Proverò a dare, in modo stenografico, alcune indicazioni per una delle molte classificazioni possibili del rapporto fra la parola e la politica, tema incredibilmente vasto, a cui tento di dare una qualche forma e misura.

Cominciamo col dire che prendiamo in considerazione la parola umana e non la parola divina; il che è una grossa limitazione, perché gran parte della politica è consistita, e ancora consiste, nella lotta per l’interpretazione della parola divina. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, perché vi sono troppi modelli confliggenti di interpretazione (gerarchica, in interiore homine, letterale, metaforica).

Qui parliamo del modo moderno occidentale di pensare il rapporto fra parola e politica, cioè del modo in cui la politica rispetto alla parola non sta in un rapporto di interpretazione del già detto ma in un rapporto di produzione: la politica produce parola ovvero la parola produce politica. In questo secondo caso, la parola è potere, produce potere, è manifestazioni di potere. Questo uso performativo della parola – nel senso che la parola viene adoperata per fare le cose – vuol dire essenzialmente un uso retorico nel senso classico del termine: la parola serve a persuadere qualcuno perché faccia qualche cosa. Quanto più sei abile e capace nell’uso della parola tanto più hai potere. Questo non è un discorso astratto come potrebbe sembrare. Se prendiamo don Milani e la Lettera a una professoressa vediamo che questo è il tema: chi nasce povero ha poche parole, e ha poco potere. Una scuola di classe è una scuola che serve a ribadire lo squilibrio fra chi ha parola-potere e chi non ha parola-potere; una scuola non di classe – come quella di don Milani –, o meglio una scuola di contro-classe, è una scuola che cerca di riequilibrare la situazione. Pensiamo anche a una delle lotte fondamentali con cui si è aperta la Modernità: la lotta per la libertà di parola; i ceti emergenti sapevano che attraverso la parola si fa politica, si cambia la politica; e volevano poter concorrere con i poteri tradizionali.

L’altro modo di ragionare, ovvero il primo dei casi sopra presentati, è questo stesso rovesciato, e ci mostra non la parola che produce potere, ma la parola che è strumento del potere. Qui possiamo portare moltissimi esempi; alcuni celeberrimi, come la «neolingua» di Orwell in 1984 oppure quel meraviglioso saggio di linguistica storica che è LTI. La lingua del Terzo Reich di Klemperer, dove questo filologo romanzo mezzo ebreo annota la deformazione della lingua tedesca posta in essere dal nazismo. È questa la parola della propaganda nella sua versione hard, cioè quella che crea l’amico e il nemico; la parola con la quale si creano i gruppi «noi» e «loro». È la parola con cui il potere prima esclude e poi include. Dunque, in questa seconda accezione, il potere fa la parola. Se quella di cui abbiamo parlato in precedenza era un’accezione orizzontale – la parola fa potere in un confronto con altre parole che fanno potere –, qui, invece, c’è una concezione verticale: il potere fa la parola; è padrone della parola; con la parola governa. Solo nella migliore delle ipotesi, solo con il più grande ottimismo, si può pensare che il singolo a questo potere possa resistere con la parola libera, con l’esercizio pubblico della parrhesia.

Naturalmente, esistono anche modalità soft con le quali il potere dapprima include, proprio attraverso la parola. Sto alludendo alla grande narrazione avvolgente dentro la quale oggi ci troviamo; al mondo costruito dalla parola del potere, dall’infinita potenza linguistica e illusionistica del potere – che non è più soltanto quella della carta stampata, ma è quella dei mezzi elettronici –. Un esempio nella cultura popolare è il film The Truman Show, dove c’è l’incubo ricorrente del mondo statunitense: che il soggetto, il singolo, la collettività, vivano non una vita vera, ma una vita all’interno di una scena, di una finzione, costruita linguisticamente dal potere.

Il terzo modo di pensare il rapporto fra la parola e il potere si presenta come non orizzontale né verticale, ma come neutrale: cioè la parola non è momento di lotta né di propaganda, ma è momento di verità. Una verità che è tutta umana, nella sua forma più «oggettiva»: cioè la parola della scienza. Questa è la pretesa antichissima del governo non dei retori, non dei politici, ma dei filosofi (di coloro che sanno), e di tutte le loro varie incarnazioni nel corso della storia, cioè dei detentori del sapere oggettivo che spiega come davvero è la realtà; che narra come questa è, non in modo partigiano. Qui non ci sono «parti», ma c’è un rapporto fra la parola e la politica che apparentemente rifiuta la politica, perché quello che dice è vero «oggettivamente». Può essere il filosofo, lo scienziato, il tecnico, l’ideologo del partito al potere (non stiamo parlando di propaganda, ma appunto di ideologie); può essere l’ultima incarnazione del sapere «oggettivo» che spiega come è la realtà – l’economista –; è, insomma, una parola che è neutrale per sapienza. Naturalmente, non c’è nulla di neutrale: anche qui c’è un effetto verticale evidente.

Simile a questa è la parola che è neutralizzante per indifferenza: il politicamente corretto. Una parola che pretende di non essere politica non in nome di un sapere superiore, ma perché non vuole assumere su di sé le fratture, i conflitti, le violenze, le ingiustizie, che stanno nel linguaggio comune; e quindi, davanti a una persona di bassa statura si dice che è «diversamente alto», e si pensa di avere in questo modo costruito un linguaggio artificiale che non fa violenza a nessuno. Una parola «oggettiva» non per sapere, ma per neutralizzare.

Quarto modello del rapporto fra politica e parola è il populismo. Questo nasce contro la parola che pretende di essere vera, oggettiva, perché è una parola di sapienti, di élites – cioè una parola di qualcuno che è superiore agli altri –; e anche contro la parola neutrale, nel senso del politicamente corretto; oltre che, naturalmente, contro la narrazione avvolgente. E infatti spesso il populismo, oltre a essere anti-elitario, è anche «politicamente scorretto». Il populismo è, da questo punto di vista, la reazione al modo consueto di declinare il rapporto fra parola e politica oggi, che non è la via brutale della propaganda totalitaria ma è il mainstream, l’insieme dei modi con cui il potere parla; contro questi modi prima o poi, si scatena una reazione, che nasce non dai territori della parola, ma dalla «Cosa», dai problemi della società, che le parole del potere non intercettano. E allora grandi masse di cittadini che si sentono privati della parola la riprendono, a modo loro. Ma il populismo non è libertà di parola: le sue «parole in libertà» sono una nuova utilizzazione politica della parola, che pretende di costruire una specie di nuova oggettività in nome dell’uomo normale, dell’every man, dell’uomo della strada, che non tollera e non accetta i «paroloni», i «professoroni». Il populismo è una potenza politica reale che implica una specifica utilizzazione del linguaggio.

L’ultima possibilità del rapporto fra parola e politica è il dialogo fra parole che sono consapevoli della propria imperfezione; che non vogliono essere portatrici di verità, di oggettività, perché la perfetta oggettività è una qualità divina e non umana. Parole che sanno la propria contingenza e che si misurano con parole che sanno la propria contingenza. In politica questo è il dialogo fra le diverse «parti» della società, il dialogo fra i partiti, nessuno dei quali pretende di essere il partito unico, il partito della Verità; il dialogo, quindi, fra le ragioni ideali e pratiche delle «parti» che legittimamente si parlano l’un l’altra. Questo dialogo avviene nella società stessa, che quanto più è ricca e articolata tanto più produce sedi di confronto e di discussione; e avviene in una istituzione politica, non a caso chiamata Parlamento, il luogo in cui dalle parole a confronto si forma la volontà politica generale. Anzi, secondo la teoria politica che sta scritta in Costituzione, dalle parole a confronto nasce il potere più caratteristico della sovranità (popolare, in questo caso): il potere legislativo.

E allora che tutto ciò sia oggi più un’utopia che non la nostra pratica quotidiana, che dalle parole a confronto nasca ben poco, che le parole non si confrontino neppure, che le parole non vengano neppure dette, che regni non la parola plurale ma – dietro gli usi mainstream della parola, o grazie a essi – l’algoritmo, muto esecutore di poteri che non vogliono più nemmeno parlare, al quale si contrappongono il grido inarticolato o l’insulto plebeo, non è certo l’ultimo dei nostri problemi.

 

Intervento, riveduto e corretto, effettuato a Roma il 21 marzo 2018 presso la Biblioteca del Senato in occasione del seminario La politica e la parola, organizzato dal sen. Sergio Zavoli, presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico.