Platone, la necessità della politica. E del filosofare

di Davide Gianluca Bianchi

Un libro di Carlo Galli dedicato a Platone è di per sé un evento. Allievo di Nicola Matteucci, da sempre direttore di «Filosofia politica» (il Mulino), già preside di Scienze politiche a Forlì, noto per essere il maggior studioso in Italia di Carl Schmitt, è un grande accademico, amatissimo dai suoi studenti. Il volume si intitola Platone. La necessità della politica (il Mulino, pp.180, euro 14,00) e in coda include una piccola antologia della Repubblica platonica.

L’apertura è un colpo da fuoriclasse che da solo vale il libro: «Tutto ciò che è grande sta nella tempesta» è il titolo del primo capitolo, ripreso dalla chiusura della prolusione con cui Martin Heidegger, nel 1933, assumeva il rettorato dell’Università di Friburgo, sciaguratamente in sintonia con il regime hitleriano. Benché la frase volesse essere nelle intenzioni di Heidegger un omaggio a Platone, Galli fa notare come in essa alberghi un errore di traduzione non certo marginale…

La recensione completa è stata pubblicata in «Avvenire», il 18 luglio 2021

C’è bisogno di politica e (ancora) di Platone

di Massimiliano Panarari

Anche Platone – vittima sommamente innocente della delirante accusa di «suprematismo bianco» – è finito sotto la mannaia della cancel culture, che si sta avviando ad assumere una marcata egemonia culturale. Di recente, si è così dovuto leggere che pure un prestigioso ateneo statunitense come Howard University ha scelto di metterlo al bando dai programmi di studio (insieme, tra gli altri, all’allievo Aristotele, a Cicerone e Omero).

Una decisione che ha suscitato la riprovazione e l’indignazione di un grande intellettuale nero come Cornel West, il quale ha parlato sul «Washington Post» di «catastrofe spirituale», aggiungendo che senza la lezione dei classici sarebbe venuto a mancare un pilastro delle lotte per i diritti degli afroamericani. Proprio perché, senza Platone, non si può capire la politica.

Ovvero, come scrive lo storico delle dottrine politiche (e direttore della rivista «Filosofia politica») Carlo Galli, «si può pensare filosoficamente la politica contro Platone, ma non senza Platone». E lo fa nel suo nuovo, denso libro Platone. La necessità della politica, in cui si inerpica sulle vette e scandaglia gli abissi della Repubblica (databile tra il 380 e il 370 a. C.), atto inaugurale del pensiero filosofico intorno al principio del Politico nella storia d’Occidente. Un libro «meraviglioso e vertiginoso», errabondo e non lineare nella sua formula stilistica dialogica, che costituisce il trattato antesignano sulla politica, intrecciando l’argomentazione razionale alle immagini (altra prerogativa anticipatrice), e ospitando alcuni dei miti più potenti dell’immaginario politico occidentale come quello della caverna, ripreso e rideclinato via via in tutte le epoche successive (fino, da ultimo e giusto per fare un esempio di odierna battaglia partitica, al video di qualche anno fa di Beppe Grillo).

Il dualismo metafisico di Platone (tra ragione e passioni, idee e realtà empirica) rappresenta l’oggetto di un’incessante interpretazione – o critica – da Hegel a Marx e Nietzsche. E, nel Novecento, a partire da Heidegger (che, contrapponendolo alla sapienza presocratica, lo identifica quale precursore del capitalismo e della ragione calcolante), il dibattito su Platone si sviluppa fondamentalmente intorno all’interrogativo se debba venire considerato come il primo teorico della riduzione della politica a tecnica o, al contrario, come il suo avversario. Un quesito che ruota intorno al dualismo metafisico quale generatore, oppure no, della razionalità strumentale e della reificazione della vita (e, a cascata, delle forme di dominio imperanti nella società di massa, sino al totalitarismo a pieno titolo). Hannah Arendt descrive il marxismo alla stregua di un «platonismo materialistico», e Karl Popper scolpisce l’effigie di un Platone quintessenziale nemico della società aperta (che verrà condivisa da pensatori differenti come Bertrand Russell e Friedrich von Hayek). Il Secolo breve annovera, però, anche gli «estimatori», e i filosofi che non ravvisano nel dualismo platonico la presenza di «un potenziale tecnico-operativo-autoritario», in primis i conservatori Leo Strauss ed Eric Voegelin (seppure all’insegna di motivazioni molto diverse). Ancora, il Platone pedagogo «antiliberale» e anti-individualista è stato adottato dal nazionalismo e dal nazionalsocialismo tedeschi; e, al medesimo tempo, la sua Repubblica è stata oggetto di attenzione da parte del neo-kantismo e dell’ermeneutica gadameriana.

Galli, studioso accademico, con all’attivo anche un’esperienza – conclusa – da parlamentare e un intenso impegno da commentatore (sul quotidiano «la Repubblica»), propone cinque tesi intorno al testo platonico. A cominciare da quella secondo cui la Repubblica va letta come un libro politico (e non «politologico») – l’opera dell’edificazione del campo della politica in termini filosofici –, e quindi non deve essere considerata come una teoria da applicare in un determinato contesto temporale (il caso del Leviatano di Thomas Hobbes), né quale enunciazione normativa di tipo generale (come Per la pace perpetua di Immanuel Kant).

La recensione continua in «tuttolibri», 22 maggio 2021

Contro il neoliberismo, torniamo a Platone

di Donatella Di Cesare

Ph 226

Proprio perché viviamo in tempi in cui la politica, ridotta a governance amministrativa, ha perso ogni capacità di visione, non c’è forse lettura più opportuna della Repubblica di Platone. Certo, si tratta di un testo molto controverso, che ha finito quasi per essere messo all’indice nell’epoca del neoliberismo. Nell’immediato dopoguerra Karl Popper credette di riconoscere in Platone il fondatore della «società chiusa» e di ogni totalitarismo a venire, non solo per il ruolo decisivo affidato alla filosofia, ma anche per l’idea di uno «Stato educativo» in grado di minacciare la libertà individuale. Da allora, e lungo tutto il Novecento, si sono moltiplicate le voci a favore di una cauta separazione tra politica e filosofia. Così Siracusa, la città in cui era naufragato il progetto di Platone, finito al servizio di un tiranno, è diventata l’emblema dell’incompetenza dei filosofi, chiamati perciò ad astenersi da interventi politici. In questo stereotipo liberal-popolare, ancora molto in voga, si nasconde un concetto poco edificante della filosofia come della politica: l’una astratta, rigida, caratterizzata da un tratto «tirannico», l’altra concreta, spicciola, refrattaria a idee e ideali.

Non ne furono indenni neppure Hannah Arendt e Hans-Georg Gadamer, i primi heideggeriani liberali, sulle cui spalle pesava, però, la scelta di un maestro che aveva aderito al nazismo.

Dopo la pubblicazione dei Quaderni neri sappiamo che Heidegger è stato a tutti gli effetti un filosofo politico e che l’intera vicenda non può venire ridotta a un fugace «ritorno a Siracusa». Non c’è dubbio, però, che il «caso Heidegger» abbia influito sull’allontanamento della filosofia dalla città. È pur vero che sia Arendt sia Gadamer hanno offerto originalissime interpretazioni della Repubblica di Platone e non si sono per nulla attenuti all’obbligo – morale, o moralistico – di non intervenire in questioni politiche.

In questa nuova fase del XXI secolo, in cui la governance neoliberale, che da anni mostra il volto oscuro dell’ingiustizia, assecondando il diritto del più forte e fomentando gli appetiti individuali, è auspicabile che la filosofia riscopra la sua vocazione politica. Non è forse tempo che rientri nella pólis?

Una risposta viene anche dal volume – appena pubblicato per il Mulino, nella serie «La voce degli antichi» – che Carlo Galli ha dedicato alla Politeía. Il titolo eloquente è: Platone. La necessità della politica. Con un linguaggio molto moderno, che irriterà forse gli antichisti, questo grande classico della filosofia viene riletto sinteticamente nei temi più rilevanti. Lo sguardo del politologo si ferma su alcuni nodi cruciali – quelli che Platone ha tentato di sciogliere, ma che sono anche i nodi del nostro rapporto con la pólis e con la sua crisi. Non è esagerato dire che l’interpretazione di Galli è in chiave anti-liberista. Anzitutto perché «non c’è in Platone una epistemocrazia totalitaria, un livellamento terroristico delle individualità, una “mobilitazione totale” permanente».

L’intento è, però, più ampio e ambizioso: si tratta di vedere in quel testo, insieme drammatico e trionfale, un vero e proprio antidoto alla concezione neoliberista che, tra astratta esaltazione della libertà, cinismo individualistico e un malinteso senso di giustizia assunta come autogoverno, ha svuotato la politica riducendo la città a un disordinato scontro di capricci frivoli e interessi singoli. Occorre allora rilanciare la visione di Platone che nella città indica non il dominio di un’autorità estranea, bensì lo spazio di un’indispensabile esperienza esistenziale. La città è un’anima scritta in grande e l’anima una città scritta in piccolo. Questa famosa omologia vuol dire che, come l’ordine dell’anima è possibile solo se la città è ordinata, così l’ordine della città è possibile solo se le anime sono ordinate. Proprio a questo serve la politica, cioè a far sì che ogni anima sia a proprio agio con sé stessa e con la città. Non è un «lasciarsi vivere», bensì un «vivere bene», un fiorire pieno del singolo e della comunità.

La recensione, pubblicata il 26 maggio 2021, continua in «La Stampa»

La lezione di Platone. Uno non vale uno. C’è bisogno di politica

di Federico Varese

Carlo Galli ci impartisce, nel suo ultimo, avvincente libro, Platone. La necessità della politica (il Mulino), almeno due grandi lezioni per la convivenza civile e il dibattilo pubblico di oggi.

Innanzitutto, il punto di partenza della politica è la guerra, il conflitto, ma la giustizia deve essere il suo punto di arrivo. Attraverso Platone, Galli ci offre poi una importante avvertenza epistemologica: il reale esiste perché viene organizzato in concetti astratti, ma il pensiero non è né infondato né nichilista. In questi anni di scadimento del discorso pubblico, in un tempo in cui nessuno più crede a nessuno, dove spesso sapere e potere sono confusi tra di loro e gli intellettuali dicono tutto e il contrario di tutto, il Platone riletto da Galli invoca l’autorevolezza del pensare, la fondatezza dei pronunciamenti. Non più il mantra dell’uno vale uno.

Galli, senza la pedanteria del filologo, rivisita il testo fondante della filosofia politica occidentale, la Repubblica di Platone. Certo non ha scelto una strada facile. Quel libro gode di una pessima reputazione: è stato criticato da tutti i grandi filosofi del passato, da Hegel a Marx, da Hannah Arendt a Friedrich von Hayek. Per Karl Popper, è addirittura una sorta di manuale del totalitarismo hitleriano. Non aiuta il fatto che Martin Heidegger ne citi un passo — «tutto ciò che è grande sta nella tempesta» — a conclusione del suo famigerato discorso di assunzione del rettorato dell’Università di Friburgo il 7 maggio 1933. Galli ci ricorda subito che l’interpretazione di Heidegger è molto discutibile: invece che «nella tempesta», si dovrebbe leggere: «Tutto ciò che è grande è in pericolo» (solo questa precisazione vale il prezzo di copertina). Ma l’autore non si dilunga a smentire le infinite interpretazioni passate. Gli preme dirci qualcosa per l’oggi.

Per Galli, Platone è il primo, grande, interprete della politica in chiave realista. Il filosofo ateniese vede la politica non come un contratto tra attori razionali, ma come un conflitto tra interessi contrapposti. Molto avviene nella città, le fazioni si formano e si disfano, i regimi cambiano. Ma Platone va oltre la narrazione episodica e propone una teoria dinamica dei sistemi politici sorprendentemente attuale.

Nel libro VIII l’ateniese spiega che vi sono tre tipi di regime che si susseguono uno dopo l’altro: dapprima vi è la timocrazia, il governo di uomini severi e buoni, ma avari, i quali ben presto si fanno irretire dal denaro. Le loro mogli «criticano i mariti perché non sono abbastanza avidi di potere, o attenti al guadagno». La timocrazia cede dunque il passo all’oligarchia, dove regna il profitto privato e i “buoni” ricchi hanno gettato la maschera. Anche questo è un regime non destinato a durare: i ricchi, ossessionati dal denaro, non sono più in grado di proteggere la città dai pericoli esterni.

A quel punto la massa degli esclusi, spesso alleandosi con potenze straniere, prende il potere e fonda la democrazia. Il nuovo regime si forgia nel conflitto, nella lotta degli esclusi contro i privilegiati. Ma anche la democrazia è, nella visione di Platone, fragile, preda di demagoghi, la fiera della licenza e del dire tutto e il contrario di tutto, dove le leggi non vengono rispettate e le competenze ignorate. È una «mascherata inautentica», scrive Galli. In questo governo della piazza (o dei social, si potrebbe dire oggi), i poveri decidono di affidarsi all’uomo solo al comando, a un salvatore. Così emerge il tiranno, l’ultima figura della politica.

La recensione continua in «la Repubblica», 3 giugno 2021

Platone: un’altra città è doveroso pensarla

di Danilo Breschi

Non cercare risposte, ma riattivare domande. Tornare a Platone per fare i conti con la nostra tradizione e poter affrontare, se non risolvere, i problemi della modernità. In Platone non c’è la risposta, ma la capacità di comprendere il problema nella sua effettiva e complessiva portata. Da notare il paradosso che Platone non è la Grecia, che è Omero, semmai. Capire Platone non consente di capire l’intera Grecia, dunque la nostra tradizione. Platone pensa in opposizione alla polis ateniese. La sua filosofia nasce come alternativa al mondo greco che ha politicamente prevalso. Pertanto rifarsi al magistero del più brillante e celebre allievo di Socrate significa in parte muoversi parallelamente rispetto a come la storia delle istituzioni politiche e sociali si è concretamente sviluppata tra tarda antichità e medioevo, costruendo la tradizione europea occidentale.

Da non specialisti della cultura greca, antichisti o filologi classici che siano, molti grandi pensatori del Novecento sono tornati ad interrogarsi su Platone. Operazione sempre opportuna, specialmente quando la politica come ragione e progetto di convivenza si mostra in affanno. Stesso movente ha probabilmente mosso Carlo Galli, storico delle dottrine politiche, grande esperto di Carl Schmitt e filosofia tedesca otto-novecentesca. Suo l’intento di rinvenire suggestioni feconde per affrontare sfide odierne nelle pagine di Platone, segnatamente quelle del suo capolavoro di teoria politica (nel senso originario di sguardo alle radici e motivazioni dello stare e vivere assieme), ovvero il dialogo sulla Repubblica. Sin dal prologo l’Autore chiarisce che questo libro tratta della “sua” Repubblica, della personale rilettura – «concettuale» (p. 9) – compiuta nei confronti del capolavoro platonico.

Galli ribadisce la centralità della dimensione politica nella filosofia platonica. Anzi, in ultima istanza la sua filosofia è toto corde politica. Compito della filosofia è di farci vivere e basta, oppure di farci vivere bene? Se scegliamo la prima opzione siamo nella preoccupazione politica dominante nella modernità, se invece scegliamo la seconda ci muoviamo nel solco dell’insegnamento platonico. E in questo l’allievo di Socrate è sicuramente pertinente alla tradizione filosofica greca tout court. Se vogliamo vivere bene, la via da percorrere ci conduce agli altri. Siamo agli antipodi di quanto sosterrà poi Epicuro, con la sua scuola, ossia che la politica è «un inutile affanno» e l’uomo trova la propria felicità nel vivere appartato secondo la celebre massima del “vivi nascosto” (λάθε βιώσας, láthe biósas). Ma con l’epicureismo siamo, guarda caso, nel tardo IV secolo, inizio del III, quando ormai l’epoca aurea delle póleis greche è solo uno sbiadito ricordo.

La recensione continua in «Il Pensiero Storico», 12 giugno 2021