Se l’Emilia-Romagna è contendibile, potrebbe trattarsi di una fisiologica disaffezione: nulla è eterno, meno che mai in politica. Ma il punto è che la disaffezione è provocata da fattori in gran parte estranei al controllo regionale, dalla crisi del neo-liberismo, in atto dal 2007, che l’ordoliberalismo ha curato con un’austerità di impronta germanica, spezzando le reni all’economia italiana, che arranca e boccheggia con le ben note conseguenze sociali e politiche. Un processo a cui la sinistra di governo, a Roma, è tutt’altro che estranea, e che anche in una regione come la nostra – al top delle classifiche di occupazione, produttività, benessere e diffusione della cultura – non può non avere ripercussioni materiali e psicologiche. Pur attutita da politiche socialmente avvedute, l’onda della crisi ha toccato anche l’Emilia-Romagna, che non può essere una «isola felice». Benché socialmente più stabile ed economicamente più dinamica del resto del Paese, integrata nell’economia europea, la società regionale conosce anch’essa insicurezze e paure non ingiustificate (sono presenti problemi di integrazione dell’immigrazione e problemi di ordine pubblico, anche se in misura minore di quanto avvenga altrove); e sopporta un calo dei servizi – scuola, sanità, gestione del territorio, viabilità – che, per quanto solo in parte dovuti alla giunta regionale, offrono ai cittadini motivi per una protesta che si è già manifestata alle elezioni europee e che potrebbe tornare a manifestarsi il 26 gennaio.

Salvini non si inventa il disagio: lo gestisce da destra – che altro dovrebbe fare? È semmai la sinistra che dovrebbe recuperare una capacità di analisi e di intervento che in parte ha perduto –. È sbagliato presentarlo come un fascista: chi vota Salvini lo fa per protestare non contro la democrazia ma contro il «sistema» nazionale più che regionale (benché anche questo non sia immune da critiche). Salvini lo sa, e afferma chiaramente che questo sarà un voto politico generale, una chiamata alle armi contro il Conte-bis, che, a torto o a ragione, non gode dell’appoggio della maggioranza dei cittadini. Anche se non è detto che il governo cadrebbe a causa di una sconfitta del Pd in regione, questa sovrapposizione della politica nazionale alla politica locale costituisce una motivazione oggettivamente forte.

Lo sa anche Bonaccini, il quale affronta Salvini da solo, senza il simbolo del Pd – che più che uno scudo sarebbe una calamita di proteste –; e lo affronta dando una lettura locale del voto, invitando a giudicare il suo lavoro (buono) e le potenzialità  della sua sfidante (a dir poco misteriose). Senza cedere alla tentazione di presentare la sfida elettorale come un confronto fra destra barbara, eticamente e antropologicamente inferiore, e sinistra civile e avanzata; e facendo appello a quella sorta di illuminato conservatorismo dell’elettorato che da sempre coesiste con la capacità propulsiva e progressiva della nostra società, aliena da avventure politiche perché già abbastanza avventurosa di per sé.

La partita – a oggi apertissima – si giocherà su questo tema: quanto un elettorato, travagliato da parecchi problemi, avrà voglia di riflettere sui propri reali interessi, economici e sociali. Quanto un modello di società partecipativa e di sistema produttivo a forte diffusione sociale (esiste davvero la «diversità» emiliano-romagnola) vorrà consegnarsi ad amministratori inesperti – certo, la Lega governa anche due regioni tutt’altro che arretrate come Lombardia e Veneto: ma sono strutturalmente diverse dall’Emilia-Romagna, organizzate su un diverso paradigma economico e su un diverso rapporto fra pubblico e privato –. O quanto invece la politicizzazione del voto in chiave nazionale indurrà i più a buttar via il bambino con l’acqua sporca. A commettere un grosso errore.

Siamo davanti a qualcosa di più che al  dilemma fra «presepi» e «sardine». Il 26 gennaio si vedrà se, almeno nella nostra regione dove gioca in casa, la sinistra di governo è capace di riprendersi la scena, o se invece è ormai una malinconica diva sul viale del tramonto, che vagheggia i propri antichi successi mentre il suo mondo svanisce e il suo pubblico va a vedere altri film. Anche se sono di qualità peggiore.

 

Pubblicato in «La parola», n. 4, gennaio 2020, pp. 1-2