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Ragioni politiche

di Carlo Galli

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Elezioni 2018

La guerra delle parole

 

  1. Strategie

Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.

La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.

Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream, proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.

A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica. E quelle elezioni sono state vinte dai partiti che, se non altro, hanno riconosciuto il pesantissimo disagio sociale in cui il Paese versa, e che il Pd ha invece sostanzialmente negato dando l’impressione di voler lasciare tutto com’è, o in ogni caso di non avere né le idee né l’intenzione di cambiare le cose.

C’è anche, va detto, la posizione oltranzista di chi non vuole «seguire i populisti sul loro terreno», e non solo rifiuta radicalmente le loro ricette ma non vuole ascoltare il grido di dolore che attraverso il populismo si esprime, e affida non alla propaganda ma alla dura lezione delle cose, alle rappresaglie della realtà economica e dei suoi “spontanei” meccanismi, la vittoria dell’ordine politico e sociale che le elezioni di marzo hanno rovesciato. Ma è una posizione difficile da tenere. In ogni caso a essa, prudentemente, si aggiunge la propaganda, la retorica.

La logica di questa retorica – che definiremo la retorica dello scandalo, dello sdegno permanente – consiste nell’imporre un terreno di gioco su cui combattere lo scontro politico fra le élites mainstream e il popolo, mettendo quest’ultimo, fin dall’inizio della partita, dalla parte del torto. La strategia è discriminare culturalmente e moralmente chi si è ribellato alle conseguenze degli errori di quelle stesse élites; ovvero chi in una crisi catastrofica ha cercato protezione, e naturalmente non l’ha chiesta ai vecchi governanti, che le protezioni avevano tolto di mezzo. Insomma, la strategia di rimettere al loro posto i perdenti che hanno osato protestare, e di rovesciare il mondo rovesciato dalla ribellione delle masse.

Tutti i termini in questione hanno infatti intento accusatorio e implicita intenzione punitiva: sovranismo significa tribalismo incivile; populismo significa ragionare con la pancia e con il rancore; nazionalismo significa xenofobia e provincialismo egoista; razzismo, infine, è il male assoluto, la sistematica e ignorante violenza verso i deboli e i diversi. L’accusa, ovvia, è che tutto ciò – questi atteggiamenti, questa cultura diffusa – mette a rischio la democrazia, tutelata invece dal “politicamente corretto” liberal. Al quale si deve ritornare, riconducendovi i riottosi concittadini, bisognosi di rieducazione dopo essere stati sottratti ai cattivi maestri, ai pifferai magici che hanno vinto le elezioni.

Al contrario, sembra chiaro che è una follia tanto pensare di recuperare consenso per questa via, quanto presentare queste come “analisi politiche” che consentano di comprendere che cosa è successo. Se il governo giallo-verde è il fascismo (e non lo credo), sarebbe come fare dell’antifascismo criticando questo o quell’atteggiamento o provvedimento di Mussolini, e lanciando invettive contro la dittatura, invece di seguire la via genealogica, storico-concettuale e storico-economica, di Gramsci.

Ma è difficile credere che gli opinionisti mainstream non vadano oltre la constatazione che in marzo hanno vinto il rancore, la rabbia e la paura, e non riescano a chiedersi che cosa mai – quali eventi, quali processi, quali strutture – abbia prodotto nelle masse questi riprovevoli stati d’animo, queste biasimevoli passioni (ad esempio, quale precedente disastro nella rappresentanza politica abbia generato l’odio e il disprezzo degli italiani verso il parlamento, e sia quindi all’origine anche delle disinvolte proiezioni post-parlamentari di alcuni esponenti di un partito di governo). Fintanto che la retorica dello scandalo non lascia il posto all’analisi, è folle sperare che le posizioni che si reputano biasimevoli perdano terreno. E quindi è forse possibile ipotizzare che se quella retorica non è follia sia piuttosto una dissimulazione, un gioco a parlare d’altro, per non ammettere colpe ed errori enormi, nella speranza che alla retorica della delegittimazione preventiva dell’incubo giallo-verde segua una reale catastrofe della sua azione, e che tutto torni come prima, cioè alle vecchie egemonie.

  1. Errore

L’errore è naturalmente avere sposato (non solo subito, ma accettato e glorificato) il paradigma neoliberista, e poi quello ordoliberista sotteso all’euro; paradigmi diversi che prevedono entrambi la deflazione, la disuguaglianza sociale, la subalternità e la flessibilità del lavoro dipendente, che in tempi di crisi diventano – in assenza di “argini” politici e giuridici – precarietà e insicurezza esistenziale di massa. Il paradigma, insomma, che nega la dignità del lavoro e il ruolo egemone della politica e a questa affida il compito di garantire il mercato (ed eventualmente di aiutare i perdenti, o di punirli se troppo devianti e rumorosi), mai ipotizzando che il governo delle cose del mondo possa risiedere altrove che nelle potenze economiche – ad esempio, in una democrazia in cui i lavoratori (il lavoro dipendente, di diritto e di fatto, e non una generica “comunità nazionale”) abbiano una posizione politica conflittuale e quindi tendenzialmente paritaria, e non subalterna, rispetto alle potenze dell’economia –. Insomma l’errore non è che ci sia stata una crisi – gli economisti mainstream sanno bene che il capitale funziona appunto così –, ma che il paradigma economico preveda che dalle crisi si esca aiutando strutturalmente il capitale e solo episodicamente e marginalmente i lavoratori, che in ogni caso devono essere disponibili ad assecondare ogni richiesta del capitale in temporanea difficoltà. L’errore è che non si sia immaginato che ci sarebbero state reazioni politiche a tutto ciò; di non aver pensato che la politica possa guidare un’uscita dalla crisi, con una soluzione che non consista di salvataggi per gli uni e di eliminazione dei diritti per gli altri (le “riforme coraggiose” a danno dei deboli) ma di “riforme di struttura” (come si diceva ai tempi sovversivi del primo centrosinistra, e come si potrebbe cercare di dire anche oggi, mutatis mutandis: in fondo, la questione è la stessa, cioè allineare capitalismo e democrazia, naturalmente divergenti).

Avere trascurato la politica, e avere ignorato che questa avrebbe potuto vendicarsi: questo è stato l’errore strutturale, che alle élites è costato il potere politico, ma che non viene ammesso. Se ci volessimo servire dell’antica dottrina cattolica, potremmo dire che la mancata ammissione (confessio oris) nasce dal mancato pentimento (contritio cordis) e dà a sua volta origine al mancato ravvedimento operoso (satisfactio operis). Insomma, pervicaci e impenitenti, le élites politiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo sono in peccato mortale, e ne pagano il fio. Ovvero, sono finite all’opposizione e paiono doverci rimanere a lungo.

Ma, come si diceva, credono di potere uscire in breve dall’inferno della perdita del potere aspettando che agli italiani “passi” il rancore, oppure che questo si sposti verso gli attuali governanti, dei quali si attende la rapida scomparsa di scena per impresentabilità e inefficienza. E nell’attesa combattono la guerra linguistica.

  1. Battaglie

Una guerra le cui battaglie sono già state enumerate, ma che vanno studiate un po’ più da vicino, per vedere, in ciascuna di esse, come vengano costruiti i fronti del Bene e del Male, e come ai due fronti si possa contrapporre una “verità”; che non vuole essere un assunto dogmatico ma il suggerimento di uno sguardo realistico. Per una possibile politica oltre la propaganda.

Sovranismo, dunque. Ovvero l’aggressivo particolarismo che sarebbe la presunta radice politica dei nostri mali. Il cui opposto positivo sarebbe invece l’universalismo collaborativo, declinato in globalismo o in europeismo secondo i casi (in realtà, si tratta di due prospettive che possono anche essere opposte). Una contrapposizione costruita per non parlare di sovranità, ovvero della pretesa di un soggetto politico, i cittadini nel loro complesso, che lo Stato che li rappresenta persegua gli interessi nazionali e protegga i cittadini stessi. Una pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere, la sua mission. Una pretesa che può essere anche democratica, come appare dalla nostra Costituzione che collega il popolo alla sovranità e non ai mercati o ai trattati dell’euro. Una pretesa, del resto, avanzata e praticata, secondo le proprie forze, da tutti gli Stati europei, nessuno escluso. Lo Stato sovrano è un anacronismo? Pare di sì: la sinistra globalista lo minimizza, quella moltitudinaria lo deride (i risultati si vedono). Forse invece potrebbe essere una leva, o meglio un punto d’appoggio, transitorio ma obbligato, per rispondere alla sistemica insicurezza alla quale i cittadini sono esposti e sacrificati, e che non tutti trovano eccitante e ricca di opportunità – un dato che chi fa politica dovrebbe conoscere –.

Populismo, poi. È con ogni evidenza il nome che le élites mainstream danno a ciò che dice e fa il popolo quando hanno perso il contatto con esso. È come se dicessero: «se non ci obbedisci, sei plebe; se hai perso la fiducia in noi, ragioni con la pancia». L’opposto positivo è invece la “ragionevolezza”, il dare ragione alle élites, alle loro narrazioni. La verità è che il populismo con le sue semplificazioni è un segnale della crisi politica terminale di un intero ciclo politico-economico, quello democratico-keynesiano, crollato dapprima economicamente sotto i colpi del neoliberismo e, trent’anni dopo, anche culturalmente e ideologicamente. Una crisi di legittimità che si tratterebbe di decifrare nelle sue cause e non di deridere nei suoi effetti. Certo, impostare la politica sull’onestà e sulla lotta ai vitalizi, o sull’ossessione anti-migranti, è riduttivo e fuorviante, ma non perché è una mossa populista, quanto piuttosto perché non è per nulla radicale. Come altrettanto poco radicale è stracciarsi le vesti ad ogni uscita pubblica scorretta di questo o di quel governante, senza mai andare oltre la predica moral-superficiale; senza mai capire a quali problemi quel governante sta comunque rispondendo.

Nazionalismo, inoltre. Ossia il ritorno di culture politiche improntate all’atavismo e all’aggressività xenofoba, viste come un regresso a quelle condizioni che hanno portato l’Europa a suicidarsi con due guerre mondiali. E quindi il nazionalismo è appunto ciò contro cui si è costituita l’Europa del dopoguerra. È il nemico. Il suo opposto positivo è invece l’apertura reciproca delle culture e delle istituzioni, l’interculturalità, il federalismo o addirittura la sovranità degli Stati Uniti d’Europa, che solo una inspiegabile e irragionevole resistenza nazionalistica non lascerebbe realizzare. La verità è che tutti in Europa perseguono interessi statal-nazionali, e che tuttavia di nazionalismo e di nazione (differenti e opposti, come da tempo sappiamo) oggi in Italia e altrove c’è poca o nessuna traccia (piaccia o dispiaccia; ovvero, che ciò sia detto in negativo o in positivo). Non c’è alcuna visibile richiesta, da parte della società, di identità, di comunità di destino, di tradizione, e neppure la cultura va in questa direzione: con una certa pigrizia intellettuale si scambia per nazionalismo (cioè le si dà un nome vecchio) la richiesta sociale di una protezione che si manifesti efficacemente dentro il livello storico e istituzionale esistente, cioè dentro il perimetro degli Stati nazionali. Certo, questi nacquero anche attraverso il mito della nazione, allora progressivo. Ma di questo mito identitario oggi non c’è neppure la caricatura, se non ai campionati di calcio: da tempo l’individualismo e il familismo hanno colpito a fondo, e modelli culturali internazionali si sono affermati irresistibilmente ormai da decenni. L’esigenza di condurre una vita in dimensione storica, sottratta all’eterno presente dell’universale raccolta di merci neoliberista, non sembra essersi ancora radicata nelle masse.

Razzismo, infine, è il nome dato all’insicurezza ostile dei poveri e degli incolti. Che si sentono minacciati non da un generico “diverso” ma da un concreto ingresso, al tempo stesso pubblico e clandestino, di persone fin troppo simili a loro. E i penultimi si specchiano negli ultimi, li temono e li esorcizzano, perché vi vedono certo persone bisognose di aiuto ma capiscono anche che non possono essere aiutati a spese loro, delle fasce più fragili, che dai migranti si sentono minacciati anche dal punto di vista economico. Né a spese esclusive di quel fragile vaso di coccio che è l’Italia nel consesso europeo, inchiodata da patti leonini, sottoscritti dalla destra e rinnovati dai governi seguenti, che hanno cercato di fare del nostro Paese il campo profughi del continente in cambio di altri benefici macroeconomici. Tanto più che gli altri Paesi d’Europa non smaniano certo per ricevere migranti, per sostituirsi all’Italia. Come che sia, l’opposto positivo è in questo caso il cosmopolitismo contrapposto alla chiusura egoistica, la pietà contrapposta alla spietatezza, oppure, da un punto di vista moral-politico, l’appello alla fraternità, il terzo trascurato della triade rivoluzionaria; ma si avanzano anche esortazioni ad apprezzare l’utile economico che dai migranti deriverebbe in termini di Pil e di pagamento delle pensioni agli italiani, come se i migranti trovassero facilmente, in Italia, lavoro stabile, legale e non servile, e come se in futuro le loro pensioni non dovessero essere pagate. La verità è che l’insofferenza, in sé deplorevole, verso i migranti nasce dalla sofferenza e dalla insicurezza reali dei cittadini, che nessuna promessa europea, sempre disattesa, o nessun sermone o catechismo riuscirà, da solo, a esorcizzare. Solo la politica ci riuscirà, se sarà una politica efficace e concreta.

  1. Politica e parole

La guerra delle parole è al tempo stesso un’arma, un diversivo, e un andar fuori bersaglio. Se la sinistra moderata europeista e quella radicale globalista e moltitudinaria non capiscono ciò, non hanno speranza. Vanno lasciate alle loro battaglie minoritarie, poiché hanno evidentemente rinunciato all’analisi politica realistica.

Certo, le parole e la propaganda sono anch’esse parte della politica. Ma le parole fanno politica quando indicano a questa una direzione, un obiettivo: non quando sono il punzecchiamento più o meno sdegnato, sempre e solo “reattivo”, rispetto alle parole e alla politica altrui. Se è così, il far guerra con le parole significa ripiegare, non saper fare nulla di politico, essere subalterni alle politiche e alla propaganda altrui.

Chi vuole cambiare qualcosa, posto che sia possibile, non deve schierarsi dalla parte di una propaganda o di un’altra. Al primo posto non viene la parola della propaganda, ma la parola dell’analisi e della critica: a questa può seguire l’azione, accompagnata, a questo punto, dalla parola di una propaganda non parassitaria ma autonoma ed egemonica. L’opposizione, se vorrà esistere, dovrà analizzare, criticare e parlare in proprio. Anziché forgiare una lingua di guerra all’interno della guerra delle lingue, deve costruirsi una lingua di verità, di realismo, di radicalismo non parolaio, di radicamento sociale, che spiazzi e trascenda il discorso politico corrente.

«Politica» implica insomma che con le parole si afferrino le cose, le strutture, i processi, i soggetti. La politica è l’attività di chi non si limita a opporre propaganda a propaganda ma di chi si chiede come si possa «mettere la mani negli ingranaggi della storia», col pensiero e con l’azione, senza limitarsi ad aspettare gli errori altrui – del resto, se il quadro politico-economico si sfascia, chi ne trarrà vantaggio difficilmente saranno i vinti di oggi –.

Per chiudere, un esempio. Si sta diffondendo l’idea che nel discorso pubblico di “sinistra” si debbano recuperare la nazione, e lo Stato nazionale, perché è su questi concetti, o temi, che si è stati sconfitti il 4 marzo (come ho detto, credo che ciò sia non esatto, e che la sconfitta si sia consumata sulla protezione e non sulla tradizione, sulla sicurezza e non sulla patria). Ecco allora le proposte di “nazionalglobalismo”, di “patriottismo europeo”, di “federazione sovrana di Stati sovrani”.

L’obiettivo è di non lasciare la nazione ai nazionalisti, lo Stato agli statalisti, la sovranità ai sovranisti, l’Europa agli europeisti. E fin qui va bene: si tratta di smarcarsi dalla polemica quotidiana, di guardare oltre, di tentare di imporre un altro terreno di gioco. Ma pur dovendosi apprezzare la direzione nuova che si cerca di intraprendere, resta da sottolineare che in alcuni casi si tratta di concetti di cui la storia (ad esempio, la guerra civile statunitense) ha dimostrato la non praticabilità, o in altri casi di provocazioni intellettuali che in quanto tali non sanno indicare alcuna tappa intermedia tra il presente e il futuro, tra il problema e la soluzione. Che vogliono costruire miti più che discorsi razionali.

Ma in politica anche la parola mitica per essere capace di mobilitare deve avanzare un progetto realistico e condivisibile, un obiettivo difficile ma raggiungibile attraverso una via che va indicata nella sua concreta materialità. E a maggior ragione questo è l’obiettivo della parola razionale.

Questi nuovi miti dovranno quindi essere preceduti da analisi critiche, e dovranno essere riformulati dopo che il pensiero critico si sarà misurato con la questione del rapporto fra sovranità nazionale e sovranità europea, nonché del rapporto fra politica ed economia. E ciò non per pedanteria accademica, ma per realismo, per efficacia tanto critica quanto propagandistica. In caso contrario si resterà ancora una volta in superficie. Detto altrimenti, questi nuovi “miti” non avranno la forza di smuovere alcunché, e meno che mai i popoli, fintanto che attraverso di essi non verrà veicolata un’idea credibile di sicurezza sociale e di reale integrità della persona, finalmente sottratta al suo presente destino di essere in balia di potenze economiche incontrollate, di processi che li trascendono. Fintanto che del mito politico non farà parte anche la consapevolezza che «finanza è una parola da schiavi».

I veri rischi del nuovo governo

Se il diavolo (o un qualche messia, secondo i gusti di chi legge) non ci mette lo zampino, ovvero se i due “capi politici” non romperanno sul premier, se Mattarella non bloccherà la lista dei ministri, oppure ancora se la prospettiva di essere stato riabilitato non spingerà Berlusconi a tentare il colpo delle elezioni anticipate, avremo quindi un governo “populista” e “sovranista”, un unicum in Europa occidentale, una minaccia per la democrazia, per l’euro, per i conti pubblici, per la collocazione internazionale dell’Italia. Un governo privo di esperienza, di cultura politica, di una prospettiva per il Paese. Una sciagura apocalittica, decifrabile solo con l’ipotesi che gli italiani siano ammattiti, o ingannati per anni da media antisistema.

Tutti i centri di potere europei sono pronti, col fucile puntato, a inchiodare gli usurpatori al primo errore. Tutti i media dell’establishment fanno a gara nel delegittimare il governo non ancora nato, nel prevedere le terribili rappresaglie a cui lo sventurato Paese andrà incontro, nel ripercorrere sdegnati il mare di menzogne e di cambiamenti di rotta che i partiti di governo hanno ammannito agli italiani nei due mesi di trattative, stanati solo dalla mossa vincente di Mattarella.

Nessuno che ricordi la grande cultura politica e l’intemerata rettitudine di comportamento dell’ex segretario del Pd, il quale, reduce da mille promesse non mantenute, come analisi del risultato elettorale rilasciò un omerico «la ruota gira», e che, come commento al formarsi (forse) del nuovo governo, esclama «pop corn per tutti», a dimostrazione del fatto che il Pd (ancora suo) non ha alcuna strategia politica – dopo avere fallito il suo compito, di essere l’accompagnamento moderatamente liberal dell’ordoliberalismo europeo – se non sperare che «gli altri» si sbaglino, e gestire l’opposizione all’insegna del «tanto peggio tanto meglio».

Quanto al populismo e al sovranismo, inoltre, sarà forse ora di considerare che questi sono soltanto termini delegittimanti, privi di consistenza storica e politica. Nessuno che ricordi, a proposito del deprecato «sovranismo», che se l’alternativa all’autogoverno dei popoli (appunto, la sovranità) è un sistema di regole economiche, calate dall’alto sulle nazioni e sulle società, che vanno a vantaggio solo di alcuni Paesi e di alcune classi sociali, allora non c’è da meravigliarsi se i non-favoriti (la larghissima maggioranza) chiedono protezione allo Stato nazionale. Che non sarà il futuro, ma che è senz’altro destinato ad apparire migliore del presente, un’alternativa rassicurante per le nostre società disastrate – che i fautori dello status quo vogliono far passare per sane, felici, progredienti –.

In ogni caso, la sovranità non è solo quella xenofoba dei Paesi di Visegrád, ma, molto più, quella di grandi Paesi democratici come la Francia e la Germania, che non pare l’abbiano dismessa, né che abbiano cessato di perseguire, con robusta determinazione, i propri interessi nazionali, geoeconomici e geopolitici. Politica che all’Italia sarebbe a priori preclusa. Perché? Perché l’interdipendenza, la nuova regola aurea dell’esercizio della sovranità, è per noi, semplicemente, «dipendenza»?

Per quanto riguarda il «populismo», poi, la verità storica è che gli italiani hanno votato per protestare contro insicurezze reali, economiche e simboliche, determinate da pregresse decisioni politiche nazionali e internazionali, oggi presentate come irreversibili – peraltro, se davvero lo fossero, a ben poca cosa si ridurrebbe la nostra libera capacità di scelta democratica –; ed è altrettanto vero che non saranno gli anatemi e le prediche o le rappresaglie internazionali o dei «mercati» a fare disciplinatamente rientrare alla casa madre i voti andati in libera uscita. Questi non torneranno al Pd, evanescente e non più credibile, e non andranno a nessuna sinistra perché questa, al momento, non esiste come soggetto politico reale.

La verità è, semmai, che quello che nasce è un governo figlio e padre di molti compromessi e pasticci. Non solo fra i distinti programmi e i diversi elettorati dei due vincitori, ma anche fra questi e i poteri dell’establishment. Che sono stati tanto largamente blanditi da Di Maio che la base grillina, peraltro molto suscettibile e molto volatile, ne è stata assai delusa – e Di Maio, quindi, è quello che da un’avventura governativa rischia di più – . Poteri, inoltre, che sono rappresentati, per quanto concerne i vasti interessi berlusconiani, da Salvini. Così che il rischio maggiore è più l’opaca continuità, pur interrotta da qualche misura a effetto, che non l’avventuristica discontinuità.

Una continuità, un pasticcio, marcati inoltre dal fatto che Renzi e Berlusconi, stretti in un nuovo informale patto del Nazareno, sono protesi a conquistare le commissioni parlamentari di garanzia, che spettano alla opposizione. E che Berlusconi possa stare al tempo stesso al governo e anche all’opposizione – come cercò di fare con il governo Monti – è una ulteriore dimostrazione non solo della sua perdurante abilità nel massimizzare le sue non più così abbondanti risorse elettorali, ma anche della situazione tutt’altro che chiara che si viene creando, sia fra i vinti sia fra i vincitori del 4 marzo.

Il punto è che, quando non c’è la luce di un’idea politica, né la forza di una decisione democratica (le elezioni hanno sì mostrato che la maggioranza degli italiani è ostile all’establishment, ma questa ostilità si divide tra due forze politiche disuguali), non si può fare altro che procedere a tentoni, come i ciechi di Brueghel. E sperare che il sommarsi dei molti pasticci – sono questi i veri pericoli, non il populismo e il sovranismo – non ci porti tutti nel fosso.

Un versione ridotta di questo testo è in corso di pubblicazione in «La parola»

 

Parlare di “sistema e antisistema” è un inganno politico

Intervista con Donatella Coccoli

«Eccome se c’è differenza tra destra e sinistra. Bisogna solo tirarla fuori, renderla manifesta, perché il bisogno di sinistra, anche se ormai inconsapevole, c’è in tutti coloro che stanno male, anche se hanno rifiutato la sinistra alle ultime elezioni». Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche a Bologna, nel 2010 aveva scritto per Laterza Perché ancora destra e sinistra. In quel libro, poi uscito in seconda edizione nel 2013, già prefigurava scenari contrastanti nella società e nella politica. Poi, le cose sono precipitate e Galli le ha vissute in prima persona. Eletto con il Pd di Bersani alla Camera nel 2013, nel 2015 se n’è andato, entrando in Sinistra italiana, ma per le elezioni del 4 marzo ha scelto di non ricandidarsi e di tornare all’insegnamento universitario a Bologna.

Professor Galli, negli ultimi tempi ci viene propinato un mantra, soprattutto da parte del Movimento Cinque stelle, e cioè che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso. È proprio così?

In prima battuta si potrebbe dire che destra e sinistra, concetti tipici della storia moderna, hanno senso quando la politica ha la capacità di decidere su questioni importanti, come sulla modalità con cui avviene la produzione e la distribuzione della ricchezza. Ma da tempo le grandi decisioni non le ha prese la politica istituzionale a livello nazionale. Le hanno prese i mercati, e gli Stati che a essi si sono aperti attraverso trattati internazionali. Detto questo, dentro quella via già tracciata si può ancora distinguere destra e sinistra, ma su questioni per lo più marginali.

Quali sono adesso le questioni che permettono di identificare destra e sinistra?

Per esempio lo ius soli. Certo, si può dire che è di sinistra volere lo ius soli e di destra non volerlo, ma questo significa rimanere dentro il mainstream. Invece, se volessimo scendere un po’ più alla radice, potremmo prendere il Jobs act. Su questo tema si può dire che la partita è tra coloro che vedono il lavoro come variabile dipendente dal mercato e coloro che invece nel lavoro vedono qualcosa più importante del mercato. E quindi l’ingiusto licenziamento è qualcosa che il mercato non può comprare, per cui chi lo subisce deve essere reintegrato, non ricompensato. Ma vi sono forze che si dicono di sinistra secondo le quali il Jobs act è giusto.

E allora è semplice, non sono forze di sinistra.

Sì, la deduzione non fa una piega. Per essere di sinistra non basta proclamarsi di sinistra. Ma passiamo al terzo livello di destra e sinistra, ancora più radicale. La distinzione si gioca sul neoliberismo. In prima battuta sembra che chi si oppone al neoliberismo sia di sinistra e tutto quello che accetta il neoliberismo sia di destra. Ma si dovrebbe distinguere invece tra destra economica e destra politica, che molto spesso si presenta come antiliberista.

Si riferisce all’ “antiliberismo” della Lega?

Esatto. Tutta la destra sociale in Europa, almeno a parole, è antiliberista. Ma il suo essere antiliberista è rivolto solo contro alcuni aspetti del neoliberismo e in ogni caso sconfina nell’antidemocrazia. Naturalmente esiste anche una sinistra filoliberista: l’Italia ne è piena. Insomma la differenza fra destra e sinistra esiste ma va integrata (non sostituita) con la differenza fra liberismo e antiliberismo (economica) e fra sistema e antisistema (politica).

Veniamo alla situazione della sinistra in Italia, sconfitta alle elezioni del 4 marzo.

C’è prima di tutto una sinistra che ho definito “accompagnamento liberal” del neoliberismo. È il Pd, che gioca il proprio progressismo sui diritti, ma ignora l’esistenza di un problema sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e sulla subordinazione del lavoro e che, al massimo, emette alti lamenti sul fatto che c’è diseguaglianza sociale ma non capisce dove e come essa di genera. Così interviene con elargizioni monetarie che non modificano la struttura dell’assetto economico complessivo. Questo è stato il modo di essere di sinistra del Pd, e di molti di quelli che ne sono usciti all’ultimo minuto. Certo, qualcuno dentro il Pd ha fatto opposizione, ma è stata troppo debole.

E la sinistra a sinistra del Pd?

La sinistra antagonista corre il rischio di essere antagonista e basta, cioè di accettare il terreno di lotta che di volta in volta viene offerto, con esiti irrilevanti. Il fatto è che c’è un dislivello enorme tra la grande massa di popolazione che l’attuale situazione economica fa decadere sotto un certo livello di vita e rende disponibile a posizioni antisistema e la capacità della sinistra di rappresentare questa base potenziale. Il Pd è votato nei quartieri alti, la sinistra democratica di Leu ha ottenuto il 3%, gli antagonisti di Pap non hanno fatto presa. La realtà è che quelli che sono perdenti nell’attuale modello economico non si sono sognati di votare a sinistra. Da qui in molti sono giunti alla conclusione: destra e sinistra non esistono, esiste solo forze di sistema e antisistema.

Che cosa significa sostenere la dicotomia sistema-antisistema?

Significa eludere il problema. In questo modo si arriverebbe a pensare che il 55% degli italiani che ha premiato M5s e Lega sono antidemocratici, che addirittura il fascismo è dietro l’angolo. È chiaro che così non si guarda la causa, che va interpretata attraverso la vecchia griglia destra-sinistra, su base economica. L’Italia ha votato forze antisistema perché non c’era una sinistra in grado di raccogliere le sue istanze di protesta contro un sistema politico ed economico che è costruito per togliere potere al popolo, rendendo i cittadini poveri, deboli e ricattabili.

Quindi è una pura operazione politica ridurre tutto a sistema e antisistema?

Assolutamente sì. È la più sottile operazione politica adesso sul mercato. E non è contrastata, perché invece di analizzare le cause storico-politiche per cui c’è una società che non piace alla maggioranza dei cittadini, ci si limita a dire “quelli sono matti, sono di destra, sono cattivi, sono populisti”. Ora, spesso è vero, sono populisti e antisistema, con venature a volte antidemocratiche. Ma chi o che cosa li ha fatti diventare così?

C’è chi ha parlato di “volatilità del voto”: di fronte ad una delusione per M5s, gli italiani potrebbero tornare a votare la sinistra?

No, gli italiani delusi dai Cinque stelle non torneranno a votare Renzi, voteranno molto di peggio, a destra. Dire volatilità del voto è la trascrizione politologica del concetto sociologico di società liquida. Quanto più la società è liquida, in realtà, tanto più è solida, nel senso che una volta distrutti i legami sociali dal neoliberismo, le diseguaglianze rimangono solidissime. Quindi il voto può essere libero e fluttuante, però se non cambiano i motivi per cui la gente protesta, il voto di protesta, molto difficilmente tornerà ai partiti dell’establishment.

Lei ha scritto di recente che la sinistra, più che di governo, deve essere «di popolo, di studio e di cultura». C’è un po’ di speranza?

Le questioni ormai sono strutturali. O hai la forza per fare cambiamenti strutturali o non ce l’hai e allora è meglio mettersi a studiare, visto che se ne ha tanto bisogno, e prepararsi così a costruire un’Italia nuova. Il Pd oggi è inutile. Non è che deve ritrovare la propria identità come dicono in tanti: no, la deve proprio trovare perché quella che aveva non era di sinistra, era una identità blandamente blairiana. Si tratta di rifondare Pd, ma anche Leu e ogni sinistra. Siamo, come diceva Gramsci, alla fine della guerra di movimento, se mai è stata combattuta; adesso è guerra di posizione, cioè bisogna tornare ad accumulare riserve, energie, saperi, legittimità davanti ai cittadini. La sinistra deve piantarla di stare sui social media e tornare a ciò di cui tutti hanno bisogno: l’incontro di persone reali in spazi fisici. Bisogna reinventare le sedi di partito. L’unica cosa che conta sono le persone che non sono astrazioni algoritmiche insediate dentro un computer. La sinistra deve fare quello che gli altri non vogliono fare, cioè scatenare la libertà e l’energia delle persone, e questo è possibile solo se le persone vengono riconosciute come esseri umani veri e non come dei target elettorali o propagandistici o consumistici. Per tornare ad avere la fiducia dei cittadini la sinistra deve tornare ad avere fiducia in se stessa, il che significa riconoscere la sconfitta senza se e senza ma, fare il mea culpa e ricominciare, possibilmente anche con facce nuove, purché serie e competenti. Perché la politica è una cosa terribilmente seria: dalla politica passa, o dovrebbe passare, la vita di tutti.

L’intervista è stata pubblicata in «Left», n.17, 27 aprile 2018

La sinistra e la speranza

 

La crisi della sinistra è reale. E probabilmente terminale. Lo stato attuale di Pd e LeU e Pap non giustifica alcuna speranza.

L’Italia ha detto No a tutte le sinistre possibili. A quella irriconoscibile, il Pd, centrista, ambigua, forte solo della propria arroganza e della propria funzione di partito dell’establishment (Renzi è solo l’epitome di un’impostazione al tempo stesso velleitaria e subalterna). A quella di LeU, fin troppo riconoscibile: la vecchia Ditta di chi non ha visto, se non post festum, le contraddizioni e i problemi del modello sociale ed economico che sponsorizzava e implementava, di chi ha dato l’allarme quando i buoi erano già scappati, quando le mucche erano già nel corridoio. A quella sconosciuta di Pap, carica di un passato dogmatico che non si sa bene come conviva con il presente mutualistico.

Certo, il No ha coinvolto anche Berlusconi e il suo partito introvabile, Fi, privo di guida e di orientamento, dilaniato da faide personali. Il fatto è che tutta la sinistra è stata valutata come Fi, ovvero come irrilevante oppure adagiata sulle logiche del «sistema», parola imprecisa per indicare qualcosa di molto preciso. Il modello economico neoliberista e ordoliberista, e le sue conseguenze concrete, devastanti per la società e per la democrazia.

Così, la protesta e la proposta sono state lasciate a forze nuove, qualunquiste e lepeniste, che hanno raccolto tanti voti di cittadini non lepenisti, non fascisti, non qualunquisti, stanchi ed esasperati dalla sordità, dalla mancanza di analisi, dall’assenza di capacità politica di proposta, delle forze della destra e della sinistra tradizionali o, meglio, delle forze che si sono contese la seconda repubblica e il suo triste declino. La crisi economica decennale che l’Italia, vaso di coccio tra vasi di ferro, non ha ancora superato.

È inutile ora sottolineare che la protesta dei vincitori è fuori bersaglio – lo è, in larga parte -; che le loro proposte sono o inesistenti o velleitarie – anche se è in buona parte vero -; che i vincitori non hanno veramente vinto perché non riescono a fare un governo – anche questo è vero, ma non significa che i perdenti avessero ragione -. Quello che è certo è che in caso di elezioni anticipate la sinistra, in tutte le sue forme, uscirebbe massacrata e scomparirebbe. E questo lo sanno tutti.

La sinistra non ha chiavi di lettura del presente, del passato e del futuro. Non sa che cosa dire agli italiani, se non che è migliore degli altri (chissà perché, poi. Forse per la sua superiore cultura?). La sinistra non è credibile nei suoi dirigenti, nelle sue parole, nelle sue opere. Nonostante il residuo di entusiasmo e di pensiero critico che circola nella società, e che ancora ha il coraggio di dirsi di sinistra, la sinistra politica oggi è inutile.

Ciò non significa che la dialettica destra-sinistra sia estinta, e che le due partizioni della società non esistano più. Che non esistano più contraddizioni e ingiustizie, dominio e oppressione, disuguaglianza e assenza di speranza. Che non esistano disordini, che derivano dalla mancanza di ordine umano; dismisure generate da un modello sociale ed economico fondato sull’assenza di misura, che non è e non vuol essere a misura d’uomo.

Una sinistra non inutile dovrebbe essere in grado di produrre analisi delle cause di tutto ciò, dovrebbe essere in costante rapporto simbiotico (di reciproca educazione) con i soggetti interessati a rovesciare quelle cause (ma prima dovrebbe individuarli), dovrebbe essere impegnata nella ricerca di strategie di lotta, dovrebbe riconoscere apertamente le sconfitte patite da un avversario ultra-potente, dovrebbe cercare di sottrarsi alla sua egemonia culturale e sociale, quale si è manifestata con la globalizzazione, con la fine del comunismo, con il neoliberismo, con il progetto ordoliberista dell’Europa.

E invece le sinistre hanno voluto presentarsi come sinistra di governo, e non hanno saputo governare nulla, se non in modo passivo e subalterno, solo ravvivato da slogan e narrazioni vuote; hanno voluto cavalcare la tigre, e ne sono state sbranate; hanno voluto essere responsabili e sono risultate ciniche (quelle di governo) o astratte (quelle di opposizione); sono giunte alla più profonda ignoranza della realtà per eccesso di realismo; non hanno prodotto nessuna idea trasformativa e tutt’al più si sono concesse qualche incursione nei diritti civili, tanto timida quanto risoluti erano i tagli dei diritti sociali che in nome della responsabilità andavano irresponsabilmente praticando. È ovvio che la sinistra sia stata ritenuta responsabile della crisi: lo ha voluto essere, senza sapere misurare la sua gravità, i suoi effetti dolorosi, senza conoscerne le vittime, senza parlare a esse se non la lingua populista della felicità forzosa, dell’ottimismo programmatico, del futurismo velleitario. Una lingua falsa, che suona falsa, che si espone al controcanto di altre lingue populistiche che almeno sanno esprimere lo scontento e la rabbia di un popolo che per più della metà dei votanti (molti) ha rifiutato il «sistema».

Chi ha tratto beneficio da questa protesta ha individuato non tanto il problema quanto la percezione popolare del problema, che non ha la forza teorica né pratica di affrontare, così che ora sta cercando, con politiche filo-establishment, di tradire il mandato politico ricevuto dai cittadini? Affari suoi, peggio per lui e per loro. I fallimenti dei vincitori rimetteranno in gioco il Pd, come Renzi spera con il suo Aventino? Oppure il Pd deve fungere da rassicurante ingrediente di ogni governo futuro, in alleanza con i vincitori, come vorrebbero i sempre timidi oppositori interni dell’ex segretario? Non rileva. Se i vincitori falliscono la protesta resterà e crescerà, e si trasferirà altrove; e d’altra parte la sinistra non può certo costituire il freno moderato delle velleità populiste, anziché essere, come dovrebbe e come non sa fare e non fa, una forza di trasformazione radicale dei rapporti sociali. Trasformazione che in Italia passa primariamente attraverso la restituzione allo Stato di funzioni e poteri pubblici, dato che le forze dell’economia privata non sono in grado di assicurare benessere, ordine, legittimità, alla nostra comune esistenza.

Essere anti-sistema è obbligatorio, ormai. Siamo in un’epoca di crisi che ce lo impone. E per uscire dalla crisi si deve capire chi l’ha generata, quali debolezze specificamente italiane l’hanno resa quasi mortale, quali programmi e progetti e soggetti sono disponibili per tentare di non restarne travolti, nel ciclo di decadenza culturale, civile e democratica, oltre che economica e sociale, che sembra incombere.

La sinistra, se c’è, deve battere un colpo. Non serve la riproposizione pallida di progetti che erano miopi già quando nacquero. Serve invece capire che cosa si vuole, con chi lo si vuole fare, in che modo. Se non si accetta di essere all’ora zero, la sconfitta definitiva è certa. E se invece lo si accetta, ci si deve attrezzare per una lunga e faticosa attraversata del deserto, che implica che ci si liberi da fardelli inutili e di ceti politici reduci da tutte le sconfitte e da tutti i fraintendimenti. E che si sia seriamente intenzionati a offrire agli italiani buona politica, non chiacchiere. Politica radicale, non palliativi. Credibilità, non menzogne. Azioni, non parole.

Altro che sinistra di governo! Si deve essere sinistra di popolo, e insieme sinistra di studio e di cultura. Non si tratta di rinnovamento, di ringiovanimento, di rottamazione. Ma di un sussulto di dignità almeno quando la campana suona per annunciare una irrilevanza ormai dimostrata a livello europeo, e particolarmente evidente in Italia. Ci si deve convincere, se ci si dice di sinistra, che i problemi e le contraddizioni continueranno a darsi anche se la sinistra non ci sarà, e che saranno nominati da altri e risolti da altri. Che può esistere un mondo senza sinistra. Che questa ha avuto la pretesa di coniugare emancipazione e progresso, e che se non conosce più il proprio DNA può anche sparire. Solo guardando in faccia l’ipotesi della propria scomparsa, solo col rinunciare alle analisi consolatorie, solo vincendo l’inerzia, la tentazione della continuità, si può prendere la decisione di avere e di dare speranza. Hic Rhodus hic saltus.

M5S-PD, un governo fuori dalle possibilità logiche

 

Il risultato elettorale segna un ritorno della politica – non una vittoria dell’antipolitica –. Gli italiani hanno espresso un’esigenza tipicamente politica, di protezione e di fiducia, contro i meccanismi (pretesi automatici e “tecnici”, in realtà politici anch’essi, ma oligarchici) della moneta unica e dell’impianto ordoliberista che le è sotteso. Hanno detto che il «pilota automatico», e i suoi aiutanti del Pd, ha fatto un disastro sociale e antropologico, e vogliono un diverso pilota umano, politico e non tecnico né asservito ai tecnici e agli oligarchi. E ciò, nonostante la crescita del Pil, che evidentemente non basta a soddisfare le esigenze di sicurezza del Paese. Sia perché è una crescita scarsa, malissimo distribuita, sia perché il quadro in cui essa avviene resta caratterizzato dalla disuguaglianza, dalla precarietà e dalla subalternità del lavoro, dall’incertezza delle prospettive di vita, dal degrado della società e dal malfunzionamento della sfera pubblica.

Le proteste (una ribellione, non ancora una rivoluzione) sono state di due segni diversi. Da una parte il M5S ha stravinto nella fragile società del Sud, che chiede tutela diffusa – il reddito di cittadinanza –; dall’altra la Lega ha stravinto nel Nord, che in una società più forte vuole protezione dalla inefficienza pubblica e dal degrado urbano. Con categorie tradizionali, la prima è più vicina a qualche umore di sinistra, la seconda è più connotata a destra. Ma quello che conta è che questo nuovo bipolarismo, pur imprecisamente designato, si afferma sulle rovine del Pd, il partito dello status quo, insieme a Forza Italia – non a caso entrambi sconfitti –.

Questa protesta duplice è primariamente rivolta contro i ceti politici che hanno governato fin qui; e anche se molti elettori la estendono al sistema politico-economico in generale, potrebbe essere compatibile con l’assetto economico vigente. In fondo le richieste dei pentastellati (soprattutto il reddito di cittadinanza) non eccedono l’orizzonte neoliberista, e quelle dei leghisti possono, in parte, essere contenute, almeno provvisoriamente, all’interno di un impianto ordoliberista (anche se qui l’euroscetticismo è più forte). Ma perché questo contenimento possa avvenire, il sistema economico dovrebbe fornire una performance rassicurante. E perfino in questo caso i guasti del passato, profondissimi, non cesseranno per molto tempo di produrre effetti sul modo, negativo, con cui milioni di italiani guardano il presente e il futuro, anche se si registrassero (improbabili) miglioramenti. La fiducia si è davvero spezzata. Si può dire che quel sistema non è più in grado di generare consenso, benessere (pur relativo) e coesione sociale. Gli italiani si sono “incattiviti” per qualche preciso motivo, non per sadismo o per innata xenofobia.

Da questo cataclisma politico è risultato un sistema politico a due poli e mezzo. Nessuno dei due poli può governare da solo, e ciascuno di essi fa offerte al terzo mezzo polo, il Pd. Ma le due possibili combinazioni si moltiplicano in molte fattispecie concrete: una cosa, infatti, è governare insieme, altra cosa è dare un appoggio esterno con astensione programmata su singole questioni, oltre che sulla fiducia iniziale. Naturalmente, esistono sulla carta altre opzioni: dal governo di tutti (di unità nazionale) al governo di nessuno (tecnico o del presidente). Si tratterebbe di governi non politici ma di scopo, a tempo: fino alla legge di stabilità del 2019, o fino alla nomina dei vertici dei Servizi.

Detto questo, l’esigenza di formare un governo, già a partire dal Def, si scontra con alcune incompatibilità logiche: come possono governare insieme, o in ogni caso legittimarsi e sostenersi a vicenda, partiti come M5S e Pd, fino a ieri (giustamente) feroci avversari? Forse in nome della comune opposizione alla destra? Ma quello fra destra e sinistra non era un cleavage obsoleto, almeno nel discorso pubblico dei M5S? E poi: in questa ipotesi il Pd dovrebbe essere davvero de-renzizzato, dato che Renzi si rifiuta di governare con gli uni e con gli altri; ma almeno il 60% degli eletti è composto di fedelissimi che, anche in un mondo di labili fedeltà come quello della politica, dovrebbero avere un vero tornaconto per lasciare il segretario dimissionario e imbarcarsi in un’avventura governativa (sia pure di appoggio esterno) con il M5S.

E quale tornaconto, a fronte dello svantaggio strategico di risultare un’appendice di un governo egemonizzato da altri, destinato a colpire interessi che finora hanno trovato casa nel Pd, anche se quel governo fosse guidato da una grande personalità neutrale (da individuare fra le «riserve della repubblica», posto che ce ne siano ancora di spendibili)? Per puro senso dello Stato o del Bene comune? O per posti di governo nell’immediato (ma è probabile?) scambiati contro la certa delegittimazione presso una grossa fetta di quel che resta del proprio elettorato? Una qualunque collaborazione sarebbe un placebo per rallentare una malattia mortale – la scomparsa politica del Pd, la sua irrilevanza, il suo collasso – che al contrario la aggraverebbe e ne precipiterebbe l’esito. E se qualcuno, dentro il Pd, ancora pensa di rivitalizzarlo e di renderlo politicamente appetibile, non potrà certo credere che la via verso la guarigione sia di mescolarsi, in qualsivoglia modo, con un partito, il M5S, che appartiene a un altro mondo, anche se è pieno di ex votanti Pd – i quali, come si sa, non torneranno indietro, neppure verso un Pd de-renzizzato –.

Lo stesso si dica al rovescio, del M5S: alimentato da anni dall’odio anti-Pd, come potrebbe allearsi a questo, o chiederne l’appoggio su punti qualificanti di un programma, anche se questo fosse di fatto anti-sistema (non solo a livello simbolico e politico) come quello prefigurato da Flores? La forza della moral suasion del Capo dello Stato dovrebbe essere davvero smisurata, e infinita l’abnegazione di tutti, per dar vita a un governo siffatto. Quanto a un incontro su un programma di mera conservazione dell’esistente, sarebbe un tradimento della volontà dell’elettorato che porterebbe fiumi d’acqua al mulino di un’opposizione scatenata come quella che metterebbe in atto la destra. Davvero Pd e M5S vogliono regalare all’opposizione, alla Lega soprattutto, questa ghiottissima occasione di incrementare a dismisura il proprio consenso, di pescare a piene mani nello scontento sociale, nella protesta anti-sistema? Pensano davvero, entrambi, di incrociare e di gestire un ciclo positivo e legittimante di benessere e di crescita?

Non si tratta di preferenze personali. Oggettivamente un governo sinistra (sconfittissima) + Pd (sconfittissimo) + M5S mi sembra fuori dalle possibilità logiche. E, inoltre, offensivo della volontà popolare, che non ha saputo dire in positivo che cosa vuole, ma che ha ben detto che cosa non vuole. Se poi calcoli e furbizie, o improbabili slanci patriottici, di gruppi dirigenti porteranno a tentativi in questa direzione, saranno tentativi poco proficui e molto autolesionistici.

E allora? Il rispetto della volontà popolare vuole che questa, se non produce un effetto, torni a esprimersi – i risultati, in un diverso contesto, saranno sicuramente diversi, anche a legge elettorale invariata –. Ma si tenga presente che in linea teorica esiste anche la possibilità di un governo Lega + M5S, che non è più difficile da concepire (se si fa leva sull’asse sistema/antisistema piuttosto che su quello destra/sinistra) di quello di cui si è parlato finora. In alternativa, si può pensare a un governo di scopo con tutti dentro, o con tutti fuori, per una nuova legge elettorale, che aiuti il popolo a rendere più efficace la propria volontà di cambiamento e più nitide le direzioni di questo (ma sarà un bel problema trovare un accordo su questo punto).

Se invece saranno pressioni internazionali irresistibili a obbligarci, come nel 2011, a una governabilità qualsiasi, saremmo di fronte a una riedizione dell’esperienza “Monti”. E ciò vorrebbe dire che l’interesse nazionale, interpretato dai poteri forti, dalle oligarchie, diverge dalla volontà popolare, anche se incompleta; che quindi le elezioni sono un lusso che non fa più per noi; e che, quali che ne siano i risultati, l’esito deve essere sempre l’eterno ritorno dell’identico. There is no alternative, quindi, con l’ennesimo scacco della politica democratica e con l’ennesimo trionfo del potere dei pochi.

 

L’articolo è stato pubblicato in «MicroMega» il 14 marzo 2018

«La sinistra non può diventare la ruota di scorta dei grillini»

Intervista con Silvia Bignami

«Se il Pd andasse a fare da ruota di scorta al Movimento 5 Stelle morirebbe». Chiusa l’esperienza in Parlamento, prima col Pd e poi con Si ed Mdp, il politologo Carlo Galli torna ad insegnare. Guarda da lontano la politica, ma non esita a bocciare il dialogo tra dem e pentastellati ipotizzato dalla vicepresidente della Regione Elisabetta Gualmini. E pensando alle regionali del 2019 scuote la testa: «Se i numeri sono quelli delle politiche, il Pd ha già perso».

Galli, come legge il voto?
«I cittadini hanno votato in modo inequivocabile contro Renzi, Berlusconi, D’Alema e Bersani. In pratica contro tutti coloro che a qualche titolo sono stati coinvolti nella gestione del potere e di una situazione che gli elettori reputano di grave crisi. Hanno premiato Lega e M5S, che non hanno avuto responsabilità di governo. Per questo mettere insieme perdenti e vincitori è molto complicato».

E come si fa a fare il governo?
Il M5S cerca il Pd.
«Intanto un governo c’è. Gentiloni è in carica e il Def lo farà probabilmente lui. Poi certo, bisognerà farne un altro. Vedo che i dirigenti 5 Stelle sono diventati molto dorotei. Ma se fanno un accordo col Pd, io mi chiedo: come potranno far accettare ai loro elettori quest’alleanza? Gli elettori M5S, ex Pd, e sono molti, vogliono forse una politica di sinistra, ma al massimo ipotizzano per il Pd un ruolo subalterno. E poi, gli elettori non ex-Pd, che hanno votato M5S per odio al Pd, come prenderanno una collaborazione col vecchio nemico? Se non si pongono queste questioni, vuol dire che a nessuno interessa davvero che le cose cambino. E a meno che non arrivi una super-ripresa economica, al prossimo giro la Lega vince da sola».

Quindi al M5S l’accordo non converrebbe. E al Pd?
«Il Pd che fa la ruota di scorta al M5S diventa come Alfano per Renzi.
Indispensabile ma anche insignificante, e votato a sicura scomparsa».

E un appoggio esterno?
«Credo che anche questo sarebbe un problema enorme per il Pd… Read more

 

 

L’intervista, pubblicata l’11 marzo 2018  in «la Repubblica. Cronaca di Bologna», continua in «la Repubblica.it».

La sconfitta del «sistema»

 

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.

A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobs act è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.

Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza. Un’impotenza di fondo, quindi, quella della sinistra, per sopperire alla quale si è fatto ricorso a temi laterali, come lo ius soli e perfino l’antifascismo, che in realtà svelano una concreta incapacità di entrare in empatia con gli italiani e con i loro problemi. Cosa che è riuscita, con la consueta abilità, alle destre e ai qualunquisti, che hanno immediatamente colto che il primo problema dell’Italia è la sicurezza – dove per «sicurezza» dobbiamo intendere le sicurezze esistenziali (cioè la sicurezza del lavoro, della sanità, del Welfare, oltre alla tutela delle libertà personali), una volta assicurate le quali c’è anche la capacità e l’attitudine all’accoglienza. Quella della sinistra è stata davvero una campagna elettorale di carattere moralistico. Naturalmente, quella dei qualunquisti e della destra è una «sicurezza» a sua volta parziale e propagandistica. Il che, ovviamente, non ha impedito che sui fallimenti della destra economica, che da decenni comanda in Europa e che è la portatrice del progetto neoliberista e ordoliberista dell’euro, si siano infilati, secondo un modello classico, la destra politica e i qualunquisti. La sinistra è rimasta a guardare, perché non è in grado di fare analisi politica, economica, strategica, delle dinamiche storiche contemporanee. E senza analisi non c’è linea politica.

Occorre, pertanto, avere chiaro che il problema teorico e politico di fondo è che la sinistra non sa che cosa vuole e che cosa vuole essere; a quale tipo di bisogno vuole rispondere. A ben vedere, oggi siamo davanti alla débâcle del ceto politico postcomunista, che ha dato origine al Pd senza però riuscire a fondare una prospettiva politica vincente, e che alla fine è stato sconfitto dall’altra componente, inizialmente minoritaria, dello stesso Pd – quella degli ex DC –. Ma anche questi, oggi, non riescono più a parlare agli italiani.

Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti. Oggi l’Italia chiede protezione, in modalità differenti, se non opposte, in relazione ai propri spazi sociopolitici. Il Sud, dove la società è fragile, chiede, con il M5S, un sostegno economico vitale, una vera rendita politica. Il Nord, dove la società è più forte, chiede, con la Lega, efficienza e lotta al degrado. Chiede ovunque più Stato, e un rinnovo radicale delle classi politiche ormai delegittimate, anche se in due direzioni diverse.

In realtà, il principale problema da porsi è se il modello economico che è entrato in crisi sia riformabile, o se invece abbia finito di produrre effetti positivi. Un sistema che – è bene ricordarlo – è stato almeno simbolicamente rifiutato nel Regno Unito, non certo orientato in senso europeo; che in Francia ancora funziona grazie al meccanismo elettorale, che è una sorta di ingessatura della società e che fa sì che il Presidente della Repubblica governi con nemmeno il 25 per cento dei consensi; e che in Germania costringe i due principali partiti, un tempo concorrenti – SPD, CDU-CSU –, alla Grosse Koalition, un taglio delle ali che ha un costo politico-sociale enorme (e che vedrà la crescita della destra antisistema).

Insomma, nei principali Paesi europei, con le ovvie differenze che li connotano, il sistema economico-politico vigente sta perdendo colpi. Tutti sanno che c’è un problema strutturale nell’Europa, e in generale nel neoliberismo, capace – quando ci riesce – di generare soltanto un’occupazione sempre più degradata, sempre meno pagata, sempre più precaria. Un sistema nel quale le disuguaglianze aumentano, e l’ascensore sociale è bloccato. Tutto ciò pone sfide radicali alle quali si può rispondere con i sermoni e con l’antifascismo – come nella recente campagna elettorale –; oppure – come io credo – con un vero antiliberismo, con analisi che spieghino perché mai gli italiani sono diventati “cattivi”. Dire che gli italiani si sono “incattiviti”, infatti, non è una analisi politologica; bisognerebbe capire la causa del fenomeno. Tutto ciò è stato presente in campagna elettorale? No, ma era presente nella testa degli italiani, e lo si è visto.

Ora il problema non è solo quello, pur grave, di formare il governo. Al riguardo sono già iniziate le minacce di Bruxelles, all’ombra delle quali si svolgono le trattative tra forze politiche che non hanno in realtà grandi spazi di manovra, perché tanto il M5S quanto la destra non potranno certo governare insieme a quel Pd contro il quale si sono espressi i loro elettori. Il problema è come si esce dalla trappola in cui siamo finiti senza che una nuova folle austerità finisca di distruggere la nostra società e di generare altra e più grave protesta. Quanto al Pd, o viene radicalmente rifondato o è destinato alla progressiva irrilevanza.

Elezioni 2018

Intervista con Pino Salerno

 

Elezioni politiche, il giorno dopo. I risultati parlano chiaro e sono impietosi: alla Camera si affermano il Movimento 5 Stelle con quasi 11 milioni di voti e la Lega che con 5.700.000 voti diventa primo partito della coalizione di centrodestra. Il crollo del Partito democratico appare inequivocabile, con 6 milioni di voti e una percentuale pari al 18,71, mentre del tutto deludente è il risultato della lista Liberi e Uguali, che con un milione112mila voti supera di pochi decimali quella soglia del 3% che consente di eleggere pochi parlamentari. Insomma, ce la ricorderemo a lungo questa data, soprattutto a sinistra.

«Si tratta di una delegittimazione radicale che ha colpito soprattutto le forze della sinistra», ci dice Carlo Galli, professore di Storia delle dottrine politiche all’Alma Mater di Bologna. «Qual è stato il loro limite in questa campagna elettorale, e non solo?», s’interroga il professor Galli. «Una carenza nell’analisi politica di quanto accadeva nella società italiana dall’inizio della crisi ad oggi, e di come quello che io definisco l’ordoliberalismo del XXI secolo abbia prima imposto le sue regole e le sue decisioni, e poi abbia definito gli equilibri della politica a tutto vantaggio dell’ordine economico».

Prima di tutto l’analisi, continua il professor Galli, che «è storicamente uno dei tratti tipici della sinistra, e quando è assente ci si lascia sorprendere dalla realtà di una società che, appunto, non si conosce più in profondità. E si va incontro a risultati elettorali come quello di ieri, che si può definire come una delegittimazione radicale degli elettori, non solo nei confronti di tutta la sinistra ma anche nei confronti del progetto di governo Renzi-Berlusconi, i veri sconfitti del 4 marzo». A sostegno della tesi del professor Galli ci sono i dati: la somma del Pd e di Forza Italia, sia in termini assoluti che percentuali, non raggiunge quello che da solo è riuscito a totalizzare il Movimento 5Stelle. Le cause? Secondo il professor Galli, «l’Italia è un Paese ormai fortemente frammentato, tra ricchi e poveri e tra Sud e Nord. A chi è stata fatta pagare la crisi economica e sociale in questi dieci anni? Ai poveri. E chi più di tutti ha subito l’insecuritas dei nostri centri urbani, se non le donne e gli anziani? Le madri emiliane, toscane, lombarde, ad esempio, non sanno più sentirsi sicure di lasciare libere le figlie di andare dove gradiscono, e con chi vogliono, quando lo vogliono. Si tratta di una delle questioni centrali della nostra modernità, la sicurezza, che è sinonimo di libertà. La sinistra ha sottovalutato il fenomeno, o forse, per mancanza di analisi, neppure l’ha percepito, mentre era in cima alle ansie di milioni di famiglie».

Inoltre, aggiunge il professor Galli, «è la stessa sensazione di insicurezza che si prova quando si subisce la crisi economica. Che cosa è successo in questi anni? In che modo il neoliberismo nelle sue diverse varianti ha cercato di uscire dalla crisi? Usando il potere deflattivo dell’euro, ad esempio, che ha colpito i salari e le pensioni, mentre sul piano industriale si sacrificavano migliaia di aziende per salvare quelle poche che fossero in grado di reggere la competizione internazionale. È il modello economico in sé che non genera più consenso, che impedisce allo Stato di attuare una politica economica strategica, che fonda il dinamismo dell’economia solo sulle esportazioni e non sul mercato interno. È il modello economico che rende subalterno e precario il lavoro. Davanti alle reticenze della sinistra, alle sue analisi carenti, si sono stagliate una destra e un M5S che si sono infilati nel disagio di milioni di famiglie. Come si poteva pensare che gli elettori prima o poi non avrebbero reagito? Che non avrebbero delegittimato in modo radicale chi è stato corresponsabile delle politiche di Monti e della Fornero, per tacere di Renzi?».

La disfatta del Partito democratico e di Forza Italia dunque si comprende con questa lucida analisi che il professor Galli ci consegna a poche ore dalla chiusura dei seggi. Ma com’è stato possibile il risultato del tutto deludente di Liberi e Uguali, e non solo? Il professor Galli insiste sulla sua tesi per la quale è «l’analisi, sia dei processi economici sia della modernità che da sempre caratterizza la sinistra, e definisce quali strategie assumere, nella società, non solo in campagna elettorale». È il tema della differenza tra sinistra che si ricostruisce nel conflitto, e sinistra che si perde nel governo, restando subalterna agli interessi e ai diktat dell’ordine economico-sociale. «Questa mancanza, questa assenza di analisi, è anche il segno dell’assenza di una identità precisa, con la quale ci si presenta al popolo, prima ancora che agli elettori. E l’identità della sinistra non può che ripercorrere parole come libertà, liberazione, partecipazione, democrazia, vera sicurezza. Esattamente il contrario di quanto chiede l’ordine economico egemone. E quando non si capiscono questi nessi, si rischia di perdere le elezioni fino all’insignificanza».

 

L’intervista è stata pubblicata in «Jobsnews.it» il 5 marzo 2018

Bologna e la svolta centrista del Pd

Non è strano che Casini ed Errani si confrontino alle elezioni a Bologna. Gli eredi di due tradizioni così caratterizzate, come il centrismo forlaniano e la sinistra amministrativa emiliana, stanno bene in due formazioni politiche differenti, come differenti sono le loro idee sul rapporto fra pubblico e privato, sull’organizzazione dei servizi sociali, sui temi del lavoro. Un po’ strano, semmai, è che il primo, Casini, sia candidato nelle liste del Pd, partito di centrosinistra, e l’altro, Errani, ne sia uscito e si presenti per Leu, formazione senz’altro di sinistra, ancorché “di governo”. Generando così, in alcune aree della “rossa” Bologna, un notevole sconcerto, perché alcuni (o molti) che in modo pressoché automatico avrebbero votato Errani – ex presidente della Regione, stimato per capacità personale – si sentono ora chiedere di votare per Casini, stimabile anch’egli ma giustamente alieno dal presentarsi come un esponente della sinistra.

Casini invita a un fronte comune anti-populista; un “voto utile”, insomma, uno “scudo” contro M5S e Lega; un voto che si confronti con i problemi del momento – la sfida degli estremismi –. Errani sostiene invece che sono appunto i problemi del momento a esigere che il voto utile sia quello dato a Leu: sono state le politiche del Pd, infatti, a generare quella crisi sociale dentro la quale si formano le minacce alla democrazia; sono quelle politiche che vanno cambiate, in una logica di discontinuità che ponga rimedio ai danni del passato.

In realtà, la “strana” candidatura di Casini per il Pd a Bologna è il segno, non strano, di una trasformazione centrista di quel partito, cioè di una strategia, seguita alla “non vittoria” di Bersani nel 2013, di apertura del Pd al centro per catturare i voti dell’area moderata che aveva scelto Berlusconi, giudicato ormai declinante dal giovane segretario Pd. Il maggiore successo di questa linea fu il 40% del “partito della nazione” alle elezioni europee del 2014 (un capitale di consensi ormai dimezzato), e il costo maggiore fu la fuoriuscita dal Pd di una parte notevole del gruppo dirigente ex-comunista, che ha seguito, per cercare di recuperarlo, l’elettorato di sinistra deluso dal Pd di Renzi.

La candidatura di Casini a Bologna, ma più in generale la composizione delle liste elettorali del Pd, è il segno che Renzi insiste nella sua strategia centrista: non più perseguendo il sogno maggioritario, ma un’alleanza, per “stato di necessità”, con FI. Le stesse “grandi intese” su cui si è retta la XVII legislatura, con i governi Letta, Renzi, Gentiloni (la defezione di Berlusconi, nell’autunno del 2013, fu compensata dalla permanenza di Alfano). Ora, in campagna elettorale, Renzi e Berlusconi smentiscono di volere praticare accordi di larghe intese, per non regalare voti ai nemici degli “inciuci”. Ma è evidente che se i numeri le renderanno necessarie e possibili le larghe intese si faranno: lo scenario “spagnolo” delle elezioni ripetute a breve termine sarebbe troppo destabilizzante per il Paese, e d’altra parte i neo-eletti resisteranno certamente a un’ipotesi di scioglimento anticipato. Per di più, la continuità delle politiche di risanamento economico e di prudenza fiscale è raccomandata con tanta insistenza dalle istituzioni europee da far comprendere fin d’ora quanto forte sarà la pressione perché, se non ci sarà un vincitore netto, non cambi lo schema attuale: governo di convergenza al centro del centrosinistra e del centrodestra, depurato dagli estremisti.

Una soluzione rassicurante per chi è interno all’establishment, certamente, che tuttavia si espone al rischio di non rappresentare le aree disagiate della società, se la crescita economica si fermerà o sarà incapace di porre rimedio alle ferite sociali e psicologiche che la Grande Crisi ha inferto al tessuto del nostro Paese. Una soluzione difensiva, di cui la candidatura di Casini è l’espressione certo non indegna ma del tutto esplicita.

 

L’articolo è stato pubblicato in «la Repubblica Bologna», l’11 febbraio 2018

L’Italia instabile e bloccata

L’Italia esce dalla XVII legislatura non meglio di come vi era entrata. Alcuni risultati macro-economici migliori (il Pil, gli occupati) non bastano a smentire questa affermazione: la crescita del Pil va a beneficio solo dei ricchi; gli occupati sono calcolati in modo ingannevole – basta un’ora di lavoro per essere definiti tali – e vanno ben distinti dai posti di lavoro, che sono in numero ben minore e, quelli nuovi, in maggioranza di cattiva qualità. La ripresa, modesta, è trainata dalle esportazioni e non dalla domanda interna: aumentano i poveri, aumentano gli emigrati, aumenta la sfiducia nell’oggi e nel domani. Gli incentivi alle assunzioni non hanno rilanciato l’economia; i bonus da 80 euro non hanno alimentato la domanda; le tutele crescenti restano una promessa e solo le tutele mancanti, l’abolizione dell’art. 18, sono una realtà. Come sono una realtà le crescenti disuguaglianze, economiche e sociali, riferite non solo ai redditi ma anche alle distanze generazionali, all’istruzione, al genere, al cleavage Nord-Sud, all’accesso alla sanità, alla speranza di vita.

Il nostro sistema economico non è ancora in grado di generare occupazione, benessere, ragionevole sicurezza materiale, fiducia nel presente e nel futuro. Questa performance insoddisfacente è dovuta a debolezze di lungo periodo che non si è riusciti a sanare – la Pubblica amministrazione irriformata, l’Università senza una precisa linea di sviluppo, il sistema politico disarticolato e privo di un principio d’ordine, le istituzioni in preda all’affanno –; e queste sono colpe dell’Italia. Ma non si dimentichi che il vincolo esterno dell’euro – voluto a suo tempo più dalla sinistra che dalla destra – esige alcune condizioni inderogabili: l’euro è una macchina deflattiva rivolta contro l’inflazione con cui si è chiuso il ciclo keynesiano; l’euro implica una lettura organicistica e non conflittualistica della società e dei rapporti economici; l’euro implica un’economia dell’offerta e dell’esportazione, non della domanda; l’euro richiede una grande moderazione salariale e una sottomissione di fatto del lavoro alle compatibilità del modello economico, che vuole il lavoro diviso (anche giuridicamente spezzettato), insicuro, flessibile – oltre che relativamente scarso –; l’euro vuole una politica forte il cui obiettivo è di garantire, attraverso la stabilità del sistema politico e attraverso rigide discipline di bilancio, l’irrevocabilità dei meccanismi economici sottostanti, con esclusione di politiche pubbliche non conformi, ossia anticicliche e di deficit spending. L’euro è un’idea e una pratica di società e di politica, oltre che di economia; è una grande decisione, che è stata presa con il Trattato di Maastricht e poi continuamente confermata fino a Lisbona: è stato il prezzo pagato per trattenere la Germania unificata saldamente legata all’Europa, e per dare a questa una chance di sopravvivere nell’economia globalizzata – mentre per la presenza politica dell’Europa sullo scenario mondiale non c’è al momento nulla da fare: gli interessi nazionali appaiono ancora determinanti –.

Tutto ciò serve a indicare il tema di fondo del momento politico; da una parte l’Italia è percorsa da uno sconforto che è anche uno scollamento fra politica (titolare del potere d’indirizzo del Paese) e buona parte dei cittadini (che non si sentono per nulla indirizzati verso il meglio), e su questo sconforto rabbioso e rassegnato si innescano fenomeni di protesta, di risentimento contro tutte le élites, di populismo, che hanno chiare declinazioni antisistema e anche antidemocratiche (l’incremento delle destre estreme è dovuto a quello che è percepito come il fallimento economico della democrazia, a cui si aggiunge la questione dei migranti); dall’altra nessuna forza che abbia qualche chance di esercitare un ruolo politico influente può davvero permettersi una vera radicale rottura con l’establishment economico italiano ed europeo. Tanto la Lega quanto il M5S hanno non a caso messo la sordina (senza però eliminarla del tutto) alla polemica anti-euro: la moneta unica è con tutta evidenza il moloch a cui nessuno osa davvero fare guerra, benché molti siano consapevoli dei suoi alti costi sociali. La polemica fra europeisti e sovranisti si depotenzia parecchio, quindi, proprio in vista delle elezioni, quando ci si sarebbe aspettato un suo rinfocolarsi – aspettativa sensata solo se l’opzione sovranista avesse qualche grado di praticabilità. Il che non è –.

Riappare quindi il cleavage destra/sinistra che a molti sembrava riassorbito all’interno dell’altro, Europa/Stato. Ma riappare a ben guardare anch’esso depotenziato: non è in gioco una scelta di civiltà, una decisione fra modelli di società, ma la gestione della decisione già presa, quella appunto a favore dell’euro e a ciò che esso implica; una gestione che certamente può presentare declinazioni differenti – come la maggiore o minore attenzione a temi non economici quali i diritti civili; oppure, nell’ambito economico, come il privilegiare politiche di incentivi diretti per le assunzioni nell’economia (Renzi), o politiche di investimenti pubblici (la sinistra), o politiche finalizzate alla crescita da cui deriverà poi maggiore occupazione (FI); oppure ancora come le più o meno credibili o estemporanee promesse di attenuazione della pressione fiscale (la destra) o di lotta all’evasione (la sinistra), o di implementazione del reddito di cittadinanza (M5S e FI) –; ma tutto ciò resta all’interno di ciò che per l’establishment è compatibile. In sostanza, destra e sinistra si contendono oggi il potere con l’identico scopo di proteggere, rassicurare, difendere i cittadini dagli effetti più duri di un sistema economico che resterà duro e generatore di disuguaglianze – magari da attenuare ma non certo da colmare –; cioè con lo scopo di apportare correttivi (maggiori o minori) ad alcune leggi sistemiche particolarmente odiate, come il jobs act, la buona scuola, la legge Fornero, e di negoziare con le autorità comunitarie deroghe agli obblighi di bilancio. I mezzi proposti sono diversi, ma identica è la consapevolezza che sui fini non si può più discutere, e maggioritaria è anche la fiducia che, con opportune riforme, il sistema economico possa non essere distruttivo di se stesso e della democrazia; e soprattutto identica è la speranza che la vitalità e la “civilizzabilità” dell’euro, il suo costituire il possibile fondamento di un ordinato vivere civile e di non essere moltiplicatore di contraddizioni e di angosce, sia percepito anche dai cittadini, che quindi passino in tempi brevi dalla sfiducia, ora conclamata, nella politica e nell’economia, alla fiducia (o, almeno, al timore del peggio davanti a offerte politiche troppo radicali).

E anche la richiesta di discontinuità, avanzata dalla sinistra, è più rivolta contro lo stile renziano, contro una politica troppo autosufficiente, divisiva e personalistica ai limiti dell’avventurismo, che non contro le logiche del sistema, di cui si tenta una ridefinizione in senso socialdemocratico – ma se un certo riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro è forse attuabile, se un’inversione di tenenza nelle politiche pubbliche è forse possibile, certo un deciso ritorno a Keynes e allo Stato sociale, in un solo Paese, è improbabile; e il superamento dell’orizzonte capitalistico è una mera utopia –. In realtà, tutte le forze d’opposizione – destra, M5S, LeU – sono attraversate ciascuna, più o meno visibilmente, da una frattura tra coloro che con le logiche del sistema, opportunamente riformate, vengono a patti e coloro che invece continuano a farsi portatori di una ribellione più profonda (per la sinistra ciò implica una divisione interna sui rapporti col Pd). Il che lascia supporre un dopo-elezioni all’insegna di probabili scissioni di quegli stessi cartelli elettorali che oggi agli elettori si presentano uniti. E ciò senza dubbio è nella logica di un sistema parlamentare, tanto più se proporzionale, ma certo non aumenterà la legittimazione del ceto politico agli occhi dei cittadini.

Si è detto che la grande crisi apertasi nel 2008 ha trasformato la politica-spettacolo in politica dell’identità, e i partiti elettorali pigliatutto in partiti di ascrizione, anche se non più attorno alle ideologie. In realtà è più corretto dire che la già esile trama del legame sociale si è strappata ancora più profondamente, e che la società si presenta ora come un agglomerato disomogeneo di gruppi poco comunicanti, a cui cercano di dare voce i partiti. Che quindi devono assecondare il pluralismo sociale, ma che certo non conferiscono identità politica ai diversi gruppi quanto piuttosto offrono loro un logo, uno slogan, un volto, per racimolare qualche voto. Il sistema politico è instabile e debole poiché lo è la società. E i partiti sono assertivi nel proclamare la propria presunta identità, anche con esagerate offerte propagandistiche, ma cauti nel prendere impegni perché consapevoli della propria debolezza a fronte della forza dei poteri che strutturano – o destrutturano – il Paese. Del resto, il peso della divisione sociale si è imposto come fattore politico reale quando il rozzo tentativo di supplire, attraverso l’artificio del ballottaggio, la stabilità politica assente è stato bocciato proprio dal confluire contro Renzi e il Pd di tutto il restante arco politico: non si è trattato di uno scontro fra due fronti, ma del rifiuto della riduzione al vecchio Due di quel Tre – la terza gamba è nata proprio grazie alla protesta larghissima degli italiani –. La riforma dell’Italicum, e della Costituzione, era troppo estranea a quello che ormai è diventato il Paese: non tanto perché negava delle identità politiche, che di fatto non ci sono, ma perché non rispettava divisioni ormai divenute strutturali, per sanare le quali ci vuole ben altro che una riforma elettorale. Ci vogliono risultati concreti (posto che siano mai possibili) di stabilizzazione sociale e di ricostituzione della fiducia – non solo proclamati dai vari Dulcamara in circolazione, ma reali, e soprattutto percepiti come reali dai cittadini –. Certo, una legge elettorale migliore del Rosatellum avrebbe aiutato, ma era obiettivamente difficile da realizzare.

Da ciò si comprende sia la duplicità della campagna elettorale – gridata e al contempo priva di idee realmente alternative – sia l’instabilità del quadro politico, che ha un’origine profonda nella sofferta struttura economica e sociale del Paese, sia l’esito prevedibilmente conservativo (un po’ più a destra, un po’ più a sinistra, secondo l’esito numerico) del test elettorale di marzo per quanto riguarda il modello economico che a differenza di quello politico non è, se non marginalmente, una variabile. Il che è certo nel caso di una vittoria netta della coalizione di destra, e anche nel caso delle larghe intese (o Grande Alleanza) – la vittoria di una inesistente coalizione di centrosinistra è fuori discussione –, mentre solo un’ipotesi di alleanza fra M5S e LeU (o Lega) potrebbe forse avere un valore di (scomposta) scossa sistemica, posto che queste formazioni non si spacchino davanti alla sfida di un governo di vero cambiamento (e in che direzione, poi, non è dato prevedere, poiché Lega e LeU non hanno certo la stessa valenza politica), che incontrerebbe in ogni caso ostacoli insuperabili a livello europeo.

Nel complesso, la riduzione del ventaglio delle prospettive politiche sembra evidente – un deficit di pensiero e di azione – e al contempo è certamente angosciosa, perché si fonda non sul raggiungimento di una prospettiva di sviluppo, ma solo sulla mancanza di alternative, teoriche e pratiche, a uno status quo al contempo instabile politicamente e socialmente, e bloccato economicamente – sia perché immaginato e proposto come privo di alternative, sia perché portatore di uno sviluppo di fatto insostenibile –. E non a caso con la legge «sblocca Italia», si è più che altro aumentata l’instabilità sociale perché si sono privilegiate le logiche economiche meno riguardose degli equilibri territoriali. Sbloccare l’economia dalle proprie interne coazioni per non distruggere la società è, del resto, un’esigenza non solo italiana: anche le magnifiche sorti dell’eurozona, con la crescita economica al 2,5%, è minacciata da una possibile bolla finanziaria per la liquidità generata dalla Bce, e in ogni caso si fonda sulla crescita della produttività e delle esportazioni, non su una prospettiva di maggiore equità sociale.

Con ogni evidenza non è questo un compito che l’Italia può addossarsi da sola: è però in suo potere cercare di recuperare – all’interno dei margini offerti dal sistema economico, e anche forzandoli per quanto si può –, la solidità del proprio impianto statuale, politico, amministrativo, scolastico, oltre che la stabilità della propria società, per potere godere di una crescita più energica di quanto ora non avvenga, e per potere da qui avere maggiori margini di ricostituzione della forza del lavoro e di giustizia sociale. Crescita economica per rendere possibile una crescita sociale grazie a una politica progressiva, quindi – sentiero stretto ma obbligato –, e anche per potere così esercitare un peso maggiore a livello europeo, per correggere lì i trend attuali, ora favorevoli solo ad alcuni Paesi; per modificare lì l’idea e la realtà dell’Europa. Infatti, il peso internazionale delle compagini statuali è ben lungi dal diminuire: la Ue è di fatto costituita da Stati, e l’accordo franco-tedesco, ormai giunto a maturazione, ci dice che quanto più gli Stati sono efficienti tanto più hanno la capacità di orientare le politiche comunitarie. E non è un caso che dalla ideazione e dalla formulazione di quell’accordo l’Italia sia stata esclusa, e le sia stato offerto un accordo-bis con la Francia; mentre un obiettivo che dovremmo porci è un sovranismo realistico, o meglio un neo-statalismo democratico, in vista di un europeismo non subalterno né velleitario.

Abbiamo insomma davanti a noi il compito di stare in questo tempo nel modo migliore, senza illusioni di radicale discontinuità, ma con la consapevolezza che qualcosa la politica può fare per sanare le ingiustizie più smaccate, le disuguaglianze più avvilenti, le inefficienze più clamorose; e che molto si deve lottare per evitare il rischio della decadenza economica, civile e culturale, e perfino del fallimento della democrazia. Rischi incombenti, che vanno nominati e guardati in faccia, da cui non ci solleveranno né le promesse degli imbonitori, né i melliflui canti delle sirene che dicono che tutto va bene, né le urla inarticolate delle arpie.

Sessant’anni fa, la campagna elettorale del 1958 fu impostata dalla Dc sul motto “progresso senza avventure”: era uno slogan conservativo, perché rassicurava l’elettorato che l’apertura a sinistra non sarebbe stata all’ordine del giorno ancora per un po’, e che il miracolo economico sarebbe stato rafforzato e non interrotto. Ma all’interno del sistema politico si agitavano alternative (non rivoluzionarie, certo, ma progressive), che maturarono nella legislatura successiva con i governi di centrosinistra. Oggi, semmai, con uno scatto che faccia uscire la campagna elettorale dalla miseria argomentativa in cui giace, si dovrebbe cercare di convincere l’elettorato che il regresso può essere fermato, e che la politica sa ancora non solo assecondare i trend economici ma anche governarli, con realismo ma senza timidezze, con idee e con energia. Che l’Italia può, senza avventure, tentare l’avventura di sincronizzare la politica, la società, l’economia; di stabilizzarsi (socialmente) e di sbloccarsi (economicamente) al tempo stesso.

 

L’articolo è stato pubblicato in «Appunti di cultura e politica», 1, 2018, pp. 29-33

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