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Ragioni politiche

di Carlo Galli

Mese

febbraio 2016

Politica e sindacato

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Non basta tenere i fermi i principi fondamentali della Carta costituzionale perché si possa dire che non si cambia la sostanza della Costituzione. Questa è modificata radicalmente anche se si lascia invariata e intatta la lettera dei principi fondamentali. Il principio fondamentale che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» ha di per sé un contenuto decisivo, che è precisamente ciò di cui stiamo parlando: cioè il rapporto fra politica e lavoro. Ma non è sufficiente lasciare questo contenuto decisivo scritto così com’è. Questa affermazione di principio trae il proprio senso sia dalla concreta articolazione dei poteri dello Stato sia dalla reale strutturazione della società e del sistema produttivo. Ed è lì che è cambiato tutto.

«Repubblica fondata sul lavoro» vuol dire che la Costituzione della Repubblica italiana si fa carico di erigere un’architettura specifica intorno a un principio che distingue la civiltà moderna dalle altre forme di civiltà: il lavoro entra in modo costitutivo dentro la politica − cosa che, come ha sottolineato tra gli altri Hannah Arendt, non appartiene a buona parte della tradizione dell’Occidente −. La tradizione pensa prevalentemente la politica come qualche cosa di distinto dal lavoro, come due ambiti che non si incontrano − in modi diversi nella cosiddetta Antichità e nel cosiddetto Medioevo − e che meno che mai si sovrappongono, e che ancor meno sono la stessa cosa. Nel mondo antico la politica è gestita soprattutto − tranne nel caso dell’autorappresentazione della democrazia ateniese in Pericle − da coloro che non lavorano. Nel mondo medievale la politica è appannaggio o indirettamente degli oratores (la gerarchia della Chiesa) o direttamente dei bellatores (le aristocrazie laiche), ma non dei laboratores, con l’eccezione dell’autogoverno dei Comuni italiani e delle città anseatiche, che ha dato un contributo assolutamente decisivo alla civiltà occidentale, ma che si trova testimoniato soltanto in alcune aree dell’Europa. In ogni caso, è solo in età moderna che si afferma apertamente l’idea che la politica e il lavoro coincidono: cioè chi fa la politica sono proprio quelli che lavorano. In Olanda, in Inghilterra, in Francia, nei due secoli cruciali dell’età moderna, il Seicento e il Settecento, si formano le pratiche e le idee adeguate a questa grande trasformazione. E infine anche la nostra Costituzione, tutta moderna, può apertamente affermare che ciò che ci fa stare insieme politicamente non è né una generica socievolezza (l’uomo è un animale sociale) né è legato alla natura (la razza), all’economia (il mercato), alla trascendenza (la religione) o alla storia (la nazione): il fondamento del legame sociale e politico è il fatto che lavoriamo. Se per miracolo non fossimo costretti a lavorare, dice la nostra Costituzione, non ci sarebbe politica.

La politica è la coesistenza organizzata di quelli che lavorano. Ciò ha una triplice valenza. La prima è che il lavoro è e resta anche un fatto individuale. Si lavora per mangiare, per portare a casa lo stipendio grazie al quale vivono il lavoratore e la sua famiglia. Ma vi è un altro principio collegato al lavoro: il lavoro è parziale, non è immediatamente un principio di uguaglianza. Anzi, è attraverso il lavoro che passano le disuguaglianze. È lo spazio di differenze potentissime − soprattutto la differenza di collocazione all’interno del processo produttivo −. Terzo punto: nonostante sia un fattore individuale, nonostante sia un elemento di parzialità e, diciamolo, di conflittualità, che potenzialmente divide la società, nondimeno il lavoro è anche il fondamento dell’intero, il fondamento della Repubblica tutta quanta. Che non è una Repubblica di lavoratori: è una Repubblica del lavoro. Voi lo sapete che c’era stato il tentativo comunista di scrivere in Costituzione che l’Italia è una «Repubblica dei lavoratori»: era chiaramente una indicazione di parte, che generava perplessità insuperabili, risolte invece con la mediazione democristiana che ha proposto il testo che ancor oggi resiste.

Da ciò deriva che il lavoro ha bisogno di una doppia rappresentanza, sindacale e partitica. L’elemento sindacale è quello in cui il lavoro si manifesta nella sua concretezza materiale, nella sua particolarità individuale, territoriale e di classe (o in ogni caso di ambito sociale definito). Anche se in Italia fin da subito il principale sindacato ha scritto nella propria sigla la parola «generale», tuttavia il sindacato rappresenta il lavoro nella sua dimensione individuale − cioè il sindacato è un’istituzione a cui si rivolgono i singoli lavoratori a presentare dei problemi − e nella sua dimensione di parzialità anche aspramente conflittuale, perché il sindacato insegna a ciascun iscritto che il problema del lavoratore non è soltanto individuale, ma è anche il problema di quelli che fanno la stessa cosa che fa lui; cioè gli dà una disciplina e una carica di conflittualità che dunque esclude l’elemento della generalità politica. La generalità sindacale significa solo (e non è poco) che il sindacato si candida a non essere corporativo, a tenere presenti le ragioni di tutti i lavoratori. Ma a fianco di un sindacato è necessario un partito, che − nella misura in cui è il partito dei lavoratori, e dunque è un partito di «parte» − sia capace di tradurre la parzialità che è intrinseca al lavoro concreto in un progetto generale di società. Cioè che sia capace di rappresentare il lavoro non nella sua materialità empirica − a quello ci pensa il sindacato −, ma nella sua idealità: nell’idea, cioè, che il lavoro è l’unico titolo di cittadinanza.

Ciò è possibile grazie al fatto che − e questo è ancora più importante −, oltre al partito, oltre al sindacato, esiste lo Stato, cioè il sistema delle istituzioni. Le quali di per sé non sono parziali, sono universali e si presentano − queste sì − uguali per tutti. L’idea marxiana che lo Stato sia di parte proprio nel suo essere universale (cioè nel trattare in modo uguale i cittadini socialmente diseguali) era vera quando fu elaborata (dai primi anni Quaranta dell’Ottocento): noi oggi dobbiamo credere che lo Stato sia capace (e che lo debba fare, che lo voglia fare) anche di rimuovere attivamente le radici della disuguaglianza per dare concretezza sociale ai diritti astratti e formali secondo l’intuizione di Marshall (Cittadinanza e classe sociale) e secondo l’art. 3 della Costituzione. Ma le istituzioni nel loro presentarsi uguali per tutti sono prive di energia politica, come una colonna: che c’è, serve a tenere in piedi un edificio, ma non ha in sé energia. Alle istituzioni l’energia politica − che è necessaria a svolgere il compito dell’uguaglianza attiva, e che è sempre un’energia di conflitto, di orientamento, di parzialità − è fornita dai partiti che, quando vincono le elezioni, governano in un certo modo o in un altro. Quindi perché la frase «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» abbia un senso sono necessarie alcune evidenze sociali, economiche, politiche, istituzionali: è necessario il lavoro, per cominciare; è necessario l’individuo interessato, al limite l’individuo che si identifica con il lavoro; è necessario il sindacato; è necessario il partito; è necessario lo Stato, che è universale e stabile − come dice la parola − e che trae la propria energia dal partito che invece è di «parte» − come dice la parola −.

Di tutto ciò oggi non è rimasto nulla, o quasi. Infatti, la Costituzione è stata scritta in un’epoca diversa dalla nostra, in un differente orizzonte culturale e civile. È stata scritta dentro la «terza rivoluzione» del Novecento (quella socialdemocratica), e noi invece stiamo abitando la fase terminale (ma non finale) della «quarta rivoluzione» (quella neoliberista). È stata scritta deliberatamente come impianto del primo esempio italiano di Stato democratico-sociale. Fino a quel momento l’Italia aveva conosciuto forme di Stato che non erano né democratiche né sociali: quando erano democratiche non erano sociali (i liberali, anche i più democratici, non riuscirono a costruire uno Stato capace di includere la società), e quando erano sociali (le politiche sociali del fascismo) non erano democratiche.

Noi oggi non abbiamo il lavoro, perché il capitalismo nei Paesi dell’Occidente sviluppato ha molto meno bisogno di lavoro. Inoltre, non abbiamo il soggetto esistenzialmente interessato al lavoro. Il soggetto, oggi, percepisce il lavoro quasi solo come uno strumento per vivere al di là del lavoro, nella quotidianità del privato. Questa debole identificazione del soggetto singolo col lavoro fa parte − come l’assenza di lavoro, perché il modello economico ne ha bisogno meno − della civiltà nuova dentro la quale ci troviamo a vivere.

Che cosa sia rimasto dei partiti è poi inutile che ve lo dica: è rimasto ben poco. Sono diventati comitati elettorali di un capo a livello nazionale, e agglomerati di potere affaristico-amministrativo, ora legale ora illegale, nei territori.

Infine, che cosa è rimasto dello Stato? Poco. Lo Stato ha devoluto pezzi piuttosto notevoli della propria sovranità, dopo quella strategico-militare perduta con la sconfitta della guerra. Ha devoluto anche la sovranità che consiste nella capacità di esercitare la politica economica e, insieme ad essa, la politica monetaria, come se avesse perduto un’altra guerra. La politica monetaria non la facciamo più, ci siamo autovincolati allo schema liberale (più precisamente ordoliberale) che nella nostra storia era stato perseguito soltanto dalla destra di Quintino Sella, di Einaudi e di Vanoni (lo schema del controllo della massa monetaria e dell’intervento dello Stato nell’economia non a scopi propulsivi ma soltanto a scopo di moderazione salariale e di abbattimento delle soglie di intervento pubblico). Come principio fondamentale di politica economica abbiamo quello di non farla, perché ci siamo vincolati, con i Trattati europei, a una matrice intellettuale e pratica (ancora una volta, l’ordoliberismo) che sostiene che il mercato è originario e che è il migliore produttore e distributore di ricchezza che esista al mondo, e che compito dello Stato è potenziarne lo sviluppo, e non metterci direttamente le mani. Nello specifico italiano, poi, la pubblica amministrazione è in condizioni rovinose; il mondo della scuola e dell’Università è deliberatamente trascurato con investimenti che ci mettono all’ultimo posto in Europa insieme alla Grecia; e il mondo produttivo non assorbe i laureati (chi si laurea resta disoccupato almeno tre anni dopo la laurea).

È successo che la «quarta rivoluzione», la rivoluzione neoliberista, domina la società e domina anche le menti. Sull’idea che tutto quello che abbiamo nominato − sindacato, partito e Stato − non sia altro che sovrastruttura (come in un marxismo rovesciato) che aliena parassitariamente e burocraticamente la libertà, la potenza, l’entusiasmo, l’energia che sta in ciascuno di noi, è fondato il neoliberismo dal punto di vista soggettivo. Quando si riesce a far credere a tutti (o a molti) che il sindacato e il partito sono i nemici del lavoratore e del cittadino, e che è bella e buona cosa che il singolo entri nel mercato del lavoro fidando baldanzosamente solo in se stesso e nella propria capacità di avere successo, coloro che hanno posizioni dominanti hanno già vinto in partenza. Nella fase euforica del neoliberismo, dagli anni Ottanta alla Grande crisi, le cose funzionavano appunto così. In quella fase anche la sinistra non solo si era convertita all’idea che la libertà individuale stesse nella capacità di proiettare la potenza individuale nella società, ma aveva anche accettato l’idea che lo sviluppo economico, anzi ogni tipo di sviluppo − da quello economico-materiale alla crescita della ricchezza attraverso le bolle finanziarie −, fosse buono in sé. In ciò rendeva vere le indicazioni quasi profetiche di chi, nella cultura del primo Novecento, sosteneva che liberali e comunisti fossero la stessa cosa, e stessero soltanto facendo a gara a chi interpreta meglio la stessa ideologia del progresso e dello sviluppo tecnico-industriale (la elettrificazione del mondo). Quando la partita è stata decisamente vinta dai liberali, dalle liberaldemocrazie, dal capitalismo, a una gran parte della sinistra è stato facile arrendersi all’evidenza e aderire al partito dei vincitori, proponendo qualche piccola variante “sociale” al loro modello di sviluppo. E il pensiero critico si è rifugiato nel pensiero della decrescita, che non è un pensiero di sinistra. Mai e poi mai Marx avrebbe scommesso sulla decrescita: tutta la storia della sinistra è scritta alla luce dell’idea che la crescita produce le condizioni per la liberazione dei lavoratori (condizioni che la politica deve cogliere e realizzare).

Oggi, le idee della destra economica che hanno vinto negli anni Settanta sono pesantemente in crisi, ma restano prive di alternative credibili. Resta centrale, dopo tutto, la circostanza che la globalizzazione ha distrutto nei Paesi di antica industrializzazione i risultati delle lotte sociali di un secolo (non si enfatizzerà mai abbastanza che dal nostro punto di vista è l’esistenza di qualche centinaio di milioni di operai asiatici capaci di essere «l’esercito industriale di riserva», fuori dal perimetro delle socialdemocrazie europee, che ha consentito l’abbattimento dei livelli di tutela del lavoro occidentale). Oggi, nonostante i cattivi risultati del neoliberismo in generale e di quella specifica variante del neoliberismo che è l’ordoliberalismo (ovvero l’idea tedesca di capitalismo che abbiamo accettato e sottoscritto nei trattati istitutivi della Ue, dove sta scritto che l’Europa vuole essere «un’economia sociale di mercato altamente competitiva», che oggi implica salari relativamente bassi, concentrazione spasmodica sulle esportazioni, Stato impegnato a mantenere la stabilità della massa monetaria, quando vuole, sempre fatto salvo l’interesse nazionale germanico), in questo contesto di bassissima crescita, di disuguaglianze crescenti, di svalutazione del lavoro, di trasformazione radicale della democrazia, perché la sinistra non ha lo spazio politico che dovrebbe avere?

Perché è rimasta, io credo, nella testa degli italiani, della sinistra soltanto l’immagine terminale, cioè quella dei diadochi che si sono spartiti l’Impero di Alessandro con guerre intestine e odi funesti. Fuor di metafora: la generazione di dirigenti nazionali che ha gestito la sinistra dopo Berlinguer ha lasciato di sé un ricordo incancellabile negli italiani, e non è un buon ricordo. Dal rifiuto popolare di questo o di quel dirigente il passaggio al rifiuto della stessa parola «sinistra» è stato inevitabile, proprio perché dentro quella parola nessuno mai si è sforzato di mettere un programma di sinistra, ma, oltre alle sorti personali di alcuni dirigenti, solo politiche non certo di sinistra (fino al capolavoro di chi oggi detiene l’egemonia − poiché controlla di fatto quasi tutti i mezzi di informazione − che presenta come di sinistra l’abolizione dell’articolo 18).

È chiaro che se «sinistra» è proporre una lettura abborracciata, affrettata, patetica, dei testi della gerarchia cattolica (ignorando che la polemica anticapitalistica e antitecnologica è una costante del magistero della Chiesa, e che, anche se oggi è presentata in modo più accattivante, ha un fondamento teologico e dogmatico non certo di sinistra), non si va molto lontano. Ed è chiaro anche che se «sinistra» è rivendicare la fedeltà alla ditta − chiunque non sia emiliano non capisce l’intreccio di potere economico, amministrativo a guida partitica che in questa parola si compendia, e che è stato realizzato nella nostra regione e non altrove −, ovvero se è proporre il modello emiliano a tutta Italia, ciò è precisamente l’ipotesi che è stata sconfitta nel febbraio del 2013.

Allora, se non è proporre il pensiero critico del pontefice, e se non è proporre il modello emiliano, che cosa è sinistra? I cittadini non lo sanno, perché è stato loro detto che sinistra è sinonimo di totalitarismo, oppure che consiste nel riformare il Paese in sintonia con le esigenze del neoliberismo.

Il sindacato può essere un elemento di questa mancata risposta oppure un elemento positivo della risposta. Ovvero, può essere ciò che l’attuale forma politica gli chiede di essere: un sindacato di fabbrica, un sindacato dalla rivendicazione all’interno delle compatibilità del sistema, che accetta la gerarchia dei problemi posta in essere dall’attuale configurazione dei poteri. Questa gerarchia dei problemi non vede al primo posto l’occupazione; e non vede al primo posto la trasformazione del lavoro da mezzo di sussistenza a dimensione in cui si realizza il soggetto. Al primo posto c’è semmai la stabilità, la disciplina fiscale; al secondo posto la ripresa economica; solo al terzo posto c’è la nuova occupazione − che in ogni caso deve essere meno tutelata che in passato −. Questa è la gerarchia imposta del potere. Perché ci sia «sinistra» è necessaria una gerarchia alternativa: farla finita con il dogma della stabilità della massa monetaria e della disciplina fiscale; con l’assenza di politica economica; con la flessibilità del lavoro, con la sottrazione di diritti al lavoro, con la marginalità del lavoro. Ebbene, «sinistra» è dire queste cose, e non dirle perché ci sono dei «problemi» da risolvere ma perché si è padroni di un’analisi della società che dietro i problemi vede «questioni», contraddizioni, e che, soprattutto, vede la società come un campo di conflitto. Un conflitto in cui c’è chi ha vinto e ha messo le basi perché la sua vittoria non venga mai più messa in discussione. E in effetti questa vittoria del capitale è stata blindata dal quarto comma dell’articolo 81 della Costituzione. Oggi tutto il processo legislativo culmina nel parere dato dalla Commissione VI (Bilancio), che deve garantire che un certo provvedimento non osta non tanto l’articolo 1 comma 1 della Costituzione, o l’art. 3, ma il comma 4 dell’articolo 81.

Sinistra è dire queste cose, e poi − potendo − farle. È ridare la sovranità al popolo, e non al capitale e al mercato; è ridare centralità al lavoro; è ridare parzialità al lavoro. Ma tutto ciò si può dire e fare soltanto se si hanno gli occhi per vedere, cioè se si è fuori dall’ideologia dominante.

In questo contesto, che cosa può fare il sindacato? Essere generale e parziale al contempo, e non lasciarsi imporre nulla di ciò che avete sentito, e anzi rispondere colpo su colpo, parola su parola. Per fare ciò è decisivo che il sindacato sia capace di elaborare cultura e di praticare formazione: non può essere solo un centro sociale, o di servizio, e neppure uno sfogatoio per lavoratori. Se non sarà produttore ed elaboratore di una cultura politica, sociale ed economica alternativa perderà la battaglia. Ancora più radicalmente, se non sarà capace di capire che c’è in corso una battaglia, la perderà; mentre la sua prima vera vittoria sarà la sua rinnovata consapevolezza, culturale e politica, che è in corso una guerra sociale.

Relazione tenuta a Bologna l’11 gennaio 2016 al convegno Cultura, lavoro, sindacato, organizzato dalla CGIL − Emilia-Romagna e da Editrice Socialmente, in collaborazione con la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.

1815-1915-2015: le tre date dell’Europa concentrica

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Assumo che nell’idea di «Europa concentrica» venga compreso sia il fatto che l’Europa possa essere considerata un ordine con un centro – caratterizzato da dinamiche di esclusione e di inclusione subalterna, appunto a cerchi concentrici – sia che in talune circostanze l’Europa costituisca anche il centro di un ordine internazionale.

In quelle dinamiche sono stati coinvolti dapprima i due monoteismi non cristiani, cioè gli ebrei e i musulmani. I primi esclusi, o meglio inclusi in modo subalterno, in seguito assimilati, cioè fatti entrare nel pieno dell’ordine europeo ma al prezzo della negazione della loro particolarità, e infine sterminati. I secondi, oggetto di un’inimicizia intensa, ma dall’andamento vario nel corso dei secoli, prima come arabi, poi come turchi.

Sono inoltre rilevanti anche alcune fratture interne all’Europa, soprattutto le guerre civili tra cristiani. Le guerre di religione che hanno segnato la modernità nascente sono state risolte, in una fase iniziale, certamente attraverso l’inclusione subalterna dei non-conformi (il principio cuius regio eius religio), dalla quale però si è potuta aprire una via verso la tolleranza prima, l’affermazione rivoluzionaria dei diritti poi, al prezzo della spoliticizzazione della religione. Quindi, l’Europa come ordine è in realtà costituita da guerre civili e di religione; da rivoluzioni e controrivoluzioni; e anche dalla lotta dei nazionalismi prima contro gli Imperi multinazionali, e in seguito dai conflitti degli Stati gli uni contro gli altri; infine da fratture economiche anche gravi dentro la Ue.

Ma queste linee di frattura, interne alla storia di Europa, devono essere interpretate anche in relazione alle modificazioni della spazialità globale. Ciò che accadeva e accade in Europa era ed è collegato al rapporto globale dello spazio dell’Europa con quello che Europa non è. Non si capisce nulla della frontiera mediterranea dell’Europa, che è quella più aperta e più sanguinosa, se non si vedono oltre alle frontiere interne dell’Europa, di cui parleremo, anche le frontiere mobili che percorrono tutto il mondo globale. Provare soltanto compassione per i morti in mare nel Mediterraneo, senza vedere le linee di cesura e di contraddizione che stanno all’interno dell’Europa e senza vedere le frontiere mobili che, al livello geopolitico, determinano le migrazioni di popoli, sarebbe come avere compassione per i soldati della prima guerra mondiale dentro le trincee senza chiedersi come erano finiti lì dentro, e chi ce li aveva mandati, e perché.

Insomma, dentro la nozione di «Europa concentrica» ci sono le nozioni di ordine gerarchico interno ma anche di frontiera più o meno mobile verso l’esterno, in reciproca tensione e interazione, oltre che un’idea di «fortezza Europa» che in realtà è forse una debolezza. Su questi parametri si può ora articolare l’analisi di che cosa ha voluto e vuole dire «Europa» nelle tre date simboliche: 1815, 1915 e (attraverso il 1945) 2015.

1815: Europa centro restaurato del mondo

Nel 1815 è in corso il Congresso di Vienna mentre si esaurisce la grande stagione napoleonica: l’Europa è davvero il centro restaurato del mondo. L’Europa-centro è anche Europa concentrica perché ingloba in sé diversi sistemi di contraddizione e di alterità: la tensione tra l’Antico Regime, vittorioso nel breve periodo, e la Rivoluzione che cova sotto le ceneri e si ripresenterà (mutata) nei Risorgimenti; fra la borghesia e l’aristocrazia; fra gli Imperi e gli Stati nazionali; fra la politica di potenza e la politica di equilibrio. Ingloba inoltre la tensione politica tra la Santa Alleanza – che è rivolta contro il liberalismo, e quindi minaccia il Continente sudamericano testé liberatosi dal dominio spagnolo avendo appunto tra i propri obiettivi quello di riportare all’ordine i Paesi di (relativa) libertà costituzionale borghese che si vengono affermando nel sud America – e la politica dell’Inghilterra, che di questa alleanza non fa parte, perché la sua politica è orientata a perseguire l’equilibro di potenza nel Continente e a intensificare la propria avventura marittimo-industriale. Dentro questa Europa si sta anche formando, benché in questo momento non abbia la forza di diventare un soggetto politico, un’altra consapevolezza e alterità, che è quella del proletariato industriale; che però, nel 1815, è soltanto allo stato nascente. E insieme ad esso quegli embrioni di pensiero comunista (Babeuf, Maréchal) che si svilupperanno in seguito.

La consapevolezza di queste contraddizioni fa dire in punto di morte a Maistre, che muore nel 1821, «Je meurs avec l’Europe!». Nel 1821, quando veniva spento il liberalismo spagnolo, e dunque sembrava che la Restaurazione fosse trionfante, questo intellettuale, estremamente reazionario ma anche estremamente intelligente, aveva colto le contraddizioni che la Restaurazione credeva di neutralizzare, per fare dell’Europa il perno dell’ordine mondiale: quelle contraddizioni erano aperte, e non si chiudevano. Le vide anche Hegel, in modo meno tragico: la consapevolezza della centralità dell’Europa è presente, nella Filosofia del diritto (1821), ai paragrafi 244-248, dove la tesi di fondo è che le contraddizioni intrinseche della società civile sono ancora gestibili in modo tale che l’assetto politico-economico europeo non ha da esse molto da temere: anzi, se esse si riversano all’esterno fanno del resto del mondo un prodotto dell’Europa. Poiché la società civile è sempre troppo contraddittoria al proprio interno può e deve scaricare le proprie contraddizioni all’esterno attraverso la colonizzazione. E ciò, detto nel 1821, testimoniava una grandissima capacità di penetrazione della storia.

1915: L’Europa è il centro pericolante del mondo

Bene o male quella Restaurazione dura un secolo, dal 1814 al 1914, e costruisce un assetto abbastanza solido e al tempo stesso abbastanza elastico tanto che vi si possono formare alcune realtà nuove – l’Italia unita e la Germania unita – senza che la modificazione dei rapporti di forza interni distrugga lo spazio europeo, e senza che l’Europa precipiti in guerre distruttive. Quell’assetto d’Europa, frutto della Restaurazione, sopporta insomma le guerre di indipendenza italiana e tedesca, che hanno disturbato ma non distrutto l’Impero asburgico, cioè il massimo garante continentale della Restaurazione. In realtà la mina che ha fatto esplodere quel sistema stava da un’altra parte: nei Balcani. In ogni caso, quando nel 1915 l’Italia entra in una guerra che è scoppiata l’anno precedente, l’Europa è certamente il centro pericolante del mondo. Probabilmente i più avvertiti sanno che è pericolante, perché i grandi Imperi coloniali sono a rischio e devono fronteggiare, soprattutto quello inglese, moti di indipendenza potentissimi. E certamente, al tempo stesso, tutto il mondo è soggetto al dominio europeo, con le eccezioni di Stati Uniti e Giappone.

Nel 1915 il diritto pubblico europeo è ancora il Nomos della terra: è ancora ciò che spiega l’ordinamento totale del mondo, anche se i germi della distruzione sono già in moto.

A quell’altezza in Europa vi sono due princìpi in conflitto, e la vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro. Questi due princìpi sono: il nazionalismo e il socialismo, cioè due espressioni di contraddizioni. Il nazionalismo allora era l’espressione della volontà di potenza dei singoli Stati, in contraddizione con la pace in Europa. Ciascuno Stato affermava a parole di volersi far carico dell’equilibrio europeo, ma nei fatti praticava un nazionalismo irresponsabile perché la sensazione di sicurezza che era data dal far parte di una delle due alleanze contrapposte (la Triplice e l’Intesa) portava a trascurare molte prudenze; ciò ha dato vita a un equilibrio sempre più instabile, infine crollato per Sarajevo come avrebbe potuto crollare per Agadir o per la Libia o per qualche altro incidente – come avvenne poi per le guerre balcaniche . E in quel crollo è stato trascinato appunto l’ordine europeo restaurato a Vienna, e la sua centralità rispetto al resto del mondo.

Quindi la genesi della prima guerra mondiale è sistemica: è nata dal fatto che se ci sono troppi soggetti che si muovono col cerino acceso dentro una polveriera, prima o poi la polveriera esplode. E i nazionalismi erano la polveriera e i cerini accesi erano gli incidenti, che si susseguirono fino a quello fatale di Sarajevo, che è avvenuto in un momento in cui nessuno si fidava più di nessuno. Nel 1914 non c’era un argine allo svilupparsi autonomo dei fatti: era ormai stata tolta l’ultima pietra che teneva ferma la valanga. A quel punto la situazione è precipitata, è andata avanti da sola.

Da parte sua, il socialismo era l’interpretazione di un’altra contraddizione, quella tra capitale e lavoro, e, più in generale, della divaricazione tra ceti oppressi e i ceti benestanti: pur all’interno di un orizzonte di rovesciamento del capitalismo e della società borghese, il socialismo in realtà accompagnava l’inclusione (di fatto subalterna, ma non priva di speranze e di aperture su una più ampia cittadinanza) delle masse operaie in quella civiltà  come sapevano bene, con rabbia e odio, Sorel e Lenin . Nonostante la sua forza in Germania Francia Italia, il socialismo non è però riuscito a opporsi al nazionalismo e anzi lo ha seguito, in particolar modo quello tedesco e quello francese. Quindi la prima guerra mondiale è stata davvero la guerra dei nazionalismi, la guerra della grande alleanza tra lo Stato, il popolo in quanto nazione e la tecnica, l’altro spirito del tempo che ha cambiato in modo radicale la guerra, rendendola un’esperienza super-distruttiva e super-popolare, nel senso che coinvolgeva l’intera popolazione. Il che ha determinato sostanzialmente la fine della sovranità moderna nella sua forma classico-statuale, proprio nel momento in cui essa procedeva alla sua prestazione storica più alta, cioè mettere in armi milioni di uomini, alla nazionalizzazione delle masse, prodromica alla morte meccanica, non eroica, alla morte di massa – sto pensando a quel testo straordinario che è La mobilitazione totale di Ernst Jünger . In questo momento si manifesta la più alta capacità di comando dello Stato borghese: lo Stato è come un grosso serpente che ha mangiato una preda più grossa di lui, la società intera (che ha armato e politicizzato), ma non riesce a digerirla, a ricondurla all’ordine pacifico, finendo con l’essere deformato e reso irriconoscibile dalla sua stessa preda. La prima guerra mondiale è in realtà l’inizio di una nuova compenetrazione di Stato e società, di una scomposizione e di una politicizzazione di quest’ultima di cui approfitteranno, e a cui risponderanno, gli ordini nuovi del comunismo e del fascismo. Infatti, la guerra finisce nel 1918, ma continuerà in quell’interregno, in quella condizione intermedia, che si dà tra le due guerre mondiali, quando gli Stati europei diventano quasi tutti o fascisti o comunisti, cioè, benché la parola sia imprecisa, totalitari. Cioè Stati apparentemente fortissimi, ma a cui in realtà è sfuggita l’anima politica che non sta più nelle istituzioni statali bensì nel partito e nel suo Capo. Perciò quella prima guerra mondiale è davvero una guerra «fine di mondo», una guerra in cui finisce un mondo  non a caso Paul Valéry, che in quanto poeta aveva capacità di decifrare in modo rapido e sintetico quello che stava capitando, lo scrive nel 1919: «noi civiltà ormai sappiamo di essere mortali» ; mentre a dare al mondo una nuova e più stabile forma provvederà la seconda guerra mondiale.

Tra le questioni lasciate in sospeso dalla prima guerra mondiale c’è quella del Medio e vicino Oriente, perché nessuno è stato in grado di trattare pienamente e secondo giustizia la questione della successione all’Impero Ottomano, cosa di cui noi paghiamo il fio ancora oggi. Nel 1916 Inghilterra e Francia si limitarono a spartirsi la regione in due aree d’influenza determinate da interessi storici, strategici e petroliferi (gli accordi Sykes-Picot, che dovettero essere presto modificati ma che con la loro artificiosità resero instabile la zona per cent’anni); inoltre, nel 1919 da Versailles uscì un disegno dell’Europa centrale che sostanzialmente la svuotava (a vantaggio della Francia, che di quell’area si era resa garante, senza averne la forza) in modo tale che a riempire quel vuoto concorsero (e fu la seconda guerra mondiale) la Germania e la Russia.

1945: l’Europa è l’oggetto di spartizione più prezioso del mondo

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Europa smette di essere il centro, anche se pericolante, del mondo: resta ancora l’umbilicus mundi, ma solo perché è il punto in cui sono a contatto, e fanno attrito, le superpotenze che si sono spartite l’Europa. L’Europa non è il centro soggettivo e attivo, ma il centro passivo e oggettivo: è il premio del vincitore. E i due veri vincitori (USA e URSS) in Europa si toccavano: proprio per questo in Europa la tensione era altissima e quindi non poteva succedere nulla, altrimenti sarebbe successo di tutto. Le guerre si combattevano nei Paesi poveri, nel Sud del mondo, mentre in Europa si fronteggiavano le superpotenze, sapendo che il primo stivale sovietico o americano che avesse varcato la linea di confine, avrebbe potuto scatenare la guerra nucleare. Questa situazione ha di fatto reso l’Europa uno spazio pacifico, benché non sovrano. In realtà, la pace in Europa nel secondo dopoguerra l’hanno portata gli americani e i sovietici. E anche il Welfare in Europa lo si spiega col fatto che del vecchio dilemma «burro o cannoni» era rimasto solo il burro, e i cannoni non c’erano più, o quasi. La difesa vera dell’Europa la facevano gli americani e i sovietici.

In ogni caso, fra il 1945 e il 1947 ciascuno dei vincitori (quelli veri, USA e URSS) si prende la sua parte, all’interno della quale può fare quello che vuole (la dottrina Breznev e la dottrina Nixon ne sono la tarda formalizzazione esplicita). Noi occidentali ci siamo strappati le vesti per Berlino, Varsavia, Budapest, Praga, Danzica: ma oltre stracciarsi le vesti non si è potuto fare nulla. È stato più facile far cadere la stessa URSS, attraverso la sfida dell’economia iper-capitalistica del neoliberismo, che correre in aiuto di una delle insurrezioni popolari antisovietiche che sono scoppiate con discreta regolarità nell’Europa orientale dal 1953 fino al 1981. In quel caso ci sarebbe stata la guerra. E d’altra parte gli americani potevano fomentare, favorire, instaurare le più perverse dittature anti-comuniste nella loro parte di Europa (e di Sud America) e i russi potevano stracciarsi le vesti fin quanto volevano, ma non muovevano un dito. Insieme, invece, USA e URSS hanno rimandato a casa loro inglesi e francesi nel 1956, quando le vecchie potenze tentarono l’ultima avventura coloniale d’Europa, cioè quando hanno provato a imporre con la forza l’apertura del canale di Suez nazionalizzato da Nasser, con l’aiuto, via terra, dell’esercito israeliano. A quel punto USA e URSS, insieme, le hanno fatte tornare a casa loro. Era successo, senza che le vecchie potenze europee ne prendessero piena coscienza, che il mondo non era più eurocentrico; quelle potenze formalmente vincitrici della seconda guerra mondiale ma in realtà sconfitte insieme a tutta l’Europa, avrebbero fatto prima a dismettere gli Imperi coloniali, piuttosto che aspettare che si liberassero da soli, come del resto stava capitando: nel 1954 i francesi avevano perduto sanguinosamente sul campo in una battaglia campale contro le truppe del Generale Giap a Dien Bien Phu.

2015: L’Europa fra competizione, periferia, irrilevanza

Nel 2015 lo scenario è completamente diverso: l’Europa in quanto «centro-oggetto» non esiste più, dopo la caduta del comunismo. Perciò ha senso chiedersi che cos’è oggi l’Europa. Nel momento, unico della sua storia, in cui si presenta come Unione europea, l’Europa è una sezione altamente competitiva della globalizzazione capitalistica – o almeno prova a esserlo, con l’euro –; ma è anche una periferia di un mondo che ha i suoi centri altrove, in Cina e negli USA; è una periferia che si era illusa di essere benestante e tranquilla, un quartiere residenziale di lusso, dove si vive bene. Ma oggi questo quartiere teme di poter diventare una banlieue percorsa da violenza e odio, da sangue e fuoco, da insicurezza e terrore. L’oasi di pace è circondata dalle fiamme, che penetrano in lei attraverso due vie: il terrorismo e le migrazioni. Entrambe determinate, direttamente o indirettamente, dalla guerra civile inter-islamica fra sciiti e sunniti, nella quale l’Europa è coinvolta nella misura in cui è entrata in quel mondo contribuendo (in via a volte subalterna e a volte da protagonista) a distruggere l’ordine Sykes-Picot e in generale cancellando intere statualità: Afghanistan, Siria, Iraq, e anche Libia (l’Egitto è puntellato da un sanguinario regime sostenuto dall’Occidente) per esportarvi la democrazia, per controllarne il petrolio, per espandersi verso Hearthland (l’Afghanistan) sostituendovi la scomparsa URSS, per fermare Isis: le quattro spiegazioni – politica, economica, geostrategica, securitaria – coesistono tra loro, e a esse si deve aggiungere la politica regionale di potenza di Turchia, Arabia e Iran, oltre che la politica imperiale di USA e URSS.

Il mondo del Nord Africa e del Medio e vicino Oriente è in fiamme – e di quelle devastazioni le migrazioni sono una delle conseguenze –; se a ciò si aggiunge il fronte orientale dell’Europa (l’Ucraina) vediamo che l’Europa è circondata e attraversata dal disordine.

L’Europa, a sua volta, è un’apparente unità ma è in realtà un insieme di contraddizioni violentissime. La principale delle quali è l’euro che da elemento di unione, di forza si è rivelato elemento di forza per qualcuno e di debolezza per altri. L’euro è una moneta tenuta in piedi da un’ideologia; un club dentro il quale si può stare solo se si sposano alcune linee dogmatiche dell’ordoliberalismo tedesco. Per il quale l’arcano dell’economia non è il capitale ma la massa monetaria. Infatti in Italia già nel 1981 nel disinteresse generale, come primo tributo pagato alla rivoluzione ordoliberista, il ministero del Tesoro divorziò dalla Banca d’Italia. La politica perdeva il potere di incidere sulla massa monetaria che secondo il primo dogma ordoliberale è intoccabile: la custodiscono i sacerdoti dell’economia e non i laici, i politici; il secondo dogma è che i prezzi devono manifestare la loro dinamica senza interferenze da parte della politica; il terzo dogma è che l’economia di mercato deve essere costituzionalizzata; il quarto è che di conseguenza lo Stato non deve creare moneta generando debito pubblico, ma può solo lasciare che la ricchezza venga prodotta dal capitalismo e poi tassare i cittadini. Un altro dogma altrettanto fondamentale è la great moderation: i salari devono essere sempre più bassi di quello che potrebbero essere. Ciò che deve essere promosso non è solo il profitto, ma il reinvestimento del capitale, l’approfondimento del rapporto di produzione capitalistico attraverso un processo di innovazione. Il che vuol dire che si producono beni tecnologicamente avanzati per esportarli. L’industria lavora solo marginalmente per il mercato interno, e il potere d’acquisto delle masse (la domanda) non interessa questa economia dell’offerta: anzi si impongono le parole d’ordine di rigore, sobrietà, austerità, duro lavoro e assoluta assenza di conflitto sociale.

Questa teoria economica – che si basa su una visione politica organicistica, che ignora le contraddizioni del capitalismo – è stata estesa all’Europa, dalla natia Germania, in una fase in cui il capitale aveva e ha bisogno di una quantità di manodopera molto inferiore rispetto al passato. Il lavoro lo crea il mercato e non la politica; semmai, per sostenere la domanda e a fini di pubblica sicurezza si può concedere il salario di cittadinanza. Questo ordoliberalismo, che è anche un neomercantilismo, è nato in Germania alla fine degli anni Trenta e nei primi Quaranta, quando alcuni economisti (parecchi erano cattolici moderati) hanno elaborato un pensiero in grado di fare uscire la loro patria dalla catastrofica avventura del nazismo, e di contenere al tempo stesso lo statalismo sovietico. Ne è nato un capitalismo ben temperato in cui il mercato è pensato come naturale, come i diritti umani, e quindi va messo in condizione di creare ricchezza senza creare disordine. È stato Ludwig Erhard il primo esponente della scuola ordoliberale che abbia fatto politica (il teorico è soprattutto Röpke), come ministro dell’Economia di Adenauer e in seguito secondo Cancelliere. L’ordoliberalismo, o economia sociale di mercato, o capitalismo renano, è un modello che la Germania ha perseguito dal 1949, perché è in linea con la sua storia, con la sua amministrazione, con la struttura della sua economia e della sua finanza (vi ha derogato, tuttavia, quando le è stato utile, ad esempio al momento della sua riunificazione, quando ha deliberatamente creato una grande inflazione interna esportata in Europa attraverso il marco).

Ora, l’ordoliberalismo, che è la matrice dell’euro, ha creato un’Europa disunita nella quale c’è un nucleo forte, la Germania, e la cerchia che la circonda – l’Austria, l’Olanda, la Repubblica Ceca, i Paesi baltici, nonché i Balcani come fornitori di manodopera – e una serie di Paesi più deboli, fra cui l’Italia, che a quel modello non riescono ad adeguarsi, o vi riescono solo a prezzo di pesanti sacrifici che distruggono le basi sociali della democrazia. A parte il fatto che l’intera area dell’euro soffre di uno sviluppo asfittico e rallentato per il dogmatismo monetarista e per la disciplina di bilancio che la Germania impone alla Commissione, la pseudo-fortezza Europa è quindi percorsa da una contraddizione geopolitica e geoeconomica interna fra Paesi creditori e Paesi debitori che indebolisce molto il vincolo unitario europeo. Vincolo che si allenta ancora di più nelle diverse politiche di fronteggiamento dell’immigrazione, che determinano la formazione di frontiere interne (cioè spingono verso il superamento di Schengen) e soprattutto producono la nascita, nei diversi Stati europei, di sentimenti xenofobi e antidemocratici – più diffusi e virulenti nelle fasce più deboli della popolazione, più esposte all’insicurezza economica e sociale –.

Euro e guerra – le contraddizioni del capitalismo e l’assedio esterno e interno del terrorismo –, rendono l’Europa debole e disunita: i diversi Stati cercano sempre più chiaramente di cavarsela ciascuno da solo; non c’è una issue della politica internazionale su cui l’Europa presenti efficacemente una visione unitaria. La verità è che l’Europa unita aveva senso quando era un soft-power, quando era sufficiente a darle una mission il suo prestigio civile e sociale; ma oggi con il mondo in fiamme, e con le fiamme in casa, l’Europa unita sta scomparendo.

L’Europa del 2015 è concentrica? Sì: esiste un centro che è la Germania e intorno ci sono dei satelliti, più o meno volonterosi e più o meno riluttanti, e poi ci sono ancora più esterni gli Stati deboli che faticano a rientrare nel modello dominante. Esistono insomma una concentrazione di poteri e denari tedeschi, una gerarchizzazione dei Paesi periferici, e una nascita di virulenti movimenti nazionalistici, e di virulenti populismi, come risposta all’immiserimento della politica europea. Concentrica dunque, oggi vuole dire un’Europa a cerchi concentrici al proprio interno mentre, riguardo all’esterno, è il centro di una grande cultura e al contempo di un nulla politico. L’Europa certo è ancora la custode di gran parte di ciò che d’importante è stato prodotto a livello intellettuale ed espressivo per almeno venticinque secoli. È custode di un patrimonio. Ma, appunto, ha più o meno il peso di un custode rapportato ai padroni di casa.

Oggi, l’Europa concentrica dovrebbe porsi come compito politico fondamentale di non essere più concentrica al proprio interno, ovvero di operare nel senso dell’uguaglianza. Ciò di solito viene definito come «ricerca di più Europa politica». Questa espressione, tuttavia, non può significare un nuovo patto costituente della Ue, peraltro già bocciato e abbandonato nel 2009, ma neppure la per ora irrealistica formazione di un «super-Stato europeo» o anche solo di una Federazione, che implichi un’autentica cessione di sovranità, un bilancio unico, una tassazione unica, un mercato del lavoro retto da una legislazione unificata, una politica estera e di sicurezza unitaria. Sono sogni, questi: e infatti, il sogno federalista delle generazioni precedenti alla nostra è sfumato (ucciso nel 1954 con la bocciatura francese della CED); l’Europa è cresciuta, in questi decenni, nel segno del funzionalismo, col quale è giunta fino all’euro e qui si ferma e rischia anzi di arretrare. Quello che realisticamente (ma in realtà con molto ottimismo) si può ipotizzare è una maggiore attenzione alle conseguenze politiche dell’impostazione macroeconomica che essa ha dato alla propria moneta: insomma, una maggiore flessibilità dei parametri economici. Ma non basta. Le contraddizioni strutturali dell’euro e della geopolitica esigono di più. Ma questo «di più» è difficile da pensare e da individuare nella prassi: emerge piuttosto il «di meno», l’erosione della Ue.

L’Europa, con la NATO, avanza verso Est: ma queste conquiste oggi ci appaiono meno importanti delle profonde fratture che attraversano quella che avrebbe potuto essere l’Unione europea, e pare invece solo la disunione europea. C’è davanti a noi, insomma, un compito immane: rifare l’Europa. E non è detto che per fare questo passo avanti non si debba tentare un passo indietro, e provare a rifare il mattone dell’Europa, lo Stato, secondo democrazia e giustizia.

Relazione tenuta al convegno Europa concentrica. Soggetti, città, istituzioni fra processi federativi e integrazione politica dal XVIII al XXI secolo − Dipartimento di Scienze Politiche, Università La Sapienza, Roma −, 3 giugno 2015.

 

 

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