Intervista con Claudio Ciani

Sulla quarta di copertina del libro appare questa frase: “Sovranità è democrazia? Oggi sì”. Oggi sì, perché viviamo in un perenne “stato di eccezione” oppure perché l’art. 3, principio fondamentale della nostra Costituzione, che attribuisce al popolo la sovranità, è venuto meno o, nella peggiore delle ipotesi, è stato tradito?

Oggi sì, perché il superamento della sovranità sta avvenendo attraverso l’imposizione dall’esterno di un paradigma politico-economico-sociale anti-popolare, deflativo, tecnocratico. Perché l’esercizio democratico della sovranità è l’unico modo per riportare queste dinamiche sotto il controllo dei cittadini (attraverso la mediazione dei partiti).

Qual è oggi, secondo lei, il modello di sovranità al quale ci si può ispirare: Bodin, Hobbes, Sieyes? Oppure, potrebbe essere utile ripensare il concetto spinoziano di imperium, un concetto che ricorda la proposta del giurista socialdemocratico Heller?

La sovranità democratica è rappresentativa nel caso normale (e dunque deriva dal modello hobbesiano); ma per essere instaurata o restaurata esige un surplus d’energia politica partecipativo-rivoluzionaria (in linea con quanto espresso da Sieyes nel suo libello del 1789). Heller più che spinoziano era debitore a Hegel di un’idea di sovranità come mediazione non solo giuridica ma anche sociale

Più volte nel libro la cifra più radicale della sovranità viene descritta come “un nomos che contiene una possibilità di anomia”, ciò che ricorda il concetto paolino di katéchon. Il potere contenente, la sovranità catecontica, può essere travolto dal contenuto, il nomos dall’anomia? Che cosa significa questo esattamente, nei fatti come si manifesta e a quali sviluppi può condurre?

La sovranità è il modo con cui un gruppo esiste politicamente nel mondo, dandosi un ordine giuridico ed esponendosi al contempo all’intrinseca rischiosità della storia, che esige decisioni. É, quindi, uno sforzo di stabilizzazione, un katéchon, che però partecipa inevitabilmente dell’anomia che vuole frenare, che è la nostra condizione esistenziale. Questa duplicità della sovranità è visibile nell’autonomia del politico rispetto al giuridico – un’autonomia che permane anche se la democrazia costituzionale la limita e la riduce

Per Foucault il ruolo dell’istituzione non è affatto quello di produrre potere, ma dare al potere il mezzo per riprodursi: ciò che il filosofo francese indicherà con l’espressione “situazione strategica complessa”. In che termini è possibile identificare oggi la sovranità con il concetto di potere (e di forza) inteso nell’accezione foucaultiana?

Sovranità non è semplicemente potere: implica la centralità dell’istituzione, benché non si limiti alla sola istituzione ma esiga anche il coinvolgimento dell’intero corpo sociale. La posizione di Foucault è diversa da questa, perché è interessata a una descrizione tutta immanente, e priva di presupposti, delle forme di circolazione del potere nelle società moderne; dal suo punto di vista la sovranità è un concetto troppo pregiudicato, non sufficientemente disincantato.

Il tema della sovranità ha avuto molta importanza durante gli anni della perestroika di Gorbaciov tanto che il 12 giugno 1990 il Soviet Supremo adottò la “Dichiarazione di Sovranità Statale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica di Russia”. Come potrebbe declinarsi oggi la sovranità in Europa, quell’Europa che Stroilov e Bukovskij non hanno esitato a definire EURSS (Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche)?

Al di là del riferimento alla situazione russa, è chiaro che oggi la Ue non è un’unione sovrana; la sovranità appartiene ai singoli Stati, che hanno rinunciato solo alla sovranità monetaria (non a quella di bilancio). L’opposto di quanto avviene negli Usa, quindi, che sono un’unione sovrana (anche se federale) di Stati non sovrani. Ed è anche chiaro che se la Ue fosse sovrana (con un’unica proiezione di potenza, un’unica politica estera, ecc.) la Russia (che ovviamente è sovrana, e vuole esserlo) si troverebbe ad avere al proprio fianco un pericoloso concorrente (e nemmeno gli Usa, al di là dell’Atlantico, ne sarebbero lieti).

Come è nato in Occidente il fenomeno del “populismo”? Esiste un nesso ontico tra i movimenti “sovranisti” e il populismo? Entrambi hanno origine dal “tradimento dei chierici” (Benda) oppure si tratta soltanto di reazioni, seppur scomposte, alle logiche dell’utile ovvero al pensiero e alla pratica dell’economia capitalistica globalizzata?

Il “tradimento dei chierici” era quello che noi chiamammo “impegno” degli intellettuali; e il populismo si sviluppa invece del tutto all’esterno del mondo intellettuale, come reazione a dinamiche politiche ed economiche (la globalizzazione neoliberista, e in Europa l’euro ordoliberista) che hanno colpito le società occidentali, creando disuguaglianze e frustrazioni che i ceti politici non hanno saputo vedere né alleviare, e che in alcuni casi hanno anzi esaltato. Ovviamente il populismo è sovranista: il popolo fa appello all’unica istanza che conosce, lo Stato, da cui esige un agire sovrano, cioè energico, attivo, in grado di difendere i cittadini dai poteri e dalle dinamiche sovrastatuali.

Lo studio The Crisis of Democracy: Report On the Governability of Democracies, elaborato nel 1975 per la Commissione Trilaterale, può essere considerato il Manifesto del neoliberismo globalizzato: la lettera di Trichet-Draghi all’Italia (5 agosto 2011) e la Nota della Jp Morgan sulle costituzioni antifasciste (maggio 2013) ne hanno rappresentato le conseguenze. Ripensare e recuperare il concetto di sovranità significa edulcorare, o financo neutralizzare, le posizioni neoliberiste? Oppure ciò comporta l’assunzione di una via autarchica alla sovranità, “costituzionalizzata”, autonoma dalla volontà di potenza dei mercati?

Il concetto di sovranità è utilizzato dai populisti in senso anti-establishment, per promettere ai ceti sociali più deboli una protezione contro le dinamiche più rovinose del neoliberismo. In realtà, però, la sovranità populista, così come è gestita oggi prevalentemente da destra, non attacca il paradigma economico vigente; si limita a concedere ai cittadini compensazioni e risarcimenti sul piano simbolico e ideologico. Non c’è quindi maggior difesa contro la potenza del capitale, ma c’è maggiore propensione a individuare capri espiatori verso i quali far convergere le paure dei cittadini. Ma la sovranità potrebbe anche essere interpretata da sinistra, benché oggi non si vedano tracce di questa possibile opzione.

La ri-costruzione di un’Europa politica in senso federale (Spinelli, Kalergi, de Rougemont) è compatibile con l’emergere di nuove soggettività che si vogliono “sovrane”?

Le nuove soggettività sovrane sarebbero in ultima analisi i vecchi Stati europei. In linea di principio, quindi, la sovranità europea in senso spinelliano e la sovranità dei vecchi Stati si escludono a vicenda. Ma si deve notare che la sovranità europea “spinelliana” non è veramente all’ordine del giorno di nessuna forza politica al potere (la Ue, come si è detto, da parte sua non è oggi per nulla sovrana); e d’altra parte non è pensabile che si formi un processo costituente europeo a partire da Stati deboli o vacillanti. E quindi il rafforzamento degli Stati è indispensabile, nel medio periodo, sia che si vada verso una prospettiva di sovranità plurali sia che si punti alla costruzione di una sovranità federale europea.

Spengler, un secolo fa, in Il tramonto dell’Occidente, ebbe a scrivere: “La Sinistra fa sempre il gioco del grande capitale, a volte perfino senza saperlo”. Quanto c’è, ancora oggi, di vero in questa affermazione?

Temo che ci sia molto di vero, come si è dimostrato nei decenni di egemonia del neoliberismo, durante i quali la sinistra “di governo” è stata succube e non certo critica del modello economico capitalistico. La competizione si è rovesciata in assecondamento; la fascinazione della potenza capitalistica ha prevalso sulla consapevolezza dei suoi limiti.

Nel 1971 Nixon decise di porre fine agli Accordi di Bretton Woods, nel 1981 si verifica il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia. Bisogno di sovranità, oggi, significa (anche) necessità di ritrovare la perduta “sovranità monetaria”?

Nel 1971 si pose fine alla convertibilità del dollaro in oro: che era il fondamento degli accordi di Bretton Woods. Il “divorzio” consensuale fra Tesoro e Banca d’Italia risponde all’esigenza di bloccare l’inflazione che era salita al 20% negli ultimi anni Settanta, non solo per la libertà dei cambi ma anche per l’inflazione mondiale generata dalla guerra in Vietnam e dalla guerra del Kippur. Di fatti il divorzio è il primo tassello di una serie di provvedimenti ordoliberisti e neoliberisti (fra cui la riforma della scala mobile) volti a trasformare l’inflazione in debito pubblico e i salari in credito privato al consumo: cioè a preparare la società alle conseguenze dell’adesione dell’Italia allo Sme (anticamera dell’euro), sul finire degli anni Settanta.

Intervista pubblicata in «Geopolitica.info» il 14 Maggio 2019