with its theory according to which market and society overlap, and the State – that is, in the European model, communitarian institutions – is the guarantor of the market.

The double heart of Europe – that is, on the one hand, the political guide of France, and, on the other hand, the economical pull of Germany – here reveals its ambiguities: France holds but an illusory primacy, and Germany pulls above all its own economy, its own exports, and the national economical system of those States that are incorporated in a subaltern way in its own economic space. Yet, between 2003 and 2005, Germany itself had to orient Ordoliberalism towards Neoliberalism, with the Schröder-Hartz reforms. In any case, since the postwar period, Ordoliberalism has stabilized Germany, whereas today it potentially destabilizes European societies.

[NOTE 3]. Political spaces in Europe are multiple and interlaced. There are the spaces of States, designated by physical and legal walls; there is the NATO space, which identifies a heated Eastern frontier, and which is in turn crisscrossed by tensions among the former USSR satellite States, the countries more shaken by anti-Russian sentiment; there are those States with an old and moderate Atlantic loyalty, among them Germany; there is the frontier between the Eurozone and the areas with national currencies; and, above all, there are cleavages within the Eurozone, namely the spreads and the crucial differentiation between debtor and creditor States. Furthermore, there is a German economic space, the heart of the Eurozone, that entails a large-scale division of industrial labor and includes different economies in a hierarchical way. But the German economic space and the German political space do not overlap: many countries factually subsumed in the German economy have a foreign policy removed from the German one, rather oriented towards the USA than towards Europe. Generally speaking, the status quo is favorable to Germany. However, it presents also some drawbacks, like the political controversy with the weak links of the chain of the European currency, the southern States.

[NOTE 4]. Those phenomena defined as “populism” are in fact the protests of a society that has been impoverished and deprived of its certainties. These protests are addressed against the limitless demand for profit within the economic system, and against a political system that supports that demand rather than balancing it. The opposition between «us» and «them» is the political translation ‒ which seems anti-political only at a first glance ‒ of the abyssal difference established in Western societies between few wealthy and many poor or impoverished people, especially coming from the middle classes. Economic problems such as that of the Euro – which is crucial, but cannot be easily solved ‒ come up beside those deriving from uncontrolled migration, which the European Union does not face but rather leaves to the management of individual States.

 

Keynote Speech at the «International Congress for Democracy and Freedom»; Berlin, September 9th , 2017 (organised by «Internationales Literaturfestival Berlin», September 6th -16th, 2017).

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