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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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I dilemmi di un’autonomia difficile: la cultura tra economia e politica

Intervista con Giacomo Bottos, Lorenzo Mesini, Francesco Rustichelli

 

Con questa intervista vorremmo approfondire la questione dei nessi tra cultura, politica ed economia. Iniziamo col constatare come il nesso tra cultura e politica appaia oggi in crisi, mentre da più parti si pone l’accento sul legame tra cultura e mondo economico. Un rapporto che si declina sia in termini di ‘utilità’ della cultura – e quindi di giustificazione dell’investimento in cultura – sia di una concezione della cultura intesa come attività economica in senso stretto. Essa deve rivendicare una propria autonomia? Al tempo stesso sembra necessario che essa entri in relazione con queste sfere. Quali sono le forme specifiche in cui questo può avvenire?

Dobbiamo guardarci dal rischio di reificare la cultura, anche solo definendola ‘cultura’ come se fosse un ambito a sé stante, completamente autonomo e composto da specifiche pratiche. In realtà la cultura è il modo con cui l’uomo sta nel mondo. Vi sono dunque infinite gamme di cultura, dalla costruzione di utensili primitivi fino alla creazione della Cappella Sistina. Quando diciamo cultura oggi, però, intendiamo di solito forme di elaborazione particolarmente sofisticate, non immediatamente volte all’utilità o, se volte all’utilità, finalizzate anche a trascendere l’utilità stessa. Attenendoci a questa definizione ristretta di cultura ci troviamo di fronte a forme di elaborazione, costruzione, rappresentazione e narrazione che si confrontano con canoni prefissati – adeguandosi ad essi o superandoli – compiendo una serie di operazioni che trascendono l’orizzonte immediato.

Partendo da questa riflessione comprendiamo facilmente che nella produzione di cultura in una qualche dimensione – prima, dopo, davanti, dentro – deve darsi anche una produzione di utilità. L’utilità può essere intrinseca all’oggetto: un tempio, ad esempio, è allo stesso tempo utile e bello. Può essere precedente all’oggetto, come nel caso di un soggetto – pubblico o privato – che abbia accumulato ricchezza e che desideri, per mecenatismo o ostentazione di potenza, che da questo accumulo di ricchezza discenda un segno che lo renda memorabile, un segno monumentale. Questa è la via tradizionalmente più battuta per declinare il rapporto fra l’utile e la riflessione culturale come la abbiamo definita. Possiamo invece avere l’immediata mercificazione della cultura, cioè il mercato culturale. È la situazione in cui ci troviamo oggi, nella quale l’utile viene fatto crescere all’interno dell’oggetto culturale, ad esempio dai mercanti che investono su un artista o su un uomo di cultura. Questo investimento si basa sulla conoscenza delle tecniche grazie alle quali determinati prodotti culturali possono diventare essi stessi fonte di ulteriore e superiore utilità attraverso l’immissione in un circuito che viene definito mercato dell’arte o mercato della cultura. Tra gli attori del mercato culturale non vi sono solo i mercanti d’arte, ma, ad esempio, anche gli editori, che non sono mecenati ma soggetti che impiegano capitale di rischio. In questo caso la produzione culturale viene concepita come un ambito dell’esistenza che merita che su di esso venga investito capitale a rischio nella ragionevole ipotesi che quel capitale venga remunerato.

La cultura non è mai stata completamente libera dalla dimensione economica, così come non è mai stata completamente libera dalla dimensione politica. Al di là dello stretto legame che esiste tra economia e politica, la cultura è stata, infatti, anche la modalità attraverso la quale si esprimeva l’autocoscienza di un ordine sociale e l’autorappresentazione di una comunità politica che avesse accumulato sufficiente ricchezza per permettersi una costruzione culturale. Un elemento economico e un elemento politico ci sono sempre stati, anche se oggi l’elemento politico è messo in ombra. Fino a qualche tempo fa avremmo potuto dire che la cultura era un ambito di confronto fra diverse concezioni politiche: basti pensare al confronto fra il realismo socialista e l’avanguardismo capitalista. Quest’ultimo era deliberatamente supportato – sostanzialmente dagli Stati Uniti – per dimostrare come in Occidente fosse possibile la libera espressione della soggettività artistica. L’Oriente, invece, voleva dimostrare che l’espressione della soggettività artistica poteva essere comunicata e compresa da tutti senza rappresentare una dimensione esoterica o indecifrabile o tutta rivolta all’interno, e che al tempo stesso poteva essere sottratta al mercato. Oggi è difficile vedere un investimento della politica nella cosiddetta produzione culturale. La politica si occupa di cultura perché la gestisce, trovandola già pronta di fronte a sé, come un bene economico.

È lo spessore storico della produzione culturale accumulata nei secoli ad essere stato prima di tutto economicizzato, virato verso l’utilità e reificato attraverso varie tecniche. La potenza espansiva del neoliberismo consiste, per l’appunto, nel fatto che la dimensione economica si impadronisce di ogni altro ambito dell’umana esistenza e nessun aspetto dell’agire umano è in linea di principio escluso, sottratto al mercato. Se è vero che l’elemento dell’utilità era presente da sempre nella dimensione artistico-culturale, che era in ogni caso inserita in una realtà politica ed economica, la cultura aveva anche una propria autonomia, e perfino una intrinseca capcità critica. Certo, si confrontava con le reali condizioni socio-economiche e politiche, ma anche con canoni e con tradizioni sue proprie, e aveva una limitata, ma reale, libertà espressiva. Quello a cui oggi invece assistiamo è la perdita dell’autonomia. L’arte appare da un lato iper-autonoma, nel senso che in linea di principio può e molto spesso vuole essere l’espressione di un’emozione che l’artista desidera comunicare al pubblico attraverso vie solitamente estranee alla tradizione formale. Al tempo stesso il prodotto artistico di nuova creazione è pensato da subito, sempre e completamente – anche attraverso ingenti investimenti economici – per essere introdotto nel sistema del mercato. Per quanto riguarda invece i prodotti culturali ‘del passato’ questi vengono percepiti in epoca neoliberista come beni fra gli altri, che devono essere oggetto di conservazione e di valorizzazione. Conservazione significa impedire il deperimento del bene. Valorizzazione invece significa l’estrazione di un profitto dal bene stesso. L’intera produzione del passato viene inserita dentro questo schema di conservazione e valorizzazione di carattere economico. Si parla di ‘giacimenti culturali’ come se si trattasse di giacimenti petroliferi. Su questo la politica vuole dire la sua: se esistono i giacimenti culturali vuole gestirli e vuole scegliere chi li gestisce. Su questo presupposto si innesca poi un conflitto fra la politica statalista e centralistica da una parte e la politica che richiede che vi sia una gestione dal basso, nei territori, dall’altra. Entrambe le linee, però, prevedono la piena e totale sottomissione del bene culturale – evidente già dal fatto stesso che viene chiamato ‘bene’ – alla logica economica. Certo, in linea di principio più il controllo sui beni culturali è centralizzato più permane la lontana probabilità che la dimensione della conservazione faccia premio sulla dimensione della valorizzazione, mentre è evidente che più il livello di controllo è vicino al bene più ci si aspetterà che quel bene produca reddito, profitto.

Le cose sono abbastanza lineari per quanto riguarda i beni culturali di carattere artistico-monumentale. La questione è più sottile e complicata per quanto riguarda l’attività culturale di carattere intellettuale: la ricerca, le attività che producono risultati intangibili e che non hanno ricaduta pratica immediata. Le tante istituzioni culturali del nostro Paese vivono oggi una fase di passaggio. Si esce da un periodo in cui esse erano sostenute, per quanto in misura limitata, dallo Stato, dalle regioni e dai comuni e si va verso una situazione in cui l’assunto di base è che ‘nessun pasto è gratis’: nessuna istituzione culturale può esistere se non è capace di produrre da sé almeno una parte del proprio fabbisogno. Di conseguenza le istituzioni culturali si mettono sul mercato: austeri professori si danno alla divulgazione, sperando per questa via di poter incrociare l’interesse di qualche operatore economico desideroso di aiutare queste istituzioni. Il presupposto di base è che – escluse pochissime realtà che godono di finanziamenti ad hoc per legge – la stragrande maggioranza del mondo culturale deve ‘guadagnarsi’ i finanziamenti necessari alla propria attività. Da questo deriva l’enorme impiego di tempo e di fatica che queste istituzioni devono dedicare a trovare i modi attraverso i quali accedere a finanziamenti che rimangono sempre precari. Solitamente, infatti, si lavora su bandi e progetti: in questi casi il finanziamento è a termine e, inoltre, non può essere adoperato per il sostentamento dell’istituzione ma per l’espletamento del progetto. La vita delle istituzioni culturali diventa così molto più instabile e insicura, molto più competitiva. Ad esempio vi è un continuo sforzo per rientrare nelle tabelle ministeriali. Queste sono a loro volta delle forme di valutazione, in quanto il neoliberismo teorizza e introduce la valutazione in ogni ambito. Si tratta di forme di valutazione transitoria, che ogni tre anni vanno riviste. Di conseguenza la serena tranquillità di potere svolgere la propria funzione non c’è più; c’è invece la angosciosa percezione della contingenza e della precarietà della propria esistenza, e la consapevolezza della necessità che il lavoro culturale sia anche economicamente profittevole.

Oggi si insiste molto sulla rilevanza della conoscenza e della ricerca come strumenti per generare sviluppo economico sia attraverso processi di trasferimento tecnologico sia attraverso la capacità di produrre innovazione in grado di collocare i sistemi economici e produttivi in posizioni elevate nella catena del valore. Questo è vero per la cultura in generale? E se si, va perseguito come obiettivo in quanto tale o considerato un’esternalità positiva, uno spillover che non deve essere però il fine principale?

Certamente finché si ragiona in termini di catena del valore, e non ci si può sottrarre ad essa, conviene tentare di collocarsi nelle posizioni elevate del ranking. Questo è possibile quando si è detentori di beni culturali molto ricercati. Le grandi città d’arte, ad esempio, si sono trasformate in macchine per il turismo: pensiamo a Venezia, a Roma o a Firenze. Naturalmente ciò snatura profondamente la città, il suo impianto urbano, la sua vivibilità, e la percezione stessa delle opere d’arte in cui essa si articola. Queste opere non furono pensate per essere oggetto di turismo, ma per essere fruite dalla vita quotidiana della città. Anche quando furono realizzate per ragioni di magnificenza furono pensate per essere vissute, godute e non – più o meno frettolosamente – visitate. Il business turistico è sostanzialmente inarrestabile, è troppo radicato e intenso perché si possa pensare di bloccarlo – è difficile farlo persino nelle sue manifestazioni più discutibili come la presenza delle grandi navi nei canali di Venezia –. Dal momento in cui la produzione della cultura viene definita “bene culturale” siamo entrati nella logica della reificazione. Dentro quella logica tutto succede di conseguenza: si potrà tentare di essere più o meno di buon gusto, si potrà tentare di essere più o meno riguardosi verso il bene, ma quell’opera è trasformata in una cosa, o peggio: in un capitale.

Per quanto riguarda il legame tra cultura e politica, come si struttura questa relazione? Con quali gradi di autonomia o non autonomia? Nel nostro Paese quali sono state le linee generali e i punti di svolta di questo rapporto dall’Italia preunitaria passando per il Novecento e la riflessione di figure chiave come Croce e Gentile o Gramsci e Togliatti e, per quanto riguarda il mondo cattolico, Dossetti o Moro?

La cultura è ‘dentro’, non è fuori. Questo la vincola, ma al tempo stesso le dà una capacità critica: non si può criticare dal di fuori. La cultura può essere una cultura che chiama all’azione, una cultura propagandistica, una cultura di intervento, una cultura di impegno, o può essere una cultura di riflessione e di critica. Una cosa è certa: solo oggi stiamo facendo esperienza di una politica senza cultura. L’elemento caratteristico del nostro tempo, degli ultimi cinquant’anni, è la fine del rapporto – che non si riduca ad un rapporto di strumentalizzazione economica – tra politica e cultura. Gli intellettuali non hanno più alcun peso. In passato vi sono stati intellettuali critici e intellettuali organici, o anche asserviti. Oggi non sono più asserviti perché non li vuole nessuno, nessuno ne sente il bisogno. Dopotutto ad asservire un intellettuale gli si fa in un certo senso un complimento, gli si concede un rilievo, gli si riconosce un valore. Oggi non succede nemmeno quello. In modi diversi le vicende politiche del nostro Paese sono state tutte attraversate dalla cultura nelle sue diverse accezioni – la propaganda, l’impegno, la critica –: nel Risorgimento, nell’Italia liberale e perfino nell’Italia fascista è stato così. Non è vero quanto diceva Bobbio, che fascismo e cultura non si siano mai incontrati: si sono incontrati eccome – con grandi equivoci da una parte e dall’altra –, l’EUR, ad esempio, è un episodio di cultura fascista: pur trattandosi di razionalismo architettonico è difficile separarlo dal committente e dalla sua idea di cultura e di città. L’Italia democratico-repubblicana è un’Italia che è stata fatta anche e profondamente dalla cultura: la stessa Costituzione è un prodotto culturale di altissimo profilo. Nessuno pensava che la politica potesse prescindere da un robustissimo supporto culturale e questo non solo a sinistra. Persino in un mondo un po’ più pragmatico come quello democristiano esistevano dei frame intellettuali ed esisteva l’esigenza di dare una giustificazione culturale all’agire. I comunisti hanno proseguito la tradizione filosofica italiana mentre i cattolici hanno quasi inventato la tradizione sociologica italiana. Nessuno dei due curava quella economica, che è stata gestita dalle élites borghesi. La ricchezza di produzioni culturali italiane negli anni Cinquanta e Sessanta e nella prima metà dei Settanta era quasi esagerata nella sua abbondanza. Fino alla morte di Pasolini e Montale ogni anno usciva un prodotto di altissimo rilievo: una raccolta di poesia di Montale, un libro di Moravia, uno di Gadda, un film di Visconti, uno di Fellini. La proposta era ricchissima e la politica poteva essere derisa o poteva a sua volta deridere (il “culturame”), ma non poteva far finta che questo Paese e questa società non fossero capaci di una tale autoconsapevolezza. C’è voluto il neoliberismo per smorzare, attutire, livellare. Il neoliberismo è una tecnica specifica. La televisione e poi i social media hanno avuto un ruolo nel portare la società e la politica a convergere in un eterno presente di piccole rivendicazioni, di gossip, di ripicche e di odi, e nel far scomparire il disegno, la progettualità, l’idea. Naturalmente il disegno e le idee ci sono, ma sono in mano ai poteri economici, che hanno idee piuttosto precise sul tipo di società che vogliono. Ma queste idee e questi progetti non fanno parte di una cultura comunicata e condivisa, o discussa, e quindi pubblica, e anzi cercano di schermarsi il più possibile. Idee paradossalmente invisibili, quindi. Ed è rispetto a queste idee/non idee che l’assenza di un’idea pubblica della società e della politica appare ancora più angosciosa. È qui che interviene il ruolo degli istituti culturali e non è un caso che agli istituti culturali si faccia sostanzialmente guerra o li si spinga alla ricerca di un po’ di nutrimento, di pane quotidiano.

Molto di quello che sto dicendo sarebbe smentito dai portatori della cultura mainstream, i quali direbbero che il neoliberismo non c’entra nulla, che, anzi, valorizza la cultura e immagina una società della conoscenza. Il neoliberismo vorrebbe dunque sempre più laureati, sempre più musei, vorrebbe che fossero sempre più frequentati, vorrebbe sempre più turismo e sempre più orientato verso le grandi città d’arte. Vorrebbe una società colta, perché dalla cultura si spreme profitto. È vero che a parole il neoliberismo vuole questo, ma è anche vero che questa cultura è definibile tale solo in misura molto limitata. Si tratta più che altro di un insieme di saperi tecnici, o di curiosità dopolavoristiche. La cultura come spirito critico non è merce particolarmente gradita, tranne che in determinate circostanze nelle quali possa fungere da fiore all’occhiello. Ad esempio Harvard University Press pubblica Impero di Toni Negri, un’opera che lascia il mondo esattamente com’è, ma consente di dire che HUP non è biecamente al servizio dell’ipercapitalismo. Ma chi ha meno risorse e meno potere di HUP non pensa nemmeno lontanamente a pubblicare libri sovversivi – posto che quello sia un libro sovversivo –. La società della conoscenza non è una società in cui la cultura svolga un ruolo critico: essa svolge invece un ruolo di mantenimento e propulsione dello status quo. Quest’ultimo è certamente una continua rivoluzione di se stesso, ma una rivoluzione che sarà sempre solo una evoluzione – un miglioramento, un perfezionamento quando va bene –. Paradossalmente elementi di cultura critica oggi vengono più frequentemente dalla destra che non dalla sinistra, perché è la destra che si sente tagliata fuori dall’universo neoliberista e liberal, mentre la sinistra si è completamente trasformata dall’essere critica all’essere composta da partiti sostanzialmente liberal,  architrave del mainstream. A tale mainstream la cultura contribuisce precisamente distogliendo l’attenzione dai nuclei decisivi della nostra esistenza e inventandosi continuamente ambiti sui quali applicarsi e sui quali far convergere l’attenzione della società, ambiti che tutto possono essere ma non devono avere a che fare con la critica dell’economia politica. Noi vediamo l’invenzione continua di nuovi miti mainstream. Contro di loro la cultura aggressiva della destra svolge, ma solo molto limitatamente, un ruolo critico perché non aspira ad avere una reale capacità di critica strutturale del presente, ma vuole semplicemente contrapporre ad alcuni epifenomeni altri epifenomeni. Una critica da sinistra delle mitologie liberal è quasi impensabile e di fatto non viene sviluppata. Sarebbe invece opportuno che questo accadesse, se non altro per non lasciare lo spazio della critica tutto alla destra e alla sua superficialità.

Da questa ricognizione storica emerge l’importanza di approfondire il del ruolo degli intellettuali e di una costante azione di pensiero e di immaginazione politica, come è cambiata in prospettiva storica questa figura? Come si produce oggi l’analisi politica? La politica con quali strumenti analizza la realtà? Come ha influito su questi meccanismi la grande transizione neoliberale degli anni Settanta?

Come la politica analizzi la realtà è un mistero anche per me. Pur avendo avuto un ruolo politico per cinque anni, non ho mai sentito un’analisi politica. Si va dalla lettura dei libri di qualche giornalista, o dei giornali, degli articoli di fondo di qualche editorialista, ai sondaggi. Analisi di livello superiore, ‘analisi di fase’ come si diceva una volta, non le ho mai né viste né sentite. La politica non analizza la realtà, ci sta dentro giorno per giorno, ora per ora. Combatte solo battaglie tattiche, ignorando le battaglie strategiche. Ovviamente le grandi svolte strategiche avvengono non per motivi naturali, ma per decisioni di rilievo politico prese in ambito non politico, in ambiti economici oligarchici. Un’altra fonte di analisi politica, tipica in assenza dei partiti, sono i think tank, cluster di specialisti, in alcuni casi molto validi, che hanno il limite di ospitare più politologi, sociologi ed economisti che storici e filosofi. Sono un’entità esterna, anche se talvolta sono stati promossi dalla politica, agiscono in maniera autonoma, stando sul mercato e facendo indagini. La politica se ne serve chiedendo un parere, commissionando una ricerca, convocando studiosi per farsi spiegare certe dinamiche. Tutto questo, però, è sempre molto episodico. Il cervello pensante è fuori dalla politica, e questa se ne serve come un produttore di informazioni istantanee, di competenze tecniche, continuando a percepire se stessa come assolutamente autonoma rispetto alla cultura.

Questo in un universo provinciale come quello italiano. Ma la politica ha anche saputo pensare in grande e agire in grande: la svolta neoliberista è stata una decisione politica, supportata da analisi strategiche e sociologiche, oltre che da immensi interessi economici; ne è risultato un mondo economicizzato, ma la decisione è stata della politica, sulla base di precise analisi culturali (la Trilaterale  i suoi Rapporti).

La filosofia ‘non nasce nel deserto’, è intimamente legata alla ‘città’, e in particolare lo è la filosofia politica, questo rapporto cruciale, e storicamente ricco di complessità, come si articola oggi? Come agisce la filosofia sul discorso pubblico? È ancora possibile decifrare la politica, e quindi agire sulla politica, attraverso la filosofia? Qual è la responsabilità, il compito delle classi dirigenti – non solo dei ceti intellettuali o politici –, faccio riferimento al suo testo I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità, nel tenere insieme il triangolo cultura-politica-economia? E in particolare che ruolo hanno giocato le classi dirigenti nell’Italia degli ultimi vent’anni?

La filosofia è a sua volta attraversata da gravissime contraddizioni: non esiste un sapere filosofico compatto, certo di sé e dotato di sicurezza e autonomia. Gli infiniti rivoli lungo i quali – anche giustamente – si è dispersa la ricerca filosofica dimostrano una intrinseca debolezza; in ogni caso, la filosofia politica fa molta fatica a misurarsi con la politica. Questo a meno che non si parli di filosofia politica normativa: in quel caso tutto è risolto a priori poiché non ci si cura delle condizioni di possibilità delle realizzazione dei suoi postulati, limitandosi a spiegare qual è l’ottima società. La filosofia da sola non produce pensiero critico. Perché questo esista e non si limiti ad essere un’autocompiaciuta distanza dalle cose deve mettere insieme coordinate filosofiche, saperi tecnici e saperi economici. Non si può essere critici semplicemente essendo “filosofi”: la decostruzione linguistica non produce un impatto critico reale e anzi il pensiero critico deve essere un pensiero con armatura filosofica e con sostanza economico-politologica. Certo, rispetto all’economia e alla scienza politica il pensiero critico con la sua armatura filosofica è capace di mettere in forma, di mettere in prospettiva cronologica, di non assumere i dati dei saperi economici e politologici come dati oggettivi; però li deve maneggiare continuamente e non può fingere di essere estraneo ad essi. La filosofia è anch’essa dentro, non fuori. Questo che chiamiamo pensiero critico è un pensiero che non ha grandi spazi e non ha molti cultori. Soprattutto dovrebbe essere capace di un’operazione gramsciana, cioè di individuare qualche cosa che ha a che fare con la vita del popolo. Dovrebbe essere capace di internità rispetto alla società e al tempo stesso dovrebbe essere capace di vedere la società dal di fuori – dentro/fuori, quindi – e dovrebbe essere capace di individuare le forze, se vi sono, che sono interessate alla mutazione dei rapporti di potere dentro alle nostre società, e individuarle credibilmente facendosi capire. Un lavoro gigantesco che non è nemmeno cominciato: nessuno fa un investimento di così lungo periodo, la politica si gioca tutta sul quotidiano.

Da qui si arriva alle classi dirigenti che non sono selezionate, se non attraverso la chiave dell’obbedienza, della lealtà. La politica non pensa di dover possedere in prima persona le competenze, pensa sempre di poterle convocare, dandole in outsourcing. I ceti politici sono ceti di ambiziose cordate, con un capo cordata che chiede essenzialmente obbedienza. Al di fuori di questo in alcune realtà – il Partito Democratico e la Lega – e in certi territori vi sono dei ceti dirigenti che nascono dall’amministrazione locale, una buona scuola che, però, non esaurisce quella che dovrebbe essere la formazione di un uomo politico. I giovani da questo punto di vista non sono diversi dagli anziani: sono mossi da grandi ambizioni, ma si tratta di ambizioni personali, da soddisfare nel breve periodo e più rapidamente possibile. Non c’è l’ambizione di fare grande politica, di mettere le mani negli ingranaggi della Storia. Il neoliberismo non è passato invano, ha creato un individualismo competitivo in ogni ambito dell’esistenza, e anche nella politica.

Sono ben consapevole del fatto che sempre la politica è stata il teatro della lotta fra le ambizioni – ci mancherebbe altro –, si tratta però di capire di quali ambizioni parliamo e che rango abbiano. La lotta fra Cesare e Pompeo era la lotta fra l’ambizione di essere il padrone del mondo. Oggi non c’è bisogno di avere ambizioni così sfrenate, ma una certa ambizione di alto profilo sarebbe necessaria. Ma se la politica non ricerca ambizioni di alto profilo, sarà una politica di basso profilo, come è. Oggi, esaurita la capacità educativa dello Stato, della Chiesa, della Scuola, dei partiti, delle associazioni economiche – capacità educative che un tempo producevano la società e i ceti dirigenti della società – a buoi scappati, molto spesso vi è il tentativo di inventare scuole di politica o altri esperimenti, che salvo rare occasioni hanno una durata molto breve. Questo avviene perché manca o la qualità dei docenti o quella dei discenti, che cominciano presto a chiedersi in che misura le analisi che vengono loro proposte servano per fare carriera. Siamo quindi di fronte a una politica di basso profilo, lasciata in mano a chi è più abile a giocarsela nel quotidiano. I politici devono saper giocare anche nel quotidiano – altrimenti vengono travolti, o farebbero i filosofi – ma al tempo stesso devono essere capaci di guardare lontano, di guardare e di capire il mondo dentro al quale si muovono e non solo di correre ai ripari. La politica a furia di correre ai ripari, i ripari non li trova più, e non li costruisce; per mettere gli argini al grande fiume della fortuna servono degli ingegneri, non si può improvvisare.

 

Pubblicata in «Pandora», n.8/9 (2019), pp. 42-48

A sinistra: da dove ripartire?

Intervista con Virgilio Carrara Sutour

Professor Galli, parlando della distanza della sinistra e del centro-sinistra dall’elettorato che vorrebbero rappresentare, del loro eterno dividersi e della conseguente incapacità a reagire a forze che si accaparrano elementi del loro discorso, da dove possiamo partire per ricercare le cause di questa condizione?

Il fatto di parlare, allo stesso titolo, di ‘sinistra’ e di ‘centro-sinistra’ costituisce in sé un indice di indeterminatezza su ciò che oggi la sinistra è.

Con ogni evidenza, il centro-sinistra si è posto come architrave dell’attuale sistema socio-politico ed economico. Ciò ha funzionato finché il sistema ha avuto un minimo di capacità produttiva, di ordine e benessere. Quando il sistema, nel 2008, è andato in crisi (benché le ragioni della crisi siano insite nella sua stessa natura), la politica italiana è stata sospesa: abbiamo avuto governi tecnici sorretti in Parlamento quasi da tutta l’Assemblea. In seguito, abbiamo avuto un centrosinistra – la fase renziana – che ha promosso una serie di riforme funzionali a un assetto tutt’altro che ‘di sinistra’.

Ossia?

Allo scopo di rendere il sistema sociale ed economico più funzionante, conservandone tutte le contraddizioni interne, alcune riforme sono state fatte (il ‘Jobs Act’, la ‘Buona Scuola’); altre sono fallite: la Costituzione. Di fatto, il centro-sinistra non ha saputo – questo è il punto – individuare e, men che mai, correggere le contraddizioni del sistema, che produce più disagio che benessere, più povertà che ricchezza. Inoltre, quando produce ricchezza, non la distribuisce equamente. Il sistema genera disuguaglianza crescente e priva i cittadini, soprattutto i giovani, di un ragionevole futuro.

Tutto questo non è stato approfondito e compreso dal centro-sinistra?

Non lo ha capito o non l’ha voluto capire. Alla prima occasione, non appena i cittadini hanno avuto l’opportunità di esprimersi con il voto, la loro scelta è andata contro l’architrave politico del sistema, cioè il PD, e contro il suo contraltare di destra, cioè il partito di Berlusconi. La sinistra – è ora di porre termine a questa confusione – non è il centro-sinistra.

Come può essere definita?

Come una forza di critica e di cambiamento, in senso democratico e progressista. Per ‘critica’ intendo una forza culturalmente dotata, capace di analizzare la società cogliendone il lato conflittuale, in vista o di un rovesciamento degli attuali rapporti di forza o, in ogni caso, di riforme strutturali dirette a imbrigliare la potenza del capitale, non a lasciarla correre indisturbata.

In Italia, una sinistra di questo tipo, di fatto, non c’è. Non c’è un Corbyn, per intenderci. La ragione principale è che, al di là del PD che non è di sinistra, la sinistra è poca cosa: culturalmente irrilevante e divisa al proprio interno – come dimostrano le tragicomiche vicende di LEU.

In ogni caso, tanto quando è architrave del sistema, tanto quando ne vuole essere critica, ovvero sia quando è centro-sinistra sia quando è sinistra, le forze di cui parliamo hanno assorbito fattori, elementi, suggestioni e punti di vista del sistema, in misura tale da non essere capaci di farlo funzionare, né di contrastarlo seriamente.

In che cosa si è tradotto, per la sinistra, questo processo di assorbimento?

Pensiamo soltanto che la sinistra ‘alternativa’ è, praticamente, tutta mondialista: su questo punto, che è decisivo, è perfettamente in sintonia con il neoliberismo. Detto altrimenti, la sinistra non ha alcuna consapevolezza dell’esigenza maturata dentro la società italiana – ma non solo qui – di difesa, di tutela rispetto ai fattori più perturbanti del nostro tempo: mercati e migrazioni. Volendo offrire a questo dato uno spessore storico, penso al Karl Polanyi di La grande trasformazione (1944): l’analisi della nascita dei fascismi come domanda delle società di essere tutelate rispetto a una precedente fase di liberismo estremo. In un dato momento, al predominio della funzione privata – che, tra l’altro, ha provocato gravissimi scompensi – le società oppongono la richiesta di un predominio della funzione pubblica, cioè dello Stato.

Naturalmente, con questo non intendo affermare che il fascismo sia stato veramente una tutela dalle dinamiche del capitalismo: ne è stata piuttosto una variante. Né intendo affermare che l’attuale fase politica sia analoga alla nascita dei fascismi europei. Le forze politiche che, avendola intercettata, stanno approfittando di questa fase, sono forze di destra, ma non sono fasciste, non avendo del fascismo alcuni assunti: la violenza politica come metodo, la guerra come finalità. Soprattutto, non hanno del fascismo il culto dello ‘Stato potente’.

Però ci sono elementi di violenza molto forti.

Sì, ma non sono elementi di violenza ‘sistematica’: la coincidenza tra politica e violenza, oggi, non è accettata da nessuno. Banalmente detto, chi afferma oggi che l’omicidio politico non sia un omicidio, ma una misura opportuna? Né la guerra è vista come finalità della politica, come invece era per il fascismo.

Una parte di questa violenza, però, è confluita nelle politiche securitarie alle quali si assistiamo in diverse realtà nazionali, compresa la nostra.

Appunto: mentre la fase fascista aveva sia una componente securitaria sia una componente di aggressività tanto interna quanto esterna, oggi invece prevale di gran lunga la semplice richiesta securitaria e solo in parte identitaria. Le società europee stanno chiedendo un ‘alt’ alle dinamiche economiche (che coniugano liberismo e austerità) imposte da Bruxelles e all’immigrazione. Queste sono le due grandi richieste, che però non vanno oltre: non sono prodromiche allo sviluppo di una ‘volontà di potenza’, anzi sono richieste molto piccolo-borghesi che non presentano niente di eroico e aggressivo.

Gli episodi di violenza contro i migranti non generano consenso. Nella peculiarità del caso italiano, ha invece prodotto dissenso, in un’opinione pubblica già esasperata dalla crisi, la palese incapacità dei Governi della XVII legislatura a gestire il flusso migratorio. La rabbia nei confronti dei migranti rappresenta un elemento accessorio rispetto alla gravissima crisi socio-economica che ha colto il Paese e dalla quale l’Italia non si è ripresa, a differenza di altri Stati europei – al di là del fatto che il modello economico contenuto nell’euro è un modello deflattivo, che non consente grandi sviluppi dell’economia.

Questa esigenza passiva di difesa nasce dai ceti più deboli della società, quelli che patiscono di più le logiche dell’euro. La crisi di quelle logiche non è stata ravvisata; oppure, se lo è stato, è stata derisa e negata dal centro-sinistra, ma anche dalla sinistra. Il primo fa parte dell’establishment e ha introiettato un unico ordine (politico, economico e sociale) possibile: quello vigente, che, secondo il principio thatcheriano del TINA (there is no alternative), dovrà risultare buono e giusto per chiunque.

La sinistra in senso proprio, in ogni caso numericamente priva di peso, non ha colto diverse caratteristiche della crisi.

Un esempio di questa miopia?

La sinistra chiede ancora più Europa, senza porsi il problema di ‘quale’ Europa si prospetti: aumentare il peso dell’Europa nel suo attuale assetto istituzionale ed economico porta palesemente ad aggravare la crisi, non a risolverla. Il chiedere, poi, un’apertura incondizionata dell’Italia ai diversi flussi migratori le aliena la stragrande maggioranza dei consensi degli italiani.

Il centro del consenso – lo dimostra la campagna di Salvini, a costo zero – sembra dipendere dalla questione migratoria, che diventa centrale o quantomeno equiparata a quella economica.

Abbiamo una richiesta di protezione su due fronti (economico e migratorio), che identificano fenomeni entrambi strutturali. La sinistra non riesce a mettere ordine in questo mare di problemi, mentre la destra li vede, perché più spregiudicata, più superficiale e più abile, offrendo protezione: tanto sul versante economico (ricordiamo la polemica anti-euro che c’era nella proposta della Lega), quanto su quello delle migrazioni. E gli italiani ci credono.

In tutto questo, dove si colloca il Movimento 5 Stelle?

I 5 Stelle sono un fenomeno che, prima o poi, da qualche parte deve ‘cadere’. Più facilmente – o, diciamo, ‘maggioritariamente’ – cade a destra, benché all’interno del Movimento molti voti e alcune intuizioni (che non vanno al di là delle intuizioni, cioè non diventano sistema di pensiero), un tempo, stessero a sinistra.

È molto probabile che l’offerta di protezione della destra contro il capitalismo e contro i flussi migratori sia, entro certi limiti, efficace nel secondo caso ma, al tempo stesso, che non riesca (o non voglia) fornire adeguata protezione rispetto alle logiche più dure del capitalismo. Non a caso, sotto il profilo economico, la vera richiesta della destra ha a che fare con le pensioni e non, ad esempio, con l’Articolo 18. Se si vuole proteggere la società dalle logiche del capitalismo, si deve rafforzare il potere dei lavoratori: il loro status giuridico, la loro capacità economica, il loro peso nelle lotte sindacali, puntando su un’economia fondata sulla domanda interna e non sull’esportazione. Tutte cose che la Lega non si sogna nemmeno lontanamente di fare. Mentre, probabilmente, è nelle corde della Lega aiutare il proprio elettorato ad andare in pensione presto, cosa che non è di per sé sconvolgente sotto il profilo politico – può esserlo, se mai, sotto quello dei conti.

Esiste il ‘nazionalismo’ leghista?

Una vera politica nazionalistica non costituisce un tratto distintivo della Lega, perché per fare nazionalismo ci vuole cultura: non basta dire che il presepe è più bello dell’albero di Natale, né che gli italiani sono cristiani anziché islamici. Per fare del nazionalismo bisogna essere in linea con la tradizione nazionale, cioè conoscere Dante, la storia italiana, la storia dell’arte… Ed esaltarla, il che – dico io – è in sé negativo, mentre conoscerla sarebbe un bene per tutti.

Sappiamo che, a destra, questa conoscenza non c’è; ma non c’è nemmeno a sinistra. Comunque sia, dissento fermamente da chi afferma che siamo di fronte a un’impennata del nazionalismo. Quale nazionalismo? Quando l’Europa era in preda ai nazionalismi – quelli che determinarono la Prima guerra mondiale – gli intellettuali erano almeno capaci di interpretare la cultura nazionale. Oggi chi lo fa? Siamo davanti a un’impennata di paura, molto più banalmente.

Si può spiegare questa paura con un’unica, grande causa?

La causa prima è l’insicurezza economica: in sostanza, l’individuo ha perduto il controllo sulla propria vita. Questo è il tema di fondo. Ti passa tutto sopra la testa a opera di poteri che non si riescono non solo a porre sotto controllo, ma nemmeno a individuare.

La democrazia è, in primis, retta dall’idea che la politica si trovi sotto il nostro controllo, ovvero che capiamo quello che succede perché siamo noi a farlo. In secondo luogo, la politica democratica è, almeno, trasparenza: anche se il potere è gestito dagli altri, dalle élites, siamo noi a legittimarle e a chiedere conto. L’impotenza davanti a forze non individuabili (che cosa sono i ‘mercati’? Chi sono i ‘migranti’? Da dove arrivano?) e la conseguente percezione di vivere in un contesto fuori controllo generano quel sentimento primordiale che è la paura.

La sinistra e il centro-sinistra hanno fatto di tutto: non per eliminare le cause della paura, ma per dire agli italiani che sono degli stupidi, dei selvaggi e dei barbari, se hanno paura: mi sembra assolutamente folle, anche sotto il semplice profilo del buon esito della propria proposta politica.

Cosa è mancato a quelle proposte?

Bisogna ascoltare le ragioni di chi ha paura, capire che cosa teme allo scopo di eliminarlo, non di opporvi prediche e buoni sentimenti. Parliamo di paure altamente giustificate, soprattutto quelle inerenti alla nostra condizione socio-economica. In una situazione di paura, i cittadini non si sono certo rivolti a Bruxelles per farsi difendere, né all’ONU. Si sono rivolti all’unica realtà istituzionale che conoscono, per la quale votano e che identifica la loro soggettività giuridica pubblica: lo Stato. Da qui nasce l’accusa di ‘sovranismo’: un’accusa sbagliata e concettualmente fallace, perché l’idea che esiste la sovranità popolare (ossia: sono i cittadini che comandano, non i mercati) è contenuta nella Costituzione e quindi non è un ‘ismo’, una tendenza di parte, ma è patrimonio di tutti.

Questi sono discorsi che stanno benissimo a sinistra. Tuttavia, per motivi di compromissione con il potere (il caso del centro-sinistra) o di incapacità culturale (la sinistra), essi non sono stati rilevati. Sono stati, invece, raccolti entusiasticamente dalla destra che vi ha fatto rientrare le sue scarse vedute e i suoi pregiudizi. Per cui la sinistra deve piangere se stessa per quanto sta succedendo in Italia: se Salvini vince le elezioni, non è colpa sua, ma di chi lo lascia vincere, dicendo ai cittadini che sono dei deficienti o dei barbari.

Secondo Lei la sinistra è in grado di rifondare un proprio discorso? Ci sono esempi storici che potrebbe recuperare?

L’Italia uscì dal fascismo attraverso una guerra, scatenata e persa dal fascismo, dentro la quale si è inserita la Resistenza. Poiché nessuno evidentemente auspica tragedie, occorrerà molta pazienza. Tranne che i rappresentanti dell’attuale Governo non commettano errori così gravi da alienarsi il proprio elettorato (quello che sperano in tanti), bisogna ricominciare da capo.

In che modo?

Smettendola di pensare che la sinistra debba avere più amici tra gli imprenditori che non tra i sindacalisti. Facendola finita con l’idea che centro-sinistra e sinistra siano la stessa cosa, e che non ci siano differenze di interessi all’interno della società, perché queste differenze ci sono. È giusto dire a una persona: ‘Non sei titolare di alcuna tutela perché il capitalismo vuole flessibilità’?

La sinistra non è nata per favorire il capitale e le sue ragioni, ma per analizzare la società da un punto di vista specifico, quello del lavoro e per organizzarne gli interessi e i valori. Concettualmente è facilissimo dire a qualcuno: ‘Faremo una legge perché tu possa essere licenziato, perché il capitalismo di oggi funziona così; ma non ti preoccupare, perché il capitalismo funziona tanto bene che, se ti licenzia un’impresa, il giorno dopo un’altra sarà pronta ad assumerti’. Affermare questo è facile, ma criminale: il capitalismo odierno funziona distruggendo il lavoro, non creandolo, perché non ne ha bisogno. E infatti, in ultima analisi, un’ipotesi come il reddito di cittadinanza va nella logica dell’attuale forma di capitalismo, che preferisce dare sussidi piuttosto che creare lavoro (se invece insieme al reddito di cittadinanza verrà creato vero lavoro, tanto meglio: staremo a vedere).

Non dico, allora, di fare la Rivoluzione di ottobre: l’obiettivo è riequilibrare, con un nuovo compromesso, le ragioni del capitale e quelle del lavoro. Niente di sconvolgente, ma certamente un cambio di paradigma. Più beni comuni, più potere al lavoro, più domanda interna, più mano pubblica nell’economia, più investimenti. Per cominciare, si dovranno organizzare gli interessi che si contrappongono naturalmente al capitale, senza inventarseli.

Come farlo, concretamente?

Iniziando a tornare sui luoghi di lavoro. Anziché alle assemblee di Confindustria, si deve andare alle assemblee sindacali.

Un metodo che fa appello a una ritrovata condizione di prossimità?

Assolutamente sì. Prima occorre l’analisi critica, quindi anche distanza: studiare i libri e le ricerche empiriche, a livello intellettuale. A livello di azione politica, poi, è questione di prossimità… Senza, però, entrare nella logica della politica fatta per via telematica, che è perdente. La politica funziona quando le persone si parlano: tutti ne abbiamo bisogno. Ma per parlarsi è necessaria la fiducia verso coloro che si propongono come politici. Temo che la sinistra, intesa anche come persone, oggi abbia perso la fiducia degli italiani.

Potrebbe citare, in proposito, un esempio recente di questo distanziamento?

Nel caso emblematico del crollo del ponte Morandi a Genova, penso che una sinistra (un centro-sinistra, in realtà) che continua orgogliosamente a rivendicare le privatizzazioni manchi di intelligenza politica. Le logiche del neo-liberismo sono state assorbite a tal punto dagli esponenti di questa sinistra, che paiono credere davvero che il privato perseguendo i propri interessi realizzi, attraverso la concorrenza, l’interesse collettivo. Quando cade un ponte costruito con denaro pubblico e dato in gestione a un privato (con i guadagni che ne derivano), la prima cosa da pensare non sarà: ‘Abbiamo fatto bene a fare le privatizzazioni’, bensì: ‘Forse c’è qualcosa di sbagliato nell’affidare un bene pubblico in mano ai privati’.

Dagli anni ’80, i pregiudizi filo-capitalistici hanno sostituito i dogmatismi marxisti. In tempi non così lontani, certe persone giuravano sulle parole di Karl Marx, che forse non avevano nemmeno letto…

Cosa ha significato, per la società italiana, il voto politico del 4 marzo 2018?

Il neoliberismo, assunto dal centro-sinistra a panacea di ogni male, spiana le società, disgregandole. Al momento di andare a votare, queste società si ribellano: si potrà gridare al cielo che sono ‘barbari’, ma intanto gli elettori hanno votato. Se solo penso che le fasce più avanzate del PD hanno come motto ‘discontinuità senza abiure’, e che sono convinte di prendere voti su questa base… In realtà l’unica loro speranza è che l’attuale Governo sia distrutto da qualche cosa: dallo spread, dalla magistratura, da una catastrofe. Certamente l’azione politica delle forze di opposizione non sarà capace di distruggerlo, per quanto Salvini e Di Maio non siano due Napoleoni della politica.

Bisogna tornare a essere, lo ripeto, keynesiani, pensando a un forte impegno della mano pubblica: un impegno di proprietà, di direzione e di controllo. Il capitalismo, da solo, è deleterio: non a caso, l’Italia del dopoguerra si è ripresa con un’economia mista, non solo capitalistica.

Il quadro attuale non fa troppo ben sperare su cambi di marcia in grado di ridefinire le scelte politiche e il voto alle prossime elezioni europee?

Non lo so perché, da qui ad allora, chi governa fa ancora in tempo a commettere errori fatali. Un passaggio fondamentale sarà capire che cosa succede davvero una volta varato il DEF, quando la manovra economica prenderà corpo. Anche qui è davvero penoso vedere che l’opposizione consiste nell’applaudire lo spread, o nel rimanere delusi quando questo non esplode, come invece gli economisti mainstream avevano profetizzato.

Il Governo si sta giocando tutto sul ‘Decreto sicurezza’ e sulla manovra economica. Se non ci sono fatti rovinosi e se il centro-sinistra non tira fuori qualcosa di meglio degli attuali candidati e programmi, faccio una facile profezia: al momento, se in tutto il Paese la Lega è data al 32%, nel Norditalia lo è al 48%. Questo significa che buona parte degli italiani è ‘barbara’, oppure che tutte le ragioni siano state lasciate alla destra, e che la cecità più assoluta ha colpito la sinistra.

L’unica risorsa che mi appare plausibile è una candidatura di Marco Minniti nel PD, con silenzio totale e definitivo di ogni altro personaggio, a partire da Renzi. Il PD ‘diventa’ il partito di Minniti, che fa sostanzialmente concorrenza a Salvini, senza esagerare: come mostra l’esito delle elezioni in Baviera, quando un partito di centro si mette a fare concorrenza agli estremisti perde un pezzo del proprio elettorato.

Una candidatura di Minniti in questi termini comporterebbe un cambio di sistema?

Non cambia il sistema, ma lo rafforza e lo razionalizza, soddisfacendo a uno dei due problemi sul tappeto. L’altro, quello economico, non è alla sua portata. Naturalmente, con la clausola del silenzio assoluto sulla ‘Buona Scuola’ o sul ‘Jobs Act’, e con il recupero di qualche parola di sinistra, come ‘sfruttamento’ o ‘sicurezza’.

In quali forme sarebbe declinata la sicurezza?

Sicurezza rispetto alle vicende economiche (accezione che non sarà usata) e rispetto al dilagare della criminalità – quella spicciola, che spaventa quotidianamente, e quella importante, che è poco all’attenzione di Salvini (a partire dalla lotta alla mafia). Si può tentare di spiazzare Salvini su terreni di quel genere. Se, al tempo stesso, le cose vanno molto male per il governo giallo-verde, allora, lo ripeto, uno spazio c’è. Altrimenti vedo nel PD un partito che sta fra il 15% e il 20%, e gli altri che alle europee crescono ancora. Se mai, si può immaginare che M5S e Lega entrino in rotta di collisione, ma tale è la loro voglia di governare che, anche se in linea teorica rappresentano mondi e – forse – interessi diversi, si sforzeranno di restare insieme il più a lungo possibile. I 5 Stelle sono famelici di potere; sono come un bambino in un negozio di dolciumi: non lo tiri più fuori. I 5 stelle dovranno arrivare al divorzio politico da Salvini, ma è probabile che aspettino il più a lungo possibile. E poi dovranno decidere che cosa fare da grandi. E non sarà facile.

 

L’intervista è stata pubblicata in «L’Indro» il 16 ottobre 2018

Sogni e realtà

 

Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni, non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».

Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica – al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica –; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».

Come lascia assai poco a sperare la decisione – che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” – di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica – o, se si vuole, “liberal” – della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.

In realtà, quindi, il sogno e l’antifascismo, che sembrano l’uno opposto all’altro, sono le due facce di una medesima mancanza di analisi radicale, di un pensiero pigro, stereotipato, privo di spessore storico, che impedisce al Pd di comprendere se stesso, il proprio ruolo, i propri errori (non quelli occasionali ma quelli strategici), un pensiero che procede per slogan e che non afferra la realtà; e che si espone al rischio o della inefficacia o di innescare una reale dinamica amico/nemico – a ciò infatti si giunge se si prende l’antifascismo sul serio –. Infine, questa politica infondata, inerte e al contempo pericolosa, è tatticamente un errore: non pare infatti utile a (ri)trovare voti e consenso l’attitudine a definire «fascisti», «barbari» e «nemici» i cittadini che hanno votato per i partiti di governo. Criminalizzare la maggioranza degli italiani non è una buona politica: è vittimismo arrogante e subalterno, che unisce la pretesa di superiorità morale alla implicita denuncia della impotenza della sinistra.

Soprattutto, una sinistra liberal che mette insieme il capitalismo più spregiudicato e le sue vittime, i licenziati e i licenziatori, che si prefigge uno schieramento «da Macron a Tsipras», non vede le proprie interne contraddizioni e le rigetta sul “nemico” fascista: il cleavage fascismo/antifascismo serve a occultare la vera natura del Pd, ovvero che questo è il partito dell’establishment, e che quindi è stato travolto dalla crisi di questo, e non solo è incapace di mettere in campo un’alternativa di pensiero e di azione, ma anche di rendersi conto della propria situazione storica reale.

Che è di essere un partito che difende il neoliberismo e l’ordoliberalismo quando questi sono in crisi – o meglio, quando producono crisi sempre più acute –; che resta attaccato alla Ue quando questa è ormai solo il cozzo delle sovranità e il teatro dell’egemonia tedesca attraverso l’euro; che scommette sulla liberaldemocrazia dopo avere contribuito a svuotarne il senso materiale – lo Stato sociale, l’allargamento del ceto medio, la ragionevole gestione delle disuguaglianze sociali, la sicurezza (a tutto tondo, cioè come garanzia della pienezza delle aspettative di vita) per la grande maggioranza dei cittadini –; che non sa vedere il cambiamento politico e culturale che stiamo vivendo. L’Occidente privo della presenza dell’America; l’Europa priva di progetti che non siano gli utili degli Stati (delle élites economiche e politiche che vi si sono insediate) e i sacrifici per i popoli; la globalizzazione “povera”, ovvero la sovranazionalità dell’economia e al contempo l’assenza, il fallimento, della società aperta; il liberalismo nutrito di privatizzazioni oligarchiche, divenuto liberismo senza persone e senza popolo, che per di più si meraviglia se il popolo lo abbandona in cerca di protezione – probabilmente illusoria – presso i “populisti”.

No. Proprio non si possono definire “barbari” quelli che non credono più alla civiltà “atlantica” del dopoguerra; questa non è crollata per l’irruzione dei popoli delle steppe, ma sta morendo di propria mano, per le proprie contraddizioni. Le cure tecnocratiche e rigoriste, dopo l’euforia della new economy, hanno ferito le società, rescisso il legame sociale, le appartenenze collettive (non diciamo la coscienza di classe), e consegnato i singoli alla rabbia e al rancore, alla paura e al confinamento entro i recinti egoistici della famiglia.

Chi non voglia inseguire ipotesi qualunquistiche e autoritarie – che sono più il sintomo che non la cura di questi mali – dovrà almeno riconoscere la verità; dovrà sapere da dove iniziare un nuovo corso culturale e politico; e non potrà fare opposizione con sermoni e prediche, con manifestazioni di piazza; chi come alternativa alla destra sa offrire solo l’elogio del vecchio mondo, o l’anatema delle nuove realtà che emergono, per quanto spiacevoli, pensando di esorcizzarle con qualche sdegnata narrazione, ignora che il grande passaggio storico in cui ci troviamo prenderà forma – dopo una fase di disorientamento, di comprensibile affannosa ricerca di protezione, dopo una lunga e ibrida transizione – grazie al combinarsi (come sempre è avvenuto) di idee e di interessi concreti: e che compito della sinistra è individuare gli interessi progressivi – cioè rivolti all’emancipazione dal bisogno dalla sofferenza dall’insicurezza –, e dare loro forza e idee. Soprattutto, l’idea che l’economia crea problemi che non sa risolvere, la cui soluzione sta nella politica “sovrana”. Ovvero nella politica capace di esprimere un comando legittimo davanti a cui anche la potenza dell’economia debba fermarsi. Gli Stati – e anche l’Europa sovrana, se mai ci sarà – non si governano con i padrenostri.

Finché la sinistra saprà opporre a Salvini soltanto i sogni e le speranze, il ribaltamento dei rapporti di forza resterà appunto un sogno – un informe, inconsapevole «sogno di una cosa» –. E Salvini la potrà lasciare sognare, e anzi augurarle «sogni d’oro». Si preoccuperà, invece, se e quando un leader di sinistra nuovo e credibile – portatore non di sogni ma di idee, nutrito di analisi cruda della realtà e non di edificanti narrazioni – saprà sfidarlo per dare all’Italia protezione dallo sfruttamento e non solo dai migranti.

 

 

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La guerra delle parole

 

  1. Strategie

Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.

La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.

Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream, proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.

A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica. E quelle elezioni sono state vinte dai partiti che, se non altro, hanno riconosciuto il pesantissimo disagio sociale in cui il Paese versa, e che il Pd ha invece sostanzialmente negato dando l’impressione di voler lasciare tutto com’è, o in ogni caso di non avere né le idee né l’intenzione di cambiare le cose.

C’è anche, va detto, la posizione oltranzista di chi non vuole «seguire i populisti sul loro terreno», e non solo rifiuta radicalmente le loro ricette ma non vuole ascoltare il grido di dolore che attraverso il populismo si esprime, e affida non alla propaganda ma alla dura lezione delle cose, alle rappresaglie della realtà economica e dei suoi “spontanei” meccanismi, la vittoria dell’ordine politico e sociale che le elezioni di marzo hanno rovesciato. Ma è una posizione difficile da tenere. In ogni caso a essa, prudentemente, si aggiunge la propaganda, la retorica.

La logica di questa retorica – che definiremo la retorica dello scandalo, dello sdegno permanente – consiste nell’imporre un terreno di gioco su cui combattere lo scontro politico fra le élites mainstream e il popolo, mettendo quest’ultimo, fin dall’inizio della partita, dalla parte del torto. La strategia è discriminare culturalmente e moralmente chi si è ribellato alle conseguenze degli errori di quelle stesse élites; ovvero chi in una crisi catastrofica ha cercato protezione, e naturalmente non l’ha chiesta ai vecchi governanti, che le protezioni avevano tolto di mezzo. Insomma, la strategia di rimettere al loro posto i perdenti che hanno osato protestare, e di rovesciare il mondo rovesciato dalla ribellione delle masse.

Tutti i termini in questione hanno infatti intento accusatorio e implicita intenzione punitiva: sovranismo significa tribalismo incivile; populismo significa ragionare con la pancia e con il rancore; nazionalismo significa xenofobia e provincialismo egoista; razzismo, infine, è il male assoluto, la sistematica e ignorante violenza verso i deboli e i diversi. L’accusa, ovvia, è che tutto ciò – questi atteggiamenti, questa cultura diffusa – mette a rischio la democrazia, tutelata invece dal “politicamente corretto” liberal. Al quale si deve ritornare, riconducendovi i riottosi concittadini, bisognosi di rieducazione dopo essere stati sottratti ai cattivi maestri, ai pifferai magici che hanno vinto le elezioni.

Al contrario, sembra chiaro che è una follia tanto pensare di recuperare consenso per questa via, quanto presentare queste come “analisi politiche” che consentano di comprendere che cosa è successo. Se il governo giallo-verde è il fascismo (e non lo credo), sarebbe come fare dell’antifascismo criticando questo o quell’atteggiamento o provvedimento di Mussolini, e lanciando invettive contro la dittatura, invece di seguire la via genealogica, storico-concettuale e storico-economica, di Gramsci.

Ma è difficile credere che gli opinionisti mainstream non vadano oltre la constatazione che in marzo hanno vinto il rancore, la rabbia e la paura, e non riescano a chiedersi che cosa mai – quali eventi, quali processi, quali strutture – abbia prodotto nelle masse questi riprovevoli stati d’animo, queste biasimevoli passioni (ad esempio, quale precedente disastro nella rappresentanza politica abbia generato l’odio e il disprezzo degli italiani verso il parlamento, e sia quindi all’origine anche delle disinvolte proiezioni post-parlamentari di alcuni esponenti di un partito di governo). Fintanto che la retorica dello scandalo non lascia il posto all’analisi, è folle sperare che le posizioni che si reputano biasimevoli perdano terreno. E quindi è forse possibile ipotizzare che se quella retorica non è follia sia piuttosto una dissimulazione, un gioco a parlare d’altro, per non ammettere colpe ed errori enormi, nella speranza che alla retorica della delegittimazione preventiva dell’incubo giallo-verde segua una reale catastrofe della sua azione, e che tutto torni come prima, cioè alle vecchie egemonie.

  1. Errore

L’errore è naturalmente avere sposato (non solo subito, ma accettato e glorificato) il paradigma neoliberista, e poi quello ordoliberista sotteso all’euro; paradigmi diversi che prevedono entrambi la deflazione, la disuguaglianza sociale, la subalternità e la flessibilità del lavoro dipendente, che in tempi di crisi diventano – in assenza di “argini” politici e giuridici – precarietà e insicurezza esistenziale di massa. Il paradigma, insomma, che nega la dignità del lavoro e il ruolo egemone della politica e a questa affida il compito di garantire il mercato (ed eventualmente di aiutare i perdenti, o di punirli se troppo devianti e rumorosi), mai ipotizzando che il governo delle cose del mondo possa risiedere altrove che nelle potenze economiche – ad esempio, in una democrazia in cui i lavoratori (il lavoro dipendente, di diritto e di fatto, e non una generica “comunità nazionale”) abbiano una posizione politica conflittuale e quindi tendenzialmente paritaria, e non subalterna, rispetto alle potenze dell’economia –. Insomma l’errore non è che ci sia stata una crisi – gli economisti mainstream sanno bene che il capitale funziona appunto così –, ma che il paradigma economico preveda che dalle crisi si esca aiutando strutturalmente il capitale e solo episodicamente e marginalmente i lavoratori, che in ogni caso devono essere disponibili ad assecondare ogni richiesta del capitale in temporanea difficoltà. L’errore è che non si sia immaginato che ci sarebbero state reazioni politiche a tutto ciò; di non aver pensato che la politica possa guidare un’uscita dalla crisi, con una soluzione che non consista di salvataggi per gli uni e di eliminazione dei diritti per gli altri (le “riforme coraggiose” a danno dei deboli) ma di “riforme di struttura” (come si diceva ai tempi sovversivi del primo centrosinistra, e come si potrebbe cercare di dire anche oggi, mutatis mutandis: in fondo, la questione è la stessa, cioè allineare capitalismo e democrazia, naturalmente divergenti).

Avere trascurato la politica, e avere ignorato che questa avrebbe potuto vendicarsi: questo è stato l’errore strutturale, che alle élites è costato il potere politico, ma che non viene ammesso. Se ci volessimo servire dell’antica dottrina cattolica, potremmo dire che la mancata ammissione (confessio oris) nasce dal mancato pentimento (contritio cordis) e dà a sua volta origine al mancato ravvedimento operoso (satisfactio operis). Insomma, pervicaci e impenitenti, le élites politiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo sono in peccato mortale, e ne pagano il fio. Ovvero, sono finite all’opposizione e paiono doverci rimanere a lungo.

Ma, come si diceva, credono di potere uscire in breve dall’inferno della perdita del potere aspettando che agli italiani “passi” il rancore, oppure che questo si sposti verso gli attuali governanti, dei quali si attende la rapida scomparsa di scena per impresentabilità e inefficienza. E nell’attesa combattono la guerra linguistica.

  1. Battaglie

Una guerra le cui battaglie sono già state enumerate, ma che vanno studiate un po’ più da vicino, per vedere, in ciascuna di esse, come vengano costruiti i fronti del Bene e del Male, e come ai due fronti si possa contrapporre una “verità”; che non vuole essere un assunto dogmatico ma il suggerimento di uno sguardo realistico. Per una possibile politica oltre la propaganda.

Sovranismo, dunque. Ovvero l’aggressivo particolarismo che sarebbe la presunta radice politica dei nostri mali. Il cui opposto positivo sarebbe invece l’universalismo collaborativo, declinato in globalismo o in europeismo secondo i casi (in realtà, si tratta di due prospettive che possono anche essere opposte). Una contrapposizione costruita per non parlare di sovranità, ovvero della pretesa di un soggetto politico, i cittadini nel loro complesso, che lo Stato che li rappresenta persegua gli interessi nazionali e protegga i cittadini stessi. Una pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere, la sua mission. Una pretesa che può essere anche democratica, come appare dalla nostra Costituzione che collega il popolo alla sovranità e non ai mercati o ai trattati dell’euro. Una pretesa, del resto, avanzata e praticata, secondo le proprie forze, da tutti gli Stati europei, nessuno escluso. Lo Stato sovrano è un anacronismo? Pare di sì: la sinistra globalista lo minimizza, quella moltitudinaria lo deride (i risultati si vedono). Forse invece potrebbe essere una leva, o meglio un punto d’appoggio, transitorio ma obbligato, per rispondere alla sistemica insicurezza alla quale i cittadini sono esposti e sacrificati, e che non tutti trovano eccitante e ricca di opportunità – un dato che chi fa politica dovrebbe conoscere –.

Populismo, poi. È con ogni evidenza il nome che le élites mainstream danno a ciò che dice e fa il popolo quando hanno perso il contatto con esso. È come se dicessero: «se non ci obbedisci, sei plebe; se hai perso la fiducia in noi, ragioni con la pancia». L’opposto positivo è invece la “ragionevolezza”, il dare ragione alle élites, alle loro narrazioni. La verità è che il populismo con le sue semplificazioni è un segnale della crisi politica terminale di un intero ciclo politico-economico, quello democratico-keynesiano, crollato dapprima economicamente sotto i colpi del neoliberismo e, trent’anni dopo, anche culturalmente e ideologicamente. Una crisi di legittimità che si tratterebbe di decifrare nelle sue cause e non di deridere nei suoi effetti. Certo, impostare la politica sull’onestà e sulla lotta ai vitalizi, o sull’ossessione anti-migranti, è riduttivo e fuorviante, ma non perché è una mossa populista, quanto piuttosto perché non è per nulla radicale. Come altrettanto poco radicale è stracciarsi le vesti ad ogni uscita pubblica scorretta di questo o di quel governante, senza mai andare oltre la predica moral-superficiale; senza mai capire a quali problemi quel governante sta comunque rispondendo.

Nazionalismo, inoltre. Ossia il ritorno di culture politiche improntate all’atavismo e all’aggressività xenofoba, viste come un regresso a quelle condizioni che hanno portato l’Europa a suicidarsi con due guerre mondiali. E quindi il nazionalismo è appunto ciò contro cui si è costituita l’Europa del dopoguerra. È il nemico. Il suo opposto positivo è invece l’apertura reciproca delle culture e delle istituzioni, l’interculturalità, il federalismo o addirittura la sovranità degli Stati Uniti d’Europa, che solo una inspiegabile e irragionevole resistenza nazionalistica non lascerebbe realizzare. La verità è che tutti in Europa perseguono interessi statal-nazionali, e che tuttavia di nazionalismo e di nazione (differenti e opposti, come da tempo sappiamo) oggi in Italia e altrove c’è poca o nessuna traccia (piaccia o dispiaccia; ovvero, che ciò sia detto in negativo o in positivo). Non c’è alcuna visibile richiesta, da parte della società, di identità, di comunità di destino, di tradizione, e neppure la cultura va in questa direzione: con una certa pigrizia intellettuale si scambia per nazionalismo (cioè le si dà un nome vecchio) la richiesta sociale di una protezione che si manifesti efficacemente dentro il livello storico e istituzionale esistente, cioè dentro il perimetro degli Stati nazionali. Certo, questi nacquero anche attraverso il mito della nazione, allora progressivo. Ma di questo mito identitario oggi non c’è neppure la caricatura, se non ai campionati di calcio: da tempo l’individualismo e il familismo hanno colpito a fondo, e modelli culturali internazionali si sono affermati irresistibilmente ormai da decenni. L’esigenza di condurre una vita in dimensione storica, sottratta all’eterno presente dell’universale raccolta di merci neoliberista, non sembra essersi ancora radicata nelle masse.

Razzismo, infine, è il nome dato all’insicurezza ostile dei poveri e degli incolti. Che si sentono minacciati non da un generico “diverso” ma da un concreto ingresso, al tempo stesso pubblico e clandestino, di persone fin troppo simili a loro. E i penultimi si specchiano negli ultimi, li temono e li esorcizzano, perché vi vedono certo persone bisognose di aiuto ma capiscono anche che non possono essere aiutati a spese loro, delle fasce più fragili, che dai migranti si sentono minacciati anche dal punto di vista economico. Né a spese esclusive di quel fragile vaso di coccio che è l’Italia nel consesso europeo, inchiodata da patti leonini, sottoscritti dalla destra e rinnovati dai governi seguenti, che hanno cercato di fare del nostro Paese il campo profughi del continente in cambio di altri benefici macroeconomici. Tanto più che gli altri Paesi d’Europa non smaniano certo per ricevere migranti, per sostituirsi all’Italia. Come che sia, l’opposto positivo è in questo caso il cosmopolitismo contrapposto alla chiusura egoistica, la pietà contrapposta alla spietatezza, oppure, da un punto di vista moral-politico, l’appello alla fraternità, il terzo trascurato della triade rivoluzionaria; ma si avanzano anche esortazioni ad apprezzare l’utile economico che dai migranti deriverebbe in termini di Pil e di pagamento delle pensioni agli italiani, come se i migranti trovassero facilmente, in Italia, lavoro stabile, legale e non servile, e come se in futuro le loro pensioni non dovessero essere pagate. La verità è che l’insofferenza, in sé deplorevole, verso i migranti nasce dalla sofferenza e dalla insicurezza reali dei cittadini, che nessuna promessa europea, sempre disattesa, o nessun sermone o catechismo riuscirà, da solo, a esorcizzare. Solo la politica ci riuscirà, se sarà una politica efficace e concreta.

  1. Politica e parole

La guerra delle parole è al tempo stesso un’arma, un diversivo, e un andar fuori bersaglio. Se la sinistra moderata europeista e quella radicale globalista e moltitudinaria non capiscono ciò, non hanno speranza. Vanno lasciate alle loro battaglie minoritarie, poiché hanno evidentemente rinunciato all’analisi politica realistica.

Certo, le parole e la propaganda sono anch’esse parte della politica. Ma le parole fanno politica quando indicano a questa una direzione, un obiettivo: non quando sono il punzecchiamento più o meno sdegnato, sempre e solo “reattivo”, rispetto alle parole e alla politica altrui. Se è così, il far guerra con le parole significa ripiegare, non saper fare nulla di politico, essere subalterni alle politiche e alla propaganda altrui.

Chi vuole cambiare qualcosa, posto che sia possibile, non deve schierarsi dalla parte di una propaganda o di un’altra. Al primo posto non viene la parola della propaganda, ma la parola dell’analisi e della critica: a questa può seguire l’azione, accompagnata, a questo punto, dalla parola di una propaganda non parassitaria ma autonoma ed egemonica. L’opposizione, se vorrà esistere, dovrà analizzare, criticare e parlare in proprio. Anziché forgiare una lingua di guerra all’interno della guerra delle lingue, deve costruirsi una lingua di verità, di realismo, di radicalismo non parolaio, di radicamento sociale, che spiazzi e trascenda il discorso politico corrente.

«Politica» implica insomma che con le parole si afferrino le cose, le strutture, i processi, i soggetti. La politica è l’attività di chi non si limita a opporre propaganda a propaganda ma di chi si chiede come si possa «mettere la mani negli ingranaggi della storia», col pensiero e con l’azione, senza limitarsi ad aspettare gli errori altrui – del resto, se il quadro politico-economico si sfascia, chi ne trarrà vantaggio difficilmente saranno i vinti di oggi –.

Per chiudere, un esempio. Si sta diffondendo l’idea che nel discorso pubblico di “sinistra” si debbano recuperare la nazione, e lo Stato nazionale, perché è su questi concetti, o temi, che si è stati sconfitti il 4 marzo (come ho detto, credo che ciò sia non esatto, e che la sconfitta si sia consumata sulla protezione e non sulla tradizione, sulla sicurezza e non sulla patria). Ecco allora le proposte di “nazionalglobalismo”, di “patriottismo europeo”, di “federazione sovrana di Stati sovrani”.

L’obiettivo è di non lasciare la nazione ai nazionalisti, lo Stato agli statalisti, la sovranità ai sovranisti, l’Europa agli europeisti. E fin qui va bene: si tratta di smarcarsi dalla polemica quotidiana, di guardare oltre, di tentare di imporre un altro terreno di gioco. Ma pur dovendosi apprezzare la direzione nuova che si cerca di intraprendere, resta da sottolineare che in alcuni casi si tratta di concetti di cui la storia (ad esempio, la guerra civile statunitense) ha dimostrato la non praticabilità, o in altri casi di provocazioni intellettuali che in quanto tali non sanno indicare alcuna tappa intermedia tra il presente e il futuro, tra il problema e la soluzione. Che vogliono costruire miti più che discorsi razionali.

Ma in politica anche la parola mitica per essere capace di mobilitare deve avanzare un progetto realistico e condivisibile, un obiettivo difficile ma raggiungibile attraverso una via che va indicata nella sua concreta materialità. E a maggior ragione questo è l’obiettivo della parola razionale.

Questi nuovi miti dovranno quindi essere preceduti da analisi critiche, e dovranno essere riformulati dopo che il pensiero critico si sarà misurato con la questione del rapporto fra sovranità nazionale e sovranità europea, nonché del rapporto fra politica ed economia. E ciò non per pedanteria accademica, ma per realismo, per efficacia tanto critica quanto propagandistica. In caso contrario si resterà ancora una volta in superficie. Detto altrimenti, questi nuovi “miti” non avranno la forza di smuovere alcunché, e meno che mai i popoli, fintanto che attraverso di essi non verrà veicolata un’idea credibile di sicurezza sociale e di reale integrità della persona, finalmente sottratta al suo presente destino di essere in balia di potenze economiche incontrollate, di processi che li trascendono. Fintanto che del mito politico non farà parte anche la consapevolezza che «finanza è una parola da schiavi».

Per i duecento anni di Marx

Questa riflessione su Marx deriva dal libro di Carlo Galli, Marx eretico, di prossima pubblicazione per la casa editrice il Mulino, Bologna.

 

 

Marx è un autore di metà Ottocento, che del proprio tempo condivide alcune idee di fondo: una concezione eroica della politica, in cui agiscono soggetti collettivi come la nazione e la classe; una proiezione al futuro, come fiducia nella possibile apertura di nuovi orizzonti dell’umanità; una robusta ammirazione per la potenza della scienza e della tecnica, per lo sviluppo economico che ne scaturisce, e per la forza espansiva sprigionata dalla civiltà industriale; una propensione a pensare in termini di sistema, per fronteggiare adeguatamente l’emergere della dimensione totale delle relazioni sociali e per individuarne «leggi» organiche di sviluppo. Quello di Marx è il pensiero forte di una personalità dotata, com’egli diceva di sé, di «aspirazioni universali». Che Marx veda con acutezza la contraddittorietà, l’ideologicità, la conflittualità e la parzialità dell’intera società moderna, non toglie che egli sia estraneo a nostalgie pre-moderne, a sensibilità post-moderne, a prospettive catastrofiche.

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La sua adesione alla modernità è, certo, un’adesione «critica». E non della «critica critica», impotente e subalterna, della sinistra hegeliana, contro cui si accanisce il sarcasmo distruttivo del giovane Marx, ma della «critica spietata di tutto ciò che esiste», la critica dialettica, la dialettica utilizzata come arma («le armi della critica» e perfino «la critica delle armi») e non come conciliazione.

Una critica a Dio, allo Stato, alla filosofia di Hegel che lo porta al «nuovo materialismo», al «solido terreno della realtà»; ma questa realtà è una contraddizione strutturale che ha la sua origine nei rapporti economici di produzione, e che ha la sua principale manifestazione nello sfruttamento, nell’estrazione di plusvalore (di profitto capitalistico) dal lavoro salariato, e nella estraneazione dell’uomo da se stesso e dal proprio lavoro.

L’obiettivo di Marx non è la società senza lavoro, ma la restituzione dell’umanità a sé, a partire dall’estraneazione presente. Il comunismo, la libera e razionale «cooperazione» dei produttori, è appunto il rapporto immediato fra uomo ed esistenza, è «l’effettiva soppressione della proprietà privata e la reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo». È «umanesimo positivo». Ma non è un progetto campato in aria, né un ideale vuoto e declamatorio; è il frutto di un’azione politica che non si perde in sogni, in utopie, e che non indugia in opportunismi ma anzi affronta apertamente quel conflitto di classe, quella guerra permanente fra capitale e lavoro salariato che struttura la società. Marx corregge la nozione di valore-lavoro, già presente nell’economia politica classica, per far emergere che nella produzione di merci è incorporato un rapporto sociale: un rapporto di espropriazione di plusvalore, prodotto socialmente e appropriato privatamente. L’obiettivo politico quindi è di espropriare gli espropriatori, di rifare la società a partire dall’ «abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente», di abolire la contraddizione tra la ricchezza della produzione e la povertà della società, quella contraddizione che ha reso il proletariato talmente misero che non ha nulla da perdere se non le proprie catene, e di instaurare la «dittatura del proletariato», guida verso la realizzazione della libertà di tutti.

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Marx non ha scoperto per primo la lotta di classe, ma ha decifrato per primo il generarsi della politica nell’economia. Che la teoria del valore-lavoro sia da tempo rifiutata dagli economisti non toglie che la grandezza di Marx stia nell’avere mostrato ciò che anche oggi è sotto gli occhi di tutti, e cioè che l’economia capitalistica è un gigantesco processo di valorizzazione a vantaggio dei profitti e non dei salari, percorso da contraddizioni, dislivelli di potere, conflitti asimmetrici, che in essa si genera un dominio sociale e politico che coinvolge tutta la vita dell’uomo.

Marx coglie la centralità e l’instabilità del rapporto moderno fra economia e politica perché dell’economia privilegia la contraddizione e la crisi, cioè la componente umana, sociale, politica, e non il lato meccanico, o quello specialistico, disciplinare. Perché vede l’economia debordare da se stessa, e investire tutto l’umano, in modalità disumane. Perché dimostra che il capitalismo è potentissimo e al tempo stesso insostenibile; che quella borghese è «una civiltà scellerata, fondata sull’asservimento del lavoro». Perché nel gioco astratto delle grandezze economiche presunte «oggettive» sa vedere la violenza di classe, strutturale; e analizzando la ricchezza delle nazioni sa retrocedere fino alla sua origine, alle «doglie che accompagnano il parto della ricchezza».

Ma Il Capitale non è solo uno squarcio di storia del capitalismo in Inghilterra. È anche la scoperta delle logiche, delle linee di tendenza che innervano il sistema produttivo tipico della modernità. E queste logiche sono la sussunzione del lavoro nel capitale, la parcellizzazione del lavoro, la cooperazione coatta in fabbrica, lo sviluppo verso la macchina mentre il soggetto ne diviene appendice, l’aumento della produttività del lavoro, il colonialismo, la finanziarizzazione dell’economia, l’espulsione del lavoro dal processo produttivo, il formarsi dell’esercito industriale di riserva, il calo tendenziale del saggio di profitto, l’espansione illimitata del capitale a danno degli stessi capitalisti come singoli individui proprietari, la globalizzazione, e su tutte queste logiche la illogicità suprema: di essere un sistema produttivo, una società che non può realizzare se non nel caos e nell’oppressione crescente – e che quindi non può non tradire – le potenzialità che suscita e che mette all’opera. Tutto ciò non è confinato al XIX secolo, ma dice qualcosa anche all’oggi: sia pure percorrendo vie tortuose e impreviste, con scarti improvvisi e «mosse del cavallo», le logiche del capitalismo non hanno deviato di molto da queste indicazioni.

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La scoperta delle contraddizioni del capitalismo non comporta che di esse sia possibile la soluzione che ne ipotizzava Marx, e non consente, in realtà, una analitica prefigurazione del mondo futuro. La «vecchia talpa» scava – le contraddizioni interne del capitalismo si manifestano –, la direzione e l’orizzonte le sono noti, ma non sa dove rivedrà la superficie e la luce del sole.

E in effetti la vicenda politica del comunismo reale è stata, dopo tutto, un fallimento, ma non direttamente imputabile al pensiero di Marx quanto piuttosto alle logiche dello Stato autoritario in cui si è incarnato. Marx non appartiene all’album di famiglia dei fondatori di tirannidi, di Stati di polizia. Semmai, egli è stato frainteso per motivi opposti. L’idea di fondo di Marx, la razionalizzabilità del mondo e la scomparsa del dominio, l’idea che un altro mondo è possibile a partire da questo, ha subito una lettura semplificata. La ragione e l’azione sono state saldate tra loro dal desiderio, dal bruciante impeto dell’assalto al cielo, dall’epica marcia del Quarto Stato per «conquistare la rossa primavera». Ciò che è prevalso è stato l’empito verso il futuro, l’impulso all’umanizzazione del disumano. L’insegnamento di Marx è stato interpretato e semplificato come speranza da milioni e milioni di uomini e donne che hanno fatto del marxismo una profezia messianica di rango globale. Il marxismo è stato abbracciato soprattutto come la risposta delle genti alla ingiustizia del mondo, della storia. Hanno agito in questo senso un bisogno di credere, una pretesa di dignità, un’ansia di riscatto che oggi non hanno ancora trovato un sostituto. Ma, certo, mentre si faceva «religione» il marxismo spianava la strada anche al dominio di «sacerdoti» tanto spietati quanto, alla fine, inetti.

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Leggere Marx dopo l’Ottantanove, dopo la fine del comunismo, significa avere attraversato gli anni dell’oblio, gli anni che hanno proposto Marx quale responsabile del comunismo reale e dei suoi errori ed orrori. E significa accettare che non esiste un soggetto eroico in grado di rovesciare il mondo, e che non è più praticabile la certezza su cui Marx si fonda: che ciascuna epoca pensa i problemi di cui ha la soluzione.

Marx da gettare alle ortiche, quindi? Proprio no. Senza Marx non si può organizzare una nuova teoria critica. La sua capacità di smascherare l’ideologia è un esorcismo contro l’egemonia del neoliberismo da cui derivano strutturali fratture e inceppamenti della società, disuguaglianze e ingiustizie, nonché paurosi dislivelli di potere fra ceti e fra aree del mondo. Certo, i fattori e le modalità dell’oppressione non stanno solo nella forma di produzione ma nelle molte contraddizioni, non sistematizzabili e non dialettizzabili, non tutte necessariamente di origine economica anche se a questa variamente accostabili, di cui è intessuta la vita delle società, delle persone e delle nazioni: le linee di frattura dell’inconscio, del genere e del colore, la scomparsa della soggettività (anche di quella operaia) nell’età dell’individualismo passivo, l’antagonismo sistemico fra capitalismo e ambiente, le coazioni proprie del ‘politico’, le pulsioni identitarie fondamentalistiche ed essenzialistiche che si manifestano in società decostruite e atomizzate. Il pensiero di Marx – nessun pensiero – può risolvere queste contraddizioni, ma, insieme ad altre linee critiche, può denunciare la scissione là dove il neoliberismo esige che non venga neppure menzionata, e dove gli stessi soggetti coinvolti stentano a prenderne coscienza.

Inoltre, anche il pensiero di Marx serve a incontrare energie di liberazione, a comprendere e suscitare lotte e alleanze che uniscano l’emancipazione dall’alienazione economica con altre emancipazioni. Serve a valorizzare lo spirito d’iniziativa politico, contro la passività; e ad assecondare le emergenze – ciò che non si lascia sommergere – contro il potere dell’eccezione divenuta norma. In Europa e fuori d’Europa.

Marx è l’ultima voce della filosofia tedesca che cerca di tenere insieme il movimento moderno della storia e della produzione globale – le loro contraddizioni e parzialità – con la liberazione umana universale. E oggi se è impraticabile l’obiettivo che egli si proponeva, di assumere il mondo nel pensiero e nell’azione come un sistema di scissione strutturato da un’unica contraddizione strategica, nondimeno egli resta un «classico», ancora operante almeno in quanto è sempre affacciato sulla denuncia e sulla ribellione. Il suo pensiero è oggi un elemento di ogni realismo critico.

Ancora oggetto di interpretazione nei contesti più svariati – dall’America Latina al mondo post-coloniale, dalla Cina (dove in parte è servito a organizzare lo Stato) all’Occidente (dove è servito a criticarlo) – e ancora associato a populismi e ad autoritarismi, a serpeggianti inquietudini e ad aperte ribellioni, ma anche a tentativi di nuove costruzioni statuali, Marx non è la fonte unica della verità, la sorgente della prassi corretta, la speranza dei veri credenti, la via maestra per risolvere le contraddizioni. È più un reagente che un agente, un precursore (in senso chimico) da associarsi ad altre sostanze, un detonatore più che una deflagrazione. Eppure, non è soltanto un brano di storia intellettuale europea, divenuto ormai patrimonio della civiltà del mondo intero: è un ingrediente indispensabile, anche se non esclusivo, per chiunque non accetti che il futuro sia del tutto in mano alle oligarchie economiche, e per chiunque creda che la parte maggioritaria della umanità possa riprendere l’iniziativa su se stessa, da se stessa.

 

Il testo è stato pubblicato in «Patria indipendente» il 18 maggio 2018

La democrazia sostanziale di Giuseppe Dossetti

Sostanziale, integrale, effettiva, reale: la democrazia secondo Dossetti non può essere solo formale, né solo politica, né solo economica e sociale; deve anzi superare la moderna divisione (con altro lessico, l’alienazione) fra questi ambiti per essere umana, genuina, morale. Deve essere cioè una autentica rivoluzione, non un prolungamento del liberali­smo che diviene di massa. Da qui alcuni giudizi parzialmente critici di Dossetti sulla Costituzione italiana – alla cui redazione egli ha pure autore­volmente contribuito – che a questa rivoluzione si orienta senza portarla fino in fondo (benché alla Carta vada riconosciuto il grande merito di essere, in linea di principio, radicalmente innovativa).

Questa è la tesi politica complessiva di questi scritti, culminanti nella relazione del 1951 su Fun­zioni e ordinamento dello Stato moderno. Una tesi che va decifrata e contestualizzata, e misurata sulle discussioni attuali intorno alla democrazia.

Sono innanzitutto evidenti gli influssi tanto di Maritain quanto di Gemelli, elaborati in modalità originali. Dall’umanesimo integrale del primo, Dossetti riprende la critica al liberalismo come ci­fra dell’intera età moderna, caratterizzata dall’idea che la libertà – in pratica coincidente con la libertà di pensiero e con il diritto di proprietà – sia una qualità autonoma del soggetto, in sé chiusa, del quale costituisce l’origine e il fine; e dall’idea che attorno ad essa debba ruotare lo Stato moderno, il quale a sua volta è “agnostico” sui fini e si affida a una presunta capacità umana di produrre l’utilità collettiva attraverso il perseguimento dell’utilità privata, mescolando così una sorta di ottimismo antropologico (la libertà moderna come produttri­ce di bene) a un pessimismo sulle strutture sociali e politiche (ritenute oppressive quando non rese meramente neutrali). La modernità è nichilistica, per Dossetti: nega la natura delle cose, e le pensa tutte interamente plasmabili dall’uomo e tutte traducibili in merci; azzera i diritti storici concreti, le mediazioni sociopolitiche reali, e immagina una società priva di fini che non siano individuali; fa dello Stato una macchina che consente ai privati di creare autonome istituzioni giuridiche impersonali e di fatto incontrollabili (le grandi corporations), mentre si ferma davanti ai diritti economici dei possidenti, gli unici che siano valorizzati come assoluti e intoccabili. Da questo punto di vista, il marxismo non è, per lui, una «calunnia» contro la borghesia.

Una variante di questa posizione epocale è data dalla prospettiva, politicamente ma non qua­litativamente opposta, che vede la libertà radunarsi tutta nello Stato, il quale da mezzo diviene così fine a se stesso e unico protagonista della storia, in con­trapposizione all’individuo. Lo Stato moderno è o troppo o troppo poco.

Si tratta di temi diffusi nel pensiero cattolico, in parte risalenti a Lamennais, declinati da Dossetti in chiave democratica, con un’attenzione alla rappresentanza politica non solo dell’ideologia, dell’opinione e degli interessi individuali, ma an­che (in una seconda Camera) dell’articolazione concreta della società nei suoi corpi intermedi (tema, questo, di derivazione, tra l’altro, gemelliana, ma lontano, per quanto riguarda Dossetti, da declinazioni corporative).

Allo Stato moderno Dossetti contrappone uno Stato né totale né corporato, ma «nuovo», che abbia come perno teorico la capacità intensamen­te politica di orientare, o «finalizzare» la libertà, ovvero di attuare la reformatio della società senza pretendere di crearla ma certo caricandosi del dovere di plasmarla, fino a farla diventare il cuore della vita associata: uno Stato, insomma, in grado, con la propria carica politica, di «assoggettare» l’economia, ovvero di rendere effettuale, con il potere politico, il controllo sociale su di essa, e di andare perfino al di là dell’interventismo statale contingente per giungere, attraverso la lotta contro le grandi concentrazioni di potere economico, fino alla dimensione del «piano». Uno Stato, quindi, non pensato attraverso lo statalismo giuridico formale, e che anzi da una parte è strumento, e pertanto realtà storica né prima né ultima – tale realtà è semmai, nella dimensione terrena, la per­sona ovvero il bonum humanum simpliciter –, ma che dall’altra si carica di una politicità che è anche socialità e moralità (non eticità nel senso gentiliano, certamente): la moralità della politica consiste nel combattere il male individualistico, l’egoismo, la cecità.

La prospettiva di Dossetti non è Stato-centri­ca. Semmai, sta nel rapporto con la trascendenza. L’ Assoluto, infatti, non è assente dalla riflessione di Dossetti ma non certo in modo tale da generare un fondamentalismo, sì piuttosto come una fonte d’ispirazione e di tensione o, se si vuole, come una fonte d’energia per un agire politico umano e con­creto, per quella “democrazia sostanziale” che è il volto storico del cristianesimo. L’apertura alla tra­scendenza è l’origine della possibilità che la libertà si apra all’altro, non si chiuda nell’egoismo. L’obiettivo politico di andare oltre la democrazia for­male borghese – una democrazia solo politica che lascia intatte le disuguaglianze e i centri del potere economico nella società, così che permane sempre la distanza fra istituzioni politiche democratiche e realtà sociale oligarchica – può essere posto, secondo Dossetti, soltanto attraverso una radicale reinterpretazione umanistica e cristiana della mo­dernità, del suo pensiero, dei suoi istituti giuridici, della sua alienazione strutturale. Una prospettiva che è certamente ispirata dalla dimensione religiosa ma non è per nulla ascrivibile a una teologia po­litica, neppure secolarizzata e democratica, perché ha la propria forza nella duplice consapevolezza dell’incompiutezza della dimensione terrena e del­la reciproca piena indipendenza di Stato e Chiesa, come recita appunto la Costituzione anche per impulso di Dossetti. Il rigore radicale di Dossetti è religiosamente generato: ma dalla religione la poli­tica trae la propria nobiltà e la propria doverosità, non certo soluzioni dogmatiche ai problemi della città dell’Uomo, soluzioni e problemi che vanno invece ricercate e individuati con lo strumento del sapere scientifico più avanzato.

Queste campiture intellettuali vanno contestualizzate storicamente. C’è in Dossetti – vicino, negli ultimissimi anni Quaranta e nei primissimi Cinquanta, a Felice Balbo – la percezione di una crisi agonica della civiltà occidentale, che si mani­festa, per lui, nelle trasformazioni dell’individuo, della società e dello Stato; una catastrofe che smen­tisce i presupposti e le finalità del liberalismo: con una panoramica di impressionante precisione e di lungimirante proiezione Dossetti vede infatti la scarsa efficienza del governo parlamentare, la sua incapacità di orientare responsabilmente la società, la debolezza dei partiti (tutti, con l’eccezione del Partito comunista, poco più che gruppi d’interesse), il dilagare della tecnica e della fiducia nella sua capacità di risolvere i problemi politici, l’ingigantirsi della dimensione internazionale (nell’età in cui il mondo è diviso in due blocchi) come quella veramente centrale nella politica, l’affannarsi della politica domestica a inseguire (nella forma dell’assecondamento ben più che del governo) i fenomeni economici con un’attività normativa che trasforma la legge (che dovrebbe essere gene­rale e permanente) in una serie di provvedimenti instabili e contingenti, e infine l’inadeguatezza di un’amministrazione ancora tutta gerarchica (napoleonica, si potrebbe dire) davanti ai compiti nuovi. Insomma, la deriva della modernità razio­nalistica e liberale, e delle istituzioni statuali che ne sono nate.

Una crisi irreversibile, per Dossetti, appunto catastrofica, a cui il marxismo non è una risposta perché tutto interno all’immanentismo moderno, per quanto sappia cogliere alcune contraddizioni del liberalismo; e perché lontano dal metodo della libertà politica, eversivo nei contesti liberaldemocratici e totalitario nelle sue realizzazioni; incapace insomma di pensare veramente un ordine positivo e umano, oltre quello nichilistico e contraddittorio della modernità. Dossetti, quindi, combatte il mar­xismo, contesta la sua mitologia, ma a differenza dei conservatori non lo teme: semmai lo sfida in umanesimo, in radicalismo, in empito innovatore. Una crisi della modernità alla quale non è stata risposta adeguata il fascismo (anzi, troviamo in queste pagine un’esplicita tematizzazione della necessità di una formale conventio ad excludendum antifascista) ma neppure l’interclassismo o altre prospettive riformiste, subalterne al primato moderno dell’individuo e dell’economia, e alle sue contraddizioni (è presente una polemica anche contro Röpke, uno dei padri dell’ordoliberalismo). Fa eccezione il laburismo inglese, la cui vittoria elettorale nel 1945 Dossetti saluta con grande entusiasmo proprio perché vi vede non l’afferma-zione di un blando riformismo ma un evento che lungi dall’aggiungervi un capitolo mette, per lui, la parola fine al libro della modernità, lo chiude e ne apre uno nuovo. Una prospettiva un po’ forzata, evidentemente, ma indicativa di ciò che Dossetti chiedeva alla politica.

L’azione politica adeguata al superamento della crisi è stata la partecipazione di Dossetti alla Resistenza, alla Costituente, alla vicenda della Democrazia Cristiana. Un’azione politica incon­tentabile, accanita, impegnata e impegnativa, ma per nulla utopistica – chi conosce l’attività politica di Dossetti nelle due circostanze in cui è stato vi­ce-segretario della DC (documentate da ultimo in L’invenzione del partito, a c. di R. Villa), sa bene quanto duramente politica, concretamente pratica, e anche polemica, essa fosse. Un’azione che si è appuntata sulla costruzione dei prerequisiti della «democrazia sostanziale», ovvero in primo luogo a impiantare una Costituzione che non fosse un elenco di diritti statici ma che ne prevedesse ap­punto la finalizzazione a un umanesimo integrale, alla democrazia intesa come «massima espansio­ne della persona umana secondo i meriti». Una Costituzione progettuale, quindi, orientata dalle «norme di scopo» dei Princìpi fondamentali, per la cui formulazione Dossetti non ha avuto certo problemi a dialogare costruttivamente con Togliatti. Una Costituzione che prevede uno Stato forte, che tuttavia riconosca il pluralismo sia ideologico sia delle istituzioni sociali e politiche intermedie.

La sua parziale insoddisfazione, che serpeggia nella relazione del 1951, che gli fa considerare la Carta il «meno peggio» e non un compiuto «bene», deriva dalla circostanza che la spinta propulsiva di quella finalizzazione gli è parsa ben presto affievo­lita e che la concreta struttura dello Stato, dei suoi poteri, dei suoi organi, è rimasta più tradizionale di quanto egli avrebbe voluto, e di quanto reputava necessario a voltare pagina. Dossetti non temeva di ipotizzare un esecutivo ben più robusto di quello disegnato dai costituenti, e ben più lontano dai contrappesi del regime parlamentare, poiché era forte la sua idea di politica, il suo costruttivismo cristiano; come non temeva che lo Stato fornisse ai diritti individuali e collettivi garanzie fortemente gerarchizzate: erano proprio queste concretezze a fornire la possibilità che il popolo entrasse davvero, esistenzialmente, all’interno delle forme giuridiche democratiche, ne divenisse soggetto e non ne fosse oggetto. La politica italiana si stava sviluppando, a suo giudizio, in un contesto di involuzione com­plessiva e di affermazione dei vecchi poteri, molto abili a inserirsi nel mondo cambiato per perseguire con nuovi mezzi i propri vecchi fini di dominio. Era mancata insomma, dopo il grande sforzo reso­si necessario per superare con successo l’impianto formale liberale della Costituzione, la capacità, per lo Stato che voleva uscire dal proprio agnosticismo, di dotarsi non solo di nuovi fini personalistici ma anche di nuovi strumenti, di istituzioni nuove. Insomma, la lezione di Dossetti è stata imparata a metà: i cattolici hanno saputo apprendere a «non aver paura dello Stato», e a utilizzarlo ai propri fini – essenzialmente, a praticare la politica come freno della «inclinazione al male delle cose uma­ne», e promuovere il bene inteso come fioritura integrale della persona – ma non hanno saputo inventare le modalità istituzionali per appaesare il nuovo Stato in un mondo nuovo, per celebrare fino in fondo quell’alleanza fra cristianesimo e popolo che avrebbe dovuto sostituirsi alla vecchia alleanza fra Trono e Altare.

Sappiamo che fra il ‘51 e il ‘52 matura in Dossetti l’idea dell’insufficienza di una politica di “sinistra cristiana” – un’insufficienza generata dai ritardi della politica ancora ferma a un’età superata, quella del parlamentarismo, ma anche dalla divisione del mondo che spacca la politica italiana, e dalle chiusure della Chiesa; e sappiamo ancora che tale idea di insufficienza non spegne tuttavia la politicità intrinseca del suo pensiero, almeno fino all’esperienza bolognese del ‘56-’58, e al più tardo impegno sul Vietnam. E sappiamo infine che quando sul finire della vita Dossetti, che ne aveva criticato le debolezze, vide la Co­stituzione minacciata da tentativi di riforma che volevano segnare il trionfo, anche formale, della nuova realtà neoliberista nel frattempo sostituitasi a quella keynesiana, egli – che nella nuova passività promossa dal capitalismo sfrenato vedeva i rischi di un riaffacciarsi in forme nuove del vecchio fa­scismo – difese strenuamente la Carta che almeno incorporava, sia pure fornendo ad essi strumenti non adeguati, i princìpi fondamentali che orienta­vano lo Stato verso la “democrazia sostanziale”, e non facevano della repubblica la semplice custode degli assetti di potere delineati dalle libertà econo­miche. La democrazia sostanziale doveva rimanere quanto meno un progetto possibile, un orizzonte e un orientamento, e non essere cancellata dall’orizzonte, formale e progettuale, della politica italiana.

La preoccupazione di “ispessire” la demo­crazia, di disegnarla come una forma politica non semplicemente contrattuale o procedurale ma anzi di dare spazio, in essa, alla esistenza concreta di cittadini legati non solo dal contratto utilitaristico o dall’idea di giustizia, di pensarla quindi come la cornice del flourishing delle singole persone nei loro contesti culturali, è largamente diffusa anche nella filosofia politica contemporanea, che tuttavia resta in buona parte interna a un paradigma libe­rale allargato ad accogliere “valori”, e che quindi si differenzia, prevalentemente, dal pensiero politico di Dossetti, segnato da una verticalità e al tempo stesso da una concretezza sociologica che la filoso­fia politica contemporanea difficilmente persegue. Inoltre, i nostri tempi per molti versi – definitiva scomparsa dei partiti, personalizzazione integrale della lotta politica, crollo del comunismo reale, emergere delle questioni del multiculturalismo, in­cremento del peso della dimensione sovranazionale sulle politiche domestiche, parallelo rafforzarsi delle competenze securitarie degli esecutivi, crollo dell’idea di progresso, incremento delle disugua­glianze sociali, progressiva marginalizzazione del lavoro – sono lontani da quelli in cui nacquero le riflessioni e le posizioni qui raccolte. Ma per altri versi presentano sconcertanti analogie: la crisi del parlamentarismo, il tramonto della centralità politica della forma-legge a favore del decreto o del provvedimento, e in generale la rinuncia della politica a governare il presente secondo categorie e fini esterni alle logiche economiche, e a istituire al­ternative: una rinuncia che si è rovesciata ai nostri giorni nell’ideologia dell’assecondamento politico del capitalismo come unica forma possibile e pen­sabile della società, e che ha come obiettivo una pseudo-democrazia apolitica, risolta nelle proce­dure tecniche di valorizzazione e nella rimozione degli ostacoli al pieno funzionamento del capitale nella sua presunta neutralità. Con il risultato che la libertà è finalizzata non al fiorire della persona nell’uguaglianza, secondo i meriti di ciascuno, ma al profitto di pochi.

Certo, nel pensiero di Dossetti echeggia una stagione di quasi-onnipotenza della politica, una stagione in cui la politica credeva ancora in se stessa come principale potenza trasformatrice; una stagione che sembra ormai trascorsa. Nondimeno, la sua lezione è di impressionante attualità. Vi sono, indubbiamente, in primo luogo, una precisione concettuale, un rigore categoriale, una sostenutez­za dell’argomentare, che hanno una trattenuta ma potentissima capacità espressiva e che emanano una limpidezza morale che incute vero rispetto. Senza che assuma movenze fanatiche, in Dossetti la politica diventa un dovere, e proprio per questo egli può ricercarne il potere: per capacità analiti­ca, per realismo e senso pratico, per ispirazione spirituale, Dossetti va ben oltre l’indignazione, attitudine un po’ facile e a volte paradossalmente disimpegnata.

Ma, ancora più concretamente, alcuni degli obiettivi che egli si pone sono condivisibili da chi affronta in modo critico le questioni politiche dell’oggi: ridare alla politica la capacità di essere un’interrogazione sui fini della società e non solo un assemblaggio di disuguaglianze coperte dall’uguaglianza formale di diritti più o meno ca­suali; perseguire quindi una non estremistica ma radicale politicizzazione della società, nel senso che la politica (lo Stato) sappia dirigere la società individuando e sollecitando in essa, con metodo democratico, ragioni e forme, diritti e poteri; im­maginare infine una democrazia che non si limiti a essere metodo – infatti, quando la democrazia vuol essere soltanto tale, lo stesso metodo (la legalità) non viene rispettato e si rovescia in informità, in eccezione permanente – ma voglia invece essere energia politica di confronto e di competizione, e costituire la forma giuridica di sostanze storiche e di concretezze sociologiche.

La consapevolezza che la politica è potere di governo carico di responsabilità e di finalità, che senza politica non c’è democrazia umanistica ma solo l’ordine non umano della tecnica e la pro­spettiva inumana della sopraffazione universale, è il senso più radicale della posizione politica democratica di Dossetti. La quale è stata una possibilità che, per quanto non certo inerte, non è divenuta pienamente realtà, a suo tempo, benché abbia fecondato parte della riflessione e dell’azione della sinistra cristiana nell’Italia del dopoguerra. Una possibilità che – in dialogo con la laicità più pensosa e meno ideologica, con il pensiero critico più responsabile e meno “alla moda” – dovrebbe ancora essere coltivata perché si inneschi quel grande ripensamento della democrazia di cui il nostro Paese mostra di avere oggi un così grande bisogno. Un ripensamento che tragga origine dalle potenzialità che, anche per opera di Dossetti, sono implicite nella Costituzione, e che, anziché “supe­rarle”, le renda finalmente realtà.

 

Prefazione a G. Dossetti, Democrazia sostanziale, a cura di Andrea Michieli, Marzabotto, Zikkaron, 2017.

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