La carcerazione, gli arresti domiciliari, la quarantena  forzata, sono vissute in molti modi: la crisi è ambigua, polimorfa. E differenziate sono le risposte soggettive a essa. Dalla rassegnazione alla rabbia, dall’euforia per gli affetti trascurati e oggi ritrovati allo smarrimento per la perdita dei consueti punti di riferimento esistenziali, dal compiacimento per i ritornanti ritmi della natura alla nostalgia della vecchia «normalità», dagli auspici che si possa vivere con maggiore  umiltà ed equilibrio alle rivendicazioni di esagerate rivincite. Ciascuno vede la crisi come l’occasione perché si realizzi il futuro che più gli aggrada, o che più teme.

Pare tuttavia che i sentimenti dominanti siano l’infelicità e l’angoscia. La prima è dovuta al fatto che l’uomo è un animale sociale, e che privato della relazionalità (o costretto a relazionalità monotona, esasperante, coatta) si snatura, si incattivisce, si dispera. La sua corporeità è offesa: i volti mascherati, i corpi imprigionati, gli spazi devastati (le città vuote, spettrali; i negozi chiusi; i luoghi della cultura deserti) provocano sofferenza.

La seconda, l’angoscia, è una lesione dell’anima: è determinata dalla sensazione presente di una minaccia invisibile – e invincibile, se non al prezzo di una riduzione drammatica della qualità della vita (stiamo cedendo spazio per guadagnare tempo; ci ritiriamo in casa e in noi stessi per diluire e rallentare l’afflusso di ammalati gravi alle strutture ospedaliere; ma per ora non abbiamo né vaccini né cure) –; è rafforzata dalla sensazione che in realtà non sappiamo nulla di questa malattia (dove e perché è nata; quanti sono gli ammalati, silenti e conclamati; quanti i morti); ed è ingigantita  dalla prospettiva che questa minaccia non si allontani, che passato un picco se ne profili un altro, che con essa dovremo troppo a lungo convivere, assumendo nuove abitudini, lesive di libertà e spontaneità (che erano già limitate in precedenza, ma che sono e saranno ben più compresse).

L’angoscia si trasforma poi in sgomento se si pensa al pauroso esercizio di potere a cui siamo e saremo sottoposti: sorvegliati e controllati da elicotteri e droni, da app elettroniche  e da delazioni; censiti, schedati, selezionati, raggruppati in categorie (per età, per stato di salute, per utilità sociale); ammessi sotto condizioni alla vita sociale e ai diritti civili (il libero godimento delle proprietà, il libero spostamento); scioccati dalla disuguaglianza dei malati davanti alle cure (la tragedia dei centri per anziani); oppressi (diversamente) sia dal virus sia dai tutori dell’ordine anti-virus; sgomenti  di fronte alla freddezza con cui scienziati, tecnici, esperti – peraltro spesso in polemica tra loro, in gare di dogmatica arroganza – ipotizzano confinamenti e internamenti coatti di quel «gregge», di quella massa, che siamo ai loro occhi (altro discorso vale per gli operatori sanitari in prima linea, e per la loro eroica abnegazione; come altro discorso ancora va fatto per le immagini dei camion carichi di bare, emblemi di una sofferenza comune che non dimenticheremo).

E, anche, c’è da essere impauriti davanti alla facilità con cui molti introiettano i nuovi divieti, vi si abituano, se ne fanno servizievoli portatori ed esecutori, si fanno piacere queste  prospettive di carcerazione perenne e fantasticano di sempre nuove vessazioni a carico dei trasgressori. Si profila una società ancor più disciplinare, in cui il legame sociale è sostituito dalla sorveglianza generalizzata, e la socievolezza dall’oppressione e dall’intolleranza; l’emergenza non unisce, ma divide (al di là dei gesti di solidarietà che pure possono verificarsi). Una società, inoltre (lato non trascurabile delle molte questioni che si affollano),  in cui l’insegnamento – il prezioso e delicatissimo rapporto fra gli adulti e i giovani, attraverso il quale ci si sforza di far crescere l’umanità e di formare la cultura delle generazioni che ci seguiranno – perde la propria dimensione personale e relazionale, e si trasforma nella somministrazione a distanza di nozioni, con scarsa empatia e scarso coinvolgimento (e ciò è dovuto più al mezzo tecnologico che non allo scarso impegno dei docenti); acqua colorata che sostituisce il vino. Ma quello che oggi è dolorosa e transitoria necessità, dettata dall’emergenza, è da taluni valutato con interesse: anzi, se ne ipotizza una futura più larga utilizzazione. Il virtuale è virtuoso, nell’epoca dell’estraneazione universale, da tempo iniziata e accelerata dall’epidemia.

Scenari da incubo, certo; a cui si aggiungono le prospettive della disgregazione dell’ordine interno e internazionale, sotto la pressione di crisi economiche ingestibili, di apocalittici impoverimenti, e di sentimenti collettivi di insicurezza che potrebbero sfociare nel panico e nella sovversione (il ministro dell’Interno lo ha detto chiaramente). Da una parte la Ue si dimostra ciò che è – un sistema di gerarchie fra Stati in competizione fra loro, al servizio di un paradigma economico che gerarchizza le società –, e mette così da parte le consunte e  ipocrite parole di solidarietà; mentre dall’altra è possibile che la politica del nostro Stato (che nella gerarchia delle potenze si colloca molto in basso – e tutti lo sanno –) decida, per prendere tempo, di aiutare una società depressa e impoverita togliendo agli uni (al ceto medio, ultimo residuale ambito di indipendenza economica e intellettuale  – anche solo potenziale – rispetto al corso delle cose) e dando in cambio un modesto e transitorio sollievo ad altri, più bisognosi, senza che la ricchezza collettiva aumenti. Il passaggio dalla crisi sanitaria a quella economica e da questa alla crisi sociale non è certo da escludere.

Quanto alla crisi politica, abbiamo in sospeso referendum ed elezioni regionali; non c’è collaborazione ma guerra fra maggioranza e opposizione; il governo è trainato dai «tecnici» e ora gli si affianca un super-team per la ripresa; l’esecutivo, e anche alcune regioni, si sono mostrati lenti a percepire il rischio dell’epidemia e incerti nel gestirla (la questione «tamponi» lo dimostra, insieme alla vicenda delle mascherine, per non parlare degli aiuti a persone e imprese, in enorme ritardo); ha sospeso alcune importanti libertà mettendo il parlamento davanti al fatto compiuto; ha utilizzato i media pubblici per accusare l’opposizione senza contraddittorio; non sa come scegliere fra logiche economiche (la riapertura) e logiche sanitarie (la chiusura prolungata), così che le decisioni saranno prese a livello regionale e l’Italia andrà avanti a macchia di leopardo. Da tutto ciò si può ben dire che la condizione politica si avvia a passare da «emergenza» (che è un dato di fatto) a un vero «caso d’eccezione» (che è una scelta) unita a un grande caos (che è l’esito di un sistema politico-amministrativo poco efficiente nel suo complesso). E ciò sarà il viatico per un’instabilità sempre maggiore, un rischiosissimo esercizio da equilibristi dentro la crisi, non un assestamento stabile di un processo.

Nella fase che stiamo vivendo vengono al pettine i nodi e le contraddizioni dell’epoca pre-crisi, che ora rimpiangiamo come un eden perduto perché la nostra psicologia ci spinge a ciò, ma che non era per nulla un paradiso. I poteri e i processi che vi dominavano tentano di ri-affermarsi anche in questa emergenza, che li ha sorpresi ma non travolti: lo sforzo della Ue, e dei suoi molti seguaci nelle élites nostrane, di assoggettare di fatto (non può esistere un Mes senza condizionalità) l’Italia alla Troika (a parte le spese strettamente sanitarie che ci vengono concesse) è la prosecuzione dell’austerità che da tempo opprime il Paese, è la conferma del nostro strutturale deficit di autonomia.

Certo, il progetto che tutto cambi perché nulla cambi non si è ancora realizzato. Ora siamo nel limbo, sospesi in uno spazio evanescente e in un tempo indefinito; siamo sulla soglia. Molti temono, o sperano, che un passo avanti ci porterà all’inferno, in cui – come ha detto un politico europeo – l’Italia finalmente sconterà i propri peccati. E invece abbiamo il diritto  e il dovere di impegnarci perché nell’ora più buia maturino le condizioni di un risveglio, di una presa di coscienza diffusa, popolare e nazionale, di una responsabilità nuova delle élites che ci faccia entrare nel cammino di un nuovo risorgimento, o almeno di una nuova ricostruzione, come quella a cui mettemmo mano nel dopoguerra. Abbiamo bisogno di alleati, anche economici; e se non interviene la Bce non li troveremo in Europa, dove siamo visti come un problema (e come una preda). Ma abbiamo anche bisogno di muovere da un’obiettiva ricognizione della verità, da una condizione di kantiana maggiorità –  e non dall’infantilismo indotto da molti politici e da molti media – che ci aiuti a scommettere per l’Italia e non contro l’Italia.  Abbiamo bisogno della consapevolezza – nei cittadini, nei partiti, nelle istituzioni, negli intellettuali, nelle forze sociali – che questo è uno dei non molti casi in cui molto può essere cambiato. Se deve essere l’occasione di qualcosa, l’epidemia valga come un inizio nuovo della nostra vita associata: da quello che in questi giorni penseremo, diremo, faremo, dipenderà per molti anni il nostro futuro.